Fiore 2018 n23 x video

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ANNo 9 NumeRo 23

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27 gennaio, Giorno della Memoria

IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE EMERITO

Schiena diritta sguardo alle stelle

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Carlo Smuraglia

i sia consentito di lasciarvi un messaggio per il futuro, dettato dall’esperienza che ho fatto con voi e anche, in qualche modo dagli insegnamenti di una lunga vita di impegno e di passioni. Cercate di essere l’ANPI di sempre, con i suoi valori, le sue tradizioni, la sua complessa e meravigliosa realtà. Cercate di resistere alle lusinghe ed alle tentazioni e conservate, rigorosamente e pervicacemente, l’autonomia che è – insieme all’identità – il bene più prezioso di cui disponiamo. Cercate di mescolare le generazioni e i generi, perché l’ANPI deve essere un tutto unico anche se fatto di persone di esperienze diverse, in ogni caso, restando al di fuori da ogni disuguaglianza di genere. Assicurate la continuità, prima di ogni altra cosa: il futuro ci presenta prospettive e problemi diversi e spesso nuovi; ma per affrontarli bisogna saper restare ancorati al nostro grande passato, alle nostre esperienze del dopo guerra, ai maestri di vita, come Arrigo Boldrini, che questa associazione ha presieduto per tanti anni dopo il periodo della Resistenza. Se i tempi sono difficili e se i problemi aumentano o diventano più complessi, ricordatevi sempre che all’origine della nostra storia c’è stato il coraggio delle scelte e la forza di volontà di chi è sicuro di continua a pagina 2 ➔

Carla Nespolo è la nuova Presidente Nazionale

Chianciano Terme, 3 novembre 2017 Il Comitato Nazionale ANPI a seguito delle previste dimissioni di Carlo Smuraglia che nel Congresso di Rimini del 2016 accettò il rinnovo dell’incarico seppure a termine, ha proceduto alla elezione del nuovo Presidente Nazionale dell’ANPI. È stata votata all’unanimità Carla Nespolo, prima Presidente dell’ANPI donna e non partigiana.

La Shoah

colpa indelebile Lo sterminio di 6 milioni di ebrei è un crimine che ha marchiato per sempre la storia del secolo scorso. La coscienza dell’umanità è chiamata anche oggi a risponderne. Come è potuto accadere? Come è successo che sia stato tollerato da tanti? Come può, ancora oggi, avere campo chi nega l’esistenza dei lager e dei forni crematori nazisti? Ricordiamo e meditiamo «che questo è stato»

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. Y Primo Levi da Se questo è un uomo


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Riflessioni a margine il fiore del partigiano

27 gennaio, Giorno della Memoria

FRA STORIA E LEGISLAZIONE, LA MEMORIA A RISCHIO DI SPECULAZIONI POLITICHE

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da patriaindipendente.it del 16 gennaio 2017

Valerio Strinati

a alcuni anni a questa parte, in Italia e in altri Paesi europei si è andata intensificando la tendenza ad affidare alla legislazione il compito di definire gli eventi dei quali si ritiene necessario perpetrare il ricordo affinché essi possano entrare a comporre il patrimonio memoriale la cui condivisione concorre a fondare il profilo identitario delle comunità e a legittimarne le istituzioni. Le motivazioni che inducono il legislatore a codificare quello che deve essere ricordato (e di converso, anche quello che deve essere rimosso dalle narrazioni collettive) sono varie, e in molti casi encomiabili, specialmente laddove si tratta di evitare che il trascorrere del tempo e la successione delle generazioni possano attenuare, fino a cancellarlo, il ricordo degli eventi più significativi del passato, quelli che, in positivo o in negativo, hanno concorso a produrre il presente e che continuano ad agire ancora oggi, come riserva di valori e significati alla quale attingere per dare più solido fondamento e continuità alla convivenza democratica e alle istituzioni in cui essa si traduce. Sono queste le premesse che hanno condotto all’istituzione del Giorno della memoria, celebrato in diversi Paesi e introdotto in Italia con la legge 20 luglio 2000, n. 211. In forza di tale legge, da sedici anni, il 27 gennaio, anniversario dell’entrata delle truppe sovietiche nel campo di Auschwitz, vengono ricordate le vittime della Shoah (sterminio del popolo ebraico), e insieme ad esse «le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati»: un monito, peraltro non sempre pienamente ascoltato, a ricordare non soltanto le vittime, ma anche a sollevare il velo di oblio, spesso giustificato con la consolatoria auto-rappresentazione di una naturale mitezza dell’indole italiana, che però non può coprire la realtà dell’attiva collaborazione o della connivenza prestata proprio prima e dopo l’8 settembre 1943, alla persecuzione dei propri concittadini di religione ebraica. La legislazione sulla memoria della Shoah e l’invito a ricordare che con essa le istituzioni rivolgono alla società, costituisce anche un richiamo all’esigenza di ribadire un fermo ripudio di ogni forma di negazionismo,

inteso come l’insieme delle posizioni volte a sostenere che il genocidio perpetrato dalla Germania nazista nei confronti di ebrei, zingari e altri gruppi considerati “subumani” non sia mai stato attuato e che sia frutto di menzogne e inganni: si tratta di un veleno periodicamente rimesso in circolo da pseudo storici, e al quale alcuni Paesi hanno ritenuto necessario opporre l’antidoto di una esplicita dichiarazione di antigiuridicità. La strada così intrapresa, radicata in un sentimento diffuso di rigetto collettivo nei confronti di tale fenomeno, si è quindi tradotta in alcuni Paesi (Francia, Germania, Belgio, Spagna, Portogallo, Svizzera) in una serie di misure legislative che, nel contesto della condanna espressa dalle istituzioni sovranazionali ed europee, hanno devoluto al giudice penale il compito di reprimere le manifestazioni pubbliche del negazionismo. Questa scelta ha tuttavia, come è noto, suscitato forti perplessità, in particolare nella comunità degli studiosi, preoccupati di scongiurare il rischio che procedimenti e condanne penali potessero conferire visibilità e propagandare involontariamente teorie fondate su menzogne e distorsioni, ma pur sempre suscettibili di alimentare forme di razzismo e xenofobia sempre latenti, nonché di mantenere la condanna di tali aberranti teorie nell’ambito del dibattito della comunità degli studiosi, la cui indipendenza e obiettività potrebbe risultare condizionata qualora, anche con le migliori intenzioni, l’autorità pubblica intervenisse a sancire per legge una propria verità storica, distinta dalle altre e collocata in una posizione di supremazia in forza del riconoscimento istituzionale. Si tratta di un tema estremamente complesso, poiché la giuridificazione della storia presenta indubbiamente delle ambiguità: la questione si è posta negli ultimi anni con particolare urgenza e attualità, in quanto la cesura costituita

dalla caduta del Muro di Berlino ha reso evidenti le lesioni dell’edificio memoriale costituitosi immediatamente dopo la Seconda Guerra mondiale attorno alla condanna dei regimi fascisti e delle ideologie belliciste e razziste che avevano gettato l’Europa e il mondo nel lutto e nella rovina. Negli anni della Guerra fredda tale narrazione comune si è indubbiamente articolata in diverse declinazioni, a seconda della collocazione di ciascuno Stato in uno dei blocchi contrapposti, e in numerose realtà, con l’allontanarsi nel tempo degli eventi che l’avevano suscitata, si è progressivamente irrigidita in una ritualità retorica e ripetitiva.

Crollati i regimi comunisti dell’Est europeo, le varie narrazioni memoriali unilateralmente costruite dai regimi comunisti in Unione Sovietica e nei Paesi satelliti negli anni del dopoguerra si sono rapidamente disgregate, dando vita in molti casi a tentativi di rifondazione identitaria attorno a forme di nazionalismo esasperato e xenofobo, a sostegno di separatismi e irredentismi che hanno mostrato il volto più tragico e imprevisto nelle

Schiena diritta sguardo alle stelle

➔ segue da pagina 1

avere la ragione dalla sua parte. In un’epoca in cui sembrano scomparsi, oltre alle ideologie, anche gli ideali, pensate sempre che, senza ciò che è scritto nei primi articoli del nostro Statuto, insomma, senza il richiamo ai valori della Resistenza e della

continua a pagina 4 ➔ Costituzione, non ci sarebbe davanti a noi alcuna seria prospettiva. Ai tempi duri ed ai problemi nuovi e più complessi reagite con la volontà, la ragione e gli ideali che ci contraddistinguono e sono il nostro fondamento. E dove non arriva la ragione, scatenate la fantasia; dove la prospettiva sembra chiusa dentro confini ristretti, scavalcatela con un pizzico di utopia, che è poi quella che ci ha aiutato a combattere nella Resistenza, a resistere alle deportazioni e alla violenza. Non arrendetevi mai, di fronte a nessun ostacolo; non lo hanno fatto coloro a cui ci richiamiamo sempre con affetto, e non dovete farlo neanche voi, perché la rassegnazione, la pas-


Fischia il vento... il fiore del partigiano

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27 gennaio, Giorno della Memoria

CONTRO LA BRUTTA ARIA CHE TIRA, IL SOLO BALUARDO RIMANE LA COSTITUZIONE

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FranCo Salamini*

sempre antipatico citarsi o affermare “l’avevamo detto”, ma più di quattro anni fa come sezioni ANPI della zona Adda-Martesana, in occasione della nostra prima festa a Truccazzano, avevamo organizzato un incontro con Saverio Ferrari per denunciare la presenza sempre più pericolosa di formazioni neofasciste che dopo Roma, tentavano di radicarsi a Milano, con la copertura interessata di partiti quali la Lega Nord e altre formazioni di destra presenti in Parlamento. Lanciammo anche una petizione sottoscritta da tutte le sezioni della nostra zona, in cui sollecitavamo l’ANPI provinciale a farsi protagonista di un’iniziativa che coinvolgesse partiti, associazioni, organizzazioni sindacali, semplici cittadini, capace di sviluppare una coscienza e una consapevolezza di massa sui pericoli che stava correndo la nostra democrazia. Purtroppo non se ne fece nulla. Oggi, con colpevole ritardo, si è preso coscienza di tale rischio.

CHE FARE? Sarebbe comunque illusorio pensare che una mobilitazione partecipata e pur doverosa o una risposta colpo su colpo, che magari sfoci nella violenza – che però la storia recente di questo Paese ha vissuto e condannato –, o leggi più puntuali per reprimere mobilitazioni di stampo fascista, comunque necessarie, possano bastare per limitare questi fenomeni patologici. Fenomeni che, probabilmente nelle prossime settimane, alimentati anche dal clima elettorale, diventeranno ancora più frequenti, coltivati per anni da una destra nazionale che non si è mai riconosciuta nella Costitu-

sività, lo scoramento non appartengono, per definizione all’ANPI. Coltivate i giovani, non con l’alterigia di chi sa già tutto e non ha nulla da imparare ma con la modestia di chi pensa che ognuno merita rispetto ed attenzione, perché da ognuno – quale che sia l’età o il genere – c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare e da scoprire. Aiutate i giovani a formarsi ed a crescere, non con la bacchetta del maestro ma con la mano ferma, dolce del padre o del fratello. È con questo spirito che dovete affrontare un futuro denso di nuvole, senza scoraggiarvi mai, senza rinunciare a nulla della nostra tradizione e dei nostri valori, ma adeguandoli in modo che ci mettano in grado di superare ogni ostacolo.

zione e ha conquistato passo dopo passo un’egemonia culturale. Si arriva al fatidico: “Che fare?” Non esistono ricette semplici o di facile attuazione, ma un percorso lungo, tortuoso, in cui impegnare coraggio, pazienza, intelligenza, fantasia e tanta tenacia, cercando di recuperare attraverso il coinvolgimento di più soggetti, nei più diversi ambiti, una presenza culturale capace di contrapporsi all’egemonia della destra, sapendo che l’esito non è scontato e se pur nel nostro Paese esiste una profonda e diffusa coscienza democratica e costituzionale, è oggi appannaggio di una minoranza non marginale, ma minoranza. Si respira una brutta aria che trova alimento nel rancore sociale, nell’emarginazione, nella divaricazione delle disuguaglianze, nel rifiuto della politica e delle istituzioni. Una riedizione dell’“Uomo qualunque” sempre più incazzato. La risposta è comunque nella politica che può e deve svolgere il proprio ruolo che è quello di affrontare e tentare di risolvere i problemi dei cittadini con una visione di società. Non può limitarsi a farsi guidare dai sondaggi, a fare vani proclami o ad alimentare le paure. Deve avere un progetto di sviluppo economico e culturale che si concreti attraverso la realizzazione della Costituzione che proprio quest’anno compie 70 anni. Lì, nella nostra carta fondamentale, ci sono tutte le scelte culturali ed economiche, i diritti e i doveri, l’assunzione di responsabilità e la partecipazione diffusa che sono il progetto politico di una società come l’avevano pensata le madri e i padri costituenti. Certo di tempo ne è passato, vi è la necessità di un aggiornamento – tutto vero –, ma quel progetto è tuttora valido e se anche le difficoltà per attuarlo sono ingenti, non bi-

Qualunque cosa accada, siate orgogliosi di essere membri dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, eredi di chi ha sofferto e combattuto per la libertà; e ricordatevi sempre che di questa gloriosa eredità bisogna essere degni, non solo e non tanto per il bene della nostra Associazione, ma per il bene e il futuro del nostro Paese. In un suo bel libro, intitolato, non a caso, Non è il Paese che sognavo, il Presidente Ciampi (che era stato partigiano), faceva considerazioni molto sconfortate (ma davvero ancora oggi assai attuali), su un Paese «confuso e smarrito», «imbarbarito nella vita pubblica e nel vivere civile», «proteso troppo spesso verso l’interesse personale anziché verso l’interesse comune». Pur di fronte ad un quadro simile, Ciampi non si arren-

sogna rinunciare a provare. Temo però che le prossime imminenti elezioni non ci consegneranno un Governo che avrà nella Costituzione il suo programma politico.

L’ANPI NON SI RASSEGNA Rassegnarsi alla sconfitta o tentare di mettere in campo tutte quelle energie vive, intelligenti e diffuse presenti nella nostra società, ma disperse sui territori, ognuno un po’ per proprio conto, non in grado di fare rete e quindi incapaci di esprimere tutto quel potenziale di cui sono portatrici? L’ANPI può tentare di proporsi come momento di incontro di questi pezzi di società, da quelli organizzati a singoli portatori di valori e capacità, presenti all’interno del mondo della Scuola, fondamentale per raccordarsi con i giovani, il mondo della cultura e della comunicazione, l’associazionismo sportivo e il volontariato sociale. Un compito forse eccessivamente ambizioso o velleitario per la nostra Associazione quello di collaborare con altri alla ricostruzione dal basso di un tessuto democratico e costituzionale, non contrapposto o nemico delle istituzioni, ma che le costringa a tornare ad essere quello che la Costituzione prevede: stimate e riconosciute dai cittadini. Non vedo altre strade, non ci sono uomini della Provvidenza o attese messianiche di tempi migliori. Ce la faremo? Non lo so, ma non bisogna rassegnarsi. La storia di questo Paese ci insegna che minoranze, come furono quelle che all’inizio si opposero al fascismo e che poi fecero la Resistenza, riuscirono ad avere la meglio su un regime di massa e che in alcuni moY menti era sembrato invincibile. *ANPI di Cernusco sul Naviglio

deva e preferiva richiamarsi ad una famosa frase dei fratelli Rosselli: «non mollare», spiegando «sta in voi» volgere in positivo le difficoltà di questi tempi». Un insegnamento prezioso, arricchito col richiamo ad una bellissima frase di un poeta antico (Ovidio) che diceva così: «il creatore ha creato gli animali con la faccia prona, ma agli uomini comandò di guardare eretti il cielo e di volgere lo sguardo verso le stelle». Ne traggo spunto per dirvi: schiena diritta, sguardo verso le stelle, con dignità e speranza, e conquisterete, come tanti anni fa, i nostri combattenti per la libertà, un fuY turo democratico e antifascista. Carlo Smuraglia Presidente emerito ANPI


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Riflessioni a margine

27 gennaio, Giorno della Memoria

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guerre tra le ex repubbliche jugoslave nella prima metà degli anni ’90 del secolo scorso. In Occidente, invece, la lunga crisi dello Stato nazionale, anche nella sua veste di produttore di memoria collettiva, alimentata dalla spinta crescente divaricazione tra istituzioni e società prodotta dall’affermazione dell’ideologia neoliberista, ha portato a una progressiva decostruzione delle politiche pubbliche della memoria in favore di narrazioni frammentate e settoriali, nelle quali largo spazio è stato dato alla dimensione della memoria individuale o collettiva e delle forti emozioni connesse ad eventi e fatti traumatici nella vita e nella memoria di ciascun paese, sostenuta da una pervasiva e spesso interessata iniziativa dei media, a partire dalla televisione.

L’esperienza italiana presenta inoltre peculiarità non trascurabili, dato che alla dissoluzione del sistema bipolare si è sovrapposta, con Tangentopoli, la fine delle famiglie politiche identificate a partire dagli anni ’60 nell’“arco costituzionale” e l’affermazione di una cosiddetta Seconda Repubblica, le cui principali componenti hanno iniziato a coltivare una rappresentazione del passato ben diversa da quella che si era affermata negli anni precedenti. A destra dello schieramento politico, le formazioni sorte nel corso della crisi degli anni ’90, da Forza Italia, alla Lega Nord ad Alleanza Nazionale, sono state accomunate da una forte tensione revisionista dispiegata, sia a livello della ricerca storica, sia, soprattutto, attraverso la divulgazione mediatica, al fine di liquidare il paradigma antifascista, ovvero la narrazione pubblica della nascita della democrazia repubblicana, dall’opposizione al regime mussoliniano alla Resistenza; occorreva, soprattutto, abbandonare le contrapposizioni di valori e finalità, presentate come retaggio del passato “ideologismo”, e presentare gli eventi del triennio 1943-45 come un mero confronto armato tra due minoranze contrapposte, portatrici di valori e motivazioni sostanzialmente comparabili, svoltosi nell’indifferenza della maggior parte della popolazione, rappresentata (in primo luogo da storici autorevoli come Renzo De Felice) come una compatta “zona grigia” preoccupata soltanto di assicurare la propria sopravvivenza materiale in un Paese devastato dalla guerra. Questa lettura, messa a punto nella prima metà degli anni ’90 e debolmente contrastata a sinistra, dove anzi non mancò di incontrare una qualche acquiescenza, ha trovato per molto tempo ampia cittadinanza in seno alle istituzioni, con la sola rilevante eccezione dei Presidenti della Repubblica, che, declinando ciascuno secondo la propria sensibilità, ma in modo sostanzialmente omogeneo, la funzione di rappresentanza dell’unità nazionale loro assegnata dalla Costituzione, con i loro interventi hanno effica-

cemente contrastato in più occasioni le tendenze a un oblio di comodo o alla voluta deformazione della storia recente. In questo contesto sommariamente delineato, si sono inserite anche molte delle iniziative legislative che si sono succedute dopo il varo della legge istitutiva del Giorno della memoria. Queste proposte hanno tuttavia subito alcune modificazioni, nell’impostazione e nelle finalità perseguite, che vale la pena sottolineare. Mentre infatti, con la legge n. 211 del 2000, le istituzioni hanno inteso utilizzare lo strumento della norma giuridica per esortare i cittadini a ricordare eventi che hanno segnato il recente passato e che costituiscono un monito costante ad una vigilanza collettiva che scongiuri il rischio che essi possano riproporsi, molte delle iniziativa legislative presentate successivamente alle Camere nel corso delle ultime legislature si sono caratterizzate per fini e per contenuti differenti.

In gran parte di esse, a partire dal “Giorno del ricordo” istituito con la legge 30 marzo 2004, n. 92, si è espressa la contraddizione tra un legame assai discontinuo e labile con il passato che caratterizza gran parte delle forze politiche, e l’intento di utilizzare il canale legislativo non soltanto come invito a ricordare, ma anche come strumento per prescrivere in modo quanto più possibile tassativo che cosa deve essere ricordato e con quali contenuti e modalità. In un saggio del 2011 lo storico Giovanni De Luna ha sottolineato come il progressivo ritrarsi dello Stato dall’impegno di costruire una memoria collettiva e condivisa abbia favorito la tendenza a produrre narrazioni parziali e frammentarie della storia più o meno recente, polarizzate attorno ad eventi suscettibili di produrre grandi emozioni collettive; di qui, quello che lo stesso De Luna ha definito il “paradigma vittimario”, ovvero la priorità attribuita alla celebrazione di coloro che hanno perso la vita, ovvero hanno subito persecuzioni, perdite o altri eventi traumatici in circostanze rappresentative di momenti essenziali della vita collettiva. Ora, se è vero che il ricordo di chi ha sofferto per vicende collettive di grande impatto non può non costituire una parte rilevante della memoria pubblica (si pensi, ad esempio, alle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata), è altrettanto vero che alcune iniziative legislative hanno assunto, in modo abbastanza scoperto, il carattere di veri e propri atti di appropriazione della narrazione di eventi particolarmente drammatici, da utilizzare come strumenti di legittimazione della propria presenza sullo scenario politico e di delegittimazione degli avversari. La creazione di una memoria frammentata e ripartita a seconda delle appartenenze e delle circostanze, non può fare altro che alimentare una rissosità faziosa, orientata in una direzione diametralmente opposta agli effetti di ricomposizione e pacificazione dei conflitti pregressi, che possono derivare soltanto da

una ricerca storica non subordinata a esigenze immediatamente politiche. Senza dunque sottovalutare il ruolo essenziale che i sentimenti e le emozioni possono svolgere nei processi di costruzione pubblica di una memoria collettiva, è innegabile che molte delle iniziative legislative intraprese tendono a piegare questi ultimi ad esigenze di parte, stabilendo, come fu ad esempio nelle intenzioni dei promotori della legge istitutiva del “Giorno del ricordo”, una sorta di gerarchie tra le vittime, in funzione di vantaggi politici di breve o brevissimo termine. Uno dei corollari più evidenti di questo approccio, è costituito dal corto circuito che si viene a determinare inevitabilmente tra la memoria e storia, tra il ricordo inevitabilmente parziale e spesso impreciso, dei singoli testimoni, chiamati a narrare nel presente ciò che appartiene a un passato spesso remoto (è il caso dei testimoni della Shoah) e la ricostruzione a più ampio raggio degli eventi, rispetto ai quali la narrazione del testimone si pone come una delle fonti da interrogare e da integrare. In questo senso, il mestiere dello storico — come ha ricordato lo studioso francese Pierre Laborie — è anche quello di «guastafeste della memoria» chiamato a ricomporre «lo scarto tra la certezza dell’esperienza vissuta e gli interrogativi critici che derivano da altre fonti sul modo in cui si è svolto il passato».

Il trascorrere del tempo e il succedersi delle generazioni pongono con urgenza l’interrogativo sui modi della comunicazione della memoria, e più in generale sulla necessità di porre rimedio al rischio di oblio implicito nell’eterno presente in cui sembra sprofondare la nostra società; in questo ambito, la legislazione, come qualsiasi altra iniziativa intrapresa a livello istituzionale, può fornire risposte importanti, laddove, mantenendosi entro un perimetro rispettoso dei compiti e delle prerogative della comunità degli studiosi, operi nel senso di ripristinare un impegno pubblico all’elaborazione di una riflessione comune sul passato, volta anche a superare l’alveo circoscritto della dimensione nazionale, e soprattutto idonea a colmare il distacco che si è venuto a creare con la società civile e a restituire a un sentimento da tempo affievolito di cittadinanza democratica, i valori, i contenuti e i simboli che gli sono propri. Y Valerio Strinati


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LA RISPOSTA DI MARCELINE AL BIGLIETTO DI SUO PADRE UCCISO NEL LAGER

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«Da Auschwitz non ci si libera mai» il fiore del partigiano

da il Corriere della sera del 1 maggio 2015

PAOLO GIORDANO

on restano che i più giovani fra i sopravvissuti ai campi di sterminio. Coloro che al momento della cattura avevano 15 anni, la soglia dell’età della ragione, e oggi ne hanno quasi 90, come Marceline Loridan-Ivens. I deportati bambini venivano eliminati subito, inabili al lavoro com’erano. Perciò, fra altri quindici, vent’anni al massimo, non ci sarà più nessuno al mondo in grado di ricordare. Scomparirà anche l’ultimo superstite — una soglia che verrà attraversata dall’umanità in silenzio, forse non ce ne accorgeremo, eppure si tratta di un confine quanto mai pericoloso. Sarà come perdere il contatto con una navicella che s’inabissa sempre più nel buio del cosmo, fino a trovarsi fuori portata. Ma a bordo di quella navicella ci saremo noi tutti, orfani di un passato orribile che per decenni ci ha forse protetti da noi stessi. Anche Marceline Loridan-Ivens teme l’oblio. Nelle interviste ribadisce che «bisogna testimoniare». Incessantemente. Dopo una vita come cineasta che l’ha portata a seguire ovunque nel mondo le nefandezze dell’uomo — Cina, Vietnam, Algeria — quasi che dopo lo sterminio non potesse staccare lo sguardo dall’Arancia meccanica della civiltà, Marceline torna al campo. Ci ritorna perché è là che vide per l’ultima volta suo padre. Lei fu destinata a Birkenau, lui ad Auschwitz, tre chilometri appena li separavano, ma «erano come migliaia». Un giorno, tornando da una giornata in cui avevano spaccato sassi, si rincontrarono, padre e figlia. I commando rispettivi sfilarono uno accanto all’altro e loro si corsero incontro per abbracciarsi. Le guardie trattarono lei come una puttana e picchiarono lui. L’indomani, sfiorandosi di nuovo, non osarono avvicinarsi. Solo, un giorno Schloïme riuscì a far recapitare a Marceline una cipolla e un pomodoro. Un’altra volta, «un mot», un biglietto. Marceline ha dimenticato che cosa ci fosse scritto, estirpati com’erano i sentimenti dalle sue viscere già nel momento in cui lo lesse. Rammenta solo che cominciava con le parole «Ma chère petite fille» e terminava con la firma. Nient’altro. Al contrario di lei, il padre non sopravvisse.

Morì a Gross-Rosen o forse a Dachau, durante gli spostamenti nevrotici da un campo all’altro, gli ultimi spasmi del nazismo ormai pressato dall’avanzata russa. In tutti questi anni Marceline non aveva risposto al biglietto. Ha deciso di farlo oggi, ottantaseienne, per raccontare al padre la vita che dal giorno in cui il treno li inghiottì insieme ha, quasi suo malgrado, vissuto. Cento pagine appena, limpide e fatalmente necessarie, redatte con l’ausilio della scrittrice Judith Perrignon e che portano il titolo E tu non sei tornato. «Era un altro modo di invocarti. Io ero la tua cara figlioletta. Lo si è ancora a quindici anni. Lo si è a tutte le età. Io ho avuto così poco tempo per fare scorta di te». Con questo tono nudo e affezionato, che appartiene alla quindicenne e insieme alla donna matura, Marceline racconta tutto al genitore che l’è mancato, gli racconta del campo sì, ma soprattutto del dopo, di ciò che lui non ha visto: come Birkenau-Auschwitz non sia mai finito per lei, e mai potrà finire. Riteniamo, forse, che il nostro immaginario riguardo ai campi di sterminio sia pressoché saturo. Abbiamo letto e visto molto; ricostruzioni più o meno meticolose sono impresse in noi a partire dal giorno in cui, ognuno a proprio modo, abbiamo fatto conoscenza con quell’abisso della storia, un abisso così in-credibile, che apprenderne l’esistenza costituisce un trauma di per sé. Come perdere d’un tratto una fiducia aprioristica nell’uomo, oppure in Dio. Eppure, la descrizione stringata che Marceline L.I. fa del campo è ancora nuova, ancora scioccante: i cumuli di vestiti, le ispezioni di Mengele, i tradimenti e i sotterfugi — dettagli che devono averle insidiato la mente ogni giorno e ogni notte, da allora. Ciò che scuote maggiormente la coscienza del destinatario della lettera, tuttavia, riguarda la vita oltre il campo. È il resoconto di come Marceline, libera, viene infine reintegrata nella propria famiglia, in Francia. Lo zio Charles, che l’attende sulla banchina della stazione, l’ammonisce subito: «Ero ad Auschwitz. Non raccontarlo a nessuno, non capiscono niente». Ma non c’è il rischio di raccontare, perché nessuno fa domande. La madre di Marceline si accerta esclusivamente che la figlia non sia stata violentata,

che sia ancora buona per prendere marito. Quanto al fratello minore Michel, Marceline ha l’impressione che avrebbe preferito veder tornare il padre piuttosto che lei. Morirà suicida. «Aveva la malattia dei campi senza esserci andato». Lo sterminio non finisce ad Auschwitz. Lo sterminio si propaga nello spazio e nel tempo. «Mi sarebbe piaciuto darti delle buone notizie, dirti che, dopo essere caduti nell’orrore e aver atteso invano il tuo ritorno, ci siamo ripresi. Ma non posso. Sappi che la nostra famiglia non è sopravvissuta a quello che è successo». Non è sopravvissuta la famiglia e non è sopravvissuta l’umanità tutta. L’ultima parte del libro esprime lo sgomento di una donna — una donna che credeva di avere saggiato la malvagità dell’uomo in ogni suo raccapricciante anfratto — mentre guarda in televisione i grattacieli di New York sbriciolarsi al suolo. È lo sgomento di chi, dopo tutto ciò che è stato, vede le illusioni cadere «come pelli morte», l’antisemitismo riaccendersi ovunque nel mondo e la propria appartenenza rafforzarsi, come unica difesa. «Non so se l’orrore abbia risvegliato l’orrore, ma a partire da quel giorno, ho sentito quanto ci tenessi a essere ebrea. È come se fino a quel momento ci avessi girato intorno, ma in fin dei conti essere ebrea è quello che di più forte c’è dentro di me» . È bene che mi fermi. Mentre scrivo, avverto quanto sia sconveniente versare parole sopra un libro tanto parsimonioso, che economizza su ogni frase, su ogni pensiero e soprattutto sul dolore, che nondimeno è soverchiante in certi passaggi. Nei giorni successivi alla lettura di E tu non sei tornato, cercavo d’immaginare come debbano apparire certi frangenti, gravi oppure futili, agli occhi pieni di amarezza di Marceline Loridan-Ivens. Mi sembrava di riuscirci, almeno in parte. Per questo le sono riconoscente. Il suo libro è uno fra gli ultimi segnali diretti che riceveremo dai campi di sterminio degli ebrei. Mano a mano che i testimoni scompaiono, il peso della memoria grava sempre di più su chi rimane — ben presto sarà per loro insopportabile. E noi, perduti gli ormeggi, ce ne andremo piano piano alla deriva nella dimenticanza, forse nell’inY credulità. Leggete questo libro.


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Ingannare l’opinione pubblica il fiore del partigiano

IL NAZISMO PIANIFICÒ FIN DA SUBITO L’ESPANSIONE DEL SUO POTERE USANDO

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da United States Holocaust Memorial Museum, Washington, DC

l senso comune non era in grado di afferrare la realtà dello sterminio di decine e centinaia di migliaia di Ebrei.» Yitzhak Zuckerman, uno dei leader della Resistenza ebraica a Varsavia. La propaganda fu uno strumento fondamentale sia per conquistare quella maggioranza di cittadini tedeschi che non sostennero immediatamente Adolf Hitler, sia per imporre il programma radicale nazista che richiedeva, oltre al supporto attivo e la partecipazione diretta di alcuni, l’accettazione passiva da parte di larghi settori della popolazione. Unito all’uso del terrore come mezzo di intimidazione di coloro che rifiutavano di obbedire, il nuovo apparato propagandistico statale, guidato da Joseph Goebbels, venne utilizzato per manipolare e ingannare la popolazione tedesca e il mondo esterno. Ad ogni occasione, i responsabili della propaganda diffusero il messaggio accattivante dell’unità nazionale e di un futuro utopistico, facendo breccia nelle menti di milioni di cittadini. Allo stesso tempo, essi organizzarono campagne tese a facilitare la persecuzione degli Ebrei e di altre persone escluse dall’ideale nazista di “Comunità Nazionale”.

Propaganda, politica estera e la cospirazione per provocare la guerra Così come già durante la Repubblica di Weimar, anche dopo la presa del potere da parte dei Nazisti nel 1933, un elemento chiave nella politica nazionale tedesca fu il riarmo del paese. I leader tedeschi speravano di raggiungere quest’obiettivo senza causare l’intervento militare della Francia e della Gran Bretagna, o dei paesi al confine orientale, Polonia e Cecoslovacchia. Allo stesso tempo, il regime non voleva spaventare la popolazione tedesca, preoccupata dalla possibilità di un altro conflitto europeo. Lo spettro della

Prima Guerra Mondiale e della morte di due milioni di soldati tedeschi era ancora ben presente nella memoria popolare. Per tutti gli anni ’30, Hitler dipinse la Germania come la vittima tra le nazioni, a cui veniva negato il diritto all’auto-determinazione nazionale e che veniva soffocata dalle misure imposte dal Trattato di Versailles (che aveva posto termine alla Prima Guerra Mondiale). Anche durante la guerra, gli autori della propaganda cercarono universalmente di giustificare l’uso della forza militare, dipingendola come moralmente necessaria e sostenibile. Agire diversamente avrebbe messo in pericolo il morale dell’opinione pubblica e la sua fede nel governo e nelle forze armate. Per tutta la durata della Seconda Guerra Mondiale, i responsabili nazisti della propaganda fecero passare le aggressioni militari, tese alla conquista di nuovi territori, come atti necessari e giusti di auto-difesa. Dipinsero inoltre la Germania come la potenziale vittima di aggressori stranieri, come una nazione amante della pace e obbligata a prendere le armi per proteggere il suo popolo, o per difendere la civiltà europea dall’attacco del Comunismo. In ogni fase della guerra, gli obiettivi ufficiali del conflitto servirono di fatto a nascondere le reali intenzioni di espansione territoriale dei Nazisti e i motivi razzisti della guerra. Si trattava, insomma, di propaganda tesa ad ingannare, a imbrogliare e a disinformare le popolazioni, non solo in Germania ma anche nei paesi occupati e nelle nazioni neutrali.

La preparazione del Paese alla guerra Nell’estate del 1939, mentre Hitler e i suoi aiutanti di campo preparavano i piani per l’invasione della Polonia, la tensione e la paura caratterizzavano l’umore dell’opinione pubblica in Germania. E in effetti, nonostante i tedeschi fossero stati resi baldanzosi dalla recente, drammatica estensione dei confini della Germania nelle vicine Austria e Cecoslovacchia, senza che fosse necessario sparare un solo colpo, nessun cittadino sfilò per le strade reclamando la guerra, come

aveva fatto invece la generazione precedente, nel 1914. Prima dell’attacco contro la Polonia, il primo settembre 1939, il regime nazista lanciò una campagna mediatica particolarmente aggressiva per costruire il consenso dell’opinione pubblica ad una guerra che, in realtà, pochi tedeschi desideravano. Per presentare l’invasione come un atto moralmente giustificato, come un’azione difensiva, la stampa tedesca gonfiò presunte “atrocità polacche”, raccontando atti di discriminazione e di violenza – veri o inventati – nei confronti della popolazione di etnia tedesca che viveva in Polonia. Inoltre, mentre deplorava l’atteggiamento “guerrafondaio” della Polonia e il suo sciovinismo, la stampa attaccò anche gli Inglesi, considerati “colpevoli” di favorire la guerra con la loro promessa di difendere la Polonia nell’eventualità di un’invasione tedesca. Il regime nazista mise anche in scena un falso incidente alla frontiera, progettato per far apparire la Polonia come l’aggressore contro la Germania: il 31 agosto 1939, uomini delle SS vestiti con l’uniforme dei soldati polacchi “attaccarono” una stazione radio tedesca a Gliwice. Il giorno seguente, Hitler annunciò alla

Argomenti per respingere la menzogna negazionista uno degli scopi della giornata della memoria è contrastare chi vorrebbe ridimensionare o addirittura smentire la realtà della Shoah. Sul negazionismo antisemita donatella di Cesare ha scritto il libro Se Auschwitz è nulla (Il melangolo, pp. 127, 8), mentre Valentina Pisanty dedica ampio spazio alla questione nel suo Abusi di memoria (Bruno mondadori, pp. 152, 16). moreno Gentili propone invece un testo tra realtà e immaginazione sullo sterminio e chi vi collaborò nel volume L’inferno dentro (Sonda, pp. 159, 16). Y


il fiore del partigiano UNA POTENTE PROPAGANDA

nazione e al mondo la sua decisione di inviare truppe in Polonia, in risposta “all’incursione” polacca nel territorio del Reich. L’ufficio Stampa del Partito Nazista del Reich diede istruzioni ai giornali affinché evitassero di usare il termine guerra; dovevano invece scrivere come le truppe tedesche avessero semplicemente respinto l’attacco polacco, anche questa una manovra studiata per far credere che la Germania fosse la vera vittima dell’aggressione. La responsabilità di dichiarare ufficialmente la guerra sarebbe così caduto sulla Francia e sulla Gran Bretagna. Nello sforzo di plasmare sia l’opinione pubblica interna che quella internazionale, la macchina della propaganda nazista inventò, a guerra già iniziata, nuove storie di “atrocità” commesse dai Polacchi. Analogamente, ampia pubblicità venne data agli attacchi contro cittadini di origine tedesca avvenuti in alcune città; ad esempio, a Bromberg (Bydgoszcz), civili polacchi in fuga e personale militare uccisero tra i 5.000 e i 6.000 tedeschi, che essi vedevano, una volta iniziata l’invasione, come traditori o spie, come cecchini o come nazisti. Gonfiando fino a 58.000 il numero effettivo di tedeschi uccisi a Bromberg e in altre città, la propaganda nazista infiammò l’animo di molti, fornendo così una “giustificazione” al numero di civili che sarebbero stati uccisi nel periodo successivo. I responsabili della propaganda nazista convinsero una parte dei tedeschi che l’invasione della Polonia e la successiva occupazione erano state necessarie. Per molti altri, quella propaganda non fece che rinforzare sentimenti anti-polacchi già profondamente radicati. I soldati tedeschi che prestarono servizio in Polonia dopo l’invasione scrissero a casa lettere che riflettevano il loro appoggio per l’intervento militare tedesco a difesa dei cittadini di etnia germanica. Alcuni esprimevano il proprio sdegno e il proprio disprezzo per la natura “criminale” e “subumana” dei polacchi, mentre altri guardavano alla popolazione ebraica locale con disgusto, associando gli ebrei polacchi con le immagini antisemite che avevano visto nel giornale Der Stürmer (in tedesco: L’assaltatore, ndr) o alla mostra intitolata L’eterno Giudeo e, più tardi, nell’omonimo film. Anche i cinegiornali divennero uno strumento fondamentale degli sforzi attuati dal Ministro della Propaganda Joseph Goebbels per modellare e manipolare l’opinione pubblica durante la guerra. Per esercitare maggiore controllo sul contenuto dei cinegiornali continua a pagina 8 ➔

SHOAH. «I FIGLI DEI NAZISTI», L’INTENSA INDAGINE DELL’AVVOCATA TEDESCA TANIA CRASNIANSKI

27 gennaio, Giorno della Memoria

Poster antisemita. Realizzato in Polonia nel marzo del 1941, la didascalia recita: «Gli ebrei sono pidocchi e portano il tifo.» Questo cartellone, opera dei tedeschi, mirava a instillare la paura degli ebrei nelle menti dei Polacchi di religione cristiana

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La memoria del sangue per gli orfani del Reich da il manifesto del 10 febbraio 2017

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guido Caldiron

Il nazismo come storia famigliare dove si mescolano, al coinvolgimento dei padri nell’orrore, i caldi ricordi dell’infanzia e le complicità degli affetti. È una materia quanto mai complessa e talvolta contraddittoria, che tiene insieme la memoria pubblica e i molti silenzi della vita privata, quella che affronta Tania Crasnianski nel suo I figli dei nazisti, traduzione di Francesco Peri, (Bompiani pp. 268, € 18,00), un’indagine che ripercorre le traiettorie esistenziali di alcuni dei discendenti dei maggiori dignitari del Terzo Reich. La ricerca si snoda attraverso otto biografie di figlie e figli dei fedelissimi di Hitler, tra cui quelli di Himmler, Göring e Mengele, nati tra il 1927 e il 1944, il cui nome è legato in modo indelebile a quel terribile passato. Una ricostruzione dettagliata delle loro vicende che descrive anche uno spaccato della vita dell’élite nazista, con i suoi riti e i suoi cliché, i contrasti interni e le gelosie, la presenza costante del Führer, spesso padrino di questo o quel pargolo dei suoi più stretti collaboratori e complici, le case da sogno su laghi e monti, ma anche le crisi familiari celate e negate pubblicamente, i weekend sul massiccio dell’Obersalzberg intorno allo chalet della guida dello stato nazionalsocialista.

LA DOMANDA cui sembra cercare di rispondere Crasnianski, avvocata che lavora tra la Germania e gli Stati Uniti e ha conosciuto nella sua stessa famiglia le divisioni e i drammi della guerra, vantando origini sia russe che franco-tedesche, riguarda il modo in cui costoro hanno potuto elaborare le vicende di cui i loro padri sono stati protagonisti. «Perfino mio nonno, ex militare di carriera nell’aeronautica tedesca – confida infatti l’autrice –, si è sempre rifiutato di condividere con me quella fase della sua storia». Allevati in un clima protetto, spesso separato dal resto della società, anche se intriso profondamente dell’ideologia nazista, i figli dei gerarchi non hanno dovuto fare i conti con la realtà del paese che alla fine del conflitto, quando la caduta del Reich ha costretto i loro padri alla fuga o all’arresto e molto spesso a pesanti condanne o alla morte. La ricerca della verità, o meglio di una consa-

pevolezza dolorosa quanto al ruolo giocato dai propri cari nella guerra e ancor più nella Shoah è poi avvenuto nel contesto di un paese dove una rapida denazificazione ha lasciato il campo ad un tranquillizzante oblio. Così, «di fronte alla congiura del silenzio ordita da una Germania che nel secondo dopoguerra stava tentando di riedificarsi, i discendenti dei nazisti hanno dovuto intraprendere un lavoro tutt’altro che facile sulle proprie persone per riuscire a costruirsi come individui». In questo senso, la «memoria del sangue» ha seguito diversi percorsi. Se gran parte dei protagonisti ha scelto di non cambiare il proprio nome, «forse perché il cognome che portano è come una presenza che li possiede», suggerisce Crasnianski, le scelte assunte in età adulta indicano i molti modi in cui ci si può porre come soggetti di fronte al potere che il passato esercita sulle nostre vite.

C’È INFATTI CHI, come Gudrun Himmler, figlia del capo delle SS, o Edda Göring, figlia del Maresciallo del Reich, o ancora Wolf Rüdiger Hess, figlio di Rudolf Hess, e Brigitte Höss, figlia del comandante di Auschwitz, non solo non ha mai smesso di rivendicare l’innocenza del genitore, mettendo talvolta in dubbio la stessa vastità del progetto del genocidio ebraico, ma ha continuato a celebrarne con grande affetto la figura fino a cercare di ripercorrerne, in alcuni casi, le orme. In particolare Gudrun Himmler, è diventata un’icona del movimento neonazista, cui ha aderito fin dagli anni Cinquanta, impegnandosi in prima persona nella Stille Hilfe, l’associazione che ha sostenuto molti criminali di guerra. Ma anche chi, come Rolf Mengele, figlio del medico di Auschwitz, ha invece deciso di cambiare il proprio cognome per non tramandare ai figli la vergogna e si è impegnato nei movimenti antifascisti, o chi come Niklas Frank, figlio di Hans Frank, il «macellaio di Cracovia», del padre non vuole nemmeno più sentir parlare. Altri ancora hanno scelto la via della fede. Martin Adolf Bormann junior, figlio di uno dei capi del partito nazista è diventato sacerdote già nel 1958.

MOLTI DI LORO, solo attraverso un lungo processo interiore sono riusciti a separare l’immagine affettuosa di un padre premuroso da quella del lucido criminale responsabile della morte di milioni di persone. Per molti versi il processo inverso che i «buoni padri di famiglia nazisti» avevano compiuto per trasformarsi in zelanti burocrati dell’Olocausto. Y


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Ingannare l’opinione pubblica

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il fiore del partigiano

27 gennaio, Giorno della Memoria

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dopo l’inizio del conflitto, il regime nazista fuse le varie compagnie che producevano i reportage in una sola, la Deutsche Wochenschau (Settimanale di Opinione Germanica). Goebbels collaborò personalmente alla creazione di ogni numero dei cinegiornali, correggendoli e persino riscrivendoli in parte. Tra le dodici e le diciotto ore di pellicola, filmate da professionisti e consegnate a Berlino ogni settimana da un corriere, venivano poi modificate e ridotte a filmati che duravano tra i 20 e i 40 minuti. La distribuzione dei cinegiornali venne estesa notevolmente quando il numero di copie di ogni episodio salì da 400 a 2.000, e vennero anche realizzate versioni in dozzine di altre lingue (inclusi lo svedese e l’ungherese), mentre unità mobili cinematografiche portavano i filmati anche nelle campagne tedesche.

La propaganda dell’inganno Il primo settembre 1939, l’esercito tedesco invase la Polonia. La guerra che il regime nazista scatenò con quell’atto avrebbe prodotto sofferenze e perdite senza precedenti. Dopo l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nell’estate del 1941, le politiche naziste antisemite si trasformarono in vero e proprio genocidio. La decisione di distruggere gli ebrei polacchi venne annunciata alla conferenza di Wannsee, il 20 gennaio 1942, ai dirigenti del partito, delle SS e a funzionari di stato i cui ministeri avrebbero contribuito a mettere in atto la “Soluzione Finale

alla Questione Ebraica” in tutta Europa. Dopo la conferenza, la Germania nazista cominciò a porre in atto il genocidio su scala continentale con la deportazione degli ebrei provenienti da tutta Europa ad AuschwitzBirkenau, Treblinka e negli altri centri di sterminio situati nella Polonia occupata. I leader nazisti cercarono di ingannare non solo la popolazione tedesca, ma anche il mondo esterno e soprattutto le vittime sulla realtà del genocidio nei confronti degli ebrei. Cosa vennero a sapere, i cittadini comuni tedeschi, delle persecuzioni e dello sterminio degli ebrei? Nonostante la pubblica diffusione e pubblicazione di alcune dichiarazioni generiche sull’obiettivo di eliminare gli “ebrei”, il regime diffuse anche una propaganda che nascondeva i dettagli specifici della “Soluzione finale”. Contemporaneamente, il controllo operato sulla stampa impedì ai tedeschi di venire a conoscenza delle dichiarazioni dei leader alleati e sovietici che condannavano i crimini compiuti dalla Germania. Allo stesso tempo, storie edificanti vennero inventate come parte integrante dell’inganno: un opuscolo pubblicato nel 1941, ad esempio, riportava entusiasticamente come i tedeschi in Polonia avessero dato lavoro agli ebrei, costruito ospedali puliti, organizzato la distribuzione di minestra calda per gli ebrei, dando loro giornali e organizzando corsi professionali. Poster e articoli ricordavano continuamente ai tedeschi la propaganda che gli Alleati avevano distribuito durante la Prima Guerra Mondiale, contenente storie inventate di atrocità, come ad esempio quella che

soldati tedeschi avessero tagliato le mani a bambini belgi. Allo stesso modo, i responsabili del genocidio nascosero le proprie intenzioni omicide anche a molte delle loro vittime. Sia prima che dopo le deportazioni, i tedeschi usarono espressioni eufemistiche per spiegare e giustificare il trasferimento degli ebrei dalle loro case ai ghetti o ai campi di transito e, poi, da questi alle camere a gas di Auschwitz e di altri centri di sterminio. Quando i tedeschi deportarono gli ebrei dalla Germania e dall’Austria nel ghetto “modello” di Theresienstadt, vicino a Praga, o in altri ghetti, solerti funzionari timbrarono i loro passaporti con il termine apparentemente neutro di “evacuato”. Allo stesso modo, i burocrati del regime definirono le deportazioni come “re-insediamento” anche se tale “re-insediamento” terminava spesso con la morte.

La propaganda nazista sui ghetti Un tema ricorrente della propaganda antisemita creata dai nazisti fu che gli ebrei seminavano malattie. Per scoraggiare i non-ebrei dall’entrare nei ghetti e vedere così di persona le condizioni di vita al loro interno, le autorità tedesche misero all’entrata cartelli che avvertivano che il ghetto era in quarantena, mettendo in guardia la popolazione sul pericolo di malattie altamente infettive. Siccome la scarsa igiene e le scarsità d’acqua si univano a razioni di cibo da fame, minando velocemente la salute degli continua a pagina 10 ➔

IL NAZISMO E LO STERMINIO SISTEMATICO DI INVALIDI E MALATI PSICHIATRICI

Storia di un piccolo ribelle contro la macchina dell’eliminazione nazista

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da il manifesto del 24 gennaio 2017

rnst Lossa ha dodici anni: da grande, racconta a un amico, vuole andare in America col padre – un venditore ambulante – diventare uno sceriffo, vedere gli indiani, fare il bagno nel lago Michigan. Vive però in Germania, sono i primi anni Quaranta e per il regime nazista è un ladro e un bugiardo, un ragazzo problematico oltre che di etnia jenisch. La sua vera storia ha ispirato Nebbia in agosto del regista tedesco Kai Wessel, uscito in sala a pochi giorni dalla celebrazione, il 27 gennaio, della Giornata della memoria. Con il suo film Wessel non ripercorre però la storia dei campi di sterminio, ma un altra tragedia legata al terzo Reich: l’omicidio sistematico dei pazienti invalidi, malati di mente e «asociali» a opera del regime nazista all’interno del programma T4, che mirava a liberare il popolo tedesco dal fardello costituito da chi non era in grado di contribuire al benessere della società, oltre che dalle «malattie ereditarie», come osserva il diret-

tore dell’ospedale psichiatrico dove viene rinchiuso il piccolo protagonista. La sua foto, trovata da alcuni investigatori americani dopo la guerra, ha portato alla progressiva scoperta dei crimini compiuti dentro l’ospedale, oltre che in tutta la Germania nazista e nei paesi occupati: l’omicidio di circa 300.000 persone, tra cui moltissimi bambini . Kai Wessel sceglie proprio questo protagonista, tra i tanti che hanno subito la stessa sorte, per l’esemplarità della sua vicenda (raccontata nel romanzo omonimo del 2008 di Robert Domes in uscita a breve in Italia): Ernst era un «giusto» che dentro l’ospedale si prendeva cura dei più deboli, e quando il programma T4 era stato chiuso – e l’eliminazione era stata affidata agli stessi ospedali psichiatrici – aveva cercato di salvare altri pazienti come lui dall’eutanasia. Era un ribelle, per questo era stato ucciso nonostante fosse sano e in grado di lavorare. Una vicenda esemplare come, per altri motivi, quella dei personaggi che lo circondano e che illustrano in modo un po’ didascalico tutte le pos-

sibili forme di adesione al progetto criminale nazista: la banalità del male di chi esegue gli ordini, il «conformismo» di chi – come uno dei dottori – avverte l’orrore delle azioni che è chiamato a compiere, ma non si tira comunque indietro. E la fede nel progetto di miglioramento della razza manifestata dai «mostri», come il direttore dell’ospedale o l’infermiera dall’aspetto e i modi angelici che serve ai bambini sciroppo di lampone mischiato a barbiturici e morfina. Non manca neanche l’indifferenza della chiesa: una suora che lavora nell’ospedale si rivolge al vescovo, sconvolta dalle «eutanasie». Lui la invita a tornare al suo compito di dare conforto ai piccoli pazienti, e ad aver fede nel fatto che la religione cristiana non soccomberà mai al nazismo. Così facendo Nebbia in agosto cerca di ricomporre, senza finezza ma con onestà, i pezzi di quel puzzle che costituisce la risposta al quesito più urgente e complesso posto dall’esistenza del nazismo: come è potuto succedere? Y

Giovanna Branca


il fiore del partigiano

La vita in un barattolo

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NATA IN UNA FAMIGLIA CATTOLICA A VARSAVIA, DA INFERMIERA AIUTÒ GLI EBREI DEL GHETTO

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Irena Sendler la donna che salvò 2500 bambini da darsipace.it del 7 marzo 2013

gioVanna di Vita

i sono storie che devono essere raccontate, storie di donne che nella loro vita si sono distinte per coraggio, responsabilità, umanità; storie che cambiano il mondo. La storia di Irena Sendler è una di queste: la storia di una donna eroica e semplice che ha salvato la vita di 2500 bambini. Irena nasce il 15 febbraio del 1910 nella periferia operaia di Varsavia da una famiglia cattolica; il padre, medico, muore quando Irena aveva solo 7 anni: muore di tifo assistendo malati di tifo che i suoi colleghi rifiutavano di curare. Molti di questi malati erano ebrei e, dopo la sua morte, i responsabili della comunità ebraica di Varsavia si offrirono di pagare gli studi di Irena come segno di gratitudine. Fin dall’adolescenza Irena sperimentò una profonda vicinanza ed empatia con il mondo ebraico. All’università si oppose alla ghettizzazione degli studenti ebrei e, come conseguenza, venne sospesa dall’Università di Varsavia per tre anni. Terminati gli studi cominciò a lavorare come assistente sociale. Nel 1939, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, Irena lavorava nei servizi sociali della municipalità. Iniziò da subito a proteggere gli amici ebrei a Varsavia e, aiutata da altri collaboratori, riuscì a procurare loro circa 3.000 falsi passaporti. Entrata nella resistenza polacca con il nome di battaglia “Jolanta” quando fu eretto il Ghetto Irena venne incaricata delle operazioni di salvataggio dei bambini ebrei. Come dipendente dei servizi sociali della municipalità ottenne un permesso speciale per entrare nel Ghetto alla ricerca di eventuali sintomi di tifo: i tedeschi temevano che una epidemia di tifo avrebbe potuto diffondersi anche al di fuori del Ghetto. La sua libertà di entrare e uscire dal Ghetto le permise di convincere i genitori ad affidarle i bambini. Insieme ad altri membri della Resistenza organizzò così la fuga dei bambini: i neonati li nascondeva nelle casse del suo furgone, i bambini più grandi in sacchi di juta. Addestrò il suo cane ad abbaiare quando arrivavano i tedeschi, perché non potessero sentire i pianti disperati dei bambini che venivano separati dai loro genitori. Più volte in seguito ebbe a dire che in realtà i veri eroi erano quelle madri e quei padri che avevano deciso di affidarle i loro figli. Un numero impressionante i bambini che Irena riuscì a salvare: 2500! Non tutti erano nel Ghetto, molti erano negli orfanotrofi. Irena forniva loro una nuova identità con nomi cri-

giusta tra le nazioni. Irena Sendler in una foto recente. Sotto, da giovane con la divisa da infermiera

stiani e li affidava a famiglie e preti cattolici. Il sogno di Irena era quello di restituire un giorno i bambini alle loro famiglie; annotò così i veri nomi dei bambini accanto a quelli falsi e seppellì gli elenchi dentro bottiglie e vasetti di marmellata sotto un albero del suo giardino. La Gestapo la catturò: subì la tortura, le fratturano le gambe e le braccia, ma Irena non rivelò il suo segreto. La condannarono a morte, ma la resistenza polacca, attraverso l’organizzazione clandestina cattolica Zegota, riuscì a salvarla, corrompendo alcuni soldati tedeschi che avrebbero dovuto condurla all’esecuzione. Il suo nome venne così registrato insieme con quello dei giustiziati, e per i mesi rimanenti

della guerra visse nell’anonimato, continuando ad organizzare salvataggi di bambini ebrei. Terminata la guerra e l’occupazione tedesca, Irena recuperò i preziosi barattoli e i nomi dei bambini vennero consegnati ad un Comitato Ebraico che riuscì a rintracciare circa 2.000 bambini: solo un piccolo numero potè però ricongiungersi alla famiglia, la gran parte di queste erano state sterminate nei lager. Nel 1965 Irena venne riconosciuta dallo Yad Vashem di Gerusalemme come una dei Giusti tra le Nazioni. La storia di Irena è stata per anni dimenticata dall’opinione pubblica, solo nel 1999 un gruppo di studenti del Kansas ha scoperto la sua storia e l’ha resa nota con uno spettacolo Life in a Jar (La vita in un barattolo), un libro e un dvd. Giovanni Paolo II nel 2003 le ha inviato una lettera personale lodandola per i suoi sforzi durante la guerra. Nel 2007 è stata proclamata eroe nazionale dal Senato Polacco. Invitata per ricevere l’omaggio Irena ha mandato una sua dichiarazione per mezzo di Elżbieta Ficowska, che aveva salvata da bambina: «Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria». Nel 2007 ha ottenuto una nomination per il Nobel per la Pace, ma non le è stato assegnato perché una regola per l’assegnazione del Nobel richiede di aver effettuato una qualche attività meritoria nei due anni precedenti alla richiesta; nel caso di Irena le azioni meritorie risalivano a molti anni prima. « Avrei potuto fare di più. Questo rimpianto non mi lascia mai ». La memoria di Irena è un bene pubblico preY zioso da portare con noi nel futuro.


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Ingannare l’opinione pubblica

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il fiore del partigiano

27 gennaio, Giorno della Memoria

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ebrei che risiedevano nei ghetti, tali avvertimenti divennero una profezia che si auto-avverrò quando il tifo e altre malattie infettive decimarono le popolazioni dei ghetti. In seguito, la propaganda nazista utilizzò queste epidemie, di fatto causate dall’uomo, per giustificare l’isolamento degli “sporchi” ebrei dal resto della popolazione.

Theresienstadt: una truffa propagandistica Uno degli sforzi più famosi da parte dei nazisti per ingannare sulle loro reali attività, fu l’istituzione, nel novembre del 1941, di un ghetto-campo di concentramento per ebrei a Terezin, in Bohemia, una zona della Cecoslovacchia. Conosciuta con il suo nome tedesco, Theresienstadt costituì sia un ghetto per ebrei anziani o altolocati provenienti dalla Germania, dall’Austria e dai territori Cechi, sia come campo di transito per gli ebrei cecoslovacchi che vivevano nel Protettorato di Boemia e Moravia, allora sotto il controllo della Germania. Immaginando che alcuni tedeschi si sarebbero accorti che la versione ufficiale che gli ebrei venivano inviati a Est per lavorare non era plausibile, specialmente se riferita agli anziani, ai veterani di guerra disabili e a importanti musicisti e artisti, il regime nazista pubblicizzò cinicamente l’esistenza di Theresienstadt come residenza comune dove ebrei tedeschi e austriaci anziani o disabili potevano “ritirarsi” a vivere in pace e sicurezza. Questa storia venne inventata ad uso dell’opinione pubblica interna al Terzo Reich, ma in realtà il ghetto servì come campo di transito prima della deportazione nei ghetti e nei centri di sterminio nella Polonia occupata e in quelli nei Paesi Baltici e in Bielorussia. Nel 1944, cedendo alle pressioni della Croce Rossa Internazionale e di quella Danese – che avevano seguito la deportazione di quasi 400 ebrei danesi nel ghetto di Theresienstadt nell’autunno del 1943 – le SS autorizzarono alcuni rappresentanti della Croce Rossa a visitare il ghetto. In quel momento, le notizie dello sterminio degli ebrei avevano già raggiunto la stampa mondiale e la Germania stava perdendo la guerra. Per organizzare meglio l’inganno, le SS accelerarono le deportazioni dal ghetto subito prima della visita e ordinarono ai prigionieri rimasti di “abbellire” il ghetto e di “metterlo in ordine”: i prigionieri dovettero così creare nuovi giardini, dipingere le case e rimettere a nuovo gli edifici. Le autorità delle SS misero in scena eventi culturali e sociali per impressionare i funzionari in visita. Dopo che i rappresentanti della Croce Rossa ebbero lasciato Theresienstadt, le SS ricominciarono le deportazioni, che non ebbero termine fino all’ottobre del 1944. In tutto, i tedeschi deportarono

dal campo-ghetto ai campi di sterminio dell’“Est” 90.000 ebrei provenienti dalla Germania, dall’Austria, dalla Cecoslovacchia, dall’Olanda e dall’Ungheria; solo poche migliaia sopravvissero. Inoltre, più di 30.000 prigionieri morirono mentre si trovavano a Theresienstadt, nella maggior parte dei casi a causa delle malattie e della fame.

La visita della Croce Rossa a Theresienstadt Nel 1944 la maggior parte della comunità internazionale sapeva ormai dei campi di concentramento ed era consapevole che i tedeschi e i loro alleati dell’Asse trattavano con brutalità coloro che vi venivano imprigionati; tuttavia, dettagli precisi delle condizioni di vita in quei campi ancora mancavano. Nel stesso anno, funzionari della Croce Rossa Danese, allarmati dalle notizie circolanti sulla sorte degli ebrei sotto il regime nazista e preoccupati per i 400 ebrei danesi che erano stati deportati dai tedeschi a Theresienstadt nell’autunno del 1943, chiesero che la Croce Rossa Internazionale, la cui sede centrale si trovava in Svizzera, potesse investigare le condizioni di vita nel campo-ghetto. Le autorità tedesche, dopo aver temporeggiato per parecchio tempo, accondiscesero a che la Croce Rossa ispezionasse il campo nel giugno del 1944. Le informazioni raccolte durante quell’inchiesta sarebbero poi state rese note a tutto il mondo. I giornali negli Stati Uniti e negli altri paesi riportarono parti dell’inchiesta della Croce Rossa.

Film di propaganda: obiettivo su Theresienstadt Già a partire dal dicembre del 1943, funzionari delle SS appartenenti all’Ufficio per l’Emigrazione degli ebrei di Praga – che dipendeva dall’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich – decisero di realizzare un film sul campo-ghetto di Theresienstadt. La maggior parte delle sequenze venne realizzata nell’estate successiva alla visita della Croce Rossa e mostra i prigionieri del ghetto mentre si recano a concerti, giocano a calcio, lavorano nei giardini delle proprie case e si rilassano sia dentro gli edifici che li ospitavano che all’esterno, al sole. Per questo film, le SS obbligarono alcuni prigionieri a lavorare come scrittori, attori, scenografi, editori e compositori. Molti bambini parteciparono alle riprese in cambio di cibo, compresi latte e caramelle che normalmente non facevano parte delle razioni giornaliere. Lo scopo che i funzionari della RSHA si proponevano girando il film non è mai stato completamente chiarito: forse era destinato soltanto al pubblico internazionale, considerando che, nel 1944, la popolazione tedesca si sarebbe sicuramente chiesta come mai gli abitanti del ghetto sembravano vivere in condizioni decisamente migliori (se non addirittura lus-

suose) della maggior parte dei tedeschi in tempo di guerra. Alla fine, le SS riuscirono a terminare il film soltanto nel marzo del 1945 e non ebbero la possibilità di proiettarlo. La pellicola, inoltre, non sopravvisse alla guerra. Così come accadde in diverse altre occasioni in cui il regime nazista cercò di ingannare l’opinione pubblica tedesca e internazionale, anche in questo caso esso si avvantaggiò della scarsa voglia della maggior parte dei cittadini di comprendere appieno le reali dimensioni di quei crimini. I leader della resistenza ebraica, per esempio, cercarono di avvertire gli abitanti del ghetto delle intenzioni dei tedeschi, ma anche quelli che sentirono parlare dei centri di sterminio, in molti casi non credettero a quello che era stato loro raccontato. «Il senso comune non era in grado di afferrare la realtà dello sterminio di decine e centinaia di migliaia di Ebrei» come disse Yitzhak Zuckerman, uno dei leader della resistenza ebraica a Varsavia.

La propaganda continua, fino all’amara conclusione lI successo dei sovietici nella difesa di Mosca, definitivamente sancito il 6 dicembre 1941, e la dichiarazione di guerra della Germania agli Stati Uniti cinque giorni dopo, l’11 dicembre, furono i due eventi che portarono al prolungamento del conflitto. Dopo la catastrofica sconfitta dei tedeschi a Stalingrado, nel febbraio del 1943, la sfida per mantenere il supporto popolare alla guerra divenne ancora più ardua per i responsabili della propaganda nazista. Sempre più di rado i tedeschi riuscivano a conciliare le loro notizie ufficiali con la realtà e molti cominciarono ad ascoltare le trasmissioni delle radio internazionali per ottenere informazioni veritiere. Quando anche il pubblico dei cinematografi cominciò a rifiutare la sfacciata propaganda dei cinegiornali, Goebbels ordinò che i cinema sbarrassero le porte, prima della proiezione del film, per costringere così gli spettatori a guardare i notiziari. Fino alla fine della guerra, i responsabili della propaganda nazista focalizzarono l’attenzione del pubblico su cosa sarebbe successo alla Germania in caso di sconfitta. Il Ministero della Propaganda, in particolare, sfruttò la fuga di notizie sull’esistenza di un piano, da attuare dopo la fine della guerra, per riformare l’economia della Germania; quel piano, concepito nel 1944 da Henry Morgenthau Jr, Ministro del Tesoro dell’amministrazione Roosevelt, esprimeva l’intenzione di privare la Germania della sua industria pesante e di far tornare il paese a un’economia agricola. Tali storie, che riuscirono in parte ad alimentare forme di resistenza contro le truppe alleate che stavano avanzando in Germania, miravano ad accrescere la paura della sconfitta, incoraggiando il fanatismo e esortando la popolazione a continuare gli sforzi Y per distruggere il nemico.


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Mesli, l’imam salvatore di ebrei parigini

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GeNNAIo 2018

27 gennaio, Giorno della Memoria

NELLA MOSCHEA DEL V ARRONDISSEMENT TROVARONO RIFUGIO GLI EBREI PERSEGUITATI

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da il manifesto del 21 gennaio 2017

tommaSo BaSeVi

alla Grande Moschea di Parigi al campo di Dachau. La storia dell’imam Abdelkader Mesli era finita per lunghi anni nell’oblio. Poi nel 2011 alla morte della madre, il figlio Mohammed, che oggi ha 65 anni, scoprì nel vecchio appartamento di famiglia uno scaffale zeppo di documenti, lettere, fotografie ingiallite. Oggetti impolverati che raccontavano il passato di un uomo molto riservato e restìo a rievocare il periodo della Guerra e la sua esperienza sotto l’Occupazione tedesca. Nato ad Orano, orfano dei genitori, Abdelkader Mesli aveva appena 17 anni quando sbarcò a Marsiglia dall’Algeria. Trovò prima lavoro come portuale e poi come muratore. Dopo un breve soggiorno in Belgio, dove fece il commesso viaggiatore e l’impiegato in un sito minerario, approdò a Parigi. La città era stretta in una cappa di paura e tensione. Per le strade e negli uffici a dettare legge erano gli occupanti nazisti e i loro collaboratori. Mesli iniziò a frequentare la Grande Moschea di Parigi eretta nel 1926 nel Quinto arrondissement in omaggio ai 70 mila caduti musulmani della Grande Guerra.

Il Direttore e fondatore dell’edificio religioso Kaddur Benghabrit lo nominò imam. I due fecero il possibile per intralciare i piani dei tedeschi e venire in soccorso degli ebrei perseguitati. Mesli cominciò a stampare decine di certificati falsi che attestavano la fede musulmana delle famiglie ebree (molte delle quali erano di origine sefardita e provenienti dai paesi del Maghreb) a cui i nazisti davano la caccia. In alcuni casi, in accordo con Benghabrit, aprì loro le porte dell’edificio religioso allestendo rifugi nelle cantine che erano direttamente collegate con il dedalo dei sotterranei della capitale. Nel documentario La Mosquée de Paris: une résistance oubliée realizzato da Dni Berkani l’ebreo sopravvissuto Albert Assouline racconta: «arrivai alla Grande Moschea assieme a un arabo algerino. Eravamo appena evasi da un campo di prigionia. La nostra idea era quella di fuggire in un paese del Maghreb.

Il figlio Mohammed mostra orgoglioso una foto del padre Abdelkader. Sotto, il certificato che riconosce a Mesli il titolo di “Deportato resistente”

Pensammo di rifugiarci in un edificio religioso ma come potete immaginare non era il caso di scegliere una sinagoga. Scegliemmo la Moschea». Secondo Assouline, tra il 1940 e il 1944 più di 1700 persone passarono nei locali del grande luogo di culto musulmano. Le voci e le dicerie cominciarono presto a circolare nel quartiere. La Grande Moschea finì sotto osservazione e Mesli venne mandato in tutta fretta a Bordeaux dove, in veste di imam, cominciò a prendersi cura dei prigionieri nordafricani rinchiusi nella prigione del Fort du Hȃ. Un lavoro rischioso che lo portò ad entrare in contatto con la Resistenza.

Dopo una soffiata, il suo nome finì nelle liste della Gestapo. Il 5 febbraio 1944 venne arrestato. Nonostante le torture Mesli non rivelò mai i nomi della rete di oppositori con cui aveva cominciato a collaborare e per questo venne costretto a salire su uno degli ultimi convogli piombati diretti verso i campi di

concentramento tedeschi. Arrivò a Dachau, poi venne trasferito a Mauthausen. Dopo la prigionia, segnato profondamente dall’esperienza concentrazionaria, Mesli ritornerà a Parigi, si sposerà e metterà al mondo due figli. La sua vita marchiata dall’orrore dei campi avrà anche un risvolto glamour: nel maggio del 1949 Mesli celebrerà il matrimonio tra Rita Hayworth e il principe Ali Khan in Costa Azzurra tra nugoli di paparazzi e invitati dal sangue blu. Una parentesi dorata prima del ritorno nella ben più modesta Bobigny, banlieue nord di Parigi dove, fino all’ultimo fu imam della locale moschea e dove morirà nel 1961. Il figlio Mohamed, che oggi ha riannodato i fili di una memoria rimasta sepolta per decenni, racconta: «mio padre era un musulmano di osservanza sufi, una corrente dell’Islam basata su un precetto importante secondo il quale il peggior nemico dell’uomo è l’ignoranza».

Il nome di Mesli l’«imam che salvava gli ebrei» non figura nelle liste dei «Giusti tra le nazioni» che hanno messo in pericolo la propria vita per salvare degli ebrei dallo sterminio e chissà se in futuro vi figurerà. «Questa onorificenza non è mai stata attribuita a nessun musulmano francese o maghrebino nonostante i diversi casi recensiti – racconta lo scrittore e giornalista Mohammed Aissaoui, che sull’aiuto fornito agli ebrei perseguitati da persone di fede musulmana ha condotto accurate ricerche poi raccolte nel libro L’Etoile jaune et le croissant –; sollevare il velo sui legami tra ebrei e musulmani purtroppo oggi è un tabù. Eppure la frase «Chi salva una vita salva l’umanità intera» è contenuta sia nel Talmud che nel Corano. Sarebbe ora che qualcuno si decidesse a riaprire questa pagina dimenticata di Storia dando il giusto riconoscimento all’ex Direttore della Grande Moschea di Parigi e alY l’imam Mesli.


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il fiore del partigiano

Appelfeld, le creature lunari che scavano la storia

le persone - la Storia

SCOMPARSO ALL’ETÀ DI 85 ANNI AHARON APPELFELD, FRA I PIÙ GRANDI SCRITTORI ISRAELIANI

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da il manifesto del 5 gennaio 2018

daniela Padoan

haron Appelfeld, tra i più grandi scrittori israeliani, è morto nelle prime ore di ieri, 4 gennaio, all’età di 85 anni. Sopravvissuto alla Shoah e immigrato in Palestina nel 1946, fu allievo e amico di Martin Buber e Gershom Scholem, grazie ai quali si accostò alle fonti dello chassidismo, alla Torah e alla Kabbalah, che interrogò e percorse attraverso l’esperienza abissale dello sterminio. Appelfeld ci lascia un mondo letterario abitato da creature lunari, indissolubile dalla città della Bucovina del Nord dove nacque il 16 febbraio del 1932 e dove, a otto anni, vide le SS uccidere la madre e i nonni. Czernowitz, appartenuta per più di un secolo all’impero austroungarico, è un’origine cancellata, insieme alla famiglia, allo yiddish e alle stesse coordinate geografiche di quella che allora era Romania, ed è al tempo stesso il luogo dove tutto sarebbe rimasto cristallizzato nello sguardo del bambino, cifra della sua scrittura limpida, nemica di ogni astrazione. È LO SGUARDO di una creatura sola, abitata dal terrore e dall’incomprensione, deportata in un campo di concentramento della Transnistria dopo una lunga marcia a piedi attraverso l’Ucraina, fuggita scavando la terra sotto il recinto del lager, come un animaletto, vissuta nei boschi cercando scampo dalle belve e dagli uomini, ferocemente consapevole che la propria appartenenza ebraica avrebbe comportato una condanna a morte. Ma è anche lo sguardo di chi ha trovato riparo nella casa di una prostituta, ha vissuto con una banda di briganti, ha stabilito legami sotterranei con gli animali e con gli alberi, ha imparato a riconoscere la nobiltà degli ultimi. Lo stesso sguardo che sarebbe rimasto impigliato nel suo volto tondo dai grandi occhi mobili, sorridenti e indagatori. Il suo percorso verso la scrittura fu doloroso e accidentato. Quando Appelfeld, profugo quattordicenne, giunse in Israele con una nave dell’immigrazione ebraica clandestina, dovette sforzarsi di dimenticare, non diversamente dagli altri sopravvissuti venuti dall’Europa, bollati come vittime imbelli nella costruzione di una retorica eroica del nuovo Stato. «Cenere d’uomini», li avrebbe chiamati Ben Gurion. D’altra parte, sentiva che la sofferenza inflitta agli ebrei era talmente spropositata e inaudita da non poter trovare posto in un racconto individuale. Occorreva trovare una strada tra silenzio e testimonianza che lo riportasse nei boschi in cui aveva vissuto nascosto, che gli restituisse le voci della

comunità massacrata. «All’inizio furono solo i nomi dei miei cari, scritti su un pezzo di cartone», disse in una conversazione di sette anni fa («Cosa fare del male che si è guardato in faccia?», in Il paradosso del testimone, a cura di D. Padoan, «Rivista di estetica», ndr). «Lavoravo la terra, in un kibbutz, e una sera in cui avevo l’anima oppressa dai ricordi, nonostante tutto attorno a me ripetesse l’ingiunzione di dimenticare, mi sedetti e scrissi i nomi di mia madre e di mio padre, dei miei nonni, degli zii, dei cugini. Volevo quasi accertarmi, nel rendere i loro nomi tangibili, che fossero davvero esistiti, che la mia casa d’infanzia non fosse un sogno. E il miracolo della scrittura fu tale che, tracciando i loro nomi, li riportai alla vita. D’improvviso mi stavano di fronte, come li ricordavo quando ero nei boschi; avevo una famiglia, non ero più un orfano». CI VOLLE DEL TEMPO perché Appelfeld potesse accostarsi al magma che sentiva stratificato in sé, fatto delle morti di centinaia, migliaia di persone. Immagini atroci di fronte alle quali le parole erano fragili e impotenti. Per Appelfeld, convinto che la buona arte debba essere intima e universale, era il silenzio imparato dai mistici a dover proteggere la parola scritta, perché potesse contenere l’esperienza individuale e collettiva. Nei suoi romanzi, con passo piano, discreto, ha restituito un luogo non solo alla famiglia perduta, ma agli abitanti di tutti gli shtetl disseminati in Polonia, Lituania, Galizia, Ucraina, Bessarabia e Bucovina, deportati e cancellati dal mondo. Il popolo della Torah, dal quale i genitori, colti e assimilati, avevano preso distanza, divenne poco per volta la sua famiglia. È forse in Notte dopo notte e in L’amore, d’improvviso (entrambi editi da Guanda) che si ritrovano i suoi temi più cari: la morsa della solitudine, la ferocia del ricordo e la tentazione dell’oblio, la ferita della lingua esiliata, la necessità di un abbraccio che riporti alla comune appartenenza non determinata dalla casualità della nascita ma dalla scelta. IL FULCRO della sua riflessione, condensata nelle tre lezioni sulla Shoah tenute nel 1991 alla Columbia University di New York e raccolte nel volume Oltre la disperazione, edito da Guanda, è una domanda assillante: cosa fare di un’infanzia trascorsa dentro la Shoah? Cosa fare del male che sì è guardato in faccia? Come spiegare la necessità del ricordo del male? Come traslare quella terribile esperienza dalla categoria della storia a quella dell’arte? «Ogni sopravvissuto conserva nella propria mente migliaia di immagini di ciò che ha vis-

Aharon Appelfeld

suto, di violenza, di morte, e ogni notte viene visitato da ricordi insopportabili. Ciascuno di noi si è posto il problema di cosa fare di questi ricordi: fissarli? assumerli? identificarsi con essi? tentare di conservare il volto degli assassini per odiarli? Dimenticare è una necessità che sta nell’ordine del vivere. Non c’è di che stupirsi se gli scampati hanno raccontato ai figli ben poco di ciò che hanno passato. Cosa avrebbero avuto, da raccontare? Orrore, e ancora orrore. Si apprende a vivere senza ricordi, proprio come si impara a vivere con una menomazione. Dormire per anni, dimenticare se stessi, nascere un’altra volta: questo si sarebbe voluto. Eppure, senza quelle immagini saremmo nulla. Noi sopravvissuti dobbiamo trovare un equilibrio autentico tra il non contemplare il male, non farne qualcosa di permanente, e portare la responsabilità di ciò che abbiamo visto». LA RESPONSABILITÀ delle immagini della tenebra è stato l’assillo di una vita, per Appelfeld. «Ho scritto più di quaranta libri per dire qualcosa di questa esperienza, perché, per quanto terribile possa essere stata, è qualcosa che si può condividere, è qualcosa che le persone possono capire. Hai visto il male, hai visto tutte le forme del male, per questo devi rivolgerti alle persone. Perché le persone dovrebbero avere una nozione di ciò che il male è; dovrebbero averne una qualche comprensione». Così come dovrebbero avere una nozione del fatto che, di fronte al male, è possibile rimanere umani. «Questo non va mai dimenticato, quando si insegna cosa è stato l’Olocausto: si può fare esperienza del male, di un terribile male, ma non identificare se stessi con questo male; non diventare male a propria volta. È molto importante, perché non c’è dubbio che il male può maledirti, può costringerti a seguire il suo passo». Non sono un predicatore, ripeteva Appelfeld, né un filosofo, «ma attraverso la mia scrittura cerco di dire qualcosa sulla sofferenza, sull’amore, sulla pietà, sull’intimità. Per il semplice motivo che gli uomini dovrebbero diventare esseri umani; non di più, ma non di meno. Non possiamo essere angeli, non possiamo essere Dio, possiamo al massimo essere degli esseri umani, e dobbiamo essere degli Y esseri umani».


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Quale didattica per il tema della Shoah?

27 gennaio, Giorno della Memoria

UN LIBRO DI GRANDE AIUTO PER GLI STUDIOSI E GLI INSEGNANTI

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liana noVelli

da micromega-online del 2 gennaio 2018

l libro di Carlo Scognamiglio Insegnare la catastrofe è un grande contributo di sistematizzazione per tutti coloro che si occupano dello sterminio degli ebrei europei come oggetto di studio. È uno strumento prezioso per gli insegnanti che intendono trattarne il tema con lo stesso obiettivo dell’autore: far riflettere gli alunni ed accompagnarli nella ricerca di valori umani universali. L’autore ha avuto un’esperienza didattica fallimentare rispetto a questo fine. In una scuola secondaria romana gli alunni, commossi fino alle lacrime di fronte alla storia della Shoah, portati in un secondo tempo a parlare della situazione attuale del loro quartiere, finiscono col dire che i nomadi dovrebbero essere «bruciati vivi». Qual’è allora il cammino da percorrere perché la scuola sia quello che deve essere, un luogo in cui la conoscenza e l’interpretazione dei fatti conduca ad una maturazione etica? Il percorso delineato dall’autore è necessariamente complesso e deve essere affrontato da una molteplicità di prospettive, che cercherò di riassumere. Sotto il profilo storiografico egli descrive quella che è ormai l’ipotesi prevalente: l’eliminazione fisica degli ebrei avviene a conclusione di un processo, che era iniziato con il piano del loro totale allontanamento dalla Germania, poi della deportazione in massa – ipotesi Madagascar –, infine, stante l’enorme numero di ebrei razziati dai paesi occupati, convertito nella “soluzione finale” decisa nel 1941. Della decretata soluzione finale approfittarono gli assassini a tavolino come Eichmann e Odilo Globocnik, che si proposero e agirono come organizzatori, coadiuvati da un esercito di collaboratori e agenti fisici dello sterminio. Scognamiglio esamina il lato psicosociale, che può spiegare il “carnefice in noi”, rimandando agli esperimenti di Zimbardo e Milgram. Uno di questi esperimenti, basato su studenti divisi in gruppi di prigionieri e secondini, doveva durare due settimane, ma fu troncato dopo sei giorni perché l’imme-

desimazione dei secondini nel ruolo punitivo era arrivata a minacciare la stessa vita dei prigionieri. Essi vengono spogliati di ogni valore umano, ridotti a non persone: non hanno nome, né possono essere distinti tra di loro per come vestono. Vengono percepiti come nocivi e pericolosi, dunque da distruggere (nei campi di concentramento vennero eliminati come insetti, una sorta di misura igienica). Dall’altra parte anche le guardie sono anonime, ma l’anonimato le protegge e le deresponsabilizza. L’azione degli agenti della Shoah dipende dagli ordini di istituzioni autorevoli di “esperti”, medici, personalità politiche, scienziati. L’individuo fa sue anche opinioni che ritiene false, se la maggioranza le avvalla: allora la deresponsabilizzazione raggiunge livelli altissimi. Già Le Bon e Freud avevano trattato questo fenomeno nella psicologia delle masse, che si identificano in un capo e gli demandano ogni decisionalità. Tra i collaboratori dello sterminio ci sono anche italiani e alle responsabilità italiane l’autore dedica un intero capitolo. Primo responsabile è il governo fascista, cui la campagna razziale offriva l’opportunità di affermare la superiore “razza italiana”, inventata per l’occasione dagli scienziati della Difesa della Razza, onde evitare la mescolanza con gli africani delle colonie. Scognamiglio passa a smontare il mito del buon italiano: il buon italiano certamente ci fu e salvò i due terzi degli ebrei italiani, ma questo non giustifica l’assenza di proteste per le leggi del ’38 (salvo rarissime eccezioni, la più nota è Benedetto Croce), né la generale disponibilità ad occupare i posti statali e privati da cui erano stati scacciati gli ebrei, ad approfittare delle aste dei beni a loro confiscati, ad occupare gli alloggi divenuti liberi e così via. Quanti hanno denunciato gli ebrei per incassare la taglia di 5.000 lire – 11.000 per quelli illustri, il che spiega la grande percentuale di rabbini deportati – , quante sedicenti guide li hanno venduti ai repubblichini invece di portarli oltre il confine svizzero, questo è noto a chi ha letto gli studi di Mimmo Franzinelli e Osti Guerrazzi ed è quanto mai op-

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portuno che i programmi scolastici si occupino di questo infausto capitolo della nostra storia. Alla favola degli italiani “brava gente” credettero per primi gli alleati, tanto è vero che non ritennero necessarie in Italia le misure adottate in Germania allo scopo di rieducarne la popolazione. Ad onta del grande consenso che ebbe il fascismo – anche tra gli ebrei – nessuno mise in dubbio la vocazione democratica degli italiani, certamente a seguito del movimento di liberazione, cui peraltro aderì una minoranza, importantissima per l’immagine del paese, ma che coinvolse al massimo il 10% della popolazione. Anche la ricostituita comunità ebraica contribuì alla creazione del mito e la brigata ebraica lo trasmise in Israele, dove è tuttora opinione comune, come ci riferisce Scognamiglio, che dedica un capitolo alla didattica della Shoah in Israele. Le vittime italiane sopravvissute, desiderose di essere reintegrate nella comunità nazionale, si guardarono bene dal lamentarsi e ringraziarono chi li aveva aiutati. L’autore prende in esame il ruolo delle vittime, come fattore coadiuvante nella loro stessa disgrazia: esse tendono a negare gli eventi premonitori della discriminazione e la loro molto prevedibile pericolosità, pur di non abbandonare la visione del mondo in cui sono cresciute. Si lasciano letteralmente portare al macello, in alcuni casi assumendo persino il sistema di valutazione dei loro carnefici. L’autore cita il caso dell’ebreo cecoslovacco Mannheimer, che a distanza di molti anni racconta come la sua famiglia, quasi interamente sterminata, rifiuta di credere fin sulla soglia delle camere a gas. In effetti la Shoah è al di fuori di quanto è umanamente pensabile: i carcerieri stessi dicono continua a pagina 15 ➔


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Musiche dall’abisso il fiore del partigiano

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27 gennaio, Giorno della Memoria

STORIE DI UMANITÀ E AMORE PER L’ARTE PIÙ FORTI DELLE LEGGI RAZZIALI

Il concerto Serata colorata in cui hanno risuonato musiche scritte ed eseguite dai prigionieri del campo di internamento per ebrei di Ferramonti di Tarsia in Calabria. Col lavoro di Raffaele Deluca tornano a vibrare i brani di Kurt Sonnenfeld da patriaindipendente.it del 26 gennaio 2017 dI

Chiara Ferrari

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Voi che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case,/voi che trovate tornando a sera/il cibo caldo e visi amici:/considerate se questo è un uomo/che lavora nel fango/che non conosce pace/che lotta per mezzo pane/ che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna,/senza capelli e senza nome/senza più forza di ricordare/vuoti gli occhi e freddo il grembo/come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole./Scolpitele nel vostro cuore/stando in casa e andando per via,/coricandovi alzandovi;/ripetetele ai vostri figli. /O vi si sfaccia la casa,/la malattia vi impedisca,/i vostri nati torcano il viso da voi. (Primo Levi, 27 gennaio 1945).

osì, con la poesia Shemà, breve testo in versi liberi, incomincia Se questo è un uomo (1947) romanzo di Primo Levi in cui viene descritto l’internamento e la prigionia nel campo di Monowitz e di Auschwitz dal febbraio 1944 al gennaio 1945. Shemà, parola ebraica che significa “ascolta”, compare in una fondamentale preghiera della liturgia ebraica, recitata durante le orazioni del mattino e della sera. Con essa l’autore si rivolge ai lettori, che prestino attenzione a ciò che stanno per leggere. Nella loro memoria deve incidersi la testimonianza agghiacciante della Shoah. Perché, unico strumento per reagire al dramma è il ricordo, affinché quella tragedia non avvenga mai più. Levi è perentorio: «considerate», «meditate» – chiede ai lettori. E poi li

intima: «scolpitele», «ripetetele». Le parole del dolore, della disperazione, della sofferenza inaudita. Come in un nuovo Inferno la legge del contrappasso colpirà, quale castigo divino, chi non converrà a questa sorta di comando morale: perpetrare il ricordo dell’orrore, tenerne viva la memoria. Così, il 26 gennaio in occasione del Giorno della Memoria che si celebra il 27, l’imperativo di Primo Levi si è affermato attraverso la voce della musica. La sala Sinopoli dell’Auditorium Parco Della Musica a Roma ha ospitato il concerto Serata colorata in cui hanno risuonato le musiche scritte ed eseguite dai prigionieri del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia in Calabria, evento realizzato sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. A dare voce ai racconti degli internati, Peppe Servillo, front men del gruppo Avion Travel. «Do il mio contributo – rivela in un’intervista al quotidiano la Repubblica – per testimoniare, con questa vicenda per molti sconosciuta, che l’umanità è sopravvissuta a momenti bui e che per questo serve testimoniare la memoria nella sua integrità, per conservarla e perpetuarla». In programma musiche tipiche degli anni Trenta: jazz, kabarett, canzonette, avanspettacolo, un tipo di musica molto presente a Ferramonti, perché lì erano internati musicisti e compositori amici e compagni di studio di Kurt Weill, jazzisti, musicisti klezmer. In scaletta, infatti, brani di musica classica, come My God, why hast thou forsaken me?

musica vitale. Tre momenti delle attività musicali nel campo di Ferramonti. Voci soliste e cori di bambini, accompagnati da strumenti “rimediati”, all’unisono fino all’accordo finale

di Felix Mendelsshon, una bellissima Ciaccona del compositore italiano Tomaso Antonio Vitali, scritta nel 1700, la cui partitura è stata ritrovata tra i molti documenti musicali di Ferramonti, raccolti dagli internati, Lost in the stars di Kurt Weill, Muted music del compositore internato Isak Thaler. E poi canti corali e pezzi tratti dal repertorio ebraico, tra cui uno struggente Kaddish del pianista Kurt Sonnenfeld, insieme ad altre sue composizioni: Two stars for us (con parole di Vitoria Astuni), Radio Spielen, Dear always walking, It’s the fault of the rain, Dis moi La La, Do you like red, Ferramonti waltz. Straordinario il cast dei musicisti: Fabrizio Bosso, guest star apprezzata internazionalmente, con la sua tromba; e un gruppo di virtuosi come Vince Abbracciante alla fisarmonica, Giuseppe Bassi al contrabbasso, Seby Burgio al pianoforte; Andrea Campanella al clarinetto, Daniel Hoffman al violino, Eyal Lerner voce e flauto. Le voci sono quelle di Lee Colbert, Myriam Fuks, Giuseppe Naviglio. Con il Coro Petrassi e il Coro C. Casini dell’Università di Roma Tor Vergata, direttore Stefano Cucci. Regia di Fabiano Marti. Consulenza storica di Carlo Spartaco Capogreco, autore del volume Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande


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campo d’internamento fascista ed. La Giuntina, 1987 e di altri lavori su campi di internamento e concentramento.

Il campo degli artisti Sorprende scoprire che, in uno dei più grandi campi fascisti della Seconda Guerra Mondiale, ferveva l’attività artistica. Una storia eccezionale di cui si sono quasi perse le tracce, che torna a vivere grazie all’imponente lavoro di recupero e di ricerca musicale di Raffaele Deluca, musicista e musicologo del Conservatorio di Musica “G. Verdi” di Milano. Di tutta questa ricchezza musicale si era quasi persa traccia, finché Armida Locatelli, erede e per anni assistente del pianista internato Kurt Sonnenfeld, non si presentò un giorno al Conservatorio di Milano con una scatola di spartiti manoscritti che aveva ricevuto in eredità. Erano le musiche scritte ed eseguite a Ferramonti, ma anche fotografie, diari, lettere: un materiale inedito di cui il musicista e musicologo Raffaele Deluca comprese subito lo straordinario valore storico. Parte dei documenti rinvenuti, inoltre, sono oggi custoditi presso la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, nel fondo dell’ingegnere lettone Israel Kalk, fondatore della Mensa dei bambini a Milano, centro di raccolta dei figli dei profughi ebrei. Si scopre quindi che i detenuti del campo di concentramento di Ferramonti erano affermati direttori di teatro, compositori che avevano eseguito musica in festival importanti insieme ad Arnold Schönberg e Anton Webern, cantanti, coristi, pianisti, orchestrali, musicisti jazz, klezmorim. Come il trombettista Oscar Klein, il direttore d’orchestra Lav Mirski, il pianista Sigbert Steinfeld, il cantante Paolo Gorin, il compositore Isak Thaler, il pianista Kurt Sonnenfeld. Prima dell’inizio delle esecuzioni musicali pubbliche organizzate all’interno del Lager,

i documenti ritrovati raccontano che tra i musicisti circolasse un motto: «Ci ritroviamo alla fine» (Wir treffen uns am Schluss). «Mancavano le condizioni per le prove di insieme – si legge nelle ricerche svolte da Deluca con il Centro Studi di musica sacra Tomo Quarto – gli strumenti musicali erano pochi e difficilmente reperibili, le voci dei cantanti angosciate dalle continue privazioni», ma era importante ritrovarsi insieme sull’accordo finale di ogni brano, come a significare che alla fine di quella tragedia la vita, per tutti, sarebbe ricominciata. La musica, anche solo per un momento, era un balsamo lenitivo, per sopportare con dignità quella traumatica reclusione forzata. «C’è una grandissima varietà di stili e generi musicali – dice Deluca in un’intervista a Il Sole 24 Ore –: si va dalla musica liturgica ebraica alla canzonetta da cabaret alla moda negli anni Trenta, fino al pezzo classico. La carriera di tanti compositori non si è arrestata con l’esperienza del campo, anzi. Negli anni successivi nelle opere di molti di loro rimane il richiamo a Ferramonti. Ad esempio Sonnenfeld negli anni Settanta scriverà musica sinfonica ma anche chansonnes in cui si sente l’eco di quell’esperienza». E Ferramonti? Cosa emerge del più numeroso campo d’internamento italiano per ebrei? La sua attività inizia nel giugno del 1940, unica realizzazione edilizia costruita conseguentemente alle leggi razziali. Il primo gruppo di ebrei stranieri è formato da professionisti che risiedevano in Italia da tempo, in particolare a Roma. Poi arriveranno ebrei provenienti da varia parti d’Europa, dalla Serbia, dalla Croazia, da Rodi, e gruppi di religione non ebraica: greci, slavi, cinesi. Liberato il 14 settembre 1943, sarà l’ultimo Y a essere chiuso, l’11 dicembre 1945. Chiara Ferrari

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alle loro vittime che, se anche ne potessero dare testimonianza, non sarebbero creduti. La sua unicità non si esaurisce però solo in questo, ma piuttosto nel modo con cui avviene, e l’autore sottolinea la burocratizzazione del sistema concentrazionario, la divisione del lavoro che vi regna. Queste caratteristiche della modernità persistono nel nostro mondo, dobbiamo dunque registrarne la portata. I nostri allievi devono dedurne che questo passato potrebbe ripetersi, dato che le condizioni in cui è avvenuto sono tuttora presenti. La Shoah è unica, anche se vi sono stati e continuano ad esservi altri genocidi: paragonarli tra di loro equivarrebbe a ridimensionarne la portata, ad una rassegnazione al male, che è il fallimento di ogni pedagogia. Inoltre rinunceremmo a ricercare le cause specifiche degli eventi storici, tema centrale dell’insegnamento. Quali sono le origini dell’antisemitismo? Religiose? Culturali? Cerchiamo un capro espiatorio su cui proiettare le nostre disgrazie? Ci fa paura chi è diverso da noi? Una storia dell’antisemitismo è irrinunciabile all’interno di una didattica, che insegni a riconoscere gli atteggiamenti ed i pensieri che conducono alla discriminazione. In questa ottica si può indagare il fenomeno del bullismo- che l’autore definisce creazione del subalterno, prima ancora che si manifesti umiliando soggetti considerati inferiori. Nell’affrontare il tema della Shoah si devono sottolineare i diversi gradi dei fenomeni di intolleranza, discriminazione e persecuzione esaminati nei vari paesi nel corso del tempo, dato che l’alunno deve imparare a differenziare il peso degli eventi storici, deve per esempio accorgersi di come l’antisemitismo italiano sia stato artificialmente costruito e come anche il diffuso antisemitismo tedesco non abbia mai toccato i livelli dell’Est europeo. Deve inoltre imparare a vagliare le testimonianze, della cui rilevanza dubitano gli stessi sopravvissuti, proprio perché in qualche modo privilegiati o capaci di pensare a strategie di sopravvivenza (v. Primo Levi I sommersi e i salvati) e a valutarle secondo il loro peso. Questo libro ci ricorda sostanzialmente che il compito dell’insegnante è complesso e che la capacità di pensare la complessità deve essere trasmessa nella scuola e in ogni luogo. Un sentito ringraziamento all’autore, che, sulla base di una vastissima e profonda conoscenza del tema, ce ne ha Y dato un saggio. Liana Novelli


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GeNNAIo 2018

Bellinzago - Mostra con spettacolo

il fiore del partigiano

Manteniamo vivo il ricordo della Shoah

IN OGNI COMUNE VIGILANZA ANTIFASCISTA

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n occasione del Giorno della Memoria 2018 la sezione di Bellinzago Lombardo, con il patrocinio del Comune, propone una Mostra con Concerto realizzati da Natalya Chesnova e Nicola Portonato: la mostra presenta le opere del collettivo Kukryniksy e la loro «lotta di matita» contro il nazismo; il concerto parte da canzoni e musiche che parlano della vita quotidiana delle comunità ebraiche di tutta Europa, per arrivare ad affrontare in musica e canto gli argomenti più drammatici delle deportazioni e della realtà dei campi di sterminio. • Lunedì 29 gennaio, presso la scuola secondaria di primo grado di via Papa Giovanni XXIII alle ore 9,30: mostra e spettacolo dedicati ai ragazzi della scuola alle ore 20,00: apertura alla cittadinanza della mostra alle ore 21,00: sempre presso la scuola, spettacolo dedicato a tutti i cittadini.

Bussero - Conoscere la legalità del male

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l Circolo Familiare Angelo Barzago e l’ANPI di Bussero - Sezione Angelo Barzago, insieme alla compagnia teatrale Caravan de vie, con il patrocinio del comune di Bussero in occasione del Giorno della Memoria 2018, invitano a: • Sabato 27 gennaio alle ore 21,00, presso l’Auditorium della Biblioteca comunale di Bussero, in Via Gotifredo 1, lo Spettacolo

della compagnia teatrale Caravan de Vie La legalità del male. Lo spettacolo, con testi in larga parte originali, rappresenta la riunione nella quale i gerarchi nazisti decisero la “soluzione finale”.

Cassano - Proiezioni e spettacolo teatrale

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nche quest’anno le iniziative sul tema del Giorno della Memoria privilegeranno gli interventi rivolti alle scuole. Dal 22 al 26 gennaio, agli alunni saranno proposti momenti di riflessione e discussione. • Scuole primarie (elementari) dei plessi di Quintino Di Vona, Guarnazzola, Groppello e Cascine San Pietro: proiezione del dvd Ritorno a scuola della Isever ed esposizione della mappa dei lager in Europa dal 1939 al 1945. • Scuola secondaria (medie): per le prime e seconde classi, la proiezione del dvd Viaggio nella fabbrica dello sterminio; per le terze classi la proiezione del dvd La forza del ricordo, un treno per Auschwitz. Tutti gli appuntamenti saranno introdotti da un breve intervento a cura dell’ANPI e dell’ANPC sul significato della Giornata della memoria e sulla sua importanza ancora oggi a oltre 70 anni di distanza dalla Shoah. • Sabato 27 gennaio alle ore 20,45 presso TeCa - Teatro Cassanese, in corso Europa, la compagnia Colpo d’Elfo propone Le viole mi hanno liberato - Storie di gente semplice che ha avuto il coraggio di mettere nero su bianco emozioni, ricordi, speranze. Lo spettacolo è aperto a tutti.

Cassina - La dignità riscattata dalle donne

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er celebrare il Giorno della Memoria 2018 l’Amministrazione comunale, il MAiO Museo dell’Arte in Ostaggio e delle grafiche visionarie e la sezione ANPI di Cassina de’ Pecchi presentano: • Venerdì 26 gennaio alle ore 21,00 presso il Centro Civico Culturale Cascina Casale, Torrione, via Trieste 3 il reading multimediale con musiche dal vivo Caro bambino mio, c’è stata una ragione - Storie di donne che, nel buio dei lager e della Shoah, hanno riscattato la dignità umana. Con Valeria Palumbo, Walter Colombo, Carlo Rotondo, Paola Salvi, Rossana Colombo; introduzione storica di Simone Campanozzi, docente presso l’Istituto Lombardo di storia contemporanea.

Cernusco - Testimoniare con un obiettivo...

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er il Giorno della Memoria 2018 l’ANPI di Cernusco sul Naviglio- Sezione Riboldi-Mattavelli invita tutti: continua a pagina 18 ➔


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«I nomi ebrei sulle pietre per le strade di Milano»

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VENTISEI NUOVI SAMPIETRINI IN OTTONE PER RICORDARE LE VITTIME DEI NAZISTI

Liliana Segre: «Per ora in città sono pochissime e sconosciute

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da il Corriere della sera del 6 gennaio 2018

Paola d’amiCo

e pietre d’inciampo? Sono piccole lapidi che ricordano chi non ha una tomba». Liliana Segre, classe 1930, sopravvissuta ad Auschwitz, dove morirono l’adorato padre e i nonni, da trent’anni testimone della Shoah, è presidente del Comitato che s’è costituito a Milano per replicare l’iniziativa lanciata dall’artista Gunter Demnig in Germania nel 1995 e che raccoglie, per la prima volta dopo la Liberazione, tutte le associazioni legate alla memoria della Resistenza.

Sampietrini in ottone, oggetti di memoria diffusa che s’innestano nel tessuto urbano, per raggiungere più persone? «Per ora sono pochissime a Milano e sconosciute. Con la posa in programma il 19 e 20 gennaio a Milano se ne aggiungeranno 26. Ricordano dove sono nati e dove sono morti ebrei e antifascisti, cioè coloro che avevano scelto di stare dalla parte più pericolosa. Ma perché siano pedine della memoria e i ragazzi possano davvero inciamparvi, il ruolo di insegnanti e adulti è davvero fondamentale».

Qual è il suo timore? «Che siano travolte dall’indifferenza e dall’ignoranza, perché nella vita si sta sempre sul carro dei vincitori, non dei perdenti, degli ultimi». giovani curatori di memoria. Gli studenti dell’Istituto comprensivo “Quintino Di Vona - Tito Speri” hanno aderito al progetto “Pietre d’inciampo. Non c’è futuro senza memoria”, prendendosi cura delle pietre

Ha spesso ripetuto che l’indifferenza uccide più della violenza. «Bisogna avere il coraggio delle proprie idee, se no si naufraga nell’indifferenza. È trent’anni che parlo di indifferenza, ricordando l’immane tragedia della Shoah. Una parola che troneggia a lettere cubitali anche all’ingresso del Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione Centrale. E da trent’anni le mie sono soltanto parole di pace. Da quando ho conosciuto l’odio, ed ero poco più che una bambina. Da quando ho conosciuto la solitudine, lo “stupore per il male altrui” come scrisse Primo Levi. Sono sopravvissuta per miracolo e, dopo anni e anni di silenzio, di un tempo infinito per curare le mie ferite (che non si sono mai chiuse, del resto), ho cominciato da donna quasi vecchia a diventare testimone della Shoah. Ho sempre scelto, incontrando gli studenti e le persone che vengono ad ascoltarmi, di non parlare mai di odio e di vendetta, perché sono uscita viva dal lager senza essermi mai vendicata, scegliendo di essere una donna libera».

il primo inciampo. Sopra: Liliana Segre durante la posa della prima Pietra d’inciampo a Milano (qui a sinistra), davanti a quella che fu l’abitazione in cui visse con suo padre, Alberto Segre, in Corso Magenta 55

Cosa pensa del rigurgito di antisemitismo? «È come un’onda che cresce. Sento che la pace è lontana. A distanza di tanti anni dalle leggi razziali, che mi costarono l’espulsione dalla scuola di via Ruffini — avevo otto anni — mi sembra impossibile di dover rileggere sui giornali o rivedere alla televisione o sentire intorno a me quell’odore bestiale dell’odio verso l’altro. Ed è un odore che a me riporta un odore diverso, quello della carne bruciata nella cenere di Auschwitz».

È pessimista? «Sono molto pessimista. Quando leggo di quei barconi che si rovesciano nel Mediterraneo e muoiono centinaia di persone di cui non si saprà mai il nome, penso sempre che il mare della dimenticanza coprirà anche quei 6 milioni di morti per la colpa di essere nati. Man mano che noi testimoni ce ne andiamo, perché siamo vecchi, si fa strada sempre più quel negazionismo che fa comodo a tutti. C’è sempre qualche voce che nel giorno della Memoria dice “e basta con questi ebrei”». Y


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• Sabato 20 gennaio alle ore 15,30 presso la Biblioteca civica, Sala «R. Camerani» in via Fatebenefratelli, all’evento Testimoniare la Memoria... con un obiettivo. Introduce Giovanna Perego, Presidente ANPI di Cernusco; interviene Anna Steiner, Docente, testimone della persecuzione politica e razziale della sua famiglia. Al termine, Cerimonia di donazione alla Biblioteca e alla cittadinanza della macchina fotografica di Roberto Camerani, in uso alle SS. Una macchina che «ha catturato la morte» e che venne da allora usata per «catturare la vita» Intervengono Ermanno Zacchetti, Sindaco di Cernusco, Mariangela Mariani, Assessora alla Cultura di Cernusco, Adele Camerani e Aldo Comi. Mostra a cura dei ragazzi del CAG Labirinto.

Gorgonzola - Un diario, e musica in Crescendo

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er il Giorno della Memoria 2018 la Sezione ANPI, in collaborazione con il Comune e varie associazioni propone: • Sabato 27 gennaio, alle ore 21,00 presso L’Auditorium di via Roma lo spettacolo Partecipo al dolore di milioni di uomini... Un diario e delle musiche per ricordare, capire e immaginare, ideato e creato dall’Orchestra Giovanile Crescendo. Testo liberamente tratto dal Diario di Anna Frank con musiche di vari autori classici.

Inzago - Al De André una mostra/concerto

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n occasione del Giorno della Memoria 2018 la Sezione dell’ANPI Quintino Di Vona propone: • Giovedì 25 gennaio, presso l’Auditorium F. De André alle ore 20,30 l’inaugurazione della Mostra con percorso guidato con le opere del collettivo Kukryniksy e la loro «lotta di matita» contro il nazismo. alle ore 21,00, il Concerto di Nicola Portonato e Natalya Chesnova, che parte da canzoni e musiche che parlano della vita quotidiana delle comunità ebraiche di tutta Europa, per arrivare ad affrontare in musica e canto gli argomenti più drammatici delle deportazioni e della realtà dei campi di sterminio.

Pioltello - Coi ragazzi si parla di Primo Levi

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l Comune di Pioltello, nell’ambito delle iniziative in occasione del Giorno della Memoria 2018: • Sabato 27 gennaio, ore 17,00, presso la Biblioteca comunale, in Piazza dei Popoli 1, si parlerà de Il sistema periodico di Primo Levi nell’incontro con Marco Boscolo Science Writer e Data Journalist e gli studenti del Liceo Niccolò Machiavelli. • Lunedì 29 gennaio, per la rassegna del Cineforum ci sarà la proiezione del film La Y signora dello zoo di Varsavia.

Ieri come oggi, «Il fascismo non è un’opinione: è un crimine»

Cernusco, sabato 13 gennaio. In piazza Matteotti si contrasta il neofascismo alzando la Costituzione e cantando Bella ciao. I ragazzotti di CasaPound, che lì di fronte raccoglievano firme per la loro lista elettorale, probabilmente non lo sanno, ma lo slogan «il fascismo non è un’opinione come le altre: è un crimine», si ispira alla famosa frase proprio di Giacomo Matteotti, assassinato dai fascisti nel 1924 dopo aver denunciato in Parlamento i brogli elettorali e le ruberie del nascente regime.


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Le buone idee vengono mangiando in compagnia

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le iniziative

BELLINZAGO LOMBARDO - LENTICCHIATA E FOTO NATURALISTICHE

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on la sezione ANPI 25 aprile di Bellinzago Lombardo, oltre alla sua primaria attività volta a combattere sempre e comunque tutti i vecchi e nuovi fascismi, non disdegnamo momenti di grandi incontri anche culinari e culturali. Così da alcuni anni organizziamo, anche per raccogliere fondi nel periodo invernale, la ormai famosa lenticchiata con cotechino e polenta del Peppo. L’ultimo incontro pacciatorio si è svolto il 3 dicembre scorso, con grande adesione di iscritti e non, e con la visita del sindaco, nostro iscritto. La riuscita dell’evento ha portato nella cassa della sezione ben 400 euro che serviranno per le prossime iniziative. Si sa che quando si mangia e si beve in compagnia nascono nuove idee, così sotto la spinta del nostro iscritto Giovanni Gargantini, grande fotografo naturalista, il 10 dicembre abbiamo visitato il punto ristoro Stallazzo di Porto d’Adda e il Santuario della Madonna della Rocchetta nonché il museo di Leonardo gestito dalla cooperativa Sociale Solleva. Lì abbiamo pranzato magnificamente, attorniati dalla mostra fotografica sull’Adda del nostro Giovanni. Dopo le foto ricordo, pensando a nuove iniziative, siamo partiti per il sentiero del ritorno a casa. Intanto, Y nevicava. Antonio Rolla ANPI Sezione 25 aprile Bellinzago Lombardo

Porto d’adda, 10 dicembre 2017. La mostra delle fotografie naturaliste di Giovanni Gargantini allo Stallazzo

L’allegro ritrovo dell’ormai mitica “lenticchiata del Peppo” e, sopra, al Santuario della Madonna della Rocchetta


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A Dongo, nei luoghi dell’epilogo della guerra D

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le iniziative

CASSANO D’ADDA - VISITA AL MUSEO STORICO NEL COMUNE DELL’ALTO LAGO

omenica 24 settembre 2017 l’ANPI e l’ANPC di Cassano d’Adda hanno organizzato ed effettuato una visita al Museo della fine della seconda guerra mondiale a Dongo, sul lago di Como. Dongo è la cittadina dell’alto lago dove fu riconosciuto, arrestato e poi, dopo una tragica notte, fucilato Mussolini con la sua amante Claretta Petacci. Il museo organizzato nella sede comunale, palazzo Manzi, è ben organizzato, sia per i documenti che per i supporti d’immagine, ed è particolarmente consigliato alle scolaresche. Non stiamo a ricordare tutte le vicende che hanno attraversato questi luoghi, monti e valli affacciati sul Lario, negli anni ’43-44-45 perché fanno parte della Storia e sono anche lunghe e complesse. Vogliamo solo mettere l’accento sul come il duce fascista Mussolini, con la sua coorte di gerarchi, dopo aver dominato e poi rovinato l’Italia con la guerra a fianco dei nazisti tedeschi, dopo aver fatto decimare migliaia di antifascisti e partigiani, fu fermato nella sua pusillanime fuga da un piccolo gruppo di partigiani della 52a brig. Garibaldi, abbandonato anche dai militari tedeschi in mezzo ai quali si era travestito. Quindi venne giustiziato in nome del popolo italiano. Da lì, molte speculazioni più o meno storiche si sono dipanate sul perché e il per come della sua tragica fine, secondo noi

dongo, 24 settembre 2017. Foto di gruppo davanti al comune. Sotto, cartellone didattico-storico e il gonfalone comunale

più che giustificata e meritata. Molti libri e articoli di giornali si sono scritti in questi decenni sulla vicenda e anche sull’“oro di Dongo”, su “Gianna e il capitano Neri” e su altro: motivo in più per andare a visitare questo piccolo ed interessante museo e magari parlare anche con due testimoni oculari, allora ragazzi che avevano comunque vissuto quelle vicende come staffette partigiane, come abbiamo potuto fare noi.

Al ristorante e, a destra, il monumento alla Resistenza europea di Como

Dopo un buon pranzetto al ristorante Albano e una passeggiata sul bellissimo lungo lago, la giornata è finita a Como davanti al monumento dedicato alla Resistenza europea, anche questo sul lungo lago, inondato di sole, a conclusione di Y una bella giornata della memoria. Giancarlo Villa ANPI di Cassano d’Adda sezione B. Colognesi


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Il riscatto della dignità di donne nei lager

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le iniziative

CASSINA DE’ PECCHI - UN EVENTO MULTIMEDIALE SULL’ALTRA METÀ DEL “BUIO”

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er celebrare la Giornata della Memoria l’Amministrazione comunale, il MAiO Museo dell’Arte in Ostaggio e delle grafiche visionarie e la sezione ANPI di Cassina de’ Pecchi venerdì 26 gennaio alle ore 21 presentano Caro bambino mio, c’è stata una ragione Storie di donne che, nel buio dei lager e della Shoah, hanno riscattato la dignità umana. Si tratta di un reading multimediale con musiche dal vivo che ci fa scoprire le storie di donne coraggiose che hanno conosciuto l’orrore delle persecuzioni naziste: la poetessa Ilse Weber, la staffetta partigiana Jenide Russo, l’archeologa e sovrintendente Alda Levi, la giornalista e pedagogista Paola Lombroso, la pianista Alice Hertz-Sommer. L’autrice Valeria Palumbo, giornalista e storica delle donne, è una delle due voci narranti con Paola Salvi. Saranno accompagnate dai musicisti dell’associazione CantarStorie Walter Colombo e Carlo Rotondo, con la partecipazione di Rossana Colombo Valeria Palumbo, autrice anche di una cospicua produzione letteraria e saggistica, così presenta il suo lavoro decennale: «Quello che mi sono posta come obiettivo dall’inizio è stato scrivere conversazioni teatrali che, con l’aiuto di video, foto e tanta musica, portassero in scena momenti cruciali della storia smontando stereotipi, pregiudizi e versioni “ufficiali”. Ma

anche soltanto riportando alla memoria vicende più o meno dimenticate o rimosse. Una particolare attenzione è data

Il MAiO, il museo che racconta i capolavori d’arte da salvare

er chi non lo conoscesse ancora: il mAio, museo dell’Arte in ostaggio e delle grafiche visionarie, nasce per volontà dell’Amministrazione comunale di Cassina de’ Pecchi da un’idea del giornalista e scrittore cassinese Salvatore Giannella, autore del libro Operazione Salvataggio (Chiarelettere) dedicato agli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre. Realizzazione a cura della start up milanese Streamcolors. Il progetto di musealizzazione nasce dalla volontà del Comune di Cassina de’ Pecchi di collaborare all’azione di sensibilizzazione sul tema della sottrazione del patrimonio artistico, in particolare rispetto alle 1.647 opere ancora “in ostaggio” dopo essere

state trafugate durante la Seconda Guerra mondiale da musei e da collezioni private italiane ad opera delle truppe naziste. Le vicissitudini di queste opere sono raccontate all’interno del museo mAIo a partire dalla storia di Rodolfo Siviero, incaricato dal Governo Italiano nel primo dopoguerra per il recupero di questi tesori artistici. La più celebre di queste opere è la michelangiolesca “Testa di fauno” che apparteneva al museo fiorentino del Bargello e che era stata ricoverata presso il Castello di Poppi, in provincia di Arezzo, e trafugata nella notte tra il 22 e il 23 agosto 1944 dai nazisti della 305a divisione di fanteria. Il museo è aperto dal giovedì al sabato dalle 15 alle 18. Y

alle donne: ri-raccontare la storia restituendo loro il posto che hanno davvero avuto significa anche in gran parte riscriverla, scoprirne i lati nascosti, ribaltare giudizi, svelare nuove cause. L’ho fatto utilizzando gli strumenti del mio mestiere, il giornalismo (quindi i nostri reading nascono da viaggi-reportages), e la conoscenza di storica delle donne (sono laureata in storia contemporanea con una tesi sulle donne e dall’Università in poi, ovvero dal 1987-1988 circa, mi occupo di storia delle donne, sono membro della Società italiana delle Storiche e dell’Associazione italiana Public History)» Aprirà la serata, dopo il saluto delle autorità comunali e dell’ANPI, con una breve introduzione storica, il prof. Simone Campanozzi che ha conseguito il dottorato in Storia del pensiero politico e delle istituzioni politiche, presso l’Università degli studi di Torino e dal 2013 è docente comandato presso l’Istituto Lombardo di storia contemporanea, dove si occupa in particolare di formazione, ricerca, elaborazione di percorsi didattici nell’ambito dell’educazione alla cittadinanza, Costituzione, intercultura. Il MAiO con questa occasione ha l’onore di avviare la propria collaborazione con l’Istituto Lombardo per la Storia Contemporanea, l’istituto storico milanese che dal 1974 promuove la ricerca e la divulgazione sulla Lombardia contemporanea e fa parte della rete INSMLI, istituti di studi della Resistenza e dell’età contemporanea. Y

ANPI Sezione don Andrea Gallo Cassina de’ Pecchi

● Reading teatrale Venerdì 26 ore 21 Ingresso gratuito durata un’ora e dieci minuti Cassina de Pecchi, Centro Civico Culturale Cascina Casale, Torrione, via Trieste 3


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Testimoniare la memoria... con un obiettivo U

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le iniziative

CERNUSCO SUL NAVIGLIO - L’IMPORTANZA DELLE IMMAGINI NEL RICORDO

na macchina è una macchina, ma una macchina fotografica è una macchina particolare: “cattura la vita”. Questa è la storia di una vecchia macchina fotografica tedesca, come quelle usate dalle SS, che viene in possesso di Roberto Camerani, figura storica di Cernusco, deportato giovanissimo e sopravvissuto al campo di sterminio di Mauthausen. Roberto, che attribuisce un valore alle cose, intuisce che quella macchina è preziosa: potrebbe aver “catturato la morte” e le sofferenze di altri esseri umani che come lui avevano vissuto l’esperienza drammatica dei campi di sterminio. La custodisce per un certo periodo, poi decide di donarla a un ragazzo (oggi adulto), Carlo Comi. Carlo non è un ragazzo qualsiasi: è figlio di Giuseppe, partigiano combattente di Cernusco. Con Carlo la macchina riprende a “catturare la vita”. Carlo la custodisce per alcuni anni. Giuseppe, il papà, nel frattempo muore. Carlo ne fa dono a Danilo Radaelli, allora giovane presidente dell’ANPI di Cernusco e molto legato a Giuseppe, perché quella macchina racconta una storia che deve diventare conoscenza collettiva. Come ANPI l’abbiamo custodita e ora abbiamo deciso di donarla alla comunità di Cernusco, perché quella storia, quel passaggio di memoria tra generazioni, divenga patrimonio della nostra comunità. Proprio oggi che la presidente dell’ANPI è Giovanna Perego, nipote di quel Giovanni Vanoli figura di primo piano della Resistenza cernuschese. Una macchina è una macchina, una macchina fotografica “cattura la vita”, trasmette la memoria e racconta una storia a tutte le generazioni che avranno voglia di ascoltare… una macchina. Sabato 20 gennaio 2018 alle ore 15,30 in Biblioteca Comunale, nella Sala Camerani, avverrà la donazione della macchina. Il pomeriggio si divide in due momenti: l’incontro con Anna Steiner, figlia dei fotografi antifascisti Albe e Lica Steiner, che da anni porta avanti un lavoro di trasmissione della memoria dell’opera culturale e valoriale dei suoi genitori durante e dopo la Resistenza. La testimonianza dei ragazzi del CAG e dei loro viaggi a Mauthausen.

Successivamente si svolgerà la donazione della macchina alla Biblioteca di Cernusco con la presenza dei rappresentanti dell’Amministrazione comunale; Adele Camerani, nipote di Roberto, leggerà alcuni brevi passi tratti dal patrimonio immenso

e inestimabile dei diari di Camerani, e Carlo Comi nella veste di intrattenitore Y musicale. Franco Salamini ANPI di Cernusco s/N sezione Riboldi-Mattavelli

«Albe e Lica partigiani» La di due grandi della comuni

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bbiamo voluto dedicare la Giornata della Memoria 2018 alla trasmissione della memoria invitando un’ospite di grande spessore intellettuale e umano, Anna Steiner, figlia dei grafici e designer Albe e Lica Steiner. Laureata in Architettura, docente al Politecnico di Milano, Anna ha proseguito nell’attività intellettuale e grafica dei genitori insieme al marito Franco Origoni. Da anni è una testimone instancabile e appassionata dell’attività antifascista svolta dai suoi genitori, prima e dopo la Resistenza. Vale davvero la pena ripercorrere le tappe fondamentali dell’esistenza di Albe e Lica, che furono tra le figure più creative e cristalline della cultura milanese.

Albe Steiner nacque a Milano nel 1913 da padre cecoslovacco e madre italiana. Suo zio da parte di madre era Giacomo Matteotti, il cui assassinio, nel 1924, instillò nell’allora undicenne Albe una prima coscienza dell’antifascismo. Grafico autodidatta (aveva studiato ragioneria), nel 1938 sposò Lica Covo, nata nel 1914 da padre ebreo bulgaro e madre cattolica italiana, in una famiglia borghese che le diede la possibilità di studiare alla Scuola d’Arte Francese. Nel 1939, a un anno dall’entrata in vigore delle leggi razziali e con un fascismo forte del consenso popolare, Albe e Lica aprirono insieme lo studio di grafica LAS (Lica Albe Steiner), collaborando con diversi editori ed entrando in contatto con importanti personalità della cultura antifascista milanese, tra cui i BBPR, il gruppo di architetti italiani costituito nel 1932 da Gian Luigi Banfi (morto a Gusen nel 1945), Ludovico Barbiano di Belgiojoso (internato a Gusen), Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers, con i quali Albe e Lica lavorarono anche dopo la fine della guerra. Nel 1943, lo studio milanese venne distrutto dai bombardamenti e gli Steiner si trasferi-

rono a Mergozzo, in val d’Ossola, dove era sfollata la famiglia di Lica. I due contribuirono con la propria professione di grafici alla propaganda della Resistenza partigiana, progettando volantini, giornali e opuscoli per la stampa clandestina, sotto i falsi nomi di Aldo e Matilde Stefani. Tra i documenti più interessanti del loro lavoro, ci fu un celebre volantino che incitava gli italiani a smettere di combattere la guerra del Duce, rappresentato sopra un campo di lapidi. Albe e Lica parteciparono attivamente alla Resistenza in val d’Ossola dal 1943 alla Liberazione, Albe come commissario politico garibaldino e Lica come staffetta (ruolo riconosciuto con una medaglia d’argento dell’ANPI), prendendo parte all’esperienza della Repubblica partigiana della val d’Ossola (1944). Nel frattempo, il ramo ebraico della famiglia di Lica subì una forte persecuzione razziale: tra le circa 57 vittime della strage di Meina (settembre 1943), il primo eccidio di ebrei in Italia, il secondo come numero dopo quello delle Fosse Ardeatine, ci furono anche il padre e due cugini francesi di Lica, in quanto ebrei. La persecuzione politica fascista colpì di nuovo anche la famiglia di Albe: il fratello Mino, partigiano di Giustizia e Libertà, venne catturato in seguito a una delazione e trasferito prima al carcere di San Vittore e quindi a Mauthausen, dove morì nel febbraio 1945 nel sottocampo di Ebensee. Al termine della guerra, Albe e Lica proseguirono nella loro attività di comunicazione vissuta come impegno civile e di professione come militanza; già nel 1945 entrambi insegnarono ai Convitti Rinascita, che ospitavano gli orfani della guerra. «La cosa interessante di queste scuole» racconta Anna Steiner in un’intervista «è che non offrivano solo una formazione di mestiere generico, ma c’era stato un interesse da parte dei fondatori, che avevano fatto la Resi-


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Anche il Comune sia antifascista Il nuovo Direttivo D di Sezione

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Albe e Lica Steiner (FoTo

stenza, di costruire l’Italia in un modo diverso: non formavano quindi solo artigiani, ma anche persone che potessero lavorare nel mondo della comunicazione». Albe entrò inoltre come grafico nella redazione de Il Politecnico, diretto da Elio Vittorini, dove realizzò scelte grafiche avveniristiche. Trasferitosi in Messico (1946), dove nacque Anna, collaborò alla campagna di alfabetizzazione e fu a contatto con artisti del calibro di Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros. Tornati in Italia nel 1948, Albe e Lica collaborarono con varie riviste, case editrici, giornali di sinistra, enti e istituzioni culturali come la RAI, il Piccolo Teatro e la Triennale di Milano, oltre che con alcune aziende (Pirelli, Olivetti, Coop, di cui disegnarono il logo). Albe tenne anche corsi in varie università italiane e istituti d’arte, mentre Lica curava autonomamente la pagina della donna de l’Unità, il primo quotidiano a dedicare uno spazio tutto al femminile. Con l’architetto Belgiojoso gli Steiner progettarono il primo Museo al Deportato politico e razziale a Carpi, inaugurato nel 1973. Albe morì improvvisamente nel 1974. Lica e Anna continuarono l’attività dello studio e anche l’antifascismo militante che le portò, come già aveva fatto in altre occasioni Albe (diceva che si poteva lavorare con tutti tranne che con i fascisti), a rifiutare dei lavori contrastanti che le loro idee politiche: Anna e Lica si rifiutarono, per esempio, di lavorare per fare la propaganda politica della Lega: «ho detto che non era proprio possibile fare una cosa in cui, non solo non si crede, ma che si crede anche possa essere nociva». Lica morì nel 2008. Su un’unica pietra, a Mergozzo, dove fecero la Resistenza, è inciso: «Albe e Lica partigiani».Y Giovanna Perego ANPI di Cernusco s/N sezione Riboldi-Mattavelli

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le iniziative

INZAGO - L’ASSEMBLEA ANNUALE E LE NUOVE CARICHE

omenica 14 gennaio presso il Centro culturale Fabrizio De André si è tenuta l’assemblea annuale della sezione ANPI di Inzago, intitolata a Quintino Di Vona. L’assemblea, che generalmente si tiene in gennaio, ha il compito principale di rivisitare il lavoro e le iniziative che la sezione ha svolto nell’anno precedente, di analizzare lo stato di fatto della situazione politica e sociale del nostro territorio, di approvare il bilancio finanziario, di confermare o integrare la composizione del direttivo. Anche quest’anno l’assemblea ha registrato una numerosa partecipazione degli iscritti e la presenza di diverse forze politiche, sindacali e di associazioni. E, come ad ogni attività dell’ANPI, si è notata la totale assenza dell’amministrazione comunale di destra che regge il comune di Inzago. Ma tant’è... La novità più rilevante della nostra assemblea è stata il debutto della nuova presidente nella persona di Cesarina Brusamolino, che ha sostituito la presidente dimissionaria Rita Catanzariti. Rita ha guidato con passione, dedizione e grande capacità politica per oltre un decennio la nostra sezione, portandola a livelli di grande partecipazione sia in termini di progetti sia in termini di iscritti. Per questi motivi un grande ringraziamento per l’opera svolta le va attribuito. I lavori si sono svolti con grande attenzione, i relatori hanno illustrato in modo puntuale e preciso la situazione della nostra associazione. Il punto politico che è emerso in modo chiaro e prorompente, dopo un dibattito appassionato che ha visto numerosi interventi, sono il crescente e pericoloso rigurgito di pulsioni neo-naziste e fasciste che scuotono l’Europa e

Presidente Cesarina Brusamolino Membri del direttivo Franco Andenna, Antonio Brambilla, Silvia euli, eugenio Fagnani, Ferdinando Fossati, Wilma Fumagalli, michele Righini, Pietro Tagliabue, Giuseppe Verri Y

l’Italia. Anche Inzago non è immune da questi pericoli, come si è constatato al mercato che ha visto il vergognoso e oltraggioso presidio di Casa Pound, associazione di chiaro stampo fascista. È emersa con grande chiarezza da tutta l’assemblea la necessità di rafforzare le politiche di contrasto a questi fenomeni eversivi con ogni mezzo istituzionale, che coinvolga le amministrazioni nazionali e locali per vietare e mettere fuori legge questi movimenti fascisti, come del resto prevede la nostra Costituzione. A tal proposito è già pronto un ordine del giorno da presentare in consiglio comunale che impegni il sindaco, la giunta e la maggioranza a negare i permessi a tali iniziative neofasciste e di condannare i contenuti reazionari razzisti e xenofobi che caratterizzano tali movimenti. Vedremo... Al termine dei lavori sono stati approvati il bilancio e le integrazioni al direttivo. Y Antonio Brambilla Direttivo ANPI di Inzago sezione Quintino Di Vona inzago, 10 gennaio. Consistente folla di antifascisti fronteggia il penoso gazebo di CasaPound vicino al mercato. Cinque fascistelli protetti da un esagerato schieramento di forze dell’ordine. Si faceva notare sotto il gazebo il connivente vicesindaco leghista


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Bologna sfregiata dalle stragi e curata con passione civile

le iniziative

INZAGO - L’ASSEMBLEA ANNUALE E LE NUOVE CARICHE

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abato 30 settembre gita a Bologna con l’ANPI di Inzago. Si è trattato di una visita a tema, iniziata con due luoghi simbolo della storia recente della città, la stazione e il memoriale di Ustica. Vicende che, ci ammoniscono le nostre guide, «sono ancora attualità, e non diventeranno Storia finché non saranno individuati i mandanti della strage alla stazione e i responsabili dei tanti depistaggi nelle indagini su Ustica.» Per inciso, il memoriale di Ustica è un pugno nello stomaco. La delicata e umanissima installazione di Boltanski rende la visione del relitto quasi insopportabile. Poi la visita prosegue sui luoghi dell’ultima guerra e della Resistenza partigiana, prima di addentrarsi nelle mille storie della città antica. Attorno a noi una città variopinta e multietnica, quasi da metropoli, con ciclisti arroganti come a Monaco di Baviera e un traffico caotico come a Napoli. Ma a fine giornata, a fare veramente la differenza sono le nostre guide. Persone che ora raccontano la città ai turisti, ma che sono state direttamente coinvolte nelle sue tragedie recenti. Come Gabriele, che il 2 agosto del 1980 era vigile del fuoco, o la si-

Il memoriale della Shoah di Bologna (FoTo ANdReA CALVI)

gnora che ci ha spiegato il memoriale della stazione, madre di una bambina ferita nell’attentato. O ancora Daria Bonfietti, presidente dell’associazione familiari delle vittime di Ustica. Persone lucide, dalle quali non traspare alcun rancore, anche quando ricordano che Mambro e Fioravanti, condannati per la strage alla stazione, sono da tempo in libertà. Persone che hanno trasformato la loro tra-

gedia in testimonianza e passione civile, e che ancora lottano perché, dopo quasi qurant’anni, sia fatta piena giustizia. Così grazie a loro, quando verso sera lasciamo la città, all’ammirazione per le tante cose viste, si unisce la gratitudine e una sottile commozione, come quando ci allontaniamo da una persona cara colpita negli Y affetti. Andrea Calvi

BUCCINO - ERA FIGLIO DI QUINTINO, MARTIRE DELLA RESISTENZA INZAGHESE

Morto il professor Piero Di Vona tra i massimi studiosi di Spinoza

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L’ANPI di Inzago ha appreso con commozione della scomparsa del professor Piero Di Vona, figlio di Quintino, a cui è intitolata la sezione. Ne ricordiamo qui la figura con questo articolo, ringraziando Stefano Monari che ce lo ha segnalato. da le Cronache dell’8 gennaio 2018

venuto a mancare nella tarda serata del 4 gennaio il prof. Piero Di Vona. Nato a Buccino 90 anni fa, è certamente riconosciuto come uno dei più rinomati studiosi del pensiero del filosofo Spinoza. Figlio di quel Quintino Di Vona martire della Resistenza al nazifascismo, trucidato sulla piazza di Inzago, comune lombardo che ne onora la memoria puntualmente, ricordandone l’elevato spessore intellettuale di fine letterato e la sua partecipazione alla causa

antifascista e partigiana che culminò col suo martirio. Il Comune di Buccino, gemellato con Inzago, ha onorato la memoria di Quintino Di Vona con una stele sul portone del palazzo comunale. Il primo cittadino Nicola Parisi ha presenziato ai funerali di Piero Di Vona che si sono tenuti nella chiesa di S. Bartolomeo a Pellezzano, dove il professore viveva da anni presso la cugina, moglie del prof. Scocozza, docente dell’Università di Salerno, dopo la morte della moglie e del figlio. Piero Di Vona ha insegnato Storia della filosofia negli atenei di Pavia, di Palermo, alla Federico II di Napoli e a Salerno. È stato senz’altro uno degli studiosi più alti e riconosciuti a livello nazionale e internazionale del pensiero del filosofo Spinoza e delle moderne dottrine legate all’ontologia. È autore di numerosi studi e saggi sulla Filosofia scolastica, su Hobbes e i filosofi trascendentali come Sebastian Izquierdo, Hegel e Kant. Una mente brillante e produttiva, figlio di altrettanto padre, latinista e studioso di testi classici latini e greci. Durante un’intervista, circa due anni fa, sulla figura del padre Quintino, combattente e martire

della Resistenza al nazifascismo, il professor Piero ne ricordò soprattutto il lato umano di padre e marito e di come, in quei tristi tempi in cui nemmeno dei muri di casa ci si poteva fidare, lui ragazzino viveva questo padre riservato ma nondimeno affettuoso, e di come proprio la sua mente brillante e la sua cultura talvolta hanno salvato lui e i militanti partigiani che proteggeva. In quell’intervista si parlò di come i giovani possono trarre insegnamenti di vita attualissimi dallo studio e dall’analisi accurata della Filosofia; narrò episodi di personaggi storici come Metternich, Talleyrand, Cavour e di aneddoti che ribaltavano completamente i fatti storici che abitualmente conosciamo. Traslata la salma nella tomba di famiglia a Buccino, il sindaco Parisi, durante un toccante ricordo in chiesa dell’uomo e della figura intellettuale, ha annunciato che in estate verrà celebrata una commemorazione ufficiale del prof. Piero Di Vona Y nella natìa Volcei.

Titty Ficuciello


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Con parole e musica partecipando al dolore di milioni di uomini

le iniziative

GORGONZOLA - UN TESTO DAL DIARIO DI ANNA FRANK E BRANI DI CLASSICA

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Un lavoro dell’Orchestra Giovanile della Martesana

o spettacolo per la Giornata della Memoria di Gorgonzola quest’anno è basato su un lavoro dell’Orchestra Giovanile della Martesana Crescendo dal titolo Partecipo al dolore di milioni di uomini… Il sottotitolo specifica: «Un diario e delle musiche per ricordare, capire e immaginare», uno spettacolo, quindi, basato su un testo liberamente tratto dal Diario di Anna Frank accompagnato da brani musicali di vari autori classici (J. S. Bach, Pergolesi e altri). Il testo sarà recitato dai ragazzi dell’Orchestra Giovanile Crescendo.

Nata nel settembre 2009, la Crescendo - Orchestra Giovanile della Martesana è diventata in poco tempo una bella e attiva realtà, nucleo del “Progetto Crescendo”, un progetto educativo musicale strutturato sul modello delle orchestre giovanili internazionali. Con sede a Gorgonzola, la Crescendo si rivolge a giovani e giovanissimi che provengono da diversi Comuni dell’area della Martesana, da Milano e Bergamo. Il loro lavoro ha portato alla realizzazione, dal 2009, di più di 80 concerti (Milano, Venezia, Bergamo, Cernusco sul Naviglio, Cassina de’ Pecchi, Gorgonzola, Cassano d’Adda, Inzago, Vaprio, Bussero, Lesmo, etc.) e alla realizzazione di un Cd. Nel 2013 l’Orchestra si è esibita ad Ann-weiler am Trifels (Germania) e nel 2014 ad Ambert (Francia), riscuotendo un grande successo e ricevendo l’invito per un tour di concerti tenutosi nel 2015 in Germania. Sostenuta da un Comitato d’Onore di cui fanno parte eminenti musicisti italiani e stranieri, nel 2013 la Crescendo si è costituita come associazione no profit con il nome di Associazione Culturale Orchestra Crescendo. Ne è presidente Simone Fontanelli, compositore e docente presso il MoY zarteum di Salisburgo.

JUDIT FÖLDES , Direttrice musicale e artistica Dal 1997 è violista del prestigioso ensemble barocco “I Sonatori de la Gioiosa Marca”, uno dei più famosi ensemble italiani che si dedica da 30 anni all’esecuzione di musiche antiche su strumenti d’epoca. Con “I Sonatori” ha partecipato ai più importanti festival in Europa e Sud America effettuando numerose incisioni discografiche più volte premiate dalla critica internazionale. Nata a Budapest, dove si è diplomata all’Accademia Superiore di Musica “Franz Liszt”, si è specializzata nel repertorio barocco su strumenti originali. Dal 1983 al 1998 è violista del “Concerto Armonico” di Budapest. Dal 1991 al 1999 ha fatto parte dell’orchestra internazionale “Le Concert des Nations” diretta da Jordi Savall. Dal 2009 è co-fondatrice e direttore musicale e artistico dell’OrY chestra Giovanile Crescendo. ANPI di Gorgonzola


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Le bufale sul fascismo

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PRONTUARIO CONTRO LE LEGGENDE CHE CIRCOLANO SULLA RETE DEL WEB (3a PUNTATA)

la Storia - le idee

I Miti e la realtà. Dalla presunta capacità di governo dell’economia, al disastro della guerra da ceifan.org Centro di Indagine sui Fenomeni Anomali diretto dal Servizio Antibufala

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È da molto tempo che circolano su internet bufale sul fascismo e su Mussolini, spesso strumentalizzate a fini politici o di riabilitazione del fascismo, che vengono condivise da molte persone ignare della loro attendibilità. Qui di seguito verranno riportati alcuni miti su Mussolini.

er ben inquadrare il periodo storico, ricordiamo che Benito Mussolini governò l’Italia dal 28 ottobre 1922 alla fine del fascismo con la seconda guerra mondiale, finendo per essere giustiziato dagli italiani il 28 aprile 1945 (data che coincide con la fine di quello che restava del fascismo). Invece, per inquadrare bene Mussolini ed il fascismo, ecco spiegato in breve i suoi doni all’Italia. Mito: Mussolini non aumentò le tasse Realtà: a parte i primi anni, non è vero che le tasse non furono aumentate, un po’ alla volta nuove tasse colpirono gli italiani, e la lira che si era rafforzata nei primi anni venne svalutata più volte per poter tirare avanti. In parole povere davanti alle difficoltà il governo prese di volta in volta decisioni diverse e logicamente variavano anche di molto in base al momento storico. Non si può dire «Mussolini non aumentò le tasse».

Mito: Il Duce ha fatto costruire grandi strade in Italia Realtà: Il programma infrastrutturale che prevedeva la costruzione delle strade completate durante il ventennio cominciò già con Giovanni Giolitti. Infatti, la necessità di realizzare infrastrutture in Italia fu un’idea di Giovanni Giolitti durante il suo quinto governo (15 giugno 1920/7 aprile 1921), avendo constatato l’impossibilità di uno sviluppo industriale in mancanza di solide strutture, sviluppo industriale dimostratosi necessario dal confronto con le altre grandi

potenze che avevano partecipato al primo conflitto mondiale. Tale “rivoluzione” non potè essere attuata da Giovanni Giolitti, prima, e dal governo Bonomi che ne seguì solo per i sette mesi che resse a causa del boicottaggio e dell’ostruzionismo politico da parte del nascente fascismo, prima generico movimento popolare (1919) e poi soggetto in forma di partito dal 1921, con la costituzione del Partito Nazionale Fascista.

Mito: Il governo di Mussolini raggiunse il pareggio di bilancio il primo aprile 1924 (e quindi è migliore dei governi attuali) Realtà: Partiamo malissimo perché il pareggio è successo nel 1925 ed in altra data. Il mito calca la mano sul concetto fondamentale che il governo fascista fu in grado di pareggiare il bilancio dello stato mentre i governi attuali siano degli inetti. Che ci sia riuscito non c’è dubbio, ma era già successo prima che Mussolini salisse al governo (fu Minghetti a realizzarlo) nel 1876. Quindi dovremmo replicare anche le politiche economiche di 2 secoli fa? All’inizio del ventennio l’Italia arrivava da un periodo di indebitamento causato dalla Guerra Mondiale e furono adottati dei provvedimenti corretti come le liberalizzazioni, la riduzione delle spese e l’espansione industriale aiutò moltissimo, ma è possibile secondo voi paragonare l’economia di inizio ’900 con quella attuale? Come ogni disinformazione che si rispetti è più importante quello che si sta dimenticando di dire, e cioè che negli anni successivi però andò tutto in vacca: la crisi mondiale in parte e il disinteresse dell’economia del Duce, molto più interessato a fare la guerra, portarono il bilancio in negativo, vanificando tutti gli sforzi fatti. La politica di autarchia messa in atto limitò moltissimo le importazioni e le esportazioni, politica totalmente inapplicabile oggi. Oltre ad aver causato la distruzione della nazione nella Seconda Guerra Mondiale. Citando Totò: «L’operazione è riuscita, ma il paziente è morto». Ha poi senso paragonare le scelte fatte quasi 100 anni fa a quelle attuali? Non è corretto né economicamente, né storicamente. Un modello che è crollato su se stesso non è il miglior modello.

Mito: Mussolini rinunciò al suo stipendio per risanare l’economia e finanziare la guerra Realtà: che Mussolini abbia o meno rinunciato al suo stipendio è irrilevante, essendo stato un dittatore: dubito che le sue spese personali fossero state proporzionate al suo stipendio e il “dover finanziare una guerra” fu proprio quello che lo portò a sciupare quello che aveva fatto (per Mussolini era inconcepibile che non si facessero guerre, erano nella natura dell’uomo). Mito: Mussolini impose ai membri del governo l’uso delle biciclette facendo risparmiare miliardi al popolo italiano Realtà: Non esiste nessuna conferma sulla fiaba delle biciclette. Anzi ad un certo punto per spingere l’industria dell’automobile si mise una tassa sulla bici e, almeno in alcune grandi città, si cominciò a limitarne l’uso. Sull’effettivo risparmio di questa manovra, come prima pesa il non detto: a chi rimosse l’auto? Quante erano le auto? Furono risparmiati miliardi di lire? Se parliamo di miliardi di lire (ne considero almeno due per essere plurale) del 1925 parliamo di circa 1.5 miliardi di euro d’oggi con la rivalutazione monetaria. Al 2012 la spesa per autoblu e autogrigie in italia è stato di circa 1 Miliardo di euro, quindi dobbiamo dedurre che negli anni ’20 in Italia c’erano più auto pubbliche che adesso? Vi sembra possibile? E cercando tra i documenti del parlamento di quegli anni ho trovato stanziamenti per le automobili al servizio del governo…

Mito: Il Duce è stato l’unico uomo di governo che abbia veramente amato questa nazione Realtà: «Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo delle trattative.» enunciò il Duce il 26 maggio 1940 (cfr. L’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1946, p. 37): e così fu, visto che nella disastrosa “campagna di Russia”, solo per compiacere Adolf Hitler con una presenza italiana del tutto male equipaggiata e mal rifornita nelle sue operazioni di guerra, persero la vita ufficialmente 114.520 militari sui 230.000 inviati al fronte, a cui aggiungere i dispersi, ovvero le persone che non risultavano morte in combattimento ma nemmeno rientrate in patria. Fonti UNIRR stimano in circa 60.000 gli italiani morti durante la prigionia in Russia. Già...proprio amore.

Mussolini amava talmente l’Italia che: - ha instaurato una dittatura


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«Impedite manifestazioni razziste, xenofobe e neofasciste nei vostri comuni»

- ha abbassato i salari - ha portato il paese al collasso economico - ha tolto la libertà ai cittadini italiani.

Il Duce amava talmente l’Italia da aver introdotto le leggi razziali antisemite nel 1938 solo per compiacere l’alleato nazista, inutili perché in Italia gli ebrei, a differenza che in Germania, non avevano un’importanza rilevante in un sistema economico di cui la dittatura volesse provvedere all’esproprio.

Voleva così bene al suo popolo da farlo sprofondare in una guerra civile quando fu esautorato dal potere, creando la Repubblica Sociale Italiana. Un paese già allo sbando a causa dell’armistizio dell’8 settembre e provato dalla guerra (condotta da lui con esiti a dir poco disastrosi) venne dilaniato ancora di più tra cosiddetta «Repubblica di Salò» e Italia liberata. E i fascisti, soprattutto durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana (o di Salò) collaborarono attivamente ai massacri di rappresaglia a seguito delle operazioni partigiane e alla deportazione nei lager di cittadini italiani. In Italia, unico nei paesi “satelliti” della Germania nazista, il fascismo fu istitutore e gestore di “lager” sul proprio territorio nazionale, con l’impiego prevalente di proprio personale: la bibliografia ufficiale stima in 259 i campi di prigionia in Italia e gestiti con presenza prevalente di personale italiano: alcuni normali campi di detenzione, altri campi di smistamento in attesa della deportazione in Germania, come quello di Bolzano e Fossoli, in provincia di Modena; ma alcuni erano autentici campi di sterminio come la Risiera di San Sabba a Trieste, dove il tenore dei massacri era inferiore solo ai campi in Germania e in Polonia, molto più grandi e appositamente attrezzati.

E ci sarebbe tanto altro da aggiungere, ampiamente documentato: corruzione dilagante, dossier, lettere, minacce, accuse vere e false oscenità, inganni, arresti, ed anche ricatti. Un ventennio di ricatti! Gerarca contro Gerarca, amante contro amante, e l’accusa di omosessualità come arma politica. E Mussolini su tutto e su tutti fa spiare, controlla, punisce, muove le sue pedine.

le idee

ANTIFASCISMO - LETTERA AI SINDACI DELL’ADDA-MARTESANA

Con una lettera le sezioni ANPI dell’Adda Martesana chiedono ai primi cittadini di far sottoscrivere una dichiarazione di riconoscimento dei valori antifascisti a chiunque desideri organizzare manifestazioni in spazi pubblici

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elle ultime settimane nell’area della Martesana, e in altre zone della Lombardia e d’Italia, c’è stato un preoccupante proliferare di manifestazioni e presenze antidemocratiche, razziste e xenofobe, quando non apertamente neofasciste, che contrastano con i principi di democrazia, libertà, eguaglianza e dignità che sono il cardine dei valori della Costituzione. Per contrastare pericoli neofascisti espliciti o striscianti le sezioni ANPI dell’Adda Martesana chiedono alle amministrazioni locali di non concedere spazi a organizzazioni di ispirazione fascista, razzista e xenofoba, sollecitando chiunque faccia domanda di spazi pubblici a sottoscrivere una dichiarazione esplicita di riconoscimento dei valori antifascisti presenti nella nostra Costituzione. Per questo motivo le sezioni ANPI dell’Adda Martesana hanno spedito una lettera a tutti i sindaci dei Comuni di Basiano e Masate, Bellinzago Lombardo, Bussero, Cassano d’Adda, Cassina de’

Pecchi, Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola, Inzago, Pessano con Bornago, Pioltello, Pozzuolo Martesana e Truccazzano, Trezzo d’Adda, Vaprio d’Adda, Vimodrone. Nella lettera le sezioni ANPI chiedono alle Amministrazioni di impegnarsi in un lavoro culturale per promuovere la storia del ventennio fascista e della Resistenza e la conoscenza della nostra Costituzione, agevolando la collaborazione dell’ANPI con le scuole nel rispetto dell’accordo ANPI-MIUR. La Costituzione della Repubblica Italiana, struttura portante dello Stato e fondamento della convivenza civile, ha preso le mosse dalla Resistenza, dall’esigenza che in essa si manifestò di avere uno Stato democratico e antifascista, in cui prevalessero quei valori di libertà, uguaglianza, pace e solidarietà negati con violenza dal fascismo. Nonostante il lungimirante lavoro delle madri e dei padri costituenti, purtroppo si constatata che ancora oggi la Costituzione non ha trovato piena attuazione. In particolare l’antifascismo, inscritto nel DNA della nostra Carta, fatica a diventare un sentire diffuso e comune, soprattutto in questo momento storico di crisi economiche, sociali e culturali. Y Le Sezioni dell’ANPI Adda-Martesana

La prossima volta che vi imbattete in una immagine che inneggia alla saggezza del Duce e di come potrebbe essere la salvezza dell’Italia fatevi una ricerca sulla storia del fascismo. fine

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Cuore nero. Simone Di Stefano, neofascista capo di CasaPound


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L’Austria di oggi e i Su il fiore del partigiano

le storie - le idee

LA SVOLTA A DESTRA DEL PAESE TRANSALPINO, LA PROPOSTA DI DOPPIA CITTADINANZA E UN

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da patriaindipendente.it del 21 dicembre 2017

Claudio VerCelli

a formazione di un governo a Vienna di chiare tendenze nazionaliste, dove una parte delle forze politiche in esso presenti è connotata per l’appartenenza alla galassia della destra radicalizzata (a partire dall’inquietante Partito della Libertà di Heinz-Christian Strache), è un chiaro segnale dell’indirizzo che una parte sempre più consistente dell’Europa sta assumendo. In questa situazione, decisamente problematica, le dichiarazioni di alcuni esponenti politici austriaci riguardo alla possibilità di estendere la cittadinanza del loro Paese ai cittadini italiani di lingua tedesca, presenti nel Trentino-Alto Adige (quasi tutti residenti nella provincia di Bolzano), sta sollevando perplessità come anche molti timori. Non solo perché questi ultimi appartengono ad una minoranza linguistica e culturale fortemente agevolata dalle politiche dei governi italiani, quindi in condizione di oggettiva tutela, ma anche e soprattutto perché la pratica di riconoscere a cittadini di altre nazioni la propria cittadinanza (nel nome di una comunanza di radici “etniche” che scavalcherebbe i confini, potendo così mettere in discussione l’altrui sovranità), evoca immediatamente fantasmi recenti. Solo per fare un qualche parallelismo storico, senza stabilire ovviamente delle immediate equazioni, si pensi che tutta la politica espansionista di Hitler negli anni Trenta era stata basata sulla rivendicazione sia di uno «spazio vitale» per le popolazioni di lingua tedesca, sia sulla ricerca di vie di unificazione territoriale tra la Germania e le minoranze tedesche presenti in Europa, soprattutto ad Est. La vicenda dei «tedeschi dei Sudeti», la minoranza che viveva nell’allora Cecoslovacchia, paese che nel 1938 fu prima amputato di una parte dei suoi territori e poi definitivamente smembrato, costituisce un precedente significativo. I «Sudetendeutsche», circa quattro milioni, erano stanziati lungo la regione dei monti Sudeti, e le aree di confine dell’attuale Repubblica ceca, così come nelle cosiddette «Sprachinseln», le isole linguistiche delle regioni storiche di Boemia e della Moravia. Le enfatiche richieste di Hitler furono accettate, all’epoca, da un consesso di nazioni imbelli e da classi dirigenti europee incapaci di fare fronte alla crisi politica ma anche sociale in cui l’intero Continente stava scivolando. Hitler e Mussolini sapevano che il sistema di accordi diplomatici e di equilibri geopolitici nati con la fine della Prima guerra mondiale stava definitivamente tramontando. Giocavano d’azzardo ad alzare sempre di più la posta, fino ad arrivare ad una guerra che avevano già messo in conto. Oggi non abbiamo a che fare con dittatori, ma

non è meno vero che l’Unione Europa, l’istituzione collettiva che avrebbe dovuto governare i processi di integrazione e di globalizzazione a favore degli Stati che ne sono parte costitutiva, è non meno in crisi. Lo si era già visto una ventina di anni fa, dinanzi ai percorsi di disgregazione politica ed etno-nazionalista della ex-Jugoslavia. A fronte delle spinte alla segmentazione dei territori che, ancora una volta, come già era avvenuto nel 1914 e poi nel 1939-40, arrivavano da una parte dei Balcani, la risposta era stata non solo debole ma sospetta, rivelando inconfessabili calcoli d’interesse. Ogni Stato aveva portato avanti le proprie istanze, a partire dalla Germania, di fatto ostacolando i debolissimi tentativi di ricomposizione negoziata, per poi invece agevolare i movimenti indipendentisti. Anche questo è un inquietante precedente storico, a noi molto più prossimo, che deve indurci a riflettere. Dopo di che, in Italia, nel 1994, l’adozione di alcune norme sulla cittadinanza relativa agli ex cittadini italiani che, dopo il trattato di pace di Parigi del 1947 avevano continuato a risiedere nei territori che erano entrati a fare parte della Croazia jugoslava (nelle regioni dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia), aveva permesso a questi di riacquistare il passaporto, mantenendo la doppia cittadinanza. Ma si trattava, per l’appunto, o di persone che già erano state italiane oppure dei discendenti di primo grado, candidabili – però – solo se risiedenti nel nostro Paese da almeno tre anni. Radicalmente diverso, quindi, è il pronunciamento austriaco, che semmai segue il percorso che già negli anni scorsi l’Ungheria di Viktor Orbán – altro Paese nel quale l’autoritarismo è oramai un fatto compiuto, ovvero una chiara tecnica di governo – aveva intrapreso con il rifarsi al “magiarismo”, anch’esso inteso come una radice etnica profonda, al di sopra dei confini nazionali. Così come anche in Polonia e, più in generale, nei paesi del «gruppo di Visegrád» (la stessa Polonia, l’Ungheria, la Repubblica ceca e la Slovacchia), la cui alleanza diplomatica si ca-

ratterizza sempre di più per le posizioni espressamente regressive che va manifestando sul piano politico, istituzionale e civile.

Cosa sta succedendo, quindi? Il fascismo sta tornando in Europa? Procediamo per gradi, poiché la matassa è aggrovigliata e dinanzi all’evolvere delle cose è bene cercare di capire quali siano gli assi del mutamento politico che è in atto nel nostro Continente. Un primo dato da cui partire è che temi ed organizzazioni di natura populista, termine sotto il quale si raccolgono una pluralità di partiti e gruppi, riescono ad ottenere buoni riscontri elettorali un po’ ovunque. Ciò non li candida sempre e comunque all’essere, o al divenire, forze di governo, ma senz’altro li premia con un insediamento di consensi consistente. Se i loro esponenti non siedono sugli scranni dell’esecutivo sono tuttavia sempre più spesso tra coloro che si presentano come le autentiche forze di “opposizione” allo stato di cose esistente. Lo fanno non più solo come attori marginali, di piazza, ma anche e soprattutto in quanto soggetti parlamentari, con un robusto seguito di adesioni, quindi con un elevato grado di legittimazione. Di fatto, la destra populista europea sta dettando una parte dell’agenda politica collettiva, orientando il baricentro degli umori popolari e radicalizzandoli verso quegli obiettivi che da sempre sono quelli tipici dei movimenti fascistoidi: il rifiuto dell’immigrazione, dipinta come un’invasione; l’avversione contro le élite dirigenti tradizionali, denunciate come “traditrici dei popoli”; l’ostilità nei confronti degli istituiti democratici, rappresentati come inadatti dinanzi alla sfida dei tempi; l’esaltazione di un’appartenenza etnica che ha una profonda radice razzista e che nega alla radice il significato della moderna cittadinanza, basata invece non sulle origini di censo e di luogo ma sui diritti collettivi. Una tale destra, intimamente illiberale e antidemocratica, si presenta vestendo i panni di colei che libererà una volta per sempre i «popoli» dal cappio del «mondialismo», la parola con la quale stigmatizza gli effetti dei processi di globalizzazione. In realtà il suo obiettivo è quello di trasformare il conflitto sociale, ovvero il legittimo confronto tra interessi materiali ed economici contrapposti, in un conflitto etno-nazionalista. Anche da ciò, quindi, l’ossessione non solo per i confini, i muri, le linee di divisione da erigere contro le «invasioni» ma soprattutto l’esaltazione del vincolo etnico, la delirante e lucida fantasia per cui non si hanno diritti se non si appartiene al medesimo «popolo». Tale appartenenza deve essere intesa esclusivamente come di ceppo, di stirpe, di ancestrale origine. Quindi di razza. Il discorso della destra austriaca, in


deti di ieri

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INQUIETANTE PARALLELISMO STORICO

questi giorni, va in quel senso, al di là delle pallide rassicurazioni che i governanti di Vienna fingono di volere offrire. Qualcosa del genere, pur con tutti i distinguo che la storia ci impone, era già avvenuto negli anni bui del Novecento. Lo diciamo ponderando il giudizio, non per facile allarmismo. Lo diciamo per fare un esercizio di buona memoria. La forza di questa nuova/vecchia destra, ad oggi, è quella di capitalizzare a proprio favore il malcontento dilagante, i tanti disagi e i molti malumori che attraversano i Paesi europei. Così facendo, simula di volersi contrapporre alle tecnocrazie che invece accompagnano lo sviluppo del capitalismo contemporaneo, soprattutto laddove questo sembra presentarsi ed agire senza nessuna considerazione per gli effetti sociali delle scelte che va imponendo unilateralmente alle collettività.

Un secondo elemento da considerare è che gli elettori e i sostenitori di questo composito fronte di forze oltranziste, non si contano necessariamente tra coloro che di più e peggio hanno pagato dazio per la crisi, con i grandi cambiamenti che ne sono seguiti, in questi ultimi dieci anni. Votano infatti per i partiti del populismo segmenti di popolazione ed elettorati appartenenti a nazioni che non si trovano nelle peggiori condizioni. Il caso austriaco è, da questo punto di vista, emblematico. Non esiste, quindi, un’immediata equazione tra disagio socio-economico e scelta elettorale. Semmai, ciò che queste forze più e meglio riescono a captare e a tradurre in convincenti slogan, quindi di ampio richiamo, è la sensazione di smarrimento che una parte consistente della popolazione europea vive dinanzi a quello stato delle cose con il quale deve confrontarsi quotidianamente. Un tale riscontro deve indurre, già in sé, a riflettere su quanto stia per davvero avvenendo. Poiché indica che tali persone, spesso appartenenti ad un ceto medio in difficoltà, non si sentono rappresentate dei vecchi partiti. Parallelamente all’affermarsi del populismo e del radicalismo di destra, infatti, si misura la crisi, che in alcuni casi diventa un vero e proprio crollo, dei partiti riformisti, soprattutto di area socialista e socialdemocratica. Il comune denominatore tra questi ultimi è l’avere accettato, se non sposato, da almeno una ventina di anni le posizioni liberiste o comunque neoliberali, venendo meno a qualsiasi prospettiva autenticamente riformista. Anche qui, per meglio intendersi, va riscontrato che esiste un nesso tra la nascita, la crescita e l’affermazione del populismo di destra e la progressiva delegittimazione elettorale e politica di ciò che resta sia dei partiti della sinistra storica che dell’area centrista, di estrazione popolare. Le evidenti difficoltà di questi ultimi, la mancanza di strategie politiche incisive, l’abdicazione da un ruolo di direzione dei processi sociali, l’accettazione supina dell’«ideologia della morte delle ideocontinua a pagina 30 ➔

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Sebastian Kurz, il giovane leader austriaco. Nella pagina a fronte, in basso, militanti della formazione politica paramilitare magiara Jobbik

A Strasburgo per una diga antifascista europea L’ANPI provinciale di Genova e della Valle d’Aosta ha consegnato un documento da inoltrare a tutti i parlamentari

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da patriaindipendente.it del 21 dicembre 2017

e note di Fischia il vento e poi il canto di Bella Ciao, la musica del violino e della fisarmonica e le voci dei Trouveur Valdotèn, escono dalla bella sala del “Baeckhoffe d’Alsace” e si perdono nella sera di Strasburgo. C’è chi si ferma ad ascoltare e anche chi, in particolare i francesi, da alcuni tavoli si uniscono al canto. È una bella serata in cui si fanno forti il senso di comunità e i sentimenti antifascisti, nel cuore dell’Europa, a cavallo tra Francia e Germania, nella città che con il Parlamento europeo è simbolo di quell’Europa la cui costruzione è stata fortemente voluta dai leader dell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale. Ed è anche una bella serata che conclude la visita al Parlamento europeo – su invito della eurodeputata ligure Renata Briano del gruppo SD-Socialisti e Democratici – di una numerosa delegazione dell’ANPI provinciale di Genova e di quella della Valle d’Aosta, guidati rispettivamente dalla vicepresidente Arianna Cesarone e dalla presidente Erika Guichardaz. E, proprio durante la serata, l’ANPI genovese ha consegnato a Renata Briano e a Brando Benifei, anche lui parlamentare ligure del gruppo SD, un documento da inoltrare a tutti i rappresentanti – non solo italiani – che si riconoscano nello stesso impegno «contro i nazionalismi, gli egoismi e i razzismi» che si stanno profilando, sottolineando «l’urgenza di una svolta nella politica economica e sociale della UE, che non ha sufficientemente rilanciato l’economia del continente, determinando sacche pesantissime di impoverimento per decine di milioni di persone», una delle ragioni che hanno portato all’assalto di nazionalismi e populismi «con la rinascita in forme indirette di neofascismi e neonazismi». Cosa fare? Il documento portato da ANPI Genova, ricalcando le linee di quelli nazionali, propone di contrapporre a questa ‘onda nera’ la forza unitaria e compatta di chi crede nella democrazia, nella solidarietà e nei diritti umani: «Costruiamo presto, in Italia e in Europa, una diga antifascista che impedisca l’ulteriore, pericoloso sviluppo di questi orientamenti, movimenti e partiti che negano tutto ciò in cui fermamente crediamo». Necessari anche impegni della UE su una politica comune di accoglienza verso l’ondata migratoria

e sul mantenimento della pace nel mondo, tutti temi, conclude il documento, per cui «c’è bisogno, in sostanza, di un ritorno reale allo spirito del manifesto di Ventotene, perché un’Europa forte, unita e democratica può avvenire solo a condizione che sia l’Europa della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà e della pace». Quell’Europa dei padri fondatori che comunque si respira visitando il grande palazzo del Parlamento, la grande struttura a spirale che sembra incompleta nell’ordine più alto di vetrate a simboleggiare che c’è spazio ancora per nuove adesioni e nuova crescita. Ma alle porte dell’emiciclo in cui si svolgono le sedute parlamentari – a cui la delegazione ANPI ha potuto assistere dopo un’interessante conferenza sul funzionamento, ma anche i dubbi e i limiti dell’Unione Europea attuale – la sfilata delle bandiere inizia con quella stellata della UE e si conclude con l’Union Jack: la bandiera inglese che presto scomparirà dal palazzo. Un segnale negativo per un’Europa che invece ha così tanto bisogno di politiche comuni per poter affrontare le grandi sfide che la attendono in anni complicati. Sono tanti, specialmente giovani e giovanissimi, i gruppi che entrano nella grande struttura, che assistono alle sedute, cercano di capire cosa sia veramente l’Europa in una delle sue sedi chiave. Ma è anche l’occasione di ripercorrere la vita di una grande europeista come Simone Veil, uno dei volti che si incontrano di più nel Palazzo tra le immagini e i cartelloni che ne ripercorrono la vicenda personale e politica. Prima di riprendere la strada verso l’Italia, dopo un piacevole pomeriggio alla scoperta di Strasburgo, in particolare della «Petite France», l’affascinante centro storico affacciato sull’acqua, e la città moderna, dopo la serata allietata dalle musiche dei Trouveurs (la famiglia valdostana dei Boniface), resta un impegno, preso con gli europarlamentari, ad avere un contatto più «europeo», anche attraverso l’ANPI, per meglio conoscere le istituzioni europee, sia con viaggi di informazione sia attraverso incontri sul territorio. Per capire come il Palazzo-simbolo possa crescere ancora e non perdere dei pezzi lasciando spazi aperti a chi vuole distruggerne anche la ragione fondamentale, stare insieme contro ogni Y nazionalismo. Donatella Alfonso giornalista di Repubblica e scrittrice


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il fiore del partigiano

le idee

➔ segue da pagina 29 logie», quella che dice che lo stato delle cose non può essere cambiato e va quindi accettato per come si presenta, decreta l’ininfluenza e poi l’inutilità di formazioni politiche che dichiarano di volere ancora governare ciò che, nei fatti, accettano invece come immodificabile. Si tratta di una crisi trasversale, che colpisce la vecchia e residua sinistra, sempre più lontana dai temi del lavoro, così come i centristi e i popolari, a loro volta in affanno, non essendo più percepiti come il perno della stabilità. Peraltro, gli stessi temi della «stabilità» e della «moderazione» oggi non hanno più la risonanza, l’eco e il consenso che anche solo un decennio fa potevano ancora raccogliere. Gli elettori si sono fatti insoddisfatti ed inquieti, radicalizzandosi nelle loro scelte: premiano, quindi, coloro che ne sanno rappresentare i malumori e i timori per un futuro a venire che si è fatto incerto. Poco o nulla serve il dire all’elettorato che un voto di questo genere rischia di rivelarsi non solo illusorio ma controproducente se non addirittura avvelenato. Poiché l’alternativa ad esso, ovvero il continuare a dare il proprio consenso ai vecchi partiti, è comunque percepito dai molti come una sorta di autoinganno. Perché offrire un assenso a forze politiche tradizionali che hanno già dimostrato di non potere, né forse volere, gestire i cambiamenti in atto?

Dalla crisi della politica il fascismo di sempre, quello del passato e del presente, prende forza e vigore. Di essa, infatti, si alimenta come falsa alternativa, come illusoria risposta, come semplificazione e banalizzazione della complessità dei tempi difficili. Simula d’essere un nuovo orizzonte, la luce oltre il tunnel, quando invece costituisce la tomba del futuro. Il vero innesco della grandi difficoltà odierne è il senso di abbandono, dinanzi ai problemi quotidiani, che non pochi europei stanno condividendo, non trovando altra convincente rappresentanza che non sia quella offertagli dal radicalismo di destra o dai populismi. La crisi è sociale, mettendo in discussione la prospettiva di un’esistenza serena a venire, ma diventa da subito anche di natura politica quando il disagio collettivo non trova interlocutori tra le classi dirigenti. Dalla persistenza e dal ripetersi di questo drammatico scollamento, se non si porrà un qualche rimedio ad esso, potranno derivare solo drammi collettivi. La storia non si ripete, ma certi suoi elementi si ripresentano tragicamente. Siamo ad un bivio, oltre il quale il rischio che ciò che resti del progetto europeo cada nel baratro, consegnando le nazioni ad un sovranismo aggressivo e antidemocratico, sta dietro l’angolo. La prima lezione che ci arriva da un’Austria sempre più grigia, se non nera, è questa. Sarebbe bene non doverne ricevere una seconda per capire quale sia l’antifona. Y Claudio Vercelli storico – Università cattolica del Sacro Cuore

Una mobilitazione culturale contro il neofascismo

IL FASCISMO E LO STESSO NAZISMO SEMPRE PIÙ POPOLARI

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da Left del 15 dicembre 2017

FiliPPo FoCardi*

a un sondaggio fatto nel 2002 per Samarcanda, la trasmissione tv di Santoro, risultava come almeno il 25% dei giovani italiani esprimesse un giudizio positivo sul fascismo e su Mussolini. Mentre solo il 3% si pronunciava in termini favorevoli su Hitler e sul nazismo. Recenti sondaggi indicano che circa il 6% dei giovani italiani esprimono intenzioni di voto a favore dei nuovi movimenti neofascisti come CasaPound (4,7%) e Forza nuova (1%). L’area di consenso della destra estrema risulta però più larga, soprattutto per il successo che riscontrano certe idee e parole d’ordine che denunciano l’immigrazione come minaccia alla società italiana e l’esigenza di difendere i “nostri” valori tradizionali, morali e religiosi. Se si rifacesse ora un sondaggio, focalizzato sul giudizio su fascismo e nazismo, credo avremmo gli stessi risultati, già allora preoccupanti (un quarto degli intervistati esprimeva un giudizio positivo sul fascismo). Ma risulterebbe cresciuto probabilmente di qualche punto anche il gradimento verso il Führer e il Terzo Reich. Il quadro è molto allarmante. Non solo si assiste ad un crescendo di atti di intimidazione e violenza di matrice neofascista, ma il ritorno del neofascismo sulla scena è contrassegnato da un salto di qualità inquietante: mentre negli anni dei governi di centrodestra era stato alimentato dalla riemersione di un anticomunismo vintage veicolato dalle correnti revisioniste, oggi è alimentato dalle paure e dai sentimenti di ostilità e rigetto nutriti verso gli immigrati da settori consistenti della società, impoveriti dalla crisi e sobillati dalla destra, non solo quella estrema. La mobilitazione del neofascismo, in sintonia con quanto sta avvenendo nel resto d’Europa, si tinge così di una forte connotazione razzista e xenofoba (la lotta contro la presunta «sostituzione etnica» degli italiani). E non stupisce che ciò riporti in auge anche il retaggio del nazismo, coi suoi famigerati progetti razzisti di costruire la «fortezza Europa». Siamo davanti insomma a veri propri movimenti nazifascisti, con una preoccupante capacità di penetrazione fra i giovani. Che fare dunque? Non basta l’azione sul piano legislativo né quella della magistratura e delle forze dell’ordine, da sollecitare certamente ad una vigilanza più attiva. La permeabilità di tanti giovani, e non solo, al richiamo delle sirene del passato è legata a

un terreno favorevole costituito da una percezione sociale del fascismo, superficiale, benevola e assolutoria. Il revisionismo, dagli anni ’80 in poi, ha rilanciato vecchi clichés che già abbondavano sui rotocalchi del dopoguerra che ritraevano il fascismo come una dittatura bonaria, con una dose massiccia di retorica e teatralità ma a basso tasso di violenza e repressione. Usando un metro di giudizio comodo ma fuorviante, si tende a giudicare il fascismo comparandolo al nazismo e attribuendo solo a quest’ultimo nefandezza ideologica e vocazione criminale. Anzi, non si esita spesso ad ascrivere al fascismo meriti storici come la bonifica delle paludi o l’arrivo dei treni in orario, che spiegherebbero il presunto consenso degli italiani al regime. «Bravi italiani» contro «cattivi tedeschi». È una visione banalizzante e falsa che priva il fascismo delle caratteristiche liberticide, oppressive e criminali che storicamente ha avuto. Nella fase di avvento al potere, dal 1919 al 1922, le camicie nere hanno fatto più morti che non le camicie brune naziste prima dell’arrivo al potere di Hitler. Ed è sufficiente ricordare l’impiego di agenti chimici in Etiopia, i lager di Graziani in Libia o i crimini commessi in Jugoslavia e in Grecia per abbandonare il comodo alibi degli «italiani brava gente». Ovviamente differenze ci furono (gli italiani – spesso, non sempre – salvarono gli ebrei, i tedeschi li sterminarono), ma finora sono state messe in evidenza per coprire le nostre colpe. Occorre dunque prendere “sul serio” il fascismo e farci i conti senza comodi alibi, riconoscendolo per ciò che è stato: un movimento e un regime ipernazionalista e razzista, fondato sul culto del capo, della gerarchia, della violenza e della guerra (l’Italia di Mussolini è in guerra fin dal 1935 con l’invasione dell’Etiopia!), nemico non solo del comunismo, ma anche del liberalismo e della democrazia, dei principi della rivoluzione francese… Come tutti i totalitarismi, il fascismo è stato anche una «dittatura del welfare», dispensando lavoro e dopolavoro, pensioni e assicurazioni. Ma questo non cambia la sua natura. Serve in definitiva una coraggiosa mobilitazione culturale, non solo della scuola e dell’università ma di tutte le istituzioni e dei media, a cominciare dalla Tv, per costruire nella società italiana un nuovo senso comune storico del fascismo, una coscienza critica che sappia fare da argine al ritorno dei fantasmi del passato. Y

*docente di storia contemporanea presso l’Università di Padova


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«Bisogna sciogliere le organizzazioni, come fu con Ordine nuovo» il fiore del partigiano

GeNNAIo 2018

le idee

INTERVISTA ALLA PRESIDENTE DELL’ANPI CARLA NESPOLO

da il manifesto del 10 dicembre 2017

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mario di Vito

redappio è solo il luogo natale di Mussolini, non ha significato nella Resistenza. Non siamo contro un centro studi sul fascismo, ma siamo preoccupati dal fatto che si faccia proprio lì». La presidente dell’Associazione nazionale partigiani italiani Carla Nespolo è reduce dalla manifestazione antifascista di Como. Stanca ma abbastanza soddisfatta dalla buona (e non scontata) partecipazione registrata, non si risparmia nel commentare la prossima realizzazione del «Progetto Predappio» nell’ex Casa del Fascio del paesino in provincia di Forlì.

Nespolo, il progetto va avanti malgrado la vostra contrarietà. Noi pensiamo che un centro di studi storici sia sempre un’opera utile, anche se voglio specificare che in nessun modo siamo stati coinvolti nella faccenda di Predappio, né da un punto di vista scientifico né da un punto di vista politico. Comunque, questo risorgente fascismo che stiamo vedendo all’opera negli ultimi tempi nasce da una mancanza di conoscenza del Ventennio. Quindi, benvenga un centro studi. Però temo che la scelta di localizzarlo a Predappio significherebbe non farne un luogo di conoscenza, ma di agiografia: il paese è già da tempo meta di pellegrinaggi fascisti, per così dire. Un museo del genere si può fare anche altrove: a Milano, a Roma, a Torino, sulla Linea Gotica… A Predappio c’è solo la casa natale di Mussolini, tutto qui. È un’operazione che non ci piace né ci convince. Intanto a Como la manifestazione antifascista sembra comunque

«Un centro di studi storici è sempre un’opera utile, ma mi preoccupa che sia fatto proprio a Predappio. Il rischio è farne un luogo di agiografia. Ma noi non siamo stati coinvolti nella faccenda» essere riuscita a smuovere molte persone. È stato un bel momento, colorato e plurale. Però non deve essere un fatto isolato. Spero che sia l’inizio di un percorso che porti alla piena attuazione della Costituzione. L’abbiamo difesa l’anno scorso ai tempi del referendum, e adesso vogliamo che venga applicata. Perché, fa sempre bene ricordarlo, l’Italia è un paese antifascista, così come lo è la sua carta costituzionale.

Che fare? Serve una grande operazione culturale:

bisogna far sapere ai giovani cosa è stato il fascismo, perché è dall’indifferenza che nascono i totalitarismi e le dittature. Bisognerebbe anche sciogliere le organizzazioni fasciste: ci sono delle leggi e dei precedenti storici, penso a quando negli anni ’70 fu messo fuori legge Ordine Nuovo. Servono scelte chiare da parte di un fronte comune molto ampio: no alla violenza fascista, no al razzismo. Chiediamo al governo di intervenire. Ecco, la piazza di Como è stata convocata dal Pd, che è al governo e che, ad esempio, negli ultimi mesi ha promosso politiche molto dure sull’immigrazione. Uno degli interventi che mi è piaciuto di più è stato quello di una ragazza di Como Senza Frontiere, che ha espresso parole dure sul decreto Minniti. Alla manifestazione c’erano tanti ministri del Pd, sono convinta che abbiano capito quali fossero le istanze della piazza: contro il razzismo e per l’accoglienza.

Negli ultimi tempi i rapporti tra Pd e ANPI sono, per così dire, talvolta tesi. Dopo essere stati a manifestare insieme, bando alle polemiche? Non mi sento assolutamente di dire «bando alle polemiche». L’unità di intenti vuol dire anche che tra di noi dobbiamo dirci la verità: quando c’è da fare critiche, noi non abbiamo problemi a farle, né ci risparmieremo in futuro. Bisogna arginare questo nuovo fascismo, che cresce anche grazie alle divisioni degli antifascisti. Ma, ci tengo a ribadirlo, non nasconderemo mai le nostre opinioni: non l’abbiamo fatto con il referendum costituzionale, non l’abbiamo fatto con il pacchetto Minniti. Continuiamo, ad ogni modo, a lavorare per un grande fronte comune antifascista, cercando punti di contatto con tutti. Come ai tempi della Resistenza. Y


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il fiore del partigiano

Addio al partigiano che salvò Ivrea

le persone - la Storia

GRAZIE AL SUO PUGNO DI PARTIGIANI, IVREA FU RISPARMIATA DAI BOMBARDAMENTI ALLEATI

È morto a Ivrea Amos Messori (96 anni) eroe della resistenza, vice comandante della Brigata Giustizia e Libertà del Canavese

da il manifesto dell’11 gennaio 2018

«I dI

FiliPPo Senatore

l fiume Dora deborda dagli argini, la pioggia insistente e il vento scendono impetuosi della montagna. Undici uomini affrontarono la sfida. Non era una partita di calcio ma un’operazione bellica per salvare la città. Cinque uomini si dispongono all’imbocco della galleria dalla parte di Montalto Dora. Sotto il cavalcavia, vicino alla Villa Demaria, la sede del comando tedesco, rimangono Nuccio e Pettirosso. Alimiro e D’Artagnan sono sul ponte a mettere le cariche al plastico». Così mi racconta il protagonista Amos Messori. Che ho avuto la fortuna e il piacere di conoscere. La storia risalente alla vigilia di Natale del 1944 rinasce in tutta la sua crudezza ed emozione nel novembre del 2014. Dopo più di sessanta anni tutto sembra cambiato a Ivrea ma il percorso dalla montagna al fiume è lo stesso, quello della brigata Giustizia e Libertà «Rosselli». Giovani coraggiosi guidati da Mario Pelizzari (Alimiro) e dal suo vice Messori detto D’Artagnan per via dei capelli lunghi come lo spadaccino guascone di Dumas. Messori è nato a Correggio e si trovava nel Canavese nell’aeronautica militare dopo l’otto settembre del 1943. Pelizzari è nato nel 1907 a Pescarenico luogo manzoniano. Trasferitosi a Ivrea lavora da tempo in Olivetti e anche lui come Amos era salito in montagna. Ma torniamo a quel freddissimo dicembre del 1944. La brigata ha preso contatto con la Missione Alleata. Alimiro incontra gli ufficiali in-

glesi MacDonald, Amoore e il capitano Eugenio Bonvicini (detto il Carmagnola, tanto per stare nel linguaggio di Don Lisander) Gli inglesi vogliono bombardare il ponte ferroviario e la città di Ivrea per interrompere le forniture belliche della Cogne di Aosta dirette in Germania. Ciò comporterebbe la strage dei civili. Pelizzari propone un piano alternativo che per gli Alleati è impossibile. Il suo fervore religioso mazziniano lo guida verso una missione impossibile evitando inutili spargimenti di sangue. Lui e la sua brigata saranno gli unici protagonisti. Amos Messori ricorda di avere fatto un sopralluogo pochi giorni prima dell’operazione con Alimiro per studiare il sabotaggio del ponte. Anche loro erano increduli ma osarono. «Pettirosso, Nuccio e Sparito sono andati a caricare il plastico presso la Missione inglese nel Biellese. Con il Carmagnola abbiamo preparato i blocchi e tutti i pezzetti di filo detonatore per eliminare il lavoro da fare sul posto». Le possibilità di riuscita sono pochissime. La città è piena di posti di blocco. Alla caserma Valcalcino a pochi metri dal ponte vigilano le sentinelle della X Mas. I partigiani arrivano dai vicoli per evitare i presidi armati. Fuori dal comando tedesco c’è un cane lupo che fortunatamente non abbaia. Cinque uomini si dispongono all’imbocco della galleria dalla parte di Montalto Dora. Sono Gino Barbieri(Gim), Franc, Carlo, Lapis e Armando Stratta. Sotto il cavalcavia stradale, vicino alla Villa Demaria, la sede del comando tedesco rimangono Nuccio e Pettirosso. Sparito e Ful-

Amos Messori, D’Artagnan, eroe della resistenza

mine vigilano sulla ferrovia. Alimiro e D’Artagnan sono sul ponte a mettere le cariche del plastico. Da provetti funamboli minano le putrelle evitando di cadere nel fiume gonfio di marosi e freddissimo. I partigiani giellisti hanno atteso il calare della luna piena per agire nell’oscurità. Il comandante partigiano dice ai suoi: «Loro non sanno quanti siamo. Se ci scoprono sono costretti ad avanzare e perciò voi sparate solo quando sono vicini per evitare che individuino le postazioni». Alimiro e D’Artagnan dopo l’operazione si allontanano con la brigata. Le cariche devono esplodere dopo 30 minuti esatti. Passa la mezz’ora e non accade nulla. Alimiro vuole tornare indietro da solo per controllare cosa non ha funzionato. Messori sa che Pelizzari ha moglie e figli mentre lui è scapolo. «Vado io» – dice D’Artagnan –. Non finiscono di discutere che si ode la deflagrazione. La città è salva! Qualche anno dopo Piero Calamandrei definì l’episodio di Ivrea «un eroismo di ingegneria partigiana, un capolavoro di calcolato eroiY smo».

Dalla scuola ai quartieri: chiudiamo spazi al neofascismo

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Roma, 4 gennaio 2018

ome Rete della Conoscenza, Unione degli Studenti e Link - coordinamento universitario aderiamo convintamente all’appello «Mai più fascismi». Quanto accaduto nelle ultime settimane ha palesato l’urgenza di una forte risposta antifascista collettiva: dai fatti di Como alle reiterate violenze in diverse città dell’Emilia Romagna e non solo, arrivando all’incendio di pochi giorni fa nelle Marche in una palazzina che avrebbe dovuto ospitare minori stranieri non accompagnati. Sempre più nelle città, nelle scuole e nelle uni-

versità formazioni anche dichiaratamente neofasciste prendono piede, cavalcando le condizioni materiali in netto peggioramento di una larghissima fetta di popolazione per la quale non esistono lavoro, istruzione, tutele e diritti. All’alba di una campagna elettorale nella quale gli attacchi a migranti e poveri in nome della difesa del decoro saranno all’ordine del giorno, non possiamo accettare che partiti e liste di chiara ispirazione fascista possano liberamente presentarsi e propagandare odio, razzismo, discriminazioni e violenza. Non possiamo accettare che questi soggetti continuino ad avere spazi nei quartieri: è necessario sciogliere tutte le or-

ganizzazioni neofasciste, politiche e sociali, chiuderne le sedi e mettersi al lavoro perché non sussistano le condizioni che ne hanno permesso la crescita, rivendicando welfare, accesso alla formazione, lavoro di qualità, lotta alla povertà, diritti per tutte e tutti. È una battaglia che si gioca su tanti terreni: come soggetti in formazione sappiamo che proprio da scuola e università si può partire con la pratica di antifascismo quotidiano per ribadire che non lasceremo nessuno spazio a questi soggetti. Y Rete della Conoscenza Unione degli Studenti Link - coordinamento universitario


Nessuno può ignorare queste accuse il fiore del partigiano

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le idee

AMNESTY- L’EUROPA COLLABORA CON CHI COMMETTE CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ

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da il manifesto del 13 dicembre 2017

aleSSandro dal lago

he cosa dirà ora Minniti? Ma dirà qualcosa? O farà spallucce, come qualche giorno fa, quando l’Onu ha pesantemente criticato l’Italia per gli accordi con La Libia? E Gentiloni? Farà finta di nulla? Proprio lui che è appena tornato da un tour in Africa, dove ha promesso investimenti in cambio di un freno all’emigrazione? Le accuse di Amnesty International, diffuse ieri nel rapporto La rete oscura libica della collusione e riprese da tutta la stampa, sono terribili e circostanziate. I governi europei, tutti i governi dell’Unione europea, sono consapevolmente complici degli abusi e dei crimini commessi dalle autorità libiche su decine di migliaia di migranti detenuti illegalmente in Libia. I governi europei conoscono le spaventose condizioni di internamento dei migranti, e quindi sanno di stupri, torture e uccisioni (e ci mancherebbe, con tutti i servizi segreti e le forze speciali che operano in Libia). Inoltre, collaborano al sofisticato sistema di sfruttamento dei rifugiati e dei migranti. Non si tratta solo di collaborazione indiretta, ma di sostegno attivo, come nel caso della Ras Jadir, la nave donata dall’Italia alla Guardia costiera libica e responsabile di una manovra che ha portato, nel novembre 2017, all’annegamento di un numero imprecisato di migranti. Gli europei hanno allestito il grottesco sistema Frontex, che si occupa di pattugliare le frontiere terrestri e marine dell’Unione e che ha ritirato le sue navi nei porti, per timore che salvassero qual-

cuno. Hanno elargito quattrini all’Italia, diverse centinaia di milioni di Euro, per fare da sentinella marina e gestire i rapporti con i libici, proprio come avevano finanziato Erdogan per riprendersi i profughi siriani e internarli in campi le cui condizioni disumane sono note. Gli europei, insomma, hanno attuato una strategia di contenimento e dissuasione delle migrazioni che arriva fino alla connivenza attiva con torturatori e criminali di guerra (e di pace). Ora, se l’Europa collabora direttamente con chi commette crimini contro l’umanità, è responsabile di crimini contro l’umanità. Non giriamo intorno alla questione. Le accuse di Amnesty contengono accuse che da noi nessuno può ignorare.

Aste di schiavi a Tripoli

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ancano solo le catene», commenta la giornalista afro-americana della Cnn che ha messo a segno uno scoop internazionale sul ritorno del mercato degli schiavi in Libia secondo metodi che sembrano ricalcati dal film Django Unchained senza però la fine catartica di Tarantino. Il video, evidentemente girato con un cellulare e acquistato dalla giornalista, mostra i volti sgomenti dei due ragazzi nigerini venduti all’asta e reclamizzati come esemplari forti, adatti a lavori pesanti come quelli agricoli. Immagini riprese in una notte dell’agosto scorso, sulla base delle quali la giornalista della Cnn ha poi cercato conferme e girato interviste nel centro per migranti Treeq Alsika di Tripoli gestito dalle autorità ufficiali di Tripoli. È riuscita anche a filmare da lontano un’altra asta di carne umana viva, sempre alla periferia della capitale libica. un mercanteggiamento veloce, sempre di notte, dentro un compound illuminato e presidiato da un guardiano in tuta mimetica di cui non è stata inquadrata la faccia. Y

Non lo può fare il governo, che deve dare una riposta e subito, perché è primo attore della strategia libica. Non lo può fare il presidente della Repubblica, che è garante anche del trattamento degli esseri umani coinvolti dalle politiche migratorie italiane. E non lo può fare la magistratura, che ha il dovere di intervenire sull’azione del governo se ha notizia di reati. Finora, alcuni magistrati inquirenti si sono mostrati solerti e loquaci solo quando si trattava di accusare le Ong di collusione con i trafficanti, dando la sensazione di agire a sostegno del governo. Come i procuratori di Trapani che hanno sequestrato la nave Juventa della Ong Jugend Rettet. O come il mitico procuratore di Catania Zuccaro, che ha accusato ripetutamente le Ong di accordi con gli scafisti, per dire poi che non aveva prove e che le sue erano mere «ipotesi di lavoro». Noi, come manifesto queste cose le scriviamo, le diciamo e le denunciamo da sempre. E vorremmo sapere che ne pensa il presidente Grasso, ora che è un leader politico nazionale della sinistra e su queste tragedie dovrà misurarsi non più solo in chiave istituzionale come ha fatto finora, ma di movimento. Soprattutto che cosa ha da dire l’ex presidente del Consiglio Renzi che voleva «aiutare i migranti a casa loro». E che ha da dire l’onorevole Di Maio, il giulivo candidato premier dei 5 Stelle, che ha attaccato le Ong come «taxi del mare». E ora ci appelliamo a chi non è obnubilato dalla paura dell’invasione degli stranieri perché si faccia sentire e alzi la voce. Perché, se il nostro Paese si rende responsabile di crimini contro l’umanità e noi stiamo zitti, anche noi siamo corresponsabili. Y


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Perché il piano dell’Onu in Libia non funziona il fiore del partigiano

le idee

MIGRANTI - L’OIM CALCOLA DAI 700MILA A 1 MILIONE I MIGRANTI PRIGIONIERI IN

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da il manifesto del 13 dicembre 2017

GUIDO VIALE

ei prossimi mesi l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, agenzia dell’Onu, evacuerà (se ci riesce) 15mila profughi detenuti nella Libia di Serraj. Costo previsto, 80 milioni: 5.300 euro a testa. L’Oim calcola che imbottigliati o imprigionati ci siano da 700mila a un milione di migranti. Evacuarli tutti costerebbe dunque da 37 a 50 miliardi. Ma a quei profughi il viaggio è costato spesso anche di più, con i riscatti pagati dalle famiglie per salvare quelli di loro sotto tortura. Drammatiche somme, a cui vanno aggiunti i 660mila profughi sbarcati in Italia dal 2013. Tutto questo ci dà la misura del drenaggio dai paesi di origine: a beneficio di mafie e bande armate. Ma per raggiungere e rimpatriare tutti quei prigionieri bisognerebbe fare un’altra guerra: contro le centinaia di bande a cui la precedente guerra contro Gheddafi ha consegnato il paese. I trasferimenti, assicura l’Oim, saranno volontari. Ovvio: ma verso dove? Di 50mila, considerati profughi perché provenienti da Stati “insicuri” (Somalia ed Eritrea), di occuperà l’Unhcr: destinazione, uno Stato dell’Unione europea; ma nessuno li vuole. Tutti gli altri, considerati “migranti economici”, perché provenienti da Stati considerati “sicuri”, anche se attraversati da conflitti sanguinosi (in alcuni casi combattuti anche da truppe europee), dovrebbero venir rispediti in quei paesi da cui sono scappati. E che ne faranno,

libia. Migranti nel centro di detenzione di

di quei loro sudditi, i governi a cui l’Oim li vorrebbe restituire? Nei 5.300 euro è compreso, in teoria, anche il costo del loro reinsediamento e del loro avviamento al lavoro. E con quali programmi? Quelli spacciati dall’Unione europea, il migration compact di Renzi, l’action plan della conferenza de La Valletta, il “piano Marshall per l’Africa” ventilato ad Abidjan. Tutti piani che hanno per referenti delle multinazionali (Renzi, per esempio, indicava esplicitamente Eni ed Edf, impegnate nella devastazione, rispettivamente, di Nigeria e Niger): per trasferire attività industriali, costruire infrastrutture, “valorizzare” risorse locali: cioè continuare a saccheggiare quei territori come hanno fatto finora; e come la Cina sta dimostrando di saper fare molto meglio. Tutto ciò, anche se venisse fatto, non cambierebbe le ragioni che spingono milioni di persone a fuggire dalle loro case, migrando in gran parte non verso l’Europa, ma verso altre regioni o altri Stati africani confinanti. Più facile che quei fondi vengano impiegati nella costruzione di nuovi campi di concentramento, trasferendo più a sud una parte degli orrori della Libia. Per risanare quelle terre e quelle comunità non ci vogliono “grandi opere”, ma nuovi protagonisti: abitanti e comunità locali messe in grado di intervenire, con lavori di bonifica, risanamento e pacificazione, su territori e tessuti sociali che loro conoscono bene, perché vi hanno vissuto per centinaia di anni. Magari aiutati da qualche scaglione di migranti desiderosi di ritornare nei paesi che hanno lasciato, dopo qualche anno o decennio passato in Garian Europa, e con bagagli di co-

libia. Come schiavi. Sotto, il centro di Misurata

noscenze, relazioni e professionalità acquisite nell’emigrazione. Tutto ciò, a condizione che torni la pace in quei territori; che vuol dire: smettere e impedire di vendere armi a chi sta facendo la guerra e mettere i cittadini espatriati di quei paesi in grado di organizzarsi e di mettere a punto dei piani di pacificazione dei territori da cui sono fuggiti, invece di trattarli come intrusi e scarti umani. Nessuno è più pacifico di chi fugge da una guerra; nessuno sa affrontare meglio i problemi di un ritorno a una convivenza pacifica tra i nemici di ieri. Forse che molti dei profughi siriani non sarebbero capaci di partecipare alla ricostruzione del loro paese? I governi europei non hanno una strategia perché non sanno più dare lavoro, casa e servizi nemmeno a un numero crescente di loro concittadini; e perché sono tutti lanciati all’inseguimento delle forze di destra e razziste che del respingimento hanno fatto la loro sirena elettorale. Ma quei respingimenti tanto invocati e mai spiegati non funzionano: li ha messi in pratica Minniti, con il plauso di Salvini, Meloni e dei loro seguaci; e si è visto che non risolvono niente: aumentano solo i morti e le violenze. Chi invece si schiera per l’accoglienza cerca


il fiore del partigiano LIBIA

«Qui vogliamo i migranti»

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GeNNAIo 2018

le storie

MOLISE - RIPABOTTONI, IL BORGO DELL’ACCOGLIENZA

D dI

spesso di rendere accettabile questa scelta ridimensionando il fenomeno: in fin dei conti «sono pochi», l’Europa avrebbe tutte le possibilità, e anche l’interesse, a integrarli. Sono sì pochi; ma sono l’avanguardia e la manifestazione di un processo epocale. I profughi ambientali e climatici, e le vittime delle guerre provocate da quei dissesti, non sono pochi; sono milioni; e saranno sempre di più; e nessuno riuscirà a fermarli. Per questo si deve e si può lavorare alla loro accoglienza e inclusione, ma anche per mettere in condizione quelli che lo desiderano di far ritorno nel loro paesi. A rispondere a un problema che è di ordine secolare può contribuire solo la consapevolezza che l’Europa, il Medioriente e l’Africa centro-settentrionale sono ormai un unico mondo con al centro il Mediterraneo; e che è interesse di tutti garantire una libera circolazione. In modo che, dopo un periodo più o meno lungo di permanenza all’estero, tutti, profughi e migranti, di ieri, di oggi e di domani, siano messi in grado di ritornare, se vogliono, nelle loro terre. E viceversa. Abbiamo anche tanto da imparare da popoli e culture che continuiamo invece a trattare come se fosY sero ancora delle colonie.

ripabottoni. Cittadini mobilitati con i migranti

La prefettura di Campobasso ordina il trasferimento di 32 richiedenti asilo da Ripabottoni. «Sono bene integrati», replicano gli abitanti da il manifesto del 14 gennaio 2018

Serena gianniCo

on Gabriele Tamilia è uno che a 74 anni non le manda a dire. L’ha scritto e firmato personalmente il manifesto che dispensa bacchettate contro l’ingiustizia che si è consumata a Ripabottoni, borgo situato a 695 metri d’altitudine, in provincia di Campobasso. Qui, dice lui e dicono i suoi compaesani, lo «Stato è intervenuto a rovinare un bell’esempio di integrazione». Questo piccolo centro – 553 abitanti ufficiali, ma circa 450 residenti effettivi – è in subbuglio. Fino all’11 gennaio scorso, nell’ex caserma dei carabinieri di corso Garibaldi, trasformata in Centro d’accoglienza straordinaria (Cas) c’erano trentadue migranti. «Erano arrivati nel 2016 – racconta il parroco – e, allora, c’era stata una petizione contro… Non li volevano. Ma poi – rammenta – i facinorosi si sono calmati. E l’esistenza è ricominciata a scorrere placidamente». Fin troppo, in una realtà minuscola, che – evidenzia il sacerdote – «è falcidiata dallo spopolamento, che è disagiata e dove il lavoro non c’è e non si trova». Gli extracomunitari ospitati dal Centro gestito dalla cooperativa Xenia sono, a mano a mano, entrati in simbiosi con le abitudini e la vita del luogo. E hanno portato una ventata di nuovo: hanno rinforzato la locale squadra di calcio, arrivata con loro a 12 tesserati, e pure le fila del coro polifonico. Tutti d’amore e d’accordo. «Si sono inseriti nelle nostre due comunità cristiane – dice don Gabriele -, quella cattolica e protestante, e nelle rispettive attività. In tanti si sono adoperati con diverse forme di aiuto. Ottimi rapporti, insomma…». Avrebbe potuto finire con un fiabesco… «e vissero felici e contenti». «Invece – spiega Domenico Piedimonte, poliziotto, capogruppo d’opposizione consiliare in Comune – nei giorni scorsi, già annunciata da altri precedenti documenti di fine 2017, è arrivata una nota della Prefettura che ha ordinato il repentino smantellamento del Cas, con l’immediato trasferimento dei suoi ospiti». Il paese, a questa disposizione, si è ribellato. Si è risentito. Ma come? «Lasciateci i migranti…», ed è stata bailamme. «In breve – riprende Piedimonte – abbiamo raccolto 150 firme e organizzato un sit in di protesta contro il provvedimento di chiusura e contro lo spo-

stamento dei giovani africani. Siamo corsi in Prefettura a consegnare la petizione, ma nessuno ci ha ricevuto, adducendo il fatto che avremmo dovuto prima chiedere un appuntamento via mail». Più d’uno ha additato il sindaco, Orazio Civetta, eletto a capo di una lista civica, per l’accaduto. Sul territorio, oltre al Cas, c’è uno Sprar e le solite malelingue giurano che due strutture, per il primo cittadino, fossero davvero troppe e che quindi abbia premuto per l’eliminazione di una di esse. Ma lui spiega così la vicenda: «A marzo del 2017 – attacca – tutti i sindaci sono stati convocati in Prefettura e ci è stato spiegato che occorreva mobilitarsi per l’accoglienza, perché era emergenza. L’amministrazione che rappresento ha sposato subito l’idea dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Un progetto, da più di un milione, portato avanti dalla coop Koiné, e che è diventato realtà: attualmente abbiamo 12 minorenni. Con l’attivazione dello Sprar, – sottolinea Civetta – è scattata la ‘clausola di salvaguardia’ che rende esenti dall’attivazione di “ulteriori forme di accoglienza” quei Comuni che appartengono alla rete Sprar o che hanno manifestato la volontà di aderirvi». Così il Cas, preesistente, è stato scalzato e «giovedì scorso – fa presente Piedimonte – i migranti, all’improvviso, sono stati caricati sui pullmini, tra le lacrime e il dissenso collettivo, e portati via, in paesi come Petacciato, Montecilfone, Portocannone e Roccavivara. Da sottolineare – e forse stavolta a parlare è la sua divisa – che non avevano mai creato problemi di ordine pubblico. E non va scordato che, con la dismissione del Centro d’accoglienza, in 16 restano disoccupati». «Ma non è colpa di nessuno», tiene a puntualizzare il sindaco. Il più incavolato resta don Gabriele che, sulla facciata della chiesa dell’Assunta, monumento di interesse nazionale, tra i migliori esempi dell’architettura barocca della regione, ha incollato e reso lampante il proprio dissenso. «Le leggi – recita un suo manifesto – sia pure in un momento di particolari difficoltà economiche, non possono trattare da merci esseri umani. I ragazzi si erano integrati nella nostra cittadina. Perché, dunque, non si è potuto garantirne la permanenza in attesa di sviluppi più idonei per loro? Caro Stato, la legge è per l’uomo, non l’uomo per la legge. Persone, non pacchi». «È una prova dell’esistenza di Dio... e del Molise», commentano alcuni al bar. Y


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le storie - la Storia

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il fiore del partigiano

La solidarietà in marcia sul confine innevato

VAL DI SUSA - DA CLAVIERE A MONTGENÈVRE, IN CENTINAIA IN CAMMINO

I DI

da il manifesto del 16 gennaio 2018

CLAUDIO GEYMONAT

n alta val di Susa l’«emergenza» migranti non accenna a diminuire, nonostante le condizioni atmosferiche estreme. «Da 25 anni i politici ci spiegano che il Treno ad Alta Velocità è un’opera indispensabile per spostare in maniera rapida merci e persone. In questa stessa valle gli stessi politici sprangano le frontiere in faccia a donne, uomini, ragazzi, che arrivati qui dopo un viaggio nemmeno immaginabile, chiedono soltanto di proseguire il cammino. Qualcosa non funziona». Maria Grazia è tra le centinaia di persone che domenica scorsa hanno partecipato alla marcia attraverso la frontiera italo-francese per offrire sostegno ai tanti che tentano di passare il confine ma vengono respinti dalla polizia o dal gelo. Avanza nella neve con in mano la bandiera del movimento NoTav, una seconda pelle per tanti in questo lembo di Italia, tornato di nuovo alla ribalta delle cronache da quando le rotte dei migranti, di chiusura in chiusura, sono arrivate fin quassù. Con lei molta gente a piedi, da Claviere, ultimo Comune italiano, a Montgenèvre, il primo paese oltralpe. Domenica era anche la giornata mondiale del migrante, e da Mentone è giunta la notizia di una nuova vittima, un ragazzo fulminato sul tetto di un treno mentre cercava di entrare in Francia. Chi arriva in val Susa ha già provato a passare da Ventimiglia. Respinto, tenta ora qui la sorte. Un rischio enorme, amplificato dal vestiario

non consono. Solo sabato notte alla stazione di Bardonecchia, ultimo scalo ferroviario su suolo italiano, sono arrivate 30 persone, un numero record in questo periodo di gelo. «Una situazione seria – racconta Paolo Narcisi, medico rianimatore dell’ospedale Cto di Torino e membro dell’associazione Rainbow for Africa che qui offre un presidio sanitario permanente-. Nella saletta della stazione non ci stavano tutti, abbiamo dovuto mobilitare un albergo. E nel pomeriggio avevamo soccorso 7 ragazzi con principi di congelamento agli arti, scaricati dalla polizia francese». Sì, perché qui il ping – pong è continuo: chi viene sorpreso fra i boschi o sulle strade, viene rastrellato dalla Gendarmerie e riportato in Italia. Avanti e indietro, fino al nuovo tentativo. La camminata è organizzata da una rete solidale transfrontaliera, Briser Les Frontières (Abbattere le frontiere), nata in questi mesi sull’onda dell’emergenza che si occupa di forniture di cibo, vestiario, aiuti vari. Proprio in queste settimane in Francia il dibattito si è infuocato attorno alla nuova legge pronta per esser varata da Macron: una stretta ulteriore in materia di accoglienza, tanto che sono centinaia le associazioni che stanno protestando ed hanno anche avanzato un ricorso al Consiglio di Stato per bloccare parte del provvedimento. «Una legge peggiore di quella dei tempi di Sarkozy»-. Non ha dubbi Valérie, arrivata dalla vicina Briançon per portare la vicinanza di una piccola cittadina in prima linea nella ospitalità verso chi riesce a superare i valichi e i controlli. Ci spiega che «la montagna è

“Briseurs”. La marcia da Claviere in Piemonte a Montgenèvre in Francia

come il mare; il soccorso di chi è in difficoltà è la prima regola. Le autorità ci convocano perché teniamo in casa questi ragazzi per alcune notti o perché ci preoccupiamo di spiegare loro quali diritti hanno. Oggi è importante essere qui per ribadire l’assurdità della situazione e per denunciare una classe dirigente, italiana e francese che non è capace di farsi carico della questione, ed è solo in grado di fornire una risposta di chiusura». Sotto lo sguardo un po’ stupito degli sciatori domenicali il corteo fiancheggia le piste, supera il confine e infine si scioglie, sempre scortato da carabinieri e polizia francese. Certamente nel frattempo c’è stato qualche nuovo arrivo in stazione. L’emergenza non Y aspetta.

cose da sapere «CI RUBANO IL LAVORO» Falso. Secondo il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, «La presenza immigrata non ha un ruolo significativo nell’influenzare la probabilità per un lavoratore italiano di perdere l’occupazione entrando nella disoccupazione. Non c’è un effetto concorrenza». Secondo un rapporto dell’Istituto universitario europeo di Firenze, nei Paesi europei disoccupazione e immigrazione non sono correlati. Come dimostrano i dati ISTAT elaborati da Fondazione Moressa, in Italia i lavoratori immigrati trovano lavoro in aree differenti e spesso non ambite dai lavoratori italiani

(primo settore di impiego i servizi alla persona).

«NON ABBIAMO BISOGNO DI LORO» Falso. Secondo una ricerca dell’Istituto universitario europeo, se non ci fossero i migranti, l’Europa subirebbe un calo demografico di portata tale da mettere a rischio anche il suo stesso welfare. Oggi in Europa ci sono quattro giovani per ogni pensionato, nel 2060 saranno solo due. «O gli stati europei chiudono le frontiere e accettano di vedere l’Europa pesare sempre meno in un mondo in crescita o si aprono alla migrazione e permettono all’Europa di crescere».

A CuRA dI

emergenCy

«SARANNO POVERI, MA HANNO PURE IL TELEFONINO» Per chi scappa, il telefono, soprattutto lo smartphone, è un bene necessario perché aiuta a mantenere i contatti con la famiglia di origine e a spostarsi tra Paesi diversi, permettendo l’individuazione delle rotte, la segnalazione di pericoli tra diversi gruppi in fuga, lo scambio di notizie sulle condizioni di accoglienza. La richiesta di connessione wifi nei luoghi di accoglienza è funzionale a queste due necessità. L’acquisto di un telefono, inoltre, è accessibile anche nei Paesi più poveri perché si tratta soprattutto di prodotti locali o di telefoni rigenerati da vecchi appaY recchi usati in Europa.


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il fiore del partigiano

Toni trionfalistici o derive xenofobe, così non funziona

le idee

L’IMMIGRAZIONE VA GESTITA CON PIÙ LUCIDITÀ

I

da il manifesto del 9 agosto 2017

dI emma Bonino, riCCardo magi *

toni trionfalistici ascoltati a Roma da parte del presidente Macron e del presidente Gentiloni sui successi del controllo dei flussi migratori mal si addicono alle cifre riportate nelle stesse ore dalle organizzazioni internazionali sulla situazione del Mediterraneo: 200 tra morti e dispersi in soli quattro giorni, 840 persone sbarcate da inizio anno e almeno 800 persone intercettate dalla guardia costiera libica e riportate indietro nell’inferno ormai ben noto a tutti. Omissioni che ben rappresentano la difficoltà di giustificare l’approccio scelto da entrambi i paesi per affrontare la questione migratoria, puntando sull’esternalizzazione delle frontiere e il rafforzamento degli apparati militari e di sicurezza dei paesi di origine e transito, senza però essere nelle condizioni di esigere dai propri interlocutori le condizioni minime di rispetto dei diritti umani. A partire dalla Libia. L’unica nota positiva è il piano dell’Unhcr di evacuazione delle persone più vulnerabili registrate in Libia – la stima è di 1.300 entro gennaio – e di trasferimento di richiedenti asilo dal Sahel e dal Corno d’Africa in Europa, per un totale di 40.000 beneficiari entro la fine del 2018. Sempre che gli Stati membri accettino di farsene carico. Ma evidentemente non basterà fino a che non diventerà una priorità – e un prerequisito di qualsiasi azione esterna verso paesi terzi – assicurare canali umanitari per le persone bisognose di protezione e fino a che non si avrà la lucidità di adottare un approccio a lungo termine verso la migrazione economica, attivando vie legali di accesso per lavoro a livello nazionale e a livello europeo. Non si è parlato nel vertice romano di quanto avviene ormai da tempo ai confini tra Italia e Francia: respingimenti in automatico, a prescindere dalle condizioni individuali dei migranti, siano essi donne incinte o minori non accompagnati, violando sistematicamente lo stesso regolamento di Dublino a cui con tanta solerzia si rifanno per giustificare le riammissioni di massa nel nostro paese. Difficile soste-

nere che vanno accolti quanti hanno bisogno di protezione se nessuno degli eventuali richiedenti ha la possibilità di esprimere quella volontà. Del resto la riforma del diritto d’asilo in corso in Francia ha molti punti in comune con quanto fatto recentemente dal governo italiano, dalla drastica riduzione dei tempi per l’iter della richiesta – a scapito di alcune garanzie – all’intensificazione di espulsioni e rimpatri. Tutto ciò mentre nel nostro paese, puntuali come in ogni campagna elettorale, risuonano i toni xenofobi dei soliti imprenditori politici della paura che arrivano a dichiarare che tutti i migranti sbarcati sono delinquenti, al di là di dati facilmente verificabili. E mentre si va avanti con gli interventi per contrastare l’irregolarità senza però affrontare le cause vere del fenomeno e mettere finalmente mano alla legge Bossi-Fini, normativa restrittiva e iniqua che non ha fatto altro che ostacolare percorsi di legalità e integrazione. È stato riaperto l’ex-Cie, ora Cpr, a Bari e pochi giorni fa quello di Palazzo San Gervasio, strutture già teatro di sofferenze e di attese lunghissime e inutili, vista la ben nota difficoltà nel rimpatriare i cittadini stranieri riscontrata da quando i centri di espulsione sono stati introdotti. Siamo sicuri che la soluzione all’irregolarità nel nostro paese siano i Cpr? E che si riesca davvero a rimpatriare le decine di migliaia di cittadini stranieri che hanno ricevuto risposta negativa alla domanda d’asilo? Non sarebbe meglio, come abbiamo proposto e come chiedono anche molti amministratori e imprenditori, offrire la possibilità al richiedente che è stato formato e che ha un datore di lavoro pronto ad assumerlo, di regolarizzarsi senza rischiare di vivere illegalmente? E più in generale, pur consapevoli delle difficoltà esistenti, abbiamo il coraggio di investire finalmente sull’integrazione, a partire dalla formazione e dall’accesso al lavoro, dal coinvolgimento dei territori, moltiplicando le buone prassi esistenti? Su questo vorremmo confrontarci nelle prossime settimane, senza eludere i nodi critici e riportando la discussione sull’immigrazione in una visione più lucida e consapevole di governo del fenomeno. Y

* promotori di +Europa con Emma Bonino

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IL GRUPPO “UNIVERSITARI EUROPEI CONTRO LA REPRESSIONE IN TURCHIA”

Appello per l’assoluzione definitiva di Pinar Selek

È

da il manifesto del 13 dicembre 2017

ormai evidente: il regime politico turco si è spostato su posizioni autoritarie antidemocratiche da quando Erdogan è andato al potere. Non c’è ragione per rassegnarsi, al contrario: più i cittadini sono passivi, più grande è il rischio di calpestare i valori democratici. La minaccia è reale, basta vedere quello che è successo in molti paesi dell’Est o del Medio Oriente. Il caso di Pinar Selek è emblematico della cappa di piombo che s’è abbattuta sulla Turchia, delle misure di ritorsione, massicce e arbitrarie, prese contro universitari, giornalisti, magistrati, militanti, e contro tutti quelli che rivendicano la loro libertà di agire e di manifestare il proprio pensiero. Pinar Selek, sociologa, scrittrice e militante turca, rifugiata politica in Francia sin dal 2012 e ora cittadina francese, è stata oggetto di accanimento politico e giudiziario da quasi 20 anni. Le sue ricerche sul problema turco sono all’origine di una persecuzione che l’ha portata in prigione e poi in esilio, in Germania e poi in Francia, dove risiede da 6 anni. La persecuzione che ancora subisce si traduce nella minaccia di prigione a vita dopo quattro assoluzioni, ciò che dà la misura di quanto la democrazia in Turchia sia realmente in pericolo. La repressione si allarga sempre più fino a coinvolgere anche i 1.128 universitari che hanno firmato in gennaio 2016 la petizione «Per la Pace», che voleva attirare l’attenzione sulle violenze di Stato nelle regioni curde della Turchia. Dopo averli condannati a una vera morte civile impedendo di lavorare e anche di lasciare il proprio paese, il governo turco aumenta la pressione mentre il procuratore d’Istanbul pubblica un atto d’accusa per propaganda terrorista, con pene che possono arrivare a 7 anni e mezzo di prigione. I primi processi individuali sono cominciati il 5 dicembre. È urgente allora che tutta la comunità internazionale si attivi e agisca con decisione contro questa nuova tappa della messa al bando e della criminalizzazione giuridica dei nostri colleghi. Perciò noi chiediamo ai nostri rappresentanti, che siedono nel parlamento nazionale e europeo, di esigere il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali in Turchia, e di mobilitarsi a sostegno di tutte le vittime della repressione in Turchia, tra cui le centinaia di universitari che hanno firmato una petizione per la pace e per questo sotto procedimento giudiziario, e ancora che Pinar Selek sia definitivamente assolta. Noi ci aspettiamo non solo una presa di posizione presso le autorità turche, ma anche dei nuovi programmi di accoglienza e dei reali impegni finanziari. La solidarietà di tutti i cittadini e le cittadine d’Europa con la lotta democratica in Turchia deve farsi sentire come se fosse una sola voce! Y


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Niger, missione nell’urna il fiore del partigiano

le storie - la Storia

INTERESSI ELETTORALI - A LEGISLATURA FINITA IL GOVERNO GENTILONI DÀ IL VIA

A

DI

La nuova frontiera della fortezza Europa ora è il lato sud del deserto del Sahara da il manifesto del 18 gennaio 2018

TOMMASO DI FRANCESCO

legislatura finita, mentre chiude i battenti, come di sfuggita, il governo Gentiloni che, in chiave di preoccupazione elettorale, ha deciso di non mettere all’approvazione lo Ius soli perché «manca la maggioranza» per via del voto contrario in Parlamento della destra (e l’astensione del M5s), sceglie ora una nuova avventura militare con un voto bipartisan, con l’appoggio in Parlamento della destra, da Forza Italia a Fratelli d’Italia e l’astensione della Lega pur d’accordo con la missione: in fondo è così che li «aiutiamo a casa loro». Siamo in campagna elettorale e siccome è stato valutato il «valore positivo» nell’urna perfino delle dichiarazioni razziste del leghista «costituzionalista» Fontana, va da sé che anche il valore elettorale di questa missione militare in Niger è altissimo. Come preminente è l’emergere del ruolo centrale di Minniti che, da ministro di polizia, ha coordinato e coordina la crisi nigerina, dopo la crisi in Libia, con la carta bianca e i finanziamenti elargiti alle “autorità” di Tripoli – sempre più nel pieno di una guerra per bande – per fermare ad ogni costo – con la detenzione, le minacce, le violenze – i migranti. Colpevoli tra l’altro di alimentare un immaginario che metterebbe in discussione «le basi della democrazia» – parola del ministro degli interni. Che ha preferito la guerra ai soccorsi a mare delle Ong contribuendo a chiudere ai profughi la rotta del Mediterraneo. E che ora con tutto il governo Gentiloni si è attivato per una estensione del modello libico, perché la frontiera dell’Italia e dell’Europa «è il Niger», la sponda sud dei paesi del Sahel, oltre il deserto del Sahara. Lì vanno fermati i disperati e coraggiosi in fuga dalle nostre troppe guerre e da quelle intestine di un’Africa martoriata che in questo momento sopporta 35 conflitti armati ed è sempre sottoposta alla rapina delle sue risorse necessarie al nostro modello di sviluppo e sfruttamento.

Un modello che per dominare ha bisogno di corrompere le leadership locali (dalla Nigeria, alla Costa d’Avorio, al Niger, al Mali, al Ciad, al Burkina Faso, al Camerun, al Congo, ecc.). Sconcertanti le motivazioni che arrivano dal governo Gentiloni. In Senato la ministra della difesa Pinotti ha ribadito l’incredibile versione che «quella che sta per partire non è una missione combat ma di addestramento per il controllo dei confini che si coordinerà con i francesi con gli americani», spiegando che «appena il parlamento approverà la deliberazione sono pronti a partire 120 militari che, secondo le esigenze, potranno arrivare a 470», più 130 mezzi terrestri e due aerei da guerra. Sembra un’operazione contabile: verranno stornati militari dall’Afghanistan – dove siamo nella fallimentare guerra Usa-Nato da 16 anni – e dall’Iraq perché lo jihadismo «è sconfitto», ma si tace che il Paese è spaccato in tre realtà e dilaniato dal conflitto tra sunniti e sciiti. Ora come si fa a raccontare che non è una missione combat quando molti «addestratori» francesi e americani vengono uccisi in com-

battimento proprio in Niger? Si dirà poi che in fondo sono poche centinaia di soldati: ma non è forse stato così l’inizio delle scellerate presenze militari in Somalia e in Iraq? Più insidiosa ma non meno drammatica è l’affermazione sempre governativa che «andiamo in Niger per impedire un’altra Libia». Ma se la Libia è ridotta così è proprio grazie all’intervento militare della Nato del marzo 2011 a guida francese, il cui disastro ha influenzato perfino le elezioni americane. Qualcuno poi dovrà spiegare come sarà possibile fermare i migranti, per allontanarli – loro e le stragi a cui sono condannati – dagli occhi dell’opinione pubblica e dalla coscienza d’Europa, per nascondere sotto la sabbia le tragedie del milione di persone rimaste intrappolate in Libia; come si può controllare una frontiera di più di 5mila chilometri se non attivando una sorta di caccia vera e propria ai profughi. Una guerra ai migranti. Come non vedere che la partecipazione a questa missione, della quale si contrabbanda che «ci è stata richiesta il 1 novembre scorso dalle autorità nigerine di Njamey», ed è vantata come un aiuto «contro i


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il fiore del partigiano A NUOVE AVVENTURE MILITARI

jihadisti», rappresenta in realtà un vulnus alla democrazia dei Paesi africani che tornano ad essere considerati – e politicamente esposti al giudizio interno nel poverissimo Niger – solo come tutela coloniale. Come hanno rimproverato i giovani dell’università di Ouagadougou a Macron che li sfidava: «Non siete più sotto il dominio coloniale». La realtà dice che le economie, le risorse minerarie preziosissime (uranio, coltan, petrolio), la stessa terra, così come le riserve monetarie in franchi Cfa, sostanzialmente ancora coloniali, sono nelle mani dell’Occidente (ma anche dell’Arabia saudita e della Cina) e della nuova primazia militare che avanza in chiave di difesa europea alla prova in Africa: quella di Parigi. Alla quale ormai ci siamo accodati. Capovolgiamo allora l’obiettivo governativo per la missione militare in Niger che anche stavolta viene rappresentata come «umanitaria». A sinistra avranno un grande valore elettorale la scelta o il rifiuto di questa nuova avventura coloniale. Che la guerra, finalmente, torni ad essere la Y discriminante.

Con le armi non si vince il terrorismo

I DUBBI DELLA SOCIETÀ CIVILE IN DUE ARTICOLI DI NIGRIZIA

le idee Soldati italiani in scenari di guerra. Pagina a sinistra: il “nuovo confine” da difendere, a sud della Libia

GeNNAIo 2018

N

da Nigrizia, editoriale del gennaio 2018

el corso di quest’anno, l’Italia schiererà una missione militare in Niger con un contingente di 470 soldati dotati di 120 veicoli. L’operazione – sostengono il nostro governo e il ministero della difesa, non senza farne sfoggio – si propone due obiettivi: combattere il terrorismo e porre un argine all’immigrazione. Dopo la sconfitta del Gruppo stato islamico in Siria e in Iraq, una parte dei mille militari in Iraq verrà reimpiegata in Niger. Ma se è vero che il progetto della edificazione dello stato islamico è stato azzerato, non altrettanto si può dire dell’organizzazione terroristica che presto o tardi, temiamo, rialzerà la testa. E poi perché continuare a illuderci che il terrorismo si può sconfiggere con l’uso della forza? Non ci insegna nulla la lezione dell’Afghanistan? Dopo quindici anni, la missione Nato con un imponente dispiegamento di forze militari non è riuscita a estirpare i talebani e al-Qaida. La situazione è addirittura peggiorata. L’influenza dei talebani in Afghanistan si estende su un territorio più vasto di quello che controllavano prima dell’intervento militare esterno. Intanto sono state “investite” ingenti risorse: l’Italia che partecipa alla missione ha già speso 7 miliardi di euro! Da dieci anni la missione dell’Unione africana è impegnata in Somalia con truppe dall’Uganda, Etiopia e Kenya per sconfiggere il movimento terroristico al-Shabaab. Senza sortire i risultati sperati. Anzi, attacchi e attentati di al-Shabaab sono più frequenti e letali che mai. Con un bilancio in aumento di vittime militari e civili. Il terrorismo trova nella povertà e nella emarginazione il terreno fertile per espandersi. Per sconfiggerlo sono necessari sviluppo e redistribuzione della ricchezza, partecipazione democratica. Non le armi. Il secondo obiettivo che si prefigge l’operazione militare italiana in Niger – insieme a Francia, Germania, Stati Uniti e alla coalizione di 5 stati del Sahel– è quello di bloccare il flusso di migranti che dall’area subsahariana raggiungono la Libia attraverso il Niger. Ma l’invio di militari non potrà arrestare il fenomeno e i migranti – che fuggono da guerre, povertà e cambiamenti climatici – verranno sospinti verso nuove rotte, anch’esse complicate, rischiose e costose. Lo sottolinea un missionario che da anni vive in Niger. Che aggiunge: «Chi ha fame non si ferma con gli eserciti, ma con lo sviluppo». Le migrazioni (e il terrorismo) hanno radici nell’oppressione e nel degrado tessuto economico e sociale. Lì occorre intervenire, favorendo governi e istituzioni democratici, e capaci di dare dignità ai popoli e stabilità ai paesi. Y

Andiamo in Niger non certo per la sicurezza Nel giorno del voto del parlamento sul decreto missioni, un attivista nigerino solleva dubbi sui veri motivi dell’invio di truppe. E parla di una strategia di posizionamento geoeconomico.

«M

a che cosa possono fare in Niger gli italiani che già non facciano i francesi e gli americani? La verità è che c’è una guerra di posizionamento, in una regione chiave del mondo in termini di crescita e sviluppo». A parlare con l’agenzia Dire è Hassane Boukar, coordinatore a Niamey dell’ong Alternative Espaces Citoyens (Aec). Il colloquio si tiene nel giorno del voto del parlamento italiano sul decreto missioni, che prevede l’invio di un contingente in Niger d’intesa con i paesi del cosiddetto G5 Sahel. Una scelta, sottolinea Boukar, esperto di migrazioni, che la società civile di Niamey non vedrebbe con favore. Secondo l’attivista, gli orientamenti prevalenti dei nigerini rispetto ai contingenti stranieri sono già stati evidenziati in uno studio europeo, firmato dal Groupe de recherche et d’information sur la paix et la securité e dal titolo esplicito: Militaires occidentaux au Niger: présence contestée, utilité à démontrer. Più di recente, questa settimana, l’emittente televisiva più seguita di Niamey ha trasmesso uno speciale dedicato all’Italia. «I giornalisti si sono chiesti cosa possano aggiungere i vostri soldati e quali siano i veri obiettivi della missione», sottolinea Boukar. Convinto che sull’«agenda reale» delle presenze straniere molto resti da capire. «Pochi credono che il motivo dell’intervento abbia davvero a che fare con la sicurezza», dice l’attivista: «La sicurezza sembra piuttosto un pretesto per aprire nuove basi». Boukar riconosce che può avere un peso la vicinanza al Mali, un paese dal 2012 ostaggio di una nuova ondata di conflitti e violenze. Allo stesso tempo, però, l’attivista evidenzia un giustapporsi di interventi con finalità non coincidenti. «Conta la volontà di controllare le rotte migratorie e di avere una presenza in un’area ricca di materie prime, uranio e non solo, ma ogni potenza ha i propri interessi», sottolinea Boukar. Più che un’operazione congiunta, però, le missioni straniere apparirebbero segnate da una competizione di fondo. Ancora il coordinatore di Alternative Espaces Citoyens: «L’Italia è sensibile alla questione migratoria perché il Niger è alle porte della Libia, una sua ex colonia, e forse perché vuole colmare un “ritardo” nella regione rispetto a paesi come la Francia o gli Stati Uniti». Y


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le storie - la Storia

GeNNAIo 2018

«Qui è pieno di soldati, ma per noi l’importante è assistere i rifugiati» il fiore del partigiano

INTERVISTA - ALESSANDRA MORELLI COORDINATRICE UNHCR IN NIGER: «UN PAESE

da il manifesto pubblicato il 18 gennaio 2018

«L’ dI

Carlo lania

arrivo dei soldati italiani? Per il nostro lavoro cambierà poco. Il Niger è un Paese dove certo le presenze militari non mancano, ci sono gli americani, i francesi e anche altri. Come Nazioni unite per noi l’importante è mantenere la nostra neutralità e indipendenza». Alessandra Morelli risponde da Niamey, dove si trova per coordinare l’intervento dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) nel Paese del Sahel. Alle spalle una lunga esperienza internazionale che in 26 anni l’ha portata a seguire operazioni umanitarie e a fornire assistenza ai rifugiati in mezzo mondo, dall’ex Jugoslavia al Ruanda, dal Guatemala all’Afghanistan, alla Birmania, solo per citare alcune delle crisi internazionali in cui si è trovata a operare. Tra le ultime esperienze, nel 2015 ha coordinato l’emergenza profughi in Grecia, quando più di un milione di persone attraversarono il Paese fuggendo da guerre e violenze. «Il Niger è un Paese poverissimo, eppure ha saputo

«È

aprirsi mentre il mondo si chiude», dice oggi. Morelli quante persone assiste l’Unhcr in Niger? Lavoriamo su più situazioni distinte. La prima riguarda l’accoglienza di chi fugge dalle violenze di Boko Haram in Nigeria: sono 108.470 rifugiati che ospitiamo a Diffa, un’area nella zona Sud del Niger, ai confini con la Nigeria del nord. Nella stessa zona assistiamo anche più di 130 mila sfollati interni, nigerini vittime anche loro delle incursioni di Boko Haram. Movimenti forzati che il Niger accoglie con grande generosità. Poi abbiamo 57.405 rifugiati maliani, conseguenza dell’instabilità esistente nel nord del Mali colpito dal terrorismo jihadista legato anche ad al-Qaeda nel Maghreb e che ha costretto gran parte della popolazione di quella zona a fuggire in Niger. All’interno di queste tre situazioni abbiamo nella zona di Agadez, quindi addentrandosi verso la Libia, un flusso di migrazione mista dove lavoriamo

per individuare chi ha bisogno di protezione internazionale. Infine ci sono le evacuazioni effettuate su base di emergenza umanitaria da Tripoli su Niamey delle persone che vengono liberate dai centri di detenzione in Libia. Siamo arrivati ormai al terzo volo per un totale di quasi 225 persone, delle quali 25 già reinsediate in Francia, Paese che ora sta assumendo una leadership importante di offerte quota. La maggior parte di questi rifugiati sotto mandato Unhcr sono eritrei, ma abbiamo con noi anche 106 minori non accompagnati. Bisogna ringraziare il governo

Italia-Europa, il disumano che è in

da il manifesto pubblicato il 15 novembre 2017

disumana» la politica dell’Unione europea di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riconsegnarli nelle «terrificanti prigioni: lo denuncia l’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein che accusa: «La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità», ricordando che «gli osservatori dell’Onu in Libia sono rimasti scioccati da ciò che hanno visto: migliaia di uomini denutriti e traumatizzati, donne e bambini ammassati gli uni sugli altri, rinchiusi dentro capannoni senza la possibilità di accedere ai servizi più basilari». L’accusa finale è «di non aver fatto nulla per ridurre gli abusi perpetrati sui migranti». La durissima condanna delle Nazioni unite riguarda in primo luogo l’Italia, le politiche di accoglienza del governo Gentiloni e in particolare dell’emergente ministro degli interni Marco Minniti, promotore e capofila del sistema di «riconsegne» alle cosiddette «autorità libiche» dei migranti intercettati in Mediterraneo. Dove, in questi giorni, è ripresa la tragedia dei morti annegati, con la battaglia navale delle guardie libiche per

strappare i disperati alle ormai poche navi di soccorso delle Ong. Dopo che contro le Ong è stata scatenata per tutta l’estate una campagna di colpevolizzazione, indagini della magistratura, operazioni dei servizi segreti e indegne campagne giornalistiche. Tutti impegnati a sostenere il governo nel tentativo di cancellare la disperazione dei migranti. Il misfatto delle morti a mare non si vede, che importa se allora muoiono nei deserti o nelle prigioni libiche? Proprio quello «stile coloniale italiano», quel Codice Minniti, era stato apprezzato a fine agosto scorso dal vertice di Parigi dei quattro paesi decisivi dell’Unione europea, Germania, Francia, Spagna ed Italia con tanto di partecipazione dell’Alto rappresentante della politica estera Mogherini. Insomma, non è che l’Ue non abbia fatto nulla per ridurre gli abusi, li ha semplicemente autorizzati. Tutti in campo ad appoggiare l’Italia, incapaci per parte loro di provvedere altrimenti con una ripartizione equa degli arrivi dei profughi. E con una pervicacia dal sapore elettorale volta a dimostrare ad ogni costo alle rispettive opinioni pubbliche il comune intento a contenere, il più possibile lontano dalla coscienza europea ed occidentale,

il fenomeno epocale delle migrazioni dei rifugiati da guerre e persecuzioni e da miseria. Nell’occasione del summit della Ue, ci fu una perfidia in più: per bocca di Angela Merkel venne ribadita la nefasta distinzione nell’accoglienza negandola ai cosiddetti «migranti economici», relegati in un doppio inferno. E Mogherini (Mister Pesc) spiegò che non era necessario promettere un piano Marshall per l’Africa, «già spendiamo – disse – 20 miliardi di euro, in aiuto allo sviluppo, alla cooperazione, in partenariati commerciali…». Per un continente ricchissimo come l’Africa, nel quale siamo impegnati nel commercio di armi e in tante guerre, e del quale ogni giorno rapiniamo risorse petrolifere, minerarie e terre? Da quel summit europeo – per il quale l’Italia «aveva salvato l’onore dell’Europa» -, le cui decisioni vengono giudicate ora «inumane» dall’Onu, nacque anche la proposta di aprire centri di identificazione in Africa, con tanto di chiamata di correo dello stesso Unhcr che ora, invece, accusa l’operazione di «oltraggio all’umanità». Lì l’Europa si convinse che la sua frontiera a sud – Minniti ce l’ha ripetuto alla noia – doveva diventare il Niger, con il Ciad e il Mali. Senza chiedersi intanto che fine avrebbe fatto su-


il fiore del partigiano POVERISSIMO CHE ACCOGLIE»

La «morte illacrimata» e gli auguri ai vivi

IMMIGRAZIONE - I DISPERSI NEL NULLA DEL MARE

le idee

nigerino per quello che sta facendo per queste persone. Stiamo parlando di un Paese poverissimo che però fa accoglienza e si mostra solidale. Per molti migranti evacuati dalla Libia il Niger rappresenta un ponte verso una nuova vita di libertà e di riconquista della propria identità dopo la detenzione subìta in Libia. Fino a un anno fa Agadez era uno snodo importante le carovane di migranti che cercavo di raggiungere la Libia. La nuova legge sull’immigrazione nigerina e l’aumento dei controlli ha costretto i migranti a cercare nuove strade. Com’è oggi la situazione? Agadez resta ancora una zona di forte concentrazione dei flussi migratori di persone, la maggior parte delle quali cerca un futuro migliore. Noi abbiamo il compito di identificare chi ha bisogno di protezione internazionale. Da quando il governo nigerino ha varato la nuova legge contro l’immigrazione irregolare possiamo dire che ad Agadez la vita si è fatta molto più sotterranea, si sono creati dei ghetti dove la gente vive in condizioni molto difficili. Con le comunità e i sindaci monitoriamo le rotte alternative cercando di far arrivare il messaggio che chi ha bisogno di protezione internazionale può rivolgersi a noi. In questo modo c’è una forte presenza d sudanesi originari del Darfur, anch’essi tornati indietro dalla Libia. In questa situazione cosa potrebbe comportare la presenza dei soldati italiani? Posso solo dire che come Nazioni unite non possiamo non notare che il Niger è uno dei Paesi più militarizzati d’Africa, se non il più militarizzato. Ben prima di quella italiana ci sono altre presenze militari sul territorio, a partire da quella statunitense. Ad Agadez si sta costruendo la base americana più grande d’Africa, la presenza francese è conosciuta da molti anni e così quella di altre nazioni. Come Onu la riflessione che in questi giorni stiamo facendo è come posizionarci con il nostro lavoro e, all’interno di questo spiegamento di forze internazionali, continuare ad assicurare la nostra neutraY lità e indipendenza.

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noi

bito quel milione di profughi che da molti mesi è rimasto intrappolato in Libia. Tranquilli. Ha ripetuto il governo Minniti-Gentiloni, ci penseranno le «autorità libiche». Ma quali? Le tante che esistono, i signori della guerra, i «sindaci» eletti da nessuno, la guardia «costiera libica»? Tutte formule che riconvertono a ruolo e a libro paga, dopo le devastazioni della guerra Nato a Gheddafi, centinaia di milizie armate spesso legate al jihadismo estremo. Oppure con le forze militari che Macron metterà a disposizione in Niger e Ciad. Ma qual è alla fine la spiegazione di tanto «oltraggio alla coscienza dell’umanità», come l’Onu definisce le responsabilità dell’Ue? Il ministro Minniti lo ha ripetuto: «Se non avessimo fatto questo in Libia c’era da temere per la tenuta democratica del Paese». Quindi trasformando in lager buona parte del continente africano «per la democrazia»? Cioè assumendo la politica della paura, con l’occhio attento ai sondaggi elettorali, e finanziando milizie mafiose, come hanno rivelato importanti e veridici reportage della stampa internazionale. Agghiacciante quello di ieri della Cnn che ha mostrato come nei centri di detenzione libici vengano allestite aste di profughischiavi. Poteva mai essere «per la democrazia» una tale vergognosa decisione? E infatti ora le Nazioni unite, scioccate, la definiscono per quello che è: un «oltraggio alla coscienza dell’umanità». Y

Tommaso Di Francesco

Dare nome e identità alle migliaia di persone morte in mare significa strapparsi a un’incuria che dimostra che non le consideravamo uguali a noi neanche da vive

A

dI

laura marChetti

da il manifesto del 27 giugno 2017

uguri ai morti. A quegli uomini, a quelle donne, a tutti quei bambini senza nome che giacciono nella bara d’acqua del Mediterraneo. Auguri a loro che non hanno potuto completare il viaggio. Auguri a quei fantasmi illacrimati, senza una tomba su cui un padre, una sposa, un figlio, potranno ricordare e piangere. La morte illacrimata, ci dice Pasolini, toglie alla vita ogni senso, perché le impedisce di entrare nel ricordo e di rivestirsi di sacro. Senza il cordoglio, senza un lamento di fronte al corpo funebre esibito, la vita perde la sua necessità perché non può essere raccontata, non può tradursi in immagini e parole che la affidano al mito. Nel pianto di un parente, di un amico, magari di una comunità, si ritrova invece la unità e compiutezza alle azioni singole e forse insensate. Il pianto cioè agisce come «un fulmineo montaggio della vita: sceglie i suoi momenti veramente significativi e li mette in successione, facendo del presente un passato chiaro, stabile, certo, linguisticamente ben descrivibile» (1967). COME È DIVERSA PERCIÒ la morte di Ettore (solo, sul tavolaccio del carcere, senza che neanche Mamma Roma possa piangerlo), dalla morte di Cristo. La differenza è il pianto possibile di Maria, quel pianto che fa da sottotitolo al libro in cui Ernesto De Martino spiega come i singoli e le comunità possano superare il trauma della morte attraverso il lutto, «fondamentale lavoro umano attraverso il quale la vita biologica diventa un valore e quindi si pone come condizione necessaria per l’esplicarsi della eterna forza rigeneratrice della cultura» (1958). Con quel pianto l’anziana Maria, che potrebbe rimanere travolta dal tremendum che è la perdita reale del figlio, agisce con altre donne quel «teatro del pianto» (che accomuna tutte le madri addolorate del mondo), che non blocca il dolore per la perdita in un vuoto di esistenza, ma lo reagisce («abreagisce»), aprendo così «un’opzione per la vita» e «reintegrando l’uomo, anche il morto, nella storia umana» (Ivi). ED È QUESTA IN FONDO la «buona novella» evangelica: che quel Cristo in croce – così come ogni altro povero cristo – non muore invano perché una lacrima raccoglie la sua storia affidandola a una memoria comune, a un canto popolare comune che mette in scena la «redenzione», la quale non è da intendersi come una fuga, un’andata improbabile nel Regno dei Cieli, ma come un acquisire qui, su questa terra, una grandezza eterna, «epico-religiosa», che po-

trebbe far diventare quella vita finita un modello, un esempio e un legame per tutti e fra tutti. Avveniva così una volta nel mio popolo di «cafoni»: come la salsa, come la vendemmia, come le nozze, quel pianto rituale collettivizzato conteneva se non segni di un riscatto, almeno la volontà di una «presenza», di non farsi trascinare come vittime dalla storia. DIETRO QUEL PIANTO, inoltre, c’erano i segni di quell’ethos meridionale e mediterraneo, che, ci diceva Alcaro, costituisce un paradigma morale e politico di civiltà superiore, formandosi sui valori universali del soccorso, della pietà, della persistenza della memoria e del dialogo con i defunti (1991). Auguri quindi ai vivi , perché sappiano tornare a piangere. Auguri perché vogliano riconoscere, perché sappiano seppellire. Solo così noi vivi, che nella mancanza di pietà siamo dei morti, restiamo umani. Perché la parola umanità e il valore dell’umanità risiedono proprio in questo: nell’accogliere la vita, nell’ospitarla, curarla, riscaldarla, nutrirla; ma anche nel saper «inumare» ossia restituire il corpo alla terra per dare nome e identità e memoria anche alla morte. PROVA A FARLO OGGI una donna, un medico, che vuole dare un nome ai migranti che muoiono nel Mediterraneo (secondo le stime dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, sono 40mila dal 2000 e il 65 per cento non ha nessuna identità). Lei, mediterranea di Milano, assieme alla Croce Rossa, chiede che si organizzi una rete a livello internazionale che aiuti a riconoscere le persone scomparse. Una richiesta che si è fatta impellente dopo la strage di Lampedusa. In quell’occasione, incaricata di fare l’autopsia, si è accorta di come quei 728 morti potevano trasformarsi in cose o ridiventare persone. Ne I diritti annegati – in cui fra l’altro emerge il quadro giuridico che obbliga ogni Stato a fare tutti gli sforzi necessari per identificare i morti in mare e a darne conto alle famiglie – racconta di questo bivio partendo dagli oggetti recuperati nelle tasche, dai vestiti, i foglietti di carta, le lettere, le fotografie, le facce di madri, di mogli, di figli, le pagelle scolastiche, i sacchetti di plastica che molti portano al collo, pieni di una manciata di terra, la loro terra. SONO OGGETTI DA CUI PUÒ venire fuori la vita stessa di quelle persone, le loro speranze e quello che pensavano di costruire partecipando ad un movimento di popoli, alla Storia. Saperli leggere, organizzarli per una identità e un nome, significa strapparsi a un’incuria verso i morti che parla del fatto che non li consideraY vamo uguali a noi neanche da vivi.


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le idee - la Storia

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La corrente nera che ancora scuote i t il fiore del partigiano

ESTREMA DESTRA - UN “SISTEMA DI PENSIERO” CHE LA SCONFITTA DI HITLER NON

U

DI

da il manifesto del 17 gennaio 2018

JACOPO ROSATELLI

na foto in bianco e nero della toilette di un locale pubblico. Sulle porte le classiche figure stilizzate di ambo i sessi. Ma insieme. In alto a sinistra, una scritta accompagnata dal simbolo del partito dei Grünen: «Nuova proposta folle dei Verdi: bagni unisex!». Sotto, su rassicurante sfondo azzurro, campeggia lo slogan: «Buttiamo nel gabinetto le sconclusionate proposte del delirio gender!». Firmato Csu, l’Unione cristiano-sociale che in Baviera regna incontrastata. L’immagine è stata diffusa in un post su twitter della formazione conservatrice, costola della Cdu della cancelliera Angela Merkel, ed è probabilmente la più importante fra quelle che si possono osservare nella mostra Estremismo di destra in Germania dal 1945, in corso (fino al 2 aprile) al Centro di documentazione sul nazionalsocialismo di Monaco (NS Dokumentationszentrum München).

colari l’ascesa del nazismo come fenomeno che raccolse ed estremizzò istanze che circolavano già in una società permeata (anche) da tradizionalismo, militarismo e antisemitismo. Un movimento – quello guidato da Adolf Hitler -, che nacque proprio a Monaco, città che successivamente elesse a propria simbolica «capitale», teatro del fallito colpo di stato del 1923, che costò all’uomo che sarebbe diventato il Führer una pena piuttosto mite. Segno inequivocabile dell’atteggiamento benevolo dell’establishment politico e giudiziario in Baviera. La mostra temporanea – che ha l’unico «difetto» di avere didascalie e apparato testuale

mAuRo BIANI

(WWW.mAuRoBIANI.IT)

IL MOTIVO DELLA RILEVANZA di tale figura è presto detto: in un museo pubblico, ultima creazione sorta nel quartiere dell’arte della capitale bavarese, la potentissima Csu è messa in relazione, pur se indirettamente, con l’ideologia del neofascismo. A testimonianza di un coraggio intellettuale che in Germania non manca quando si fanno i conti con la corrente nera che attraversa la storia di questo Paese, il suo passato, ma anche il suo presente, come insegna il successo che riscuote il movimento nazionalista e xenofobo Alternative für Deutschland (AfD). Non siamo in una piccola e semi-clandestina galleria alternativa, ma nel cuore del Kunstareal monacense, a due passi dalle ricchissime pinacoteche dove sono raccolti capolavori, da Dürer all’espressionismo, e nei paraggi di quell’Accademia musicale al centro della seconda parte della leggendaria Heimat di Edgar Reitz. Chi visita la città e non si limita alle pittoresche birrerie e allo stadio del Bayern passa certamente anche di qua. Meritoriamente, quindi, il Centro di documentazione sul nazionalsocialismo non solo ha prodotto un’esposizione temporanea dedicata a un tema di bruciante attualità, ma ha deciso di farlo senza infingimenti. Non una narrazione consolatoria e auto-assolutoria per la società tedesca, ma decisamente disturbante. In linea, peraltro, con l’accurata sezione permanente: tre piani di installazioni che illustrano con dovizia di parti-

Vaterlandsliebe. Bambino in uniforme fa il saluto nazista, 1932, (FoTo

STAdTARChIV müNCheN)

solo in tedesco – si articola in due parti: la prima dedicata alla cronologia della presenza politica organizzata dell’estrema destra dal dopoguerra a oggi, la seconda tematica. Ed è in quest’ultima, che presenta l’ideologia della galassia neo-fascista, dove troviamo la riproduzione del tweet anti-gender del partito che governa la Baviera – e, in coalizione, anche il resto della Repubblica federale. Sessismo, antifemminismo e omofobia formano infatti, raggruppati insieme, una delle dieci componenti fondamentali della Weltanschauung della destra radicale. UNA «VISIONE DEL MONDO» che, scri-

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dalla finestra di FB dI

maurizio ghezzi

11 gennaio alle ore 17:01 ono due maschietti, avranno dieci anni e sono appena usciti da scuola trascinando lo zainetto d’ordinanza con le rotelle. Il primo ha tratti orientali, il secondo è di colore. Quello dai tratti orientali chiede al suo compagno (con un pesante accento milanese): «ma tu poi che origini hai?» L’altro, che arranca con lo zaino pieno di libri, risponde con la stessa inflessione: «io sono di origine spagnola e tu?» «Io? Io sono veneto». Adesso, a Milano, in via Anfossi. Y


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il fiore del partigiano HA CANCELLATO

vono i curatori, «basa le proprie rappresentazioni su una posizione anti-illuminista e su un sistema di norme che serve alla giustificazione delle proprie azioni». Che sono state non solo genericamente violente, ma talvolta proprio omicide, come ha tragicamente mostrato, negli anni più recenti, la vicenda inquietante dell’organizzazione terroristica Nsu (Nationalsozialistischer Untergrund), responsabile della morte di dieci persone. Attraversando pannelli di testi e immagini, riproduzioni di manifesti, volantini, ma anche di pagine di siti internet e social network, tutti riconducibili a Monaco e alla Baviera, si è confrontati con le sfaccettature del «sistema di pensiero» che la sconfitta del nazismo nella seconda guerra mondiale non ha fatto certo scomparire. Ingredienti che possono essere cucinati anche con salse all’apparenza più digeribili, ma che sempre tradiscono la loro chiara matrice. Il nazionalismo, innanzitutto, che può facilmente stingere in un superficialmente più innocuo «amor di patria (Vaterlandsliebe)» da esibire pubblicamente ai mondiali di calcio o nei forum economici in cui si vagheggia il ritorno al caro, vecchio marco. E poi l’ostilità verso la democrazia rappresentativa e il «politicamente corretto» che porterebbe a una limitazione della libertà di espressione, il revisionismo storico, l’antisemitismo. Quest’ultimo si accompagna spesso a teorie complottistiche secondo il paradigma dei Protocolli dei savi di Sion: è poco noto che, quasi ad imitare la propaganda della destra razzista degli Usa contro il «non-americano» Barack Obama, negli ambienti della Afd molti credono che la cancelliera Merkel «amica degli immigrati» non sia tedesca, ma una polacca ebrea, come indicherebbe l’origine del suo cognome da nubile, Kasner.

COMPLETANO IL QUADRO ideologico razzismo, xenofobia, islamofobia, odio verso sinti e rom, e – spesso sottovalutato – il darvinismo sociale, riportato in auge dal libro La Germania si autodistrugge dell’ex politico (socialdemocratico!) Thilo Sarrazin. Pubblicato nel 2010, questo poderoso volume dai toni apocalittici contiene perle come quella riportata dai curatori della mostra: «Tutti i clan hanno una lunga tradizione di endogamia e dunque conseguentemente molti handicappati. È noto che la percentuale di handicappati fra i migranti turchi e curdi è notevolmente superiore alla media». Con un milione e mezzo di copie, in Germania è il secondo saggio a contenuto «politico» più venduto Y del nuovo secolo.

Fontana e la razza bianca. Purtroppo Freud gli ha tolto pure l’alibi

PIOVONO PIETRE - CONSIGLI SPRECATI

le idee

edeschi

GeNNAIo 2018

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da Il Fatto Quotidiano del 17 gennaio 2018

aleSSandro roBeCChi

consiglierei tutti – segnatamente i politici in campagna elettorale – a giustificare le proprie cospicue puttanate usando l’argomento del «lapsus», così come ha fatto Attilio Fontana, aspirante governatore dei lombardi di razza bianca. Dopo la forbita frase sulla difesa della suddetta razza bianca, il Fontana è corso argutamente ai ripari dicendo: «È stato un lapsus, un errore espressivo». Capita, eh. Il lapsus è uno scivolamento, un piccolo errore di comunicazione dal cervello alla bocca, o alla mano, se state scrivendo, insomma, un piccolo refuso delle sinapsi. E questo fino al 1901, cioè quando il signor Sigmund Freud (ebreo, Fontana non se lo lasci scappare come lapsus con quelli di Casa Pound) ci ha spiegato che il lapsus è una specie di bollicina tipo champagne che emerge dall’inconscio, un rimosso che viene

razza bianca. Nome comune: razza pastinaca trigone

a galla. Insomma, dopo il 1901, l’opinione prevalente e universalmente accettata è che dire «è stato un lapsus» equivale a dire «lo penso veramente, nel profondo». Cosa che peraltro Fontana dice nella riga dopo: «È stato un lapsus, ma sia ben chiaro che il concetto espresso lo difendo e lo difenderò sempre». Se ne deduce che questo signor Fontana è un uomo pienamente risolto: il suo inconscio è balzato fuori come un tigrotto della Malesia e lui ora lo accetta con sconfinata consapevolezza, tipo: ho detto una cazzata, ma volevo proprio dirla. Sarà l’aria di Varese.

Ognuno può fare prove e esperimenti nel privato, a suo rischio e pericolo. Se dal macellaio vi scappa detto «Lei è proprio un ladro, signor Gino», sarà poi difficile argomentare che non lo pensavate veramente, ma che sì, insomma, il concetto è quello. Se dite a Tizio: «Ti ho sempre amato, Caio», capirete subito che giustificarsi con «è stato un lapsus» è una notevole aggravante della vostra già infelice posizione. È ovvio che dopo il logoramento di tanti refrain politici per cavarsi dai guai – i «sono stato frainteso», «a mia insaputa», «è una frase fuori contesto», eccetera eccetera – servisse qualcosa di nuovo, una scappatoia che suonasse un po’ inedita. Ecco, avvisiamo i vari Fontana che «lapsus» non è la soluzione adatta, e nemmeno tanto innovativa, dato che ne scriveva già il Metastasio nel 1744: «Voce del sen fuggita / Poi richiamar non vale».

Naturalmente c’è qualcosa di peggio, e cioè – attribuendo per un attimo al candidato governatore Fontana un certo acume politico – un calcolo cinico, uno di quei machiavellismi italiani che fanno della politica, qui e ora, un posto abbastanza mefitico. Rivelando il suo desiderio di difendere «la razza bianca» ha parlato ai suoi (che sono d’accordo), e per gli altri, per i moderati che lo voteranno turandosi tutto il turabile oltre al naso, ha messo su la scenetta dell’errore espressivo, che è la tipica cosa incredibile a cui un elettore un po’ disonesto con sé stesso può anche credere. Anche in questo caso, altro che lapsus!, si tratterebbe di un doppio binario morale, come se un imbianchino austriaco dicesse ai suoi fanatici in birreria: «Invaderò la Polonia»; e a tutti il giorno dopo: «Ma no, scherzavo». Il tutto – lapsus, gaffes e controgaffes, supercazzole, stupidaggini e rivendicazioni di razzismo – condito da un continuo sottofondo di allarme, induzione alla paranoia di massa, paura indotta. Lo stesso Fontana che dice serafico e sprezzante del ridicolo: «Non possiamo accogliere un miliardo di persone», lasciando intendere che un settimo della popolazione del pianeta voglia trasferirsi a Cernusco Lombardone (per farsi governare da lui, nel caso). O San Silvio Restaurato che parla di «mezzo milione di migranti in Italia per delinquere». Un piccolo messaggio ai «moderati». Poi, dall’alto della sua esperienza di condannato per frode fiscale e agitando i misteriosi fogli protocollo, riprende a parlare di fisco. Y


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il fiore del partigiano

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Eco: «Ora vi spiego come stanare gli eterni fascisti»

le idee

RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA

umberto eco - il fascismo eterno La nave di Teseo, pp. 51, € 5,00

da Il Fatto Quotidiano dell’11 gennaio 2018

I

Esce oggi per La nave di Teseo Il fascismo eterno, la lectio inedita pronunciata da Umberto Eco alla Columbia Università il 25 aprile 1995. Ne pubblichiamo uno stralcio.

l termine «fascismo» si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. […] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’«Ur-Fascismo», o il «fascismo eterno». che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista. 1. […] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica .[…] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere.

La verità è stata già annunciata una volte per tutte. […] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. […] 2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo .[…] Sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul «sangue» e la «terra» (Blut und Boden). […] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come «irrazionalismo». 3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. […] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. […] 4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento. 5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. […] è dunque razzista per definizione. 6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. 7. A coloro che sono privi di una qualunque iden-

tità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del «nazionalismo». Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. […] 8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. […] 9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto «vita per la lotta». Il pacifismo è allora collusione col nemico […]. 10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un «elitismo popolare». Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un «dominatore». […] L’UR-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo. Y Umberto Eco

Dalle tombe di Staglieno, un ritratto antifascista

el vortice revisionistico che ha N investito il dibattito sulla resistenza negli ultimi anni, spesso

Giordano Bruschi e Giuseppe morabito - una spoon river partigiana Il Canneto editore - pp 174, € 13,00

anche la memorialistica sul tema ha faticato a trovare il suo spazio e il suo ruolo nell’ambito di quella conoscenza della storia che dovrebbe rimanere alla base di qualsiasi valutazione di giudizio. Sicuramente un suo spazio se lo guadagna il recente volumetto Una spoon river partigiana (Il Canneto editore, pp. 174, euro 13), a cura di Giordano Bruschi e Giuseppe Morabito, non solo per l’idea creativa di dare voce ai partigiani sepolti nel cimitero genovese di Staglieno, sull’orma degli epitaffi in

prima persona della ben nota antologia, ma per l’intero quadro storico che viene ricostruito attraverso le 51 biografie raccontate in questa modalità. Tra esse, quella di Ferruccio Parri, primo Presidente del Consiglio dell’Italia liberata e quella di Amino Pizzorno, zio della neopresidente dell’ANPI, Carla Nespoli. Le loro storie intrattengono con chi legge un dialogo diretto che le fa sembrare ancora vive, connesse una con l’altra. Ognuno non parla mai solo di se stesso, ma anche dei propri compagni di lotta che spesso sono anche dei vicini di tomba. A legare tra loro queste storie non

sono solo gli avvenimenti della guerra partigiana combattuta tra il 1943 e il 1945, alla quale la città di Genova contribuì con più di 2000 partigiani caduti, ma sono le esperienze politiche e sindacali vissute dai protagonisti prima della clandestinità, la cui ricostruzione fatta nei racconti è di grande interesse. Quello che prende forma è il ritratto della Genova industriale della prima metà del ’900, della combattività del proletariato formatosi in quel contesto, del senso di identità acquisito nella condizione lavorativa e a quello di comunità cresciuto nel contesto dei quartieri operai e popolari, a comin-

ciare da quelli della val Bisagno genovese. Un quadro che consentirà la formazione di una rete di militanti antifascisti già prima dell’armistizio, come emerse con chiarezza in occasione degli scioperi del 26 luglio ’43. Le brevi biografie uniscono tra loro date e luoghi dei combattimenti con notizie sulle storie di militanza politica e sindacale, e sulle vicende di vita personale, aprendo visuali inattese sui percorsi e le scelte che condus-


il fiore del partigiano

«Solo la letteratura tiene viva la memoria della Shoah»

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GeNNAIo 2018

Lia Levi - Questa sera è già domani edizioni e/o - collana dal mondo- pp. 224, € 16,50

«L

da Il Fatto Quotidiano dell’11 gennaio 2018

a politica fatta di slogan, di frasi fatte, non porta da nessuna parte. Per coltivare la memoria, ci rimane soltanto la letteratura». Lia Levi sa bene che i pericoli delle nuove destre sono in agguato e conosce altrettanto bene l’importanza di continuare a raccontare l’orrore che le leggi razziali e la Shoah hanno rappresentato. Esce oggi per e/ o il suo nuovo romanzo, Questa sera è già domani, la storia di un ragazzo (genietto a scuola) e dell’eterno dilemma tra restare e nascondersi o scappare per mettersi al sicuro.

Signora Levi, è un romanzo ispirato alla storia di suo marito, Luciano Tas. Un omaggio o un racconto che serve da esempio? Nessuno dei due: i libri nascono dentro, senza un intento preciso. Il fattore ponte viene dopo, a volte l’autore non lo sa neanche. Mio marito raccontava la sua storia in casa, a episodi, oppure la scriveva su un libretto di appunti, ma dal punto di vista di un saggista, con piglio ironico e divulgativo. Gli episodi che narrava mi hanno sempre stimolato. Una volta gli ho chiesto: «Perché non la scrivi?». Lui non era un romanziere, così quando gli ho proposto di farlo io, lui ha risposto: «Magari!». Ho la coscienza di non aver rubato nulla. Esiste invece una risposta al dilemma che, ancora una volta, trapela dai suoi libri?

sero alla lotta partigiana. Colpisce in questo senso che in ognuno di questi racconti raramente manchi un riferimento a letture, incontri, esperienze di studio, anche da parte di chi proviene da condizioni di grande disagio sociale, a sottolineare come la storia del movimento operaio sia stata davvero intrecciata con una storia di emancipazione culturale delle persone. L’immagine che dunque emerge da queste memorie partigiane, è quella di un evento cruciale di cambiamento del corso della storia che ebbe luogo grazie a una sua preparazione e incubazione sia politica che culturale, non riducibile alle condizioni determinatesi dopo l’8 settembre. Le 51 biografie sono scritte da Gior-

Le cito Shakespeare: «La paura cieca guidata dalla ragione chiaroveggente muove passi più sicuri della ragione cieca che inciampa senza la paura». Non esiste né politica né etica, esiste il sentire i tempi, senza cullarsi nell’ottimismo.

I fascisti stanno tornando? Bisogna distinguere. I gruppi violenti e malavitosi, quelli che aggrediscono gli stranieri o i barboni, sono la rappresentazione di strati sociali fuori da qualsiasi tipo di cultura e di civiltà. Recentemente ho riletto il Manifesto degli scienziati razzisti, che elogiavano la parola «razza». Oggi invece, anche tra questi nuovi governi di destra, nessuno dice di essere razzista.

Forse perché sarebbe politicamente scorretto? Quando sei uno Stato in cui ha vinto la destra estrema non te ne importa nulla, anzi.

Lei va spesso nelle scuole a parlare con i ragazzi. Come reagiscono di fronte al racconto del nazifascismo? Vengo chiamata da professori che sono sensibili al problema. I miei incontri sono positivi, perché c’è stata una preparazione. Alle superiori spesso usano la tecnologia per realizzare nuovi materiali su quel periodo.

A proposito di nuove tecnologie, lei è sui social? Facebook mi fa orrore, è tutto finto: ti chiedo l’amicizia, ma quella non è amicizia. C’è una dilatazione dell’ego che si estende in larghezza e non in profondità.

dano Bruschi, figura storica della resistenza genovese e della storia politica della città dopo la liberazione. Giuseppe Morabito ha redatto altre 87 schede di altrettanti antifascisti sepolti nel campo partigiano di Staglieno. In questo libro, i partigiani di Staglieno ci vengono incontro guardandoci negli occhi. Ci parlano fuori dai rituali e dalle retoriche e sembrano volerci indicare una strada per un nuovo cambiamento, divenuto oggi quanto mai necessario. Ma sembrano anche volerci indicare un rapporto con la storia che non crede a un corso naturale degli eventi, bensì a un suo possibile punto di rottura nel quale l’atto cosciente di rivolta di uomini e donne può assuY mere un ruolo dirimente.

Qual è – se c’è ancora – il ruolo della cultura nel raccontare la Shoah? C’è rimasta solo la cultura. Con la scomparsa degli ultimi testimoni, è l’elaborazione creativa a restare viva. Una cosa è il ricordo, un’altra è la memoria, che è elaborazione del ricordo. I fatti hanno bisogno di essere metabolizzati ed è lunga, ci si perde in vari strati. La coscienza è stratificazione. In più la realtà per manifestarsi ha bisogno dell’immaginazione, altrimenti rimane un fatto raccontato.

La letteratura universalizza questi fatti. E la politica? L’Italia non ha mai preso davvero coscienza delle leggi razziali. Alcuni articoli erano più duri di quelli del nazismo, per esempio quelli sulla scuola. Nelle città piccole, dove non c’erano le scuole ebraiche, è stato perso il diritto allo studio. La proibizione del lavoro ha contribuito allo sterminio, perché si moriva di fame. Le leggi razziali hanno contribuito allo sterminio. Ma tutto questo è stato annullato dalla nostra memoria. Forse oggi, a 80 anni dalla loro promulgazione, è giunto il tempo per una riflessione più ampia.

Quali sono, nel 2018, i nuovi scampati? Le popolazioni in fuga da cose terribili, con destini di accoglienza diversi. L’Italia sul piano del salvataggio è unica. E anche su quello dell’accoglienza, le nostre condizioni saranno sempre meno terribili della Libia. Però dico una cosa: Roma antica prendeva tutti, ma tutti si dovevano identificare con i valori romani. Se noi pensiamo che per accogliere qualcuno dobbiamo fare tappetino dei noY stri valori, allora no. Silvia D’Onghia

La vita quotidiana all’alba della catastrofe

l nome di Milena Jesenská è spesso legato a quello di Franz Kafka, con cui ebbe una intensa relazione, quasi Iesclusivamente epistolare. Traduttrice, giornalista, attivi-

milena Jesenská - in cerca della terra di nessuno Castelvecchi (2014) - pp. 89, € 12,00

sta politica, la Jesenská è stata una figura intellettuale a tutto tondo nella Boemia degli anni Venti e Trenta del Novecento, fino alla sua tragica morte nel campo di concentramento di sole donne a Ravensbrück, nel 1944. Gli scritti raccolti in questo libro – alcuni dei quali pubblicati per la prima volta in Italia – raccontano il periodo tra l’Anschluss e l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei nazisti. Accanto alla cronaca degli eventi che avrebbero cambiato il volto dell’Europa, c’è anche spazio per la vita delle persone comuni e per le vicende quotidiane spesso fagocitate dalla grande Storia. Sono testi lucidi e appassionati in cui emerge la personalità della Jesenská, come donna e come autrice: acuta, ironica, combattiva, ma anche riflessiva e profonda. Y


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le storie - la Storia

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il fiore del partigiano

«Nei bantustan in Sudafrica un’unica apartheid, in Palestina

INTERVISTA - SALIM VALLY, PROFESSORE SUDAFRICANO E LEADER DEL PALESTINE S

D

DI

da il manifesto del 17 gennaio 2018

CHIARA CRUCIATI

a anni attivisti, esperti e ricercatori studiano i parallelismi tra il Sudafrica del dominio Afrikaners e il regime che Israele ha imposto sulla popolazione palestinese. Alla base sta il concetto di apartheid che, seppur con ovvie differenze storiche, è applicato ai due sistemi e che è definito dal diritto internazionale come «regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo razziale». Ma se a 20 anni dalla sconfitta dell’apartheid sudafricana come sistema legale le disuguaglianze socio-economiche tra bianchi e nere permangono, Israele porta avanti la sistematica discriminazione della popolazione palestinese sotto la propria effettiva autorità, che si tratti dei palestinesi cittadini israeliani o dei residenti nei Territori Occupati. Ne abbiamo parlato con Salim Vally, professore all’Università di Johannesburg e direttore del Center for Education Rights and transformation, leader del Palestine Solidarity Committee sudafricano e attivista anti-apartheid di lungo corso. A due decenni dalla fine dell’apartheid legale in Sudafrica, cosa resta del sistema di segregazione? Permane una apartheid ufficiosa o, come la definisce un’analisi del think tank al-Shabaka, un «capitalismo razziale» nel paese? Sono completamente d’accordo con il concetto usato dagli autori dell’analisi citata, Haidar Eid e Andy Clarno. Il capitalismo razziale è la causa dell’assenza di un reale cambiamento: il sistema di apartheid, la sua legislazione e la discriminazione legale sono stati rimossi dalle leggi dello Stato, ma non la discriminazione di classe, in termini di povertà, di proprietà. Nulla è cambiato. Ci troviamo di fronte ad un sistema liberale democratico come risultato dei negoziati dei primi anni ’90, ma non a reali cambiamenti strutturali. È la razza che continua a definire opportunità e accesso a casa, terre, educazione, servizi. Una forma diversa e occulta di colonizzazione? Il processo per cui alcune persone si sono arricchite e altre impoverite segue linee razziali. Usare la razza per giustificare la spoliazione della gente e l’accumulazione rapida da parte di pochi significa utilizzare linee di «colore». Le questioni di razza e classe non possono essere divise, l’intera struttura dipende da capitalismo e razzismo. Succede anche in altri paesi ma in Sudafrica in modo molto più sistematico. Tutti noi abbiamo combattuto l’apartheid e pagato un prezzo e siamo consapevoli che la situa-

zione è migliorata, che c’è stato un avanzamento chiaro sul piano della discriminazione legale, ma è vero anche che la maggior parte dei poveri e della classe operaia non ha visto migliorare le proprie condizioni socio economiche. Perché nel Sudafrica della lotta all’apartheid e del governo ormai ventennale dell’Anc, la discriminazione non è stata sconfitta? Perché la struttura economica della società non è stata cambiata nelle sue fondamenta. Come accaduto anche in Asia e America latina, l’indipendenza politica ha portato a nuove élite e nuove bandiere ma le principali sorgenti dello sfruttamento sono spesso rimaste le stesse. Il vero potere, quello economico, è in mano a chi lo aveva già, alla borghesia tradizionale, nel caso sudafricano quella bianca. A questa si aggiunge una piccola quota di borghesia nera, ma la maggior parte dei neri sono intrappolati in una tremenda povertà. Inevitabile è il parallelo con il modello israeliano. Nelson Mandela disse: «La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi». E Desmond Tutu ripete che quella israeliana è una segregazione ancora peggiore di quella degli Afrikaners. Quali i punti in comune e quali le differenze? Ci sono molti elementi comuni, il modello israeliano è parte della «famiglia» dei regimi di apartheid. I pensieri espressi da Mandela e Tutu sono molto accurati. Chi di noi ha visitato la Palestina ha immediatamente visto le similitudini nella discriminazione quotidiana: mancata libertà di movimento, regime dei permessi, demolizioni di case, detenzioni senza processo, divisione in bantustan di Cisgiordania e Gerusalemme. Tutto questo riflette il modello operativo dell’occupazione che non esitiamo a definire stato di apartheid. È molto importante sul piano giuridico e del diritto internazionale ricordare che l’Onu ha votato alla fine degli anni ’80, dopo lo scoppio della prima Intifada per intenderci, una risoluzione di condanna ed eliminazione dell’apartheid, ovviamente riferita all’epoca al Sudafrica ma volontariamente posta come concetto generico. L’obiettivo era riferirsi a qualsiasi possibile paese. Esperti giuridici di tutto il mondo, come John Dugand e Richard Falk, hanno detto più volte che Israele si qualifica come Stato di apartheid. Esistono ovviamente anche significative differenze tra Israele e Sudafrica dell’apartheid. Un

Soldati israeliani pattugliano Hebron (FoTo AmmAR AWAd/ReuTeRS)

esempio: la classe al potere in Sudafrica dipendeva dalla forza lavoro nera a basso costo e per questo lo sviluppo dei sindacati ha permesso di resistere con più efficacia al regime semplicemente sottraendogli lavoratori e bloccando l’economia. Nel caso palestinese non accade: se inizialmente Israele ha sfruttato la manodopera palestinese, l’ha poi marginalizzata. L’economia israeliana non è dipendente dalla forza lavoro palestinese. Il caso palestinese è inoltre caratterizzato dalla divisione in territori e conseguenti status legali diversi della popolazione (rifugiati della diaspora, residenti apolidi di Gerusalemme, comunità sotto occupazione a Gaza e in Cisgiordania e palestinesi cittadini israeliani). Forme diverse di apartheid o un unico sistema? È come se il popolo palestinese fosse tanti popoli diversi. È fondamentale ricordarsi dei 7 milioni di profughi all’estero e dei quasi 2 milioni di palestinesi cittadini israeliani discriminati. La situazione è dunque diversa dalla segregazione sudafricana dove con il sistema dei bantustan si puntava al controllo fisico e limitato nello spazio della popolazione nera, dove però non c’erano differenze di trattamento. Il sistema di apartheid di Israele è infinitamente più sofisticato perché si applica in forme diverse alle diverse «sacche» di palestinesi. Ciò rende la loro situazione peggiore di quella che la maggior parte dei sudafricani ha sopportato. Nel caso sudafricano, oltre alla mobilitazione interna, un ruolo centrale lo ebbe il boicottaggio internazionale. In quello palestinese il boicottaggio esiste, ha effetti concreti ma resta un’opzione delle società


il fiore del partigiano OLIDARITY COMMITTEE

«I dI

da il manifesto del 14 gennaio 2018

FranCeSCo Strazzari

l genere di fiction che preferisco sono le elezioni egiziane» – scrive l’architetto e umorista arabo Karl Sharro, riferendosi all’apparecchiatura elettorale che porterà il generale al-Sisi a celebrare la propria riproduzione con una corsa solitaria. Il quadro mediorientale e mediterraneo evolve rapidamente: la regione viene riconfigurata dallo scontro in atto fra sauditi ed Emirati da un lato, Qatar e Turchia – e dunque la Fratellanza Musulmana – dall’altro. Il Sudan, tradizionalmente vicino all’Egitto, è passato al campo avverso, amico della Fratellanza: un segnale che preoccupa il Cairo anche perché prefigura un asse con l’Etiopia, con conseguenze sulla partita vitale delle acque del Nilo. Persino il precipitare della crisi tunisina, questa settimana, porta traccia di questo scontro: Tunisi ha passato una legge di bilancio con tagli draconiani anche per restituire un grosso prestito al Qatar, mentre Abu Dhabi, iniziando con un travel ban alle donne tunisine sulla compagnia Emirates, esercitava pressioni per mettere fuori gioco a Tunisi il partito islamista Ennahda – affiliato alla Fratellanza. Le pulsioni autoritarie che caratterizzano la risposta al riaccendersi del conflitto sociale in Tunisia segnano un tentativo nemmeno troppo coperto di mettere da parte la formula di governo inclusiva e condivisa seguita dall’unica democrazia sopravvissuta dalle primavere arabe del 2011. Governi europei e Stati uniti non danno prova di scrupoli verso le semplificazioni autoritarie che si sono susseguite anche per effetto dello scontro in atto circa la natura e i termini dell’islamismo politico, a partire dal golpe militare che con il sostegno salafita portò al potere proprio al-Sisi, inaugurando la fase della reazione, come ben documenta Jean-Pierre Filiu nel recente Generali, gangster e jihadisti: storia della contro-rivoluzione araba (La Découverte). In Tunisia, la comunità internazionale detta l’agenda dell’aggiustamento di bilancio e del pacchetto austerità (che include misure poco comprensibili anche in chiave neoliberale, quali gli aumenti delle tariffe telefoniche): mentre prevedibilmente stenta a incoraggiare l’occupazione e un diverso patto di welfare, si prodiga ad assistere Tunisi sul versante militare e della sicurezza. Così che, mentre combatte le brigate jihadiste nelle regioni remote di Kasserine, il governo dispiega l’esercito nelle strade contro i dimostranti. Fra le centinaia di arresti, alcuni leader dell’opposizione, anche se i comunicati del governo, ampiamente ripresi dai media italiani, enfatizzano la presenza di «jihadisti fra gli arrestati». Ma ci sono modi più sottili per non disturbare i nostri «partner strategici» mentre sono impegnati a svuotare di senso e direzione la nozione di democrazia, assicurandosi il governo, reprimendo le rivendicazioni sociali, ed infine chiudendo la botola sui dissidenti. Nel nostro piccolo, ci distinguiamo sempre: mi riferisco al coro politico-mediatico da standing ovation che ha accompagnato la notizia della perquisizione di cui è

stata fatta oggetto la supervisor di Giulio Regeni a Cambridge. A leggere i principali quotidiani italiani sembrava avessimo mandato le teste di cuoio a fare irruzione nel campus. La polizia inglese ha poi chiarito di aver agito su mandato italiano con piena collaborazione di Abdelrahman su ogni richiesta. La notizia di una borsa intitolata a Giulio Regeni rende plausibile che ci sia stato un input di governo verso una linea di maggiore collaborazione. In questi due anni non sono mai stato tenero rispetto alla diffidenza e alla reticenza dell’ateneo britannico. E tuttavia occorre far ricorso a parecchia condiscendenza per nascondere dietro alla farisaica formula «indagare a 360 gradi» il dettaglio che Giulio è stato rapito, torturato e ucciso al Cairo, non a Cambridge. Le istituzioni di ricerca si avvalgono di comprensibili margini di autonomia, gli apparati di sicurezza no: eppure nello scenario di dinieghi e depistaggi egiziani, non si ha notizia di una sola perquisizione su mandato italiano in Egitto, dove si trovano gli assassini. Tutto ciò che abbiamo visto e appreso non lascia infatti ragionevole dubbio circa il coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani. Avanzamenti nell’inchiesta sono commisurati alla pressione che l’Italia sarà esercitare, e agli assestamenti degli equilibri interni del regime, che potrebbero prima o poi incrinare il patto di omertà. Ma ecco che invece che puntare lo sguardo sui meccanismi che proteggono i carnefici dal finire davanti a un tribunale, notizia che per l’Egitto avrebbe ripercussioni ben più ampie del solo «caso Regeni», in Italia si scatenano congetture che vanno alla ricerca di inneschi ed attenuanti, di una cornice di senso ed eccezionalità per tanto orrore, non volendone accettare la documentata quotidianità. Avvezzo alla fiction noir, il pubblico ha sete di colpi di scena e di «l’avevo sempre sospettato». Giulio Regeni insomma viene spogliato anche della dignità di ricercatore consapevole del lavoro che stava compiendo con competenza e professionalità, studiando – per l’appunto – la semplificazione autoritaria del conflitto sociale. Mentre nel Sinai egiziano l’Isis opera con checkpoint a cielo aperto, dichiarando guerra ad Hamas (Fratellanza), nella narrazione mediatica mainstream autoritarismo e conflitto sociale vengono rimossi, e Giulio Regeni, che era più avanti nel comprendere la natura delle sfide, viene ridotto a giovane ignaro e vittima sacrificale di una oscura macchinazione. Nelle insinuazioni più o meno esplicite che leggiamo su Maha Abdelrahman non c’è la sventolata ricerca della verità, né tanto meno il tentativo di non spezzare il filo della speranza di chi, a partire dagli assistenti legali dei Regeni, è finito nelle carceri egiziane. Prende forma invece un triste cocktail: risentimento provinciale verso la «perfida Albione», complesso di inferiorità verso Cambridge, senso di superiorità e invidia verso un’intellettuale egiziana, inquadrata con contratto precario in una prestigiosa istituzione. E, da ultimo, l’incapacità di capire che non stiamo servendo né verità, né giustizia, né democrazia, ma una fiction che ha per protagonisti dittatura e jihadismo. Y

(WWW.mAuRoBIANI.IT)

Salim Vally è impegnato in questi giorni in un tour in Italia, una serie di incontri sul ruolo del boicottaggio internazionale nella lotta all’apartheid. Informazioni su luoghi e orari nella pagina Facebook di Bds Italia.

Regeni, il coro mediatico dalla parte della contro-rivoluzione

mAuRo BIANI

civili, non dei governi. Quale la chiave per aprire le stanze dei bottoni? Nel caso sudafricano ci sono voluti decenni prima che si arrivasse al boicottaggio internazionale e che questo divenisse significativo: la prima chiamata la boicottaggio risale al 1959. Non abbiamo raggiunto questo livello con la questione palestinese, ma non significa che un movimento non esista. Significa che il supporto globale può avere effetti contro l’impunità di Israele, soprattutto in Europa, se si moltiplicano le spinte dalla base ai vertici. Ognuno di noi di fronte alle atrocità che vede deve giocare un ruolo: studenti, professori, organizzazioni, associazioni di donne e così via sono il solo mezzo di pressione sui governi al potere, che beneficiano loro stessi dell’occupazione israeliana. Abbiamo visto in questi giorni Ibrahim Abu Thuraya, disabile, ucciso da un cecchino israeliano mentre sventolava una bandiera, un omicidio extragiudiziale; la 16enne Ahed Tamimi arrestata per uno schiaffo; due milioni di persone sotto assedio a Gaza; 500 bambini arrestati ogni anno e torturati… posso andare avanti per giorni a elencare le atrocità israeliane. E tutto avviene nel silenzio internazionale. Dobbiamo agire ora perché la repressione che subiscono i palestinesi è ora. Netanyahu, il movimento dei coloni, la gran parte del governo israeliano la vedono come la soluzione definitiva a quanto iniziato nel 1948, un genocidio in termini di presenza fisica, culturale, sociale, così come lo definisce – usando la definizione dell’Onu – Ilan Pappe. Tutto questo può spingere la gente a guardare alla solidarietà internazionale e al rafforzamento delle organizzazioni di base palestinesi come sola alternativa alla posizione dei Y governi.

«COLPA DI CAMBRIDGE». IN ITALIA LE CONGETTURE COPRONO AL SISI

le idee

tante»

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MAI PIÙ FASCISMI! il fiore del partigiano

le idee

APPELLO A TUTTE LE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE

3 Gennaio 2018

Appello nazionale di Associazioni, Sindacati, Partiti, Movimenti democratici a tutte le Istituzioni democratiche

N

oi, cittadine e cittadini democratici, lanciamo questo appello alle Istituzioni repubblicane. Attenzione: qui ed ora c’è una minaccia per la democrazia. Si stanno moltiplicando nel nostro Paese sotto varie sigle organizzazioni neofasciste o neonaziste presenti in modo crescente nella realtà sociale e sul web. Esse diffondono i virus della violenza, della discriminazione, dell’odio verso chi bollano come diverso, del razzismo e della xenofobia, a ottant’anni da uno dei provvedimenti più odiosi del fascismo: la promulgazione delle leggi razziali. Fenomeni analoghi stanno avvenendo nel mondo e in Europa, in particolare nell’est, e si manifestano specialmente attraverso risorgenti chiusure nazionalistiche e xenofobe, con cortei e iniziative di stampo oscurantista o nazista, come recentemente avvenuto a Varsavia, persino con atti di repressione e di persecuzione verso le opposizioni.

Per questo, uniti, vogliamo dare una risposta umana a tali idee disumane affermando un’altra visione delle realtà che metta al centro il valore della persona, della vita, della solidarietà, della democrazia come strumento di partecipazione e di riscatto sociale.

Per questo, uniti, sollecitiamo ogni potere pubblico e privato a promuovere una nuova stagione di giustizia sociale contrastando il degrado, l’abbandono e la povertà che sono oggi il brodo di coltura che alimenta tutti i neofascismi.

Per questo, uniti, invitiamo le Istituzioni a operare perché lo Stato manifesti pienamente la sua natura antifascista in ogni sua articolazione, impegnandosi in particolare sul terreno della formazione, della memoria, della

conoscenza e dell’attuazione della Costituzione.

Per questo, uniti, lanciamo un allarme democratico richiamando alle proprie responsabilità tutti i livelli delle Istituzioni affinché si attui pienamente la XII Disposizione della Costituzione (“E` vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”) e si applichino integralmente le leggi Scelba e Mancino che puniscono ogni forma di fascismo e di razzismo.

Per questo, uniti, esortiamo le autorità competenti a vietare nelle competizioni elettorali la presentazione di liste direttamente o indirettamente legate a organizzazioni, associazioni o partiti che si richiamino al fascismo o al nazismo, come sostanzialmente previsto dagli attuali regolamenti, ma non sempre applicato, e a proibire nei Comuni e nelle Regioni iniziative promosse da tali organismi, comunque camuffati, prendendo esempio dalle buone pratiche di diverse Istituzioni locali.

Per questo, uniti, chiediamo che le organizzazioni neofasciste o neonaziste siano messe nella condizione di non nuocere sciogliendole per legge, come già avvenuto in alcuni casi negli anni 70 e come imposto dalla XII Disposizione della Costituzione.

Per questo, uniti, come primo impegno verso una più vasta mobilitazione popolare e nazionale invitiamo a sottoscrivere questo appello le cittadine e i cittadini, le associazioni democratiche sociali, civili, politiche e culturali.

L’esperienza della Resistenza ci insegna che i fascismi si sconfiggono con la conoscenza, con l’unità democratica, con la fermezza delle Istituzioni.

Nel nostro Paese già un’altra volta la debolezza dello Stato rese possibile l’avventura fascista che portò sangue, guerra e rovina come mai si era visto nella storia dell’umanità. L’Italia, l’Europa e il mondo intero pagarono un prezzo altissimo. Dicemmo «Mai più!»; oggi, ancora più forte, gridiamo «Mai Y più!». ACLI – ANED – ANPI – ANPPIA – ARCI – ARS – ARTICOLO 21 – CGIL – CISL – COMITATI DOSSETTI – COORDINAMENTO DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE – FIAP – FIVL – ISTITUTO ALCIDE CERVI – L’ALTRA EUROPA CON TSIPRAS – LIBERA – LIBERI E UGUALI – LIBERTÀ E GIUSTIZIA – PCI – PD – PRC – UIL – UISP

aderiscono:

AUSER - GIOVANI DEMOCRATICI - I SENTINELLI DI MILANO - LA RETE PER LA COSTITUZIONE - LINK COORDINAMENTO UNIVERSITARIO MOVIMENTO FEDERALISTA EUROPEO TOSCANA - MOVIMENTO GIOVANILE DELLA SINISTRA - RETE DEGLI STUDENTI MEDI - RETE DELLA CONOSCENZA - UGO NESPOLO UNIONE DEGLI STUDENTI UNIONE DEGLI UNIVERSITARI

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