anno 7 numero 18
aprile 2016
Festa della Liberazione
LETTERA DEL PRESIDENTE
L’Italia sia sempre antifascista
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Roma, 22 marzo 2016 Lettera del presidente nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia, ai Presidenti dei Comitati provinciali e ai membri del Comitato nazionale
Carlo Smuraglia
Presidente Nazionale ANPI
A pAginA 24 il testo del documento ➔
COSTITUZIONE,
PRIMO BENE COMUNE
Articoli dA pAginA 2 A pAginA 8 ➔
marilena nardi
eri mattina, assieme all’on. Albertina Soliani, Presidente dell’Istituto Alcide Cervi, siamo stati ricevuti dal Presidente della Repubblica, on. Sergio Mattarella, al quale abbiamo consegnato, illustrandolo, il documento conclusivo del seminario intitolato Per uno Stato pienamente antifascista, tenuto a Gattatico, presso la sede del Cervi, il 9 gennaio scorso. Il seminario era stato contrassegnato da un dibattito ampio e approfondito soprattutto su ciò che le istituzioni potrebbero (e dovrebbero) fare per rafforzare il contrasto ai movimenti neofascisti che affollano il nostro Paese e, più ancora, la rete. Il documento che Albertina Soliani ed io stesso abbiamo redatto a conclusione del seminario, esprime con nettezza la situazione di grave carenza delle istituzioni di fronte ad un fenomeno che appare sempre più in contrasto con l’indirizzo democratico e antifascista della Costituzione; ed è corredato, il documento, da una serie di proposte, tutte facilmente realizzabili, per precisi interventi normativi ed istituzionali, anche sul terreno delle autonomie. Su questo terreno non possono esserci né incertezze né esitazioni. Si tratta di contrastare, con tutti i mezzi e gli strumenti possibili, esclusa la violenza, un fenomeno che non solo è inaccettabile, costituendo un vero e proprio insulto alla memoria di quanti hanno combattuto e si sono sacrificati per la libertà e la democrazia, ma costituisce anche – come ci ammoniscono gli storici più avveduti – un pericolo per la stessa solidità delle istituzioni democratiche. Ma si tratta anche di insistere e premere, affinché le istituzioni svolgano fino in fondo il compito democratico loro affidato dalla Costituzione. Invito dunque tutti a svolgere su di esso riflessioni e confronti, traendone spunto per le vostre iniziative, di cui l’ANPI deve essere sempre alla testa. Ne raccomando, vivamente, la più ampia diffusione. Fraterni saluti, Y
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Torniamo a combattere il fiore del partigiano
aprile 2016
Festa della Liberazione
IL FORTE APPELLO DEL PRESIDENTE NAZIONALE SMURAGLIA AL CONGRESSO PROVINCIALE DI
A
In vista del referendum di ottobre, la nostra Associazione in
da libertaegiustizia.it del 2 aprile 2016
quasi 70 anni dal ‘47, l’ANPI torna in trincea per difendere la Costituzione elogiando Mattarella «che ci ha salvati da ciò che stava portando il secondo settennato di Giorgio Napolitano, ovvero dal semipresidenzialismo». Parole del Presidente, Carlo Smuraglia, intervenuto al congresso provinciale dell’Associazione nazionale partigiani italiani tenutosi a Palermo lo scorso 30 marzo nella sede della CGIL, secondo cui «è un dovere di tutti i cittadini vigilare sulla nostra democrazia, oggi sempre più in pericolo». Dal congresso, presieduto da Ottavio Terranova che ha consegnato la tessera ad honorem a Simona Mafai per la sua partecipazione alla Resistenza e alla battaglia per la libertà e l’emancipazione femminile, Smuraglia ha lanciato il suo forte appello per il No al voto nel referendum di ottobre, perché se dovesse vincere il Sì, ha detto, «potrebbe consolidarsi un sistema di potere che non tiene conto della natura della nostra Costituzione, repubblicana, democratica e antifascista. E questo è un rischio per la nostra libertà». All’evento, coordinato dall’avvocato Armando Sorrentino, hanno partecipato gli studenti del Liceo Scientifico “Benedetto Croce” e una delegazione di studenti provenienti da Catania che hanno attraversato in pullman la Sicilia per conoscere il pensiero dei parti-
Il Presidente Carlo Smuraglia
giani. Il professore, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ha bocciato in toto la riforma Renzi-Boschi: «è una grave manomissione della nostra Carta costituzionale e soprattutto della volontà costituente – ha detto – e mi sorprende che si sia deciso di andare di corsa». E ha precisato «che se è vero che una correzione al sistema bicamerale perfetto si possa anche attuare in una settimana, diverso è stravolgere la Costituzione con l’abolizione di fatto del Senato, trasformato in un “piccolo mostro”». Parole forti che fotografano la realtà politica del nostro Paese e il difficile momento che sta vivendo: «Viviamo in una fase di grande immoralità
della nostra classe politica. Un’immoralità crescente difficile da arginare. Mani pulite è stato uno scherzo di fronte a ciò che accade oggi: ad una corruzione dilagante e diffusa a tutti i livelli, che dobbiamo combattere. Attualmente la stragrande maggioranza dei consiglieri regionali di tutta Italia è sotto processo per avere intascato soldi destinati ai vari gruppi politici. Corruzione e cultura dell’impunibilità sono nemici da dovere affrontare e annientare. Questo non potrà mai essere un Paese serio destinato a crescere, fino a quando si continuerà a viaggiare su tali binari». Il presidente dell’ANPI ha elogiato il lavoro del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella che «ci ha salvati da ciò che stava portando il secondo settennato di Giorgio Napolitano, ovvero dal semipresidenzialismo. Una forma di potere divergente dagli ideali della nostra Costituzione, che vuole un presidente garante e al di sopra delle parti». Non poteva mancare tra i punti toccati da Smuraglia, la questione meridionale. Legata alla crescente disoccupazione e al dilagare delle mafie: «La questione meridionale è morta e affrontata dal governo col solito ritornello propagandistico del ponte sullo Stretto. È importante rivendicare il bisogno di queste terre martoriate dalle mafie, che oggi proliferano anche al Nord a causa di coloro che non le hanno combattute come avrebbero dovuto, con un impegno attivo e con l’esempio della buona politica».
Grazie, Smuraglia, non ci spazzeranno
LA SOLIDARIETÀ DI LIBERTÀ E GIUSTIZIA AL NOSTRO PRESIDENTE, DOPO GLI ATTACCHI DE L’UNITÀ da libertaegiustizia.it del 3 aprile 2016
a strategia di insultare, deridere e delegittimare gli avversari politici; la strategia di isolarli L quando si teme di non riuscire a sconfiggerli sul
piano delle idee e della politica viene da lontano. È la strategia preferita dalla mafia e in questo Paese ha fatto molte vittime, alcune illustri, altre sconosciute, uomini e donne che hanno pagato per non essersi allineati ai potenti, per essersi messi di traverso. In questo senso, il governo Renzi ha un catalogo abbastanza lungo e non guarda in faccia nessuno. Anzi, tanto più l’avversario è illustre per meriti che tutti riconoscono, tanto più va colpito, nella sua saggezza, negli atti della sua vita, nella sua onorabilità. Così, il disgustoso attacco di Fabrizio Rondolino su l’Unità era chiaramente volto a diffondere una caricatura del Presidente dell’ANPI, uomo a cui molti di noi sentono di dover gratitudine, rispetto, ammira-
zione. Uomo che nella sua vita è stato un esempio e che continua a esserlo anche oggi che si batte per il No allo stravolgimento della Costituzione, il Sì all’abolizione dell’Italicum. Uomo in prima fila contro le manifestazioni fasciste, che ha saputo spalancare le porte dell’ANPI a generazioni nuove, come pochi hanno saputo fare. Insomma, ci voleva l’Unità dei tempi di Matteo Renzi per osare questa vigliaccata. Immagino che lo stratega della comunicazione di Palazzo Chigi abbia un elenco di avversari da ridicolizzare e colpire. Avversari evidentemente che sono temuti. Avversari da annientare con la strategia mafiosa, e infatti passate poche ore, è toccato a Roberto Saviano (tempo fa nel mirino ci fummo la sottoscritta, che non ha nessun merito da rivendicare nella sua vita, e il presidente emerito della Corte Costituzionale, nonché presidente onorario di Libertà e Giustizia, Gustavo Zagrebelsky).
Così, dunque, faceva la mafia. E quando aveva deriso e isolato il suo obiettivo si sentiva più forte e, qualche volta, lo era davvero. Ma oggi le cose non stanno così. Attorno allo scontro sulla Costituzione c’è un’Italia che capisce e che fa paura a questo governo. Un’Italia che il «ragazzo di Rignano, un ragazzo semplice» (come si è definito Renzi in trasmissione da Lucia Annunziata) invece non capisce, perché la sua Italia ha un solo obiettivo: il potere. Conquistato nei modi che conosciamo: lo «stai sereno» a Enrico Letta, il giglio magico fatto dagli amici di sempre e dagli amici degli amici di sempre, i grandi poteri delle banche grandi (che chiesero di cambiare la Costituzione) e i grandi poteri delle banche piccole, che hanno messo sul lastrico i piccolissimi risparmiatori. La sua Italia fa le riforme con la destra di Verdini e gli accordi con CL, Opus Dei, massoneria , la sua Ita-
per la nostra Costituzione il fiore del partigiano
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PALERMO
prima linea contro lo stravolgimento della Carta di Renzi-Boschi
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di
Infine, il monito del professore a impegnarsi nel sensibilizzare i cittadini alla conoscenza della riforma costituzionale, per «abbattere l’ignoranza e l’indifferenza. Per far capire che questa riforma ha un solo obiettivo: azzerare il Senato per eliminare un ostacolo sulla via del trionfo del partito unico e del pensiero unico dominante. Dobbiamo parlare a tutti, per fare in modo che le informazioni non passino solo attraverso la televisione, brava a fare il gioco del governo. Dobbiamo pensare ad una campagna per il “No” come quando andavamo davanti le chiese a distribuire volantini, battere porta a porta perché il destino del nostro Paese è anche nelle nostre mani e la democrazia non va mai a riposo». Y Giorgio Mannino
via!
lia non si scandalizza se Flavio Carboni è considerato un esperto in presidenze bancarie… La sua Italia non capisce che oggi, attorno a Carlo Smuraglia, siamo in tanti a dirgli di farla finita. Lui, che ha già cominciato da tempo a invadere le tv per propagandare la Costituzione del suo governo, sappia che la nostra debolezza, la debolezza di noi del No, ci costringe ad essere ancora più uniti, ancora più decisi, ancora più convinti che la sua manovra di indebolire l’assetto della Repubblica parlamentare e la sovranità popolare sarà sconfitta il prossimo ottobre. E quel lugubre avvertimento in linguaggio dittatoriale di «spazzarci via»non ci fa nessuna impressione. Caro Carlo, grazie di tutto quello che fai, Libertà e Giustizia e tutti noi del No ti ringraziamo di essere con noi. Altro che isolamento e derisione! Y Sandra Bonsanti Consiglio di presidenza di Libertà e Giustizia
Gli argomenti deboli di chi sostiene la riforma da il manifesto del 31 marzo 2016
FRANCESCO PALLANTE
n queste prime settimane di dibattiti sulle riforme, volti a informare la cittadinanza, due argomenti tornano con una certa frequenza nei discorsi dei sostenitori del Sì: 1) che non si può giudicare il progetto di revisione della Costituzione alla luce della nuova legge elettorale; 2) che, in ogni caso, la contrarietà alla riforme è frutto di una presa di posizione «ideologica». Si tratta di due argomenti inconsistenti ma potenzialmente insidiosi, sui quali vale la pena di soffermarsi. Il primo argomento ammette implicitamente l’indifendibilità di un sistema basato sulla revisione costituzionale in atto e sull’Italicum, e cerca di preservare comunque la revisione costituzionale sostenendo che, con una diversa legge elettorale, la forma di governo potrebbe risultare meno squilibrata a favore dell’esecutivo. Per quanto improbabile (visto lo stretto legame instaurato dal governo stesso tra i due provvedimenti), naturalmente ciò è astrattamente possibile: è ovvio, per esempio, che una legge elettorale proporzionale renderebbe meno salda la presa dell’esecutivo sul sistema. Difficile, tuttavia, sentirsi rassicurati. E non tanto perché un’ipotesi remota ben poco può contro una realtà imminente. Quanto, piuttosto, perché si tratta di un modo di ragionare che si colloca al di fuori della logica del costituzionalismo. Se è vero, infatti, che il costituzionalismo nasce, nell’ambito della filosofia politica, come corrente di pensiero che, rifuggendo ogni assolutismo, propugna la separazione e la limitazione del potere a tutela dei diritti dei cittadini, ne consegue necessariamente che una buona costituzione non è quella che protegge i cittadini quando tutto va bene, ma, al contrario, quella che protegge i cittadini quando tutto va male. Facile dire che non si verificano pericolose concentrazioni di potere quando non ci sono i presupposti per concentrare il potere; il difficile è riuscire a dire lo stesso quando quei presupposti si verificano. Negli anni passati, la Costituzione vigente ha saputo, sia pur con molte difficoltà, impedire che forze politiche ampiamente venate da autoritarismi di destra avessero mano libera nel governare il Paese. E se oggi la stessa Costituzione non riesce a fare altrettanto contro le pulsioni del governo in carica, è perché è stata violata da un parlamento eletto con una legge ampiamente censurata dalla Corte costituzionale. Se il partito
democratico non avesse potuto godere dell’illegittimo raddoppio dei seggi conquistati nelle urne grazie al Porcellum, oggi non saremmo qui a discutere di revisione costituzionale. In definitiva, non solo il primo argomento del fronte del Sì non vale realmente a sostenerne le ragioni, ma è, all’inverso, un’altra freccia nella faretra dei sostenitori del No, dimostrando che la revisione costituzionale del governo fallisce proprio laddove non devono fallire le costituzioni: nella peggiore delle ipotesi – la più delicata e pericolosa – non impedisce la concentrazione del potere. Dunque: tecnicamente, non è una costituzione. Il secondo argomento ritiene, invece, di poter screditare chi si oppone alle riforme non controbattendo alle critiche nel merito, ma bollandole come frutto di un pregiudizio «ideologico». Ora, anche a sorvolare su quanto di ideologico vi sia nell’utilizzo in senso denigratorio della parola «ideologia», risulta difficile capire quale sia questa inaccettabile ideologia che oscurerebbe la ragione dei sostenitori del No. I numerosi con- tributi pubblici proposti dai critici insistono, forse fin troppo doviziosamente, sui difetti di queste riforme: l’abnorme premio di maggioranza, la mancanza di una soglia minima per l’accesso al ballottaggio, il finto (o comunque molto parziale) ritorno delle preferenze, la contraddittoria composizione del senato, l’assurda complicazione del procedimento legislativo, l’ingerenza del governo nell’agenda parlamentare, l’abbassamento della maggioranza richiesta per eleggere il presidente della Repubblica, ecc. Questo atteggiamento sarebbe «ideologico»? Affrontare il merito delle riforme e denunciarne le gravissime debolezze? La cosa davvero curiosa, peraltro, è che proprio i fautori dell’accusa di ideologismo si ritrovano sovente ad affermare che le riforme vadano comunque sostenute, nonostante i loro innegabili limiti, perché l’Italia è da troppo tempo vittima del proprio immobilismo ed è necessario dare un segnale di cambiamento, quale esso sia. Ora, facili ironie a parte (anche introdurre una teocrazia sul modello iraniano sarebbe un rinnovamento…), la domanda diventa inevitabile: e il culto del cambiamento a tutti i costi, la celebrazione delle riforme in quanto tali, l’idea che il nuovo è comunque meglio del vecchio: tutto ciò non è, invece, frutto di un pregiudizio ideologico? Che le cose, in Italia, vadano male è fuor di dubbio. Che la colpa sia della Costituzione pare, inY vece, ancora tutto da dimostrare.
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Rinnoviamo politica e is il fiore del partigiano
Festa della Liberazione
DOCUMENTO DEL COMITATO PER IL NO NEL REFERENDUM COSTITUZIONALE
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La raccolta delle firme contro le leggi regressive sul lavoro, l
a cura di
da iovotono.it.
MASSIMO VILLONE
iamo di fronte a un tentativo di nascondere quel che invece è ovvio. Andiamo a un referendum che non è con magnanimità concesso da Renzi al popolo italiano, quasi come una costituzione ottocentesca ottriata dal sovrano ai sudditi. Il referendum è un diritto degli italiani, perché lo scenario verso il quale andiamo è l’approvazione di una riforma costituzionale che non raggiunge la soglia dei due terzi dei componenti dell’assemblea, e che dunque apre la via alla richiesta di voto popolare ai sensi dell’art. 138. Ma ancor più significativo è che Renzi abbia voluto trasformare il referendum confermativo sulla riforma in un plebiscito su se stesso: o vincono i Sì, o me ne vado. Una scommessa plebiscitaria che stravolge il significato del voto popolare ed è – come non pochi commentatori hanno rilevato – intrinsecamente pericolosa. La mossa di Renzi apre uno scenario che va attentamente considerato, e che pone domande molteplici.
La prima. Perché la scommessa plebiscitaria? La risposta più immediata è che Renzi teme un confronto serio sulle scelte fatte, che vada oltre le battute e i tweet. Con la spinta plebiscitaria Renzi vuole coartare e condizionare il voto popolare. Vuole sostenere il Sì non con i ragionati argomenti di una buona riforma,
ma con la minaccia dell’instabilità e della crisi che seguirebbero alla vittoria del No. Esattamente come è già accaduto in Parlamento, dove la riforma vede la luce in mezzo a pressioni di ogni tipo e molteplici violazioni di regolamenti e prassi. Renzi vuole sequestrare il voto degli italiani dopo aver sequestrato quello dei parlamentari. Se avesse voluto mostrare rispetto per il libero voto dei cittadini avrebbe detto: qualunque sia il risultato del referendum lo accetterò, e se sarà negativo presenterò una riforma di segno diverso. Ha detto il contrario. Quindi il primo obiettivo della via referendaria che si apre è, appunto, quello di ridare agli italiani una piena libertà di voto. Una seconda domanda. Perché costruire una strategia referendaria alternativa a quella di Renzi? Una richiesta di referendum da parte anche dei parlamentari di opposizione ha il senso di non lasciare a Renzi e ai parlamentari di maggioranza il monopolio dell’iniziativa referendaria segnandone il significato. Mi fa piacere sentire che possiamo ritenere già acquisito che la richiesta vi sia. Ma voglio anche sottolineare che le pulsioni plebiscitarie di Renzi si contrastano non solo con la richiesta di referendum sulla riforma costituzionale da parte dei parlamentari, ma anche e forse più con cinquecentomila firme di cittadini italiani che scelgono la via referendaria per opporsi alle politiche di Renzi. Il plebiscitarismo si combatte soprattutto uscendo
dal palazzo, e non dentro le sue mura. Se sapremo portare – e io ho fiducia che riusciremo - mezzo milione di italiani a firmare la richiesta non solo del referendum costituzionale, ma anche di referendum abrogativi sulle leggi di Renzi, daremo una risposta forte. Parliamo delle leggi emblematiche del renzismo al potere: la cosiddetta Buona scuola, il Jobs Act, l’Italicum. Un tempo, manifestazioni popolari, appelli, scioperi avrebbero sortito l’effetto di bloccare o riorientare il lavoro del legislatore. Ma ciò accadeva quando il Parlamento era pienamente rappresentativo, ed esistevano corpi intermedi – partiti, sindacati – forti e radicati. Attraverso quei soggetti il Paese e le istituzioni erano in continuo dialogo. Oggi il pensiero unico dominante sceglie per l’illusione di una maggiore efficienza decisionale l’uomo solo al comando, la democrazia di mandato, la riduzione forzosa della rappresentatività. Le organizzazioni di partito sono sostanzialmente dissolte, i sindacati sono nell’angolo. In questo scenario le istituzioni diventano impermeabili e chiuse all’ascolto. L’unico strumento disponibile per pesare sulle scelte e contrastare con successo indirizzi politici inaccettabili è il voto referendario.
Una terza e conclusiva domanda. Quale strategia referendaria può essere efficace? Partiamo da una considerazione. Le scelte regressive fin qui adottate dal governo in
La Costituzione Bene Comune
UN UTILE VADEMECUM A CURA DI ALFIERO GRANDI E ALESSANDRO PACE
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utte le ragioni del No; un utile vademecum per informare e informarsi e per avere sempre una risposta pronta da contrapporre alle argomentazioni dei sostenitori del Sì. Si intitola La Costituzione bene comune il volume, edito da Ediesse, che raccoglie gli interventi svolti durante l’assemblea dell’11 gennaio scorso convocata dal Comitato per il No al referendum costituzionale. Novanta pagine nelle quali sono spiegate, con competenza e passione, le ragioni di un’opposizione che non è ideologica, ma fondata su argomenti precisi, oggettivi, documentati. A spiegare perché bisogna votare No al prossimo referendum di ottobre (che non è una gentile concessione del governo, ma una chiara disposizione costituzionale) sono giuristi e costituzionalisti del
calibro di Gaetano Azzariti, Felice Besostri, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Alfiero Grandi, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone, Gustavo Zagrebelsky. La “deforma” Renzi-Boschi ha superato l’ultimo passaggio parlamentare alla Camera (nel corso del mese di aprile), ma la campagna per il No è già partita: nel weekend del 9-10 aprile è iniziata infatti la raccolta delle firme: per sostenere il referendum (ne occorrono 500mila). Il volume si propone proprio di far conoscere le ragioni del No alla riforma costituzionale così come imposta dal governo. Ragioni che saranno la base per motivare la raccolta delle firme e, poi, convincere elettori ed elettrici a votare No in ottobre, quando avrà luogo il referendum. Y
PROMOZIONE SPECIALE DELL’EDITORE il volume è disponibile a partire da martedì 30 marzo e, per sostenerne la diffusione a sostegno della campagna per la raccolta delle firme, ediesse rispetto al prezzo di copertina di 10 euro lo propone scontato per acquisti: • da 5 a 10 copie, 7 euro la copia • da 11 copie in poi, 5 euro la copia. le richieste vanno inviate a Maggioli (tel. 06 44870283 - 06 44870325) al numero di fax 06 44870335 o ai questi indirizzi di posta elettronica: ediesse@cgil.it o ediesse.libri@cgil.it fornendo le informazioni indicate nel modulo a lato.
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stituzioni con i referendum il fiore del partigiano
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’ambiente, la scuola si lega ai quesiti costituzionali
carica e dalla sua maggioranza su temi di cruciale importanza per il Paese come la scuola, il lavoro, l’ambiente, le tasse non vengono dalle riforme istituzionali approvate o in corso di approvazione. Vedono la luce in un quadro costituzionale ancora immutato. Da questo vengono due corollari. Anzitutto, non basta battersi contro la modifica della Costituzione. Una vittoria nel referendum, con il rigetto della riforma in corso di approvazione, non potrebbe in alcun modo garantire che quelle scelte siano abbandonate. Il quadro costituzionale vigente non ha ostacolato il venire in essere di quelle leggi oggi, né porrebbe maggiori ostacoli domani. Da questo punto di vista il referendum costituzionale è certamente decisivo, ma da solo non basta. Può evitare che la situazione peggiori e che salga ancora la febbre, non curare la malattia. Né peraltro sarebbero di per sé decisivi i referendum “sociali” sulle leggi più emblematiche ordiniamo n. ................... copie del volume “la costituzione bene comune”
la spedizione avverrà in contrassegno tramite: • posta
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Struttura ...................................................... ....................................................................
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messe in campo dalla maggioranza al governo. Il referendum abrogativo incontra comunque un limite: il voto popolare può colpire in tutto o in parte una legge, ma non può cancellare o capovolgere l’indirizzo politico che la esprime. L’esempio dell’acqua pubblica è illuminante. La grande vittoria referendaria del 12 giugno 2011 non ha fermato la spinta alla privatizzazione, sostenuta da interessi forti e assentita da un legislatore per nulla attento agli esiti del voto popolare. La ragione è nel fatto che le scelte legislative si formano e si adottano nelle istituzioni. E se le istituzioni sono chiuse all’ascolto, e congelate in un deficit di rappresentatività che le isola dal Paese, gli orientamenti già bocciati nel voto potranno riprodursi traducendosi in leggi nuove nella forma, ma non nella sostanza. Una strategia referendaria potrà avere un risultato non effimero solo in presenza di istituzioni aperte, pienamente rappresentative, capaci di raccogliere le indicazioni espresse dal Paese nel voto popolare e disponibili a tradurle in volontà politica e scelta legislativa.
Per questo non basta che la stagione referendaria sia volta contro le politiche regressive del governo Renzi su temi pur decisivi, come il lavoro, l’ambiente, la scuola. Le norme eventualmente cancellate dalla vittoria dei Sì rimarrebbero come obiettivo nell’orizzonte politico delle istituzioni che le hanno prodotte. Con l’aggravante – purtroppo quasi certa – che le architetture politiche e istituzionali che si vogliono costruire saranno anche peggiori di quelle che oggi abbiamo. Le leggi da attaccare con i referendum sono il prodotto di un Parlamento snervato e leso nella sua capacità di rappresentanza dal Porcellum, e di un governo volto alla concentrazione del potere e alla filosofia dell’uomo solo al comando. Ma dobbiamo sapere che il Parlamento e il governo dell’Italicum e della riforma costituzionale in itinere saranno peggiori. Saranno accentuate le tendenze in atto, in specie con una ulteriore riduzione del peso e della rappresentatività dell’istituzione Parlamento, e la sostanziale marginalizzazione di ogni forma di partecipazione democratica. E non si può davvero sperare che in tale contesto si producano leggi migliori. Ad esempio, abbattere oggi col voto popolare le scelte più odiose per le libertà nella scuola e per il precariato non ci assicura che quelle scelte non tornino in campo. Istituzioni e politiche si legano strettamente. Se vogliamo rinnovare le politiche dobbiamo al tempo stesso rinnovare le istituzioni. Qui si recupera pienamente il senso del referendum costituzionale, e soprattutto si vede la
indispensabilità di affiancarlo con un referendum che colpisca le scelte politicamente e costituzionalmente inaccettabili della legge elettorale. È stato ripetutamente e ampiamente sottolineato il nesso tra lo stravolgimento dell’assetto costituzionale e l’Italicum, strumento essenziale del progetto volto alla marginalizzazione del Parlamento, alla concentrazione del potere sull’esecutivo, alla riduzione forzosa della partecipazione democratica. Se si vuole un risultato non effimero, se si vuole durevolmente incidere sugli equilibri politici e istituzionali del Paese è indispensabile battersi contro l’Italicum non meno di quanto sia necessario battersi contro lo stravolgimento portato dalla riforma della Costituzione. E dunque affiancare al referendum costituzionale una richiesta di voto popolare sull’Italicum, secondo i quesiti già depositati in Cassazione e volti a cancellarne le connotazioni incompatibili con una democrazia moderna e partecipata.
Si apre dunque in prospettiva una stagione referendaria lunga, per i tempi diversi che dovranno essere seguiti. Il referendum sulla riforma costituzionale, assumendo che il voto conclusivo nella Camera dei deputati è stato a metà aprile, dovrebbe tenersi in ottobre. Così ha annunziato lo stesso Renzi, salvo i rumors sulla possibilità – assolutamente da contrastare – che il voto sia anticipato in un election day con le amministrative. Al voto sui referendum abrogativi si giungerà a metà del 2017. Ma proprio la diversità di tempi consente di costruire la raccolta di firme per i referendum abrogativi, che si svolge nella primavera di quest’anno, come un lancio della campagna per il referendum costituzionale in autunno. La raccolta delle firme sarà l’occasione di informare, spiegare e convincere, sollecitando l’attenzione di un’opinione pubblica spesso distratta da problemi che la perdurante crisi economica rende più immediatamente pressanti. La raccolta delle firme non sarà solo un’occasione privilegiata di partecipazione democratica. Sarà anche essenziale per contrastare il prevedibile dominio governativo sull’informazione. Se poi il referendum sulla riforma costituzionale vedrà la vittoria del No, questo sarà un potente volano per il voto popolare del 2017 contro le leggi simbolo del governo Renzi. Quindi, una lunga stagione referendaria per istituzioni rinnovate, una politica nuova, indirizzi di governo alternativi rispetto a quelli in atto. Una stagione referendaria per cambiare il Paese, e riportarlo pienamente nei canoni di una democrazia moderna e partecipata. Y
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il fiore del partigiano
La Costituzione e la Grande Bellezza
Festa della Liberazione
LETTERA APERTA ALLA MINISTRA BOSCHI SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE IN CORSO
G
di
ROBERTA
da libertaegiustizia.it del 28 settembre 2015
DE
MONTICELLI
conSigliera di preSidenza di
leg
entile signora Ministra, non sono che una cittadina priva di competenze specifiche in materia costituzionale – oltre a quelle richieste a ogni cittadino, con il dovere di conoscere il patto fondamentale che ci lega gli uni agli altri attraverso l’assunzione dei nostri doveri e dei nostri diritti. Di conoscere e rispettare il patto fondamentale di cittadinanza, la Costituzione. Ma è proprio in base a questo dovere che le scrivo, signora Ministra, per esprimere il dolore profondo e lo sconcerto, che numerosissimi cittadini come me provano nel vedere demolito un altro pezzo della nostra Carta (57 articoli su 85). Non per essere sostituito da regole migliori, che cioè migliorino la qualità della vita democratica, nel suo aspetto di processo di formazione e attuazione delle decisioni che riguardano tutti noi; ma – al contrario – da disposizioni farraginose e incomprensibili, che mostrano – fin nella tessitura prolissa e sgrammaticata – l’assenza di un principio ispiratore intelligibile, a parte il mantra «abolizione del bicameralismo perfetto». Riporto qui solo alcuni degli argomenti che sono stati pubblicamente sollevati contro il metodo e il merito di questa riforma.
1) I promotori non hanno titolo a questa riforma. La prima fonte di questa obiezione è Piero Calamandrei, secondo il quale «Nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria». «Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti». La seconda è la Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale la legge con cui l’attuale Parlamento è stato eletto, privandolo dunque della piena e chiara legittimità che una riforma costituzionale esige. «Le Costituzioni sono al servizio della legittimità della politica e una Costituzione illegittima non può che produrre politiche a loro volta illegittime» (G. Zagrebelsky). La terza, siamo noi cittadini: l’ultima volta che ho votato per il suo partito, signora Ministra, il programma era completamente diverso, e l’idea di una riforma costituzionale – di questa portata poi! – mai è stata messa in un programma elettorale.
2) Semplificazione delle procedure deliberative? Ma ora ci saranno dieci diversi procedimenti legislativi, complicati dall’assenza di chiarezza sulla linea di confine fra materie statali e materie regionali, generatrice di infiniti litigi. Perfino l’accordo raggiunto fra maggioranza e minoranza del suo partito (strana assemblea costituente, anche questa: e gli altri?) aumenta la confusione: la prima metà di un comma dice che i senatori li “eleggono” i Consigli regionali, e la seconda metà che li “scelgono” gli elettori. Davvero sembra che ci si sia lottizzati anche i commi: il pensiero politico espresso da questo linguaggio qual è? «Non sembra difficile, inoltre, immaginare una nuova ondata di contenzioso costituzionale, questa volta tra Camera e Senato, in ordine al tipo di procedimento da seguire nei diversi casi (in proposito, il nuovo articolo 70 si limita a prevedere che i presidenti delle Camere decidono, di comune intesa, sui conflitti di competenza: ma, chi assicura che l’intesa sia effettivamente raggiunta?», F. Pallante).
3) Se un disegno c’è, sembra veramente uscito dalla mente di uomini piccoli, dall’orizzonte angusto fino a farci soffocare: disinteressati come sono a tutto quello che non è la gestione del loro personale potere nei prossimi pochi anni (dopo di loro può venire il diluvio). Il Senato è quella che la Costituzione italiana pensava come la Camera Alta (il suo Presidente è attualmente colui che esercita le funzioni di Presidente della Repubblica «in ogni caso in cui egli non possa adempierle», art. 86). La riforma lo rimpicciolisce a un “camerino” di interessi locali, spesso interessi personali di pura sopravvivenza giudiziaria. Ma insieme alla legge elettorale, l’intera riforma “costituzionalizza” l’umiliazione del Parlamento e rimette nelle mani dei piccoli arbitri dei piccoli uomini al potere di fatto la quasi totalità della decisione su ciò che “deve” essere. «La maggioranza deve essere prona, l’opposizione spuntata, le Camere sotto la sferza come vecchi ronzini ai quali si detta addirittura l’andatura (il “timing”) e il percorso (la “road map”). Il presidente del Consiglio usa un linguaggio sprezzante nei confronti di chi non ci sta (“ce ne faremo una ragione”; “asfalteremo”; “piaccia o non piaccia”, “porteremo a casa”, ecc.). La qualità del linguaggio è un segno spesso più eloquente di tanti discorsi programmatici» (G. Zagrebelsky). Ma «Se questo è l’obiettivo, si tratta non di riforma ma di capovolgimento della Costituzione.» (Ibid.)
Nessun ascolto, neppure una risposta o una controcritica alle molte virtuose alternative a questo “bicameralismo confuso” – citiamone due fra molte: quella di Zagrebelsky, dopotutto Presidente emerito della Corte Costituzionale, che optava per un modello di Senato come custode dei valori, e quindi non certo del passato, ma della nostra residua speranza di futuro, a fronte della dissipazione e dell’appropriazione privatistica di beni comuni con cui le consorterie d’affari e politica si stanno mangiando l’Italia. E quella di un Senato delle competenze, sul quale ribatte da più di un anno, ad esempio, un grande giornale non proprio giacobino (vedi la proposta di A. Massarenti discussa qui: http://www.phenomenologylab.eu/ index.php/2015/09/quale-democrazia-ilsenato-delle-competenze/). Aggiungerei, in particolare, delle competenze morali e delle “garanzie” – di una minima decenza pubblica: in un Paese dove se un candidato incandidabile per legge viene eletto, nessuno si stupisce che la legge venga messa da parte, e l’eletto governi una regione, dove un parlamentare viene sottratto al giudizio (in cambio di inconfessabili accordi) anche se ha dato dell’orangutango a una persona di colore. Ecco, signora Ministra, le scrivo nella speranza che trovi infine il modo di rispondere a queste obiezioni. Non a me, ovviamente – ma a tutti i cittadini che vorrebbero proporgliele e non hanno voce o non trovano ascolto. Perché non ricordo sia uscita dalle sue labbra un argomento in difesa della “sua” riforma diverso dal seguente: «Non ci faremo fermare da nessuno». Ma se il solo argomento resterà questo, mi lasci concludere, gentile Ministra: è un vero peccato che lei sia così bella. Perché la sua riforma, e i suoi argomenti, rappresentano invece il volto di una democrazia sfigurata (Copyright Nadia Urbinati 2014, consiglio lettura). Cioè della bruttezza senza riscatto di ciò che resterà della nostra Costituzione – del solo bene pubblico affidato alla nostra già così fragile coscienza civile. La sua grande, italiana bellezza, gentile Ministra, sarebbe solo Y l’ultima, sottile menzogna.
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Almeno seimila firme contro la cattiva politica
Festa della Liberazione
ANCHE NELLA NOSTRA ZONA IL COMITATO CONTRO “LA DEFORMA”
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el marzo scorso abbiamo costituito il Comitato per il No alla riforma costituzionale e il Sì all’abrogazione dell’Italicum, dell’Adda Martesana. Il Comitato ha attivato comitati comunali o riferimenti in quasi tutti i 28 comuni di questo vasto territorio (almeno 24). L’intelaiatura è costituita dalle sezioni ANPI presenti nei comuni, che da anni lavorano per costituire una struttura di zona che ci ha abituati ad un lavoro di relazione. Il Comitato Adda Martesana raccoglie associazioni, movimenti, forze politiche e sindacali, rappresentanti istituzionali e cittadini che si riconoscono nei valori e nei principi della Costituzione nata dalla Resistenza e che vogliono impegnarsi per il No alla riforma del Senato e per l’abrogazione dell’Italicum. Le modifiche istituzionali e l’Italicum, pur in apparenza distinte, sono funzionali una all’altra. Si riconoscono in un unico disegno volto a ridurre gli spazi di partecipazione, a disarticolare i luoghi della rappresentanza, a sminuire il ruolo del Parlamento a favore di un esecutivo forte. La raccolta di firme per l’abrogazione dell’Italicum è partita il 9 aprile, in alcuni co-
muni già si stanno organizzando i banchetti. Comunque i cittadini dei 28 comuni della nostra zona possono recarsi presso le segreterie comunali, dove troveranno i moduli da firmare. Sabato 30 aprile sarà il Referendum Day: in almeno 25 piazze di altrettanti comuni contemporaneamente saranno presenti i banchetti per la raccolta delle firme, che si ripeterà ogni fine settimana sino al 20 giugno. L’obiettivo della nostra zona è di raccogliere almeno 6.000 firme. Organizzeremo anche dibattiti e conferenze per approfondire i contenuti delle leggi in questioni. Abbiamo organizzato il primo dibattito il 22 marzo a Cernusco, alla presenza di Ugo Giuseppe Rescigno, del Coordinamento nazionale per la democrazia costituzionale e di Roberto Cenati, Presidente dell’ANPI di Milano. Il prossimo si terrà a Cassano d’Adda mercoledì 11 maggio, presso l’Auditorium della Biblioteca comunale in via Dante, 4, alle ore 21. Saranno presenti Felice Besostri, presentatore ed estensore del ricorso contro l’Italicum e Marcello Scipioni, Segretario Generale FIOM Milano.
La raccolta delle firme è l’inizio della mobilitazione contro le revisioni costituzionali che si intensificherà probabilmente dopo la tornata amministrativa, sino ad arrivare al culmine quando ad ottobre si voterà sul referendum conservativo alla riforma costituzionale. Il referendum sulla legge elettorale, se raggiungeremo le 500.000 firme necessarie, si terrà probabilmente nella primavera del 2017. I mezzi a nostra disposizione sono limitati. La nostra forza sarà, se ne saremo capaci, l’essere presenti in modo capillare in mezzo ai cittadini, per spiegare nel merito le modifiche previste dal governo e i motivi per cui le riteniamo sbagliate e pericolose. Non ci interessa trasformare il referendum in un plebiscito pro o contro il Presidente del Consiglio. La scelta di personalizzare il risultato del referendum sulla Costituzione è una scelta sua, a cui noi non aderiamo. Y Franco Salamini
ANPI di Cernusco s/N
COMMENTO DI SMURAGLIA SULLA RIFORMA DEL SENATO
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La riforma del Senato, strappo alla Costituzione 14 aprile 2016
on la votazione del testo, senza più discussione né voti su emendamenti, si conclude l’iter della riforma del Senato. La scena della prima seduta parla da sola: i banchi semivuoti, tutte le opposizioni assenti. È l’esatto contrario di ciò che avrebbe voluto il legislatore costituente, anche con l’articolo 138: modifiche apportate con largo consenso e non con una semplice maggioranza di governo. Si conclude così un lungo e triste cammino. Dico triste perché una vera e approfondita discussione di merito non c’è stata e ciò che colpisce è la povertà degli argomenti addotti proprio dai sostenitori della riforma. In una precedente seduta, definita “cruciale”, si sono approvate alcune modifiche, per venire incontro – si è detto – alle opposizioni e soprattutto alla minoranza del PD. Ma le modifiche sono state assolutamente inconsistenti anche se poi hanno ricevuto l’approvazione. Mi soffermo solo un momento sul famoso art. 2, oggetto di tante controversie e relativo alla “elezione” dei futuri senatori. La semplice lettura del
nuovo e definitivo testo lascia basiti. Si è aggiunto che i senatori saranno eletti «in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge, di cui al 6° comma». Si va al comma 6 e si scopre che le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato fra consiglieri e sindaci saranno determinate da una legge approvata da entrambe le Camere. Dunque, uno dei punti principali della riforma, che dovrebbe costituire addirittura un evento storico è rinviato alla legislazione ordinaria. Fino ad allora il cittadino interessato non saprà in cosa consiste la elettività dei senatori e tanto meno quale sia il significato di quella frase, effettivamente un po’ “vaga”, che vuole che i senatori siano eletti «in conformità delle scelte espresse dagli elettori». Si è mai visto nulla di simile in materia costituzionale? E coloro che votano tranquillamente questa riforma, si rendono conto che stanno votando su un guscio vuoto proprio in uno degli aspetti fondamentali? Era solo un esempio. Comunque, varata la riforma, si passerà al refe-
rendum, che si svolgerà, a quanto pare, in ottobre. Peraltro non bisogna aspettare fino ad ottobre, ma bisogna muoversi subito per informare e chiarire ai cittadini, che dovranno votare con cognizione di causa. Avviamo, insomma, la campagna referendaria nella quale, ha detto il Presidente del Consiglio, che «non si parlerà solo di contenuti». E di cosa altro allora? Noi non votiamo per la sopravvivenza del governo o per la sua caduta; ci impegniamo, con tutte le nostre forze, per cercare di impedire uno strappo alla Costituzione, che è anche uno strappo alla democrazia, o, quantomeno, alla rappresentanza ed al completo esercizio della sovranità popolare. E sia chiaro: la battaglia può anche essere impegnativa, ma è tutt’altro che invincibile; e noi vogliamo vincere il referendum perché crediamo sia giusto e corrispondente alla volontà dei costituenti. Per questo, dunque, da domani, anzi Y da oggi, tutti al lavoro!
Carlo Smuraglia
Presidente Nazionale ANPI
il fiore del partigiano
La Costituzione è la via
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Festa della Liberazione
TORNIAMO A PEDALARE SEGUENDO LA “STRADA MAESTRA”
Domenica 24 aprile ci ritroviamo da tutta la Zona Fiume Adda, in bicicletta come l’anno scorso. Sarà il nostro modo di festeggiare la Liberazione e ribadire che le conquiste democratiche vanno difese e rafforzate anche oggi, sempre. Molte le iniziative che in ogni paese le nostre sezioni hanno preparato in ricordo dei partigiani e in difesa del bene supremo della Libertà, da loro riconquistato per tutti
Basiano e Masate
L’Assessorato alla Cultura dell’Unione Lombarda dei Comuni di Basiano e Masate, in collaborazione con l’ANPI - Sezione “G. Alberganti” Basiano-Masate, organizza, in occasione delle celebrazioni per il 25 aprile, 71° anniversario della Festa della Liberazione
• Sabato 23 aprile, ore 10.30 Piazza della Repubblica - Masate Deposizione della corona d’alloro al cippo commemorativo e concerto del Corpo bandistico di Burago Molgora Saluto del sindaco di Masate
e interventi dell’on. Matteo Mauri e di Antonia Bini, Presidente Sezione ANPI Basiano-Masate.
ore 21 Sala consiliare di Masate Concerto “NOTE DI LIBERTÀ” del Coro di Cassano D’Adda con filmati e letture a tema.
• Dal 16 al 26 aprile Atrio del municipio di Masate durante gli orari di apertura degli uffici comunali Mostra sulla Resistenza A cura della Sezione ANPI Basiano-Masate.
Bellinzago
L’ANPI, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Bellinzago Lombardo invita alle iniziative per il 71° anniversario della Liberazione
• Lunedì 25 aprile, ore 10,00 Allestimento e visione di pannelli tematici presso il municipio. ore 11,15 Ritrovo presso il comune Breve saluto ai partecipanti,
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il fiore del partigiano Inzago
Festa della Liberazione
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alzabandiera e deposizione di una corona d’alloro. Parteciperà la Filarmonica La Concordia. ore 12,00 Aperitivo partigiano.
L’ANPI di Inzago, sezione Quintino Di Vona, e il Comune invitano a celebrare il 25 Aprile 2016 71° anniversario della Liberazione
• Giovedì 21 aprile, ore 21.00 Auditorium del Centro de André Concerto-conferenza: Storia e origini di “Bella ciao” con ballate eseguite alla chitarra da Giordano Dall’Armellina. A cura dell’ANPI.
ore 14 Ritrovo alla stazione MM di Gessate per partecipare alla manifestazione a Milano.
Cassano
• Domenica 24 aprile Biciclettata partigiana Partenza da Cassano d’Adda alle ore 9.00, arrivo a Pessano alle ore 11.30. Per Inzago l’appuntamento è alle ore 9.30 in Piazza Maggiore.
L’ANPI, l’ANPC e il Comune di Cassano d’Adda invitano tutta la cittadinanza a partecipare alle iniziative nell’ambito del 71° anniversario della Liberazione
• Lunedì 25 aprile, ore 8.30 S. Messa in chiesa parrocchiale a suffragio di tutti i caduti.
Festa della Liberazione
• Lunedì 25 aprile, ore 09.00 S. Messa nella chiesa di S. Zeno
ore 9.45 Ritrovo presso il Palazzo Comunale Corteo verso il cimitero Deposizione di una corona d’alloro alla Cappella dei Caduti. Accompagnamento musicale della banda parrocchiale S.ta Cecilia di Inzago.
ore 09.45, piazza Matteotti Concentramento, corteo e alzabandiera in Piazza Garibaldi.
ore 10.15 Corteo al cimitero di Cassano d’Adda e orazioni ufficiali.
ore 10.45 Deposizione di una corona d’alloro sulla lapide del prof. Quintino Di Vona in Piazza Maggiore. Discorso del Sindaco e di un rappresentante ANPI. Al termine, inaugurazione della mostra “Disegni in libertà” realizzati dagli alunni della scuola primaria.
Cernusco
L’ANPI di Cernusco sul Naviglio, sezione “Riboldi-Mattavelli” e il Comune ricordano le manifestazioni in programma per celebrare il 71° della Liberazione
• Giovedì 28 aprile, ore 21.00 Auditorium del Centro de André “La mia bandiera” – La Resistenza al femminile - film documento. A cura dell’ANPI.
• Lunedì 18 aprile, ore 21.00 Centro Cardinal Colombo - Piazza Matteotti Incontro “Europa: il sogno naufraga nel Mediterraneo?” Intervengono Giulia Albanese, storica (Università di Padova), autrice del libro “Dittature mediterranee”, Gad Lerner, giornalista, Monica Fabbri, presidente del concistoro della chiesa valdese di Milano, tra le promotrici del progetto umanitario Mediterranean Hope. A cura dell’ANPI. • Mercoledì 20 aprile, ore 20.30 Casa delle Arti - Via De Gasperi,5 “(R)Esistere... in cucina” Spettacolo teatrale inserito nel Piano per il Diritto allo studio, a cura di Arianna Scommegna (ATIR Teatro Ringhiera).
• Sabato 23 aprile, ore 15.30 Biblioteca Civica - Sala Camerani Via Fatebenefratelli “La musica come arte di resistenza” Al Kamandjati: un’orchestra che sfida l’esercito. Testimonianze e immagini dalla Palestina. Con la partecipazione del Bardaro Clarinettes Ensemble. A cura della LUD (Libera Università delle Donne).
• Lunedì 25 aprile, ore 9.45
Pioltello
L’Amministrazione Comunale e l’ANPI invitano la popolazione a festeggiare il 25 aprile 2016 71° anniversario della Liberazione
Corteo cittadino da Piazza Conciliazione a Largo Riboldi e Mattavelli. Discorsi delle autorità in Piazza Matteotti.
• Martedi 26 aprile, ore 21.00 Biblioteca Civica - Sala Camerani Via Fatebenefratelli Presentazione del libro “Stupri di guerra e violenze di genere”. Interviene Patrizia Cecconi, coautrice del libro. A cura dell’UDI Donnedioggi Cernusco s/N e Martesana. www.memoriarinnovabile.org
• Domenica 24 aprile, ore 15.30 Posa della corona d’alloro alla lapide ai Caduti presso Villa Opizzoni in via Aldo Moro n. 22.
Ore 16.00 Omaggio floreale ai defunti che l’ANPI, riconoscente, ricorda presso il cimitero di Pioltello. • Lunedì 25 aprile, ore 10.20 Piazza della Repubblica Ritrovo con le autorità comunali e istituzionali, le associazioni cittadine
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Salvare l’Europa dal naufragio
Festa della Liberazione
CERNUSCO S/N - L’OTTAVA EDIZIONE DELLA RASSEGNA “I COLORI DEL 25 APRILE”
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ccoci giunti all’VIII edizione de I colori del 25 aprile, la rassegna che l’ANPI di Cernusco s/N organizza in collaborazione con altre associazioni del territorio. Quest’anno ci è parso purtroppo scontato declinare gli argomenti delle proposte sull’art. 11 della Costituzione italiana: troppe le guerre e i venti di guerra che soffiano nel mondo. Diverse e di grande spessore le iniziative che compongono la rassegna. Si parte il 18 aprile (ore 21.00 Centro Cardinal Colombo) con un incontro promosso dall’ANPI dal titolo Europa: il sogno naufraga nel Mediterraneo? in cui avremo modo di ragionare sulla nascita dei regimi totalitari in Italia, Spagna e Portogallo con Giulia Albanese, storica dell’Università di Padova, che nel suo ultimo libro, Dittature mediterranee (Laterza), mostra come i fascismi nati in Italia, Spagna e Portogallo abbiano preso piede in un’epoca di grande sfiducia nelle istituzioni liberali e costituzionali, in primis il Parlamento, di crisi dei partiti, di ingovernabilità, di corruzione, di deficit di rappresentanza. La connotazione nazionalista di questi regimi totalitari, che facevano leva sul senso di identità e di appartenenza e sul disprezzo del “diverso”, sarebbe sfociata nelle guerre coloniali e nella seconda guerra mondiale. Dalla storia passeremo, con il giornalista Gad Lerner, ad analizzare la
situazione attuale, con le guerre che stanno infiammando il mondo e stanno provocando stravolgimenti umanitari che l’Europa, priva di una prospettiva comune e solidale, fatica a gestire se non erigendo muri, veri o ideali, e appaltando la sua politica estera alla Turchia. A darci un barlume di speranza il progetto Mediterranean Hope, un corridoio umanitario promosso dalle Chiese evangeliche in Italia (FCEI) e finanziato dall’otto per mille della Chiesa evangelica valdese, importante esempio di politica estera dal basso. Ce ne parlerà Monica Fabbri, presidente del Concistoro della Chiesa valdese di Milano. Il 20 aprile (ore 20.30 Casa delle Arti) assisteremo a (R)Esistere... in cucina, spettacolo teatrale sulla multiculturalità messo in scena dalla II E della scuola media di piazza Unità d’Italia e inserito nel Piano per il Diritto allo studio del Comune di Cernusco. Il laboratorio, per il quarto anno di fila, è coordinato dalla bravissima attrice milanese Arianna Scommegna dell’ATIR Teatro Ringhiera. Il 23 aprile (ore 15.30 Biblioteca civica “Lino Penati”) protagonista dell’iniziativa della LUD (Libera Università delle Donne) sarà l’esperienza, raccontata attraverso immagini e testimonianze, dell’orchestra franco-palestinese di Ramallah Al Kamandjati, che suona nei campi profughi e nei
luoghi più pericolosi e critici del territorio palestinese, usando la musica come mezzo di resistenza contro i soprusi quotidiani e come strumento di riscatto non violento per quei giovani che, sopraffatti dal senso di ingiustizia e dalla mancanza di libertà e dignità, rischiano di perdersi. Ad accompagnare questa iniziativa le note emozionanti dei musicisti del Bardaro Clarinettes Ensemble. Il 26 aprile (ore 21.00 Biblioteca civica “Lino Penati”) l’UDI di Cernusco e Martesana presenterà Stupri di guerra e violenze di genere alla presenza di Patrizia Cecconi, una delle coautrici del libro. In continuità con il lavoro che l’UDI da anni svolge sul territorio, verrà analizzato con coscienza critica il tema dello stupro contro le donne come arma da guerra usata in modo strategico per annientare la “razza” e l’“etnia” del nemico. Così avvenne storicamente durante la Seconda Guerra mondiale, nelle dominazioni coloniali e nel genocidio armeno, e in Italia con le “marocchinate” e le “mongolate”, e così è avvenuto più di recente con le terribili violenze nell’ex Jugoslavia, in Ruanda, Palestina, Somalia, Nigeria, India, Birmania, Darfur, nelle terre curde occupate dall’ISIS e in America Latina, senza tacere gli “stupri di pace” ad opera delle cosiddette forze di peaY cekeeping. Giovanna Perego
ANPI di Cernusco s/N sezione Riboldi-Mattavelli
L’APPELLO DEL COMITATO PERMANENTE ANTIFASCISTA
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25 aprile 2016 Antifascismo, democrazia, solidarietà 15 aprile 2016
ai come oggi la pace, bene prezioso conquistato dalla resistenza italiana ed europea è in serio pericolo. la guerra è – di per sé – il contrario dei diritti umani, perché ogni guerra, necessariamente, li calpesta e non di rado li annulla. ma i diritti umani sono il fondamento della nostra convivenza, messa seriamente in discussione dallo stragismo jihadista che ha provocato centinaia di vittime innocenti a parigi e a Bruxelles. dalle guerre e dalla fame stanno fuggendo centinaia di migliaia di esseri umani che cercano accoglienza e rifugio nel nostro continente. ma l’europa, nella quale si sta pericolosamente ripresentando il virus del nazionalismo e della xenofobia, sembra soltanto capace di erigere muri, reticolati e barriere di filo spinato. non è questa l’europa sognata da altiero Spinelli, ernesto rossi, eugenio colorni nel manifesto di Ventotene e dai resistenti europei. Quella era un’europa fondata sui principi di solidarietà, accoglienza e che guardava alle sofferenze della gente. È urgente ripristinare quella sensibilità civile, quell’attenzione ai più deboli, cardini di un mondo giusto e vivibile per tutti. Siamo di
fronte nel nostro paese, travagliato da una gravissima crisi economica, ad una pesantissima caduta dell’etica pubblica, al manifestarsi quasi quotidiano di fenomeni di corruzione. la conseguenza inevitabile di questa deriva è costituita dalla perdita di fiducia e dal diffondersi di un acuto disinteresse da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni e della politica. il distacco dei cittadini dalla cosa pubblica va superato con una forte e profonda rigenerazione della politica che, richiamandosi ai valori della resistenza, riconduca gli amministratori pubblici al dovere costituzionale di servire la collettività e il bene comune. al lavoro, valore fondante della repubblica, deve essere restituito il suo ruolo e la sua dignità, eliminando il contrasto stridente tra i principi costituzionali e la durissima realtà del nostro paese. i giovani, in particolare, avvertono drammaticamente il disagio di non poter accedere al mondo delle professioni, di dare dunque degno e fattivo sviluppo alle proprie capacità e seguito ai sacrifici messi in campo per studiare e ottenere competenze. È indispensabile ribadire ancora una volta che i valori a cui ispirarsi sono solo e sempre quelli costituzionali, di una democrazia fondata sulla rappresentanza, la partecipazione, sulla divisione e l’equilibrio dei
poteri, sul rispetto della persona umana, delle istituzioni, delle regole da parte di tutti. non è più tollerabile che si ripetano, con sempre maggiore frequenza, nel nostro paese e a milano, città medaglia d’oro della resistenza, manifestazioni di movimenti neofascisti, antisemiti e xenofobi in netto contrasto con i principi e con il carattere antifascista della costituzione repubblicana. ai Sindaci e ai prefetti chiediamo, in questo senso, attenzione, coraggio e consapevolezza piena del proprio ruolo di tutori della democrazia, minacciata dai suddetti movimenti. nella ricorrenza del settantunesimo anniversario della liberazione e del 70° anniversario dei grandi eventi del 1946 (repubblica, voto alla donne, costituente ) che segnarono i primi passi della democrazia, dopo l’oscurantismo fascista, dobbiamo assumere l’impegno solenne a realizzare gli ideali per cui tanti sacrifici sono stati compiuti dai combattenti per la libertà e a tradurre nella realtà i valori contenuti nella nostra costituzione, consegnando ai giovani la speranza di un futuro migliore, in un’italia libera e democratica e in un’europa unita, sociale e in cui venga collocato al primo posto, come indicato dall’art.2 della costituzione, il dovere della solidarietà. Y
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il fiore del partigiano
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Festa della Liberazione
e il corpo musicale S. Andrea.
ore 10.30 Corteo lungo le vie cittadine, omaggio floreale al Monumento ai Caduti in Piazza Giovanni XXIII, proseguimento verso il Monumento ai Martiri della libertà in via Don Carrera, posa della corona d’alloro, discorsi celebrativi delle Autorità. Conclusione presso il cortile della Cooperativa del Popolo di via Bozzotti.
ore 15.00 Manifestazione nazionale a Milano Ritrovo a Porta Venezia.
da dove partiremo per Inzago - Bellinzago Gorgonzola - Pessano con Bornago. Ad ogni monumento porteremo dei fiori e leggeremo articoli della Costituzione della Repubblica. Al termine ad accoglierli ci saranno il Gruppo 1000 E UNA NOTA ed un ritemprante ristoro. • Lunedì 25 aprile
Truccazzano mattina: manifestazione per il 25 aprile palazzo Comunale.
• Lunedì 25 aprile
Pozzuolo Martesana pomeriggio, ore 15.00 corsa campestre non competitiva su un percorso di 5 km “Corsa per il 25 aprile” con i ragazzi delle scuole e con i genitori, in collaborazione con il Comune di Pozzuolo Martesana. ore 16.30 Celebrazione del 25 aprile discorsi celebrativi e banda musicale.
• Dal 22 aprile al 1° maggio Festa ANPI nel cortile della Cooperativa di via Bozzotti.
Pozzuolo-Truccazzano
La Festa della Liberazione nel suo 71° anniversario anche quest’anno si svilupperà con molti appuntamenti
Ci vediamo alla biciclettata e a Milano, alla manifestazione nazionale. Buon 25 aprile a tutti! Y
• Domenica 24 aprile Biciclettata partigiana ci troviamo direttamente a Cassano d’Adda presso il cippo dei partigiani fucilati (di fronte alla Casa di Riposo) alle ore 09,00
BELLINZAGO LOMBARDO: CON LA SCUOLA LE INIZIATIVE PROPOSTE AI GIOVANI
L’
Studiare la Storia di ieri per capire i fatti di oggi
attività della sezione ANPI di Bellinzago Lombardo destina molte delle sue energie al coinvolgimento dei più giovani. Per il 27 gennaio scorso, Giorno della Memoria, si è tenuto lo spettacolo dedicato alle ragazze e ai ragazzi della Scuola Secondaria. Lavoro, libertà, uguaglianza, diritti e doveri, ripudio della guerra e laicità sono alcune delle tematiche toccate nell’evento proposto dal gruppo Cantosociale, avvalendosi di letture, musiche e canzoni. Lo spettacolo fa parte del progetto promosso dall’ANPI alla Scuola Secondaria, la cui finalità è l’educazione ai principi e ai valori della Costituzione Italiana. I soggetti coinvolti sono studenti e docenti, l’Amministrazione Comunale, il centro di aggregazione giovanile e volontari. Il progetto prevede più fasi: iniziato con la consegna della Costituzione nel giugno del 2015, è proseguito nell’anno scolastico in corso con la realizzazione di sei strutture a forma di aquiloni e pannelli su cui sono riportati i primi 12 articoli della Costituzione. I manufatti, tagliati, assemblati e colorati, sono esposti nell’atrio dell’Istituto. Durante le fasi di realizzazione del progetto e in collaborazione con il CAG (Centro di Aggregazione Giovanile), si sono realizzati altri manufatti, dedicando ulteriori momenti alla memoria. Tutto si conclude il 25 aprile con un momento di
ritrovo e di festa collettiva alla Scuola Secondaria. Nella presentazione dello spettacolo del 27 gennaio il Presidente ANPI, Angelo Brambilla, dopo aver ricordato gli antefatti, lo spirito e le modalità che hanno portato alla scrittura della Costituzione, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di rispettarne e difenderne i principi che rappresentano una garanzia per la tutela dei diritti di tutti, comprese le future generazioni e quindi anche i ragazzi e le ragazze di oggi. Lo spettacolo racconta le sofferenze di coloro che persero la vita nei lager. Attraverso storie, canti, musiche, fa vivere la memoria di coloro che portavano cuciti addosso il triangolo blu, rosa, rosso, giallo... Lo spettacolo di testimonianza è stato introdotto descrivendo le analogie esistenti tra il passato e il presente: si è parlato delle tante guerre e dei conflitti in atto oggi in Paesi a noi vicini, che mettono in serio pericolo la convivenza tra i popoli e accentuano le paure per il futuro. Milioni di persone spesso finiscono stipate e affamate in campi di accoglienza di Paesi vicini nettamente più in difficoltà di noi. Molti, nel loro viaggio della speranza, finiscono vittime del mare o dei trafficanti senza scrupoli che alimentano il terrorismo o l’illegalità. Spesso vengono ignorati o visti come un problema dalle
comunità dell’Europa, perciò ostacolati nella loro marcia verso la speranza di una nuova vita. Alcune delle immagini proiettate ci hanno dimostrato che le sofferenze patite oggi da migliaia di esseri umani nelle città bombardate, nei campi profughi, e durante i viaggi della speranza, sono analoghe a quelle vissute nei lager più di 70 anni fa. Gli studenti hanno letto l’art. 10 della nostra Costituzione che recita: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio di libertà […] ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge». Può una società in decadenza e in forte calo demografico provare a pensare ai migranti come ad una risorsa per un nuovo ed equilibrato sviluppo, piuttosto che un aggravio delle nostre precarie condizioni sociali ed economiche? Come Associazione, siamo sicuri che un popolo con una lunga storia di migrazioni come quello italiano saprà trovare le ragioni, l’umanità e le risorse economiche necessarie per affrontare in modo democratico il fenomeno dell’immigrazione che, lo si voglia o no, durerà nel tempo e che difficilmente potremo fermare con barriere mentali o materiali. Y Il direttivo Sezione ANPI di Bellinzago Lombardo
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il fiore del partigiano
Cesare Beretta: un partigiano pioltellese in Piemonte
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le persone - la Storia
PIOLTELLO: GLI UOMINI CHE FECERO LA RESISTENZA (3a PUNTATA)
Completiamo la pubblicazione dei profili biografici di tre giovani (al tempo della Resistenza) partigiani di Pioltello: Rino Bescapè, Nino Cibra e Cesare Beretta. I primi due parteciparono alla lotta di liberazione fra Pioltello, la zona della Martesana e Milano, il terzo in Piemonte. Rino Bescapè è stato il protagonista della prima puntata, Nino Cibra della seconda, sullo scorso numero del nostro giornale; entrambi i ritratti sono stati ripresi da un opuscolo curato da Pierino Rossini. Il profilo di Cesare Beretta che qui presentiamo è tratto dal sito “memoriarinnovabile.org”
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«... L’arma buona è il cervello...» Cesare Beretta
esare Beretta nasce a Pioltello il 20 novembre 1924. Non ancora ventenne decide di salire in montagna per dare il suo contributo alla liberazione del Paese. Una serie rocambolesca di coincidenze lo porta in contatto con alcune staffette partigiane di Saluzzo, in Piemonte. Parte da Pioltello a fine maggio 1944 insieme a Ulderico Colombo (1925), nome di battaglia “Ulderico”, e Mario Spada (1924) nome di battaglia “Albano”, mentre quello di Cesare sarà “Alfredo”. Dopo una serie di collegamenti con alcune bande partigiane, riesce a approdare al Montoso ed entra ufficialmente nella IV Brigata Garibaldi I Divisone Cuneo “Leo Lanfranco”. Resta in montagna fino all’aprile del 1945, quando il giorno 23 aprile viene dato l’ordine di partire per la liberazione di Torino. Sono mesi
faticosi, di sacrifici e sofferenze, rischi e paure, la pressione militare di tedeschi e fascisti non lascia mai tregua, ma sono anche momenti di formazione umana e politica: il legame di fratellanza con i compagni partigiani anche di diverse tendenze politiche, il rapporto trasparente e profondo con la popolazione, il rispetto della disciplina saranno tutti elementi determinanti per l’esperienza politica del dopoguerra. Dopo aver consegnato le armi agli Alleati, Cesare ritorna a Pioltello il 10 maggio 1945. La situazione economica dopo vent’anni di fascismo, eredità della guerra, è estremamente difficile, inoltre per Cesare c’è l’aggravante politica: pur avendo contribuito alla liberazione e al futuro del nostro Paese, la sua militanza comunista gli porterà non pochi problemi nella ricerca del lavoro. Caparbietà e tenacia, però, sono aspetti determinanti del carattere di Cesare. Nel 1946 va a lavorare da un artigiano a Milano, in via Castaldi, dove rimane fino al 1948. Per oltre due anni lavora in una segheria in zona Martesana e nel 1950 viene assunto come muratore nella Cooperativa edile Clur; dopo una serie di vicissitudini politico-sindacali, entra nella dit-ta Sailea, in via Como a Milano, dove fa il muratore per oltre 20 anni. Nel frattempo, nel 1962, si sposa con Giuseppina Lazzaroni da cui avrà due figli. Nel 1975 si sposta alla Sige, dove resta fino al 1986, anno in cui va in pensione. L’attività politica nel dopoguerra continua nella locale sezione del PCI di Pioltello, sia come semplice militante, attraverso la diffusione de l’Unità, sia nelle rappresentanze istituzionali: viene eletto consigliere comunale dal 1958 al 1962 e per anni è nel consiglio dell’Asilo Gorra e dell’ECA a Pioltello, contribuendo con la propria correttezza, trasparenza ed etica ad un’idea di politica onesta e al servizio degli altri.
Garibaldino. Qui sopra, il giovane Cesare Beretta; qui sotto, con alcuni compagni partigiani al Montoso (è il secondo da sinistra) e la tessera-attestato della sua attività di garibaldino. In basso, Cesare Beretta insieme alla consorte Giuseppina Lazzaroni
Nel 1984 si trasferisce a Cernusco dove vive tutt’ora, distante dalla mondanità politica, ma sempre pronto a dare un contributo per non farci dimenticare la nostra storia… e il nostro futuro. Y www.memoriarinnovabile.org
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«L’odissea dei migranti mi ricorda gli ebrei respinti»
le persone - la Storia
I CENT’ANNI DEL RESISTENTE, GIURISTA E SCRITTORE OTTOLENGHI. TRA MEMORIE E RIMPIANTI
O
di
da la Repubblica del 20 giugno 2015
MASSIMO NOVELLI
ggi è davvero un secolo. L’avvocato torinese Massimo Ottolenghi, narratore di razza (cominciò a scrivere molto tardi) e uomo della Resistenza(in Giustizia e Libertà), compie cento anni. Il sindaco Piero Fassino gli ha voluto fare gli auguri con un messaggio: «La sua vita è una straordinaria lezione di responsabilità morale e di impegno civile profusi nell’attività antifascista, nella Resistenza e nell’impegno intellettuale e professionale dal dopoguerra. E mai si potrà dimenticare la sua coraggiosa e generosa azione per salvare tante vite umane dalla deportazione e dai campi di sterminio. Una lunga vita spesa bene per affermare i valori di libertà, democrazia, laicità, solidarietà». La sua esistenza si può riassumere con le parole che il professor Augusto Monti scrisse come dedica nella copia de I Sanssôssì che gli regalò: «Da resistente a resistente». Ma quel libro, come ci spiega lo stesso Ottolenghi, è sparito. «Non so dove sia finito, devo averlo prestato a qualcuno che non me lo ha restituito. Peccato. Comunque quella era la dedica di Monti».
Come ci si sente ad avere un secolo sulle spalle, avvocato? «Molto pesante, molto distrutto, molto deluso. Provo tanta amarezza per questo nostro Paese, per l’umanità. Rivedo nelle vicende di oggi tante cose già viste, che non credevo potessero ripetersi. Penso alla guerra in Ucraina; penso all’odissea dei migranti che mi ricorda la tragedia di quella nave con mille profughi ebrei, la Saint Louis, che nel 1939 vagò da un porto all’altro. Nessuno volle accoglierli. Ritornarono in Germania, molti di loro morirono poi nei lager, a Sobibor, ad Auschwitz. Gli uomini, insomma, non hanno imparato niente». Lei, invece, non ha mai cessato di battersi contro le ingiustizie, contro il fascismo.
Quando ebbe i primi contatti con i pochi che si opponevano a Mussolini? «Tutto cominciò per via delle api e del miele. Avevo tredici o quattordici anni. Notai che i vasetti di miele che il dottor Alberico Molinari spediva a mia nonna, da Cavoretto, erano avvolti in fogli dattiloscritti. Mia nonna li toglieva, li piegava e li nascondeva in un armadio. Erano fogli di propaganda antifascista. Così conobbi quel gruppo di socialisti, di repubblicani, di liberali, che aveva costituito il primo vero gruppo antfascista intorno al 1927, al ‘28. Erano tutti avvocati e giudici, tra cui mio zio Innocenzo Porrone, Mario Passoni, i magistrati Domenico Peretti Griva e Mario Neri, Piero Zanetti, Eugenio Libois, Lelio Basso a Milano, Soleri, Roberto, Zucchi, Carlo Angela, il padre di Piero. Ho appena terminato di scrivere un libro su di loro. Credo che s’intitolerà Arnie di giustizia e libertà fra le toghe piemontesi». Sta diventando più prolifico di Honoré de Balzac, che però morì a poco più di 50 anni. Quando ha cominciato a scrivere? «Avevo 75 anni quando uscì Il palazzo degli stemmi, da Gribaudo».
Tra l’altro proprio Palazzo degli stemmi viene ripubblicato da Ara-
L’avvocato Massimo Ottolenghi
baFenice in cento copie firmate, in occasione del suo compleanno, e sabato sarà disponibile in dieci librerie di Torino. Ma che cosa lo spinse a mettersi a scrivere? «Volevo liberarmi di tutte quelle storie che avevo vissuto. Le raccontavo spesso in famiglia e mia figlia, un giorno, mi disse: "Perché non le scrivi?". Da allora non ho più smesso».
Magistrato, avvocato, antifascista, partigiano. E persino direttore amministrativo nel giornale di Giustizia e Libertà subito dopo la Liberazione. Ha avuto anche il merito di assumere Giorgio Bocca, no? «Non solo lui: anche Franco Venturi, Carlo Casalegno, Giovanni Trovati e altri. Non potei assumere l’avvocato Bruno Segre perché al giornale mi dissero che eravamo al completo. Devo dire che Segre mi porta ancora oggi un po’ di rancore».
Durante i venti mesi di guerra partigiana collaborò con Carlo Angela, uno dei Giusti di Israele per avere salla VigneTTa di FOGLIAZZA vato diversi ebrei dalla deportazione. Che cosa ricorda? «Intanto, come accennavo, io conoscevo da ‘28-29 il professor Angela, che era stato allievo di Freud. Ci ritrovammo nelle valli di Lanzo, dove io cercavo di mettere in piedi una rete di assistenza per partigiani, civili, ebrei, e Angela salvava antifascisti ed ebrei facendoli ricoverare nella clinica che dirigeva». Y l’avvocato massimo ottolenghi è poi deceduto il 19 gennaio di quest’anno (ndr).
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«Li chiamavano terroristi»
la Storia - le idee
INTERVISTA CON LO STORICO BORGOMANERI: “RICOSTRUIRE LA STORIA PER COMPRENDERLA”
Nel recente libro sulle vicende dei GAP milanesi, ricostruite le difficoltà, sul terreno e col Partito. I meriti della lotta di guerriglia
GIGI BORGOMANERI* FRANCO SALAMINI**
con di
Recentemente è uscito il tuo ultimo libro Li chiamavano terroristi – Storia dei GAP milanesi 1943-1945. Puoi farci una breve sintesi degli argomenti trattati? Come recita il sottotitolo, il libro ricostruisce per la prima volta nella loro interezza nascita, funzione, attività e composizione dei Gruppi di azione patriottica milanesi. Vale a dire, di quella particolare struttura organizzativa a cui il PCI demandò il compito di innescare e tenere viva un’atmosfera di guerra nei centri urbani, allo scopo di scuotere la passività delle masse all’indomani dell’8 settembre 1943 e dare sostegno alla difficile nascita delle formazioni di montagna. Grazie al reperimento di carte riservate di fonte comunista e di testimonianze di ex gappisti e dirigenti politici e militari, è stato possibile, da un lato, analizzare criticamente le relazioni intercorse fra gappismo e apparato politico federale deputato a sostenerlo e a dirigerlo, e, dall’altro, ricostruire l’evoluzione della centralità della guerriglia
Il professor Gigi Borgomaneri e la copertina del suo libro. In alto, una formazione partigiana cittadina.
urbana dai GAP alle SAP, cioè dal terrorismo alla lotta a carattere di massa. Accanto a questi temi centrali sono stati anche recuperati accadimenti e biografie di protagonisti sconosciuti o dimenticati o espunti dalla narrazione ufficiale per ragioni di opportunità politica. Ne emerge una storia di imprese audaci, di dedizione e di eroismo, accompagnati però anche da umane debolezze, errori e riluttanze di un apparato federale e di una base operaia culturalmente estranei e refrattari a pratiche di lotta precedentemente condannate come terroristiche, ma a cui la Direzione comunista fu costretta ad accedere nella situazione apertasi con l’occupazione tedesca.
“Li chiamavano terroristi” è un titolo forte. Il terrorismo negli anni ‘70 avrebbe evocato lo stragismo fascista e successivamente le BR. Oggi è una parola con cui dobbiamo fare i conti quotidianamente. Perché questo titolo? Perché i fenomeni della storia, come del resto le cose e le persone, devono essere definiti con i termini appropriati, senza lasciarsi influenzare da contingenze che con il mutare della temperie politica ne stravolgono il significato e ne condizionano l’uso. Altrimenti si finisce per mistificare la realtà. E non è mai una buona strada per comprenderne la complessità. Chiunque abbia dimestichezza con le fonti resistenziali sa che le parole “terrore” e “terrorismo” vi si trovano usate con un senso ben diverso da quello assunto a partire dagli anni ‘70. E senza suscitare l’indignato scalpore di chi oggi – ancorato a una conoscenza superficiale e mitizzata della storia – le interpreta come una criminalizzazione della lotta partigiana. Con gli anni di piombo, PCI e associazioni-
smo partigiano hanno rigettato questi vocaboli attribuendo loro una valenza esclusivamente criminale, credendo così di sottrarsi alle false e strumentali accuse di una presunta ascendenza ideologica del terrorismo brigatista da quello partigiano, in particolare da quello gappista. Una scelta di politica culturale a mio avviso infelice e perdente, che ha finito solo per ossigenare interessate speculazioni, laddove sarebbe stato invece necessario – l’ho scritto nel mio libro – avere il coraggio di ingaggiare una battaglia culturale e storiografica per spiegare le inconciliabili differenze fra i due terrorismi, a cominciare dalle abissali diversità contestuali. Beninteso, che sia stato un errore è una mia opinione e pertanto discutibilissima. Quello che è invece incontrovertibile è quanto scrisse Pietro Secchia nell’ottobre 1943 chiamando il popolo italiano alla lotta contro tedeschi e fascisti: «… è venuta l’ora della lotta armata, è venuta l’ora del TERRORISMO». E, con quelle parole, il numero due della Direzione del PCI clandestino dell’Alta Italia non esprimeva una valutazione personale, ma quella dell’intera Direzione comunista. Tanto che l’appello fu pubblicato sul secondo numero de «La Nostra Lotta», che, si badi bene, non era un giornale qualunque ma l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, dalle cui pagine la Direzione comunista impartiva le direttive ai propri militanti. Se qualcuno si ostinasse ad avere ancora dei dubbi, si legga la circolare n. 151 del 15 novembre 1944, redatta e diramata dal Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà a tutti i comandi partigiani dipendenti; scoprirà che i GAP vi sono definiti: «formazioni di pochi uomini aventi per compito l’azione terroristica – ripeto: l’azione terroristica – contro i nemici e i traditori, azioni di sabotaggio contro le vie di comunicazione, i depositi del nemico ecc.». E si potrebbe continuare con altri esempi. Nella storia – si legga attentamente quanto ho scritto – non esiste un solo terrorismo, ne sono esistiti e ne esisteranno diversi, in più casi non equiparabili o assimilabili fra continuA A pAginA 16 ➔
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loro, e ogni fenomeno terroristico deve essere studiato e analizzato caso per caso, a partire dal contesto che lo ha originato e prendendo in esame non solo gli strumenti utilizzati, ma soprattutto le finalità e gli obiettivi che ha colpito nella convinzione o nella speranza di raggiungerli. Che poi i GAP, al pari delle altre organizzazioni armate partigiane, fossero riconosciuti dal legittimo governo italiano di Roma come «reparti militari del CVL facenti parte a tutti gli effetti dell’allora regio esercito, impegnati in legittime azioni di guerra», non sposta di un millimetro la questione: erano reparti del regio esercito impegnati in azioni di guerra con modalità e finalità terroristiche. Così come – ed è uno dei tanti esempi che potremmo fare – i piloti tedeschi e italiani che distrussero Guernica o che rasero al suolo Coventry; o quelli angloamericani che bombardarono Napoli, o il quartiere di San Lorenzo a Roma o Milano nell’agosto del 1943, erano tutti appartenenti a una regolare forza armata e furono impegnati, in quelle occasioni, in missioni di guerra con finalità terroristiche. Con una differenza fondamentale: il terrorismo gappista ha talvolta incidentalmente coinvolto nei propri attentati anche la popolazione civile, ma questa non si è mai configurata come l’obiettivo da colpire; altri lo erano: le spie, i traditori, i nazifascisti e le loro infrastrutture belliche. Riconoscere che le azioni dei GAP erano finalizzate a spargere il terrore fra il nemico e che facevano ricorso a tecniche e pratiche tipiche del terrorismo non scalfisce minimamente la loro importanza nella lotta né il valore degli uomini che le misero in atto.
Parli dei GAP milanesi, ma la loro area di azione riguardava anche la provincia. Ci puoi ricordare personaggi ed episodi che hanno riguardato anche la zona Adda/Martesana? L’attività gappista in provincia ha riguardato prevalentemente la zona attorno a Rho e non risulta avere investito la zona dell’Adda e della Martesana. Dalla documentazione della 3ª brigata Garibaldi GAP emerge che nella seconda metà di settembre, dopo il forzato allontanamento di Giovanni Pesce da Milano e la riorganizzazione delle forze, entrano a farvi parte Cesare Bescapé («Rino»), Carlo Dolci («Carlino»), Emanuele Invernizzi e le sorelle Carla e Maria Dorigo, tutti – se ricordo bene – di Pioltello. La memoria locale ha tramandato anche altri nomi che, però, non trovano riscontro negli elenchi ufficiali della brigata. Il che non significa che non siano stati partigiani. Anche se attualmente non ne abbiamo prova, può anche darsi che abbiano collaborato con Bescapé e i suoi uomini, ma non per un periodo o con modalità sufficienti a essere ufficial-
mente riconosciuti come gappisti. Il contributo di Bescapé e dei suoi compagni fu sicuramente generoso, tanto più che la loro militanza coincise con l’avvio della maggiore crisi del fronte resistenziale e quei ragazzi – e Luigi Campegi, loro comandante – si ritrovarono a dover operare in condizioni di estrema difficoltà e senza l’adeguato sostegno logistico dell’apparato federale comunista milanese. Una storia, insomma, coraggiosa ma sfortunata, ingiustamente caduta nel dimenticatoio per decenni.
Tu non fai sconti a nessuno. Il tuo è un libro privo di retorica, a volte anche duro, che ti ha causato qualche polemica. Sei particolarmente critico con la Federazione milanese del Partito Comunista e, come tu riporti nel libro, lo fu anche Pesce, sostenendo che la Federazione milanese non si era impegnata a sufficienza a sostenere i GAP. Il PCI era un partito in clandestinità con mezzi modesti, alla fine saranno almeno 300 coloro che si arruoleranno nei GAP, sapendo che il loro futuro sarebbe stato probabilmente la morte, la tortura, la deportazione. Non è logico che il Partito riservasse i suoi quadri migliori per il dopo, per quando la guerra sarebbe finita? Non credo di essere stato duro con qualcuno. L’essere critico è un inderogabile dovere di rigore metodologico e di onestà intellettuale. Io sono e mi dichiaro anagraficamente, culturalmente e per educazione famigliare, oltre che per convinzione politica, un figlio dell’antifascismo e della Resistenza, ma non ho mai suonato pifferi e tamburi per nessuno, né ho mai fatto sconti a chicchessia, a cominciare dal mio primo libro sulla storia delle brigate Garibaldi milanesi. Quando mi applico a una ricerca devo soprattutto vagliare l’attendibilità delle fonti, documentali o testimoniali che
siano, e, una volta accertatane la fondatezza, devo attenermi a ciò che ne emerge. Non si può barare. Sono norme basilari a cui non può sottrarsi chi intenda impegnarsi in un lavoro di ricostruzione storica. Diversamente è solo un imbonitore che racconta ciò che ad altri fa piacere sentirsi dire. La preoccupazione di fornire occasione e materia di volgare speculazione a quanti si sa già in partenza che ne faranno un uso strumentale, mi è sempre ben presente. Resto però convinto che, se vogliamo davvero togliere terreno ai denigratori della Resistenza, dobbiamo affrontare anche le pagine scomode, quelle sottaciute o espunte per opportunità politica, per carità di partito o per un infantile malinteso amore per la memoria della lotta partigiana. La storia è un libro e, come tutti i libri, se se ne strappano le pagine che vorremmo non fossero mai state scritte perché incrinano le nostre idealizzazioni, si mente con se stessi e si ingannano gli altri. Quanto, invece, alla domanda sulle riluttanze federali a sostenere più convintamente i GAP, assegnando loro innanzitutto risorse umane adeguate, non ritengo derivasse dalla preoccupazione di risparmiare i quadri per le future battaglie della ricostruzione postbellica. Tortura, deportazione e morte erano riservate anche a chi veniva sorpreso a distribuire un manifestino incitante allo sciopero, non solo al partigiano in armi o al gappista. Ne abbiamo un’infinità di esempi. Le incomprensioni e le inadempienze dell’apparato federale comunista milanese verso la lotta dei GAP emergono dai documenti e dalle testimonianze e devono ascriversi a un contesto che, ancora una volta, ci rinvia alle pratiche del terrorismo e a resistenze culturali che, a partire dalla classe operaia, hanno attraversato anche la maggior parte della base comunista, nonché l’apparato e la dirigenza federale, che di quella classe e di quella cultura erano espressione.
Rastrellamenti intorno a via Rasella, a Roma, dopo l’attentato dei GAP. In alto, gappisti controllano le vie di Milano la mattina del 26 aprile ‘45
il fiore del partigiano Collegandomi un po’ con la domanda precedente, come mai secondo te furono così pochi i grandi protagonisti della Resistenza che poi faranno parte dei gruppi dirigenti dei grandi partiti antifascisti? È una domanda che richiederebbe una risposta molto diversificata, ma, anche senza enfatizzare il loro numero, non direi comunque che i protagonisti della lotta resistenziale che ritroviamo nei gruppi dirigenti dei partiti postbellici siano così pochi. È un discorso che, per intuibili ragioni, va articolato partito per partito e che richiederebbe più tempo e spazio. A cominciare dal PCI, dove il gruppo che dirigerà il partito per almeno un trentennio si afferma proprio durante la Resistenza e si arricchirà nel dopoguerra di uomini come Scotti, Boldrini, Moscatelli, Colajanni e altri ancora. Poi, mano a mano che ci si sposta verso il centro, certo, ritroviamo figure come quelle di Parri, Pertini, Lombardi, Marazza, Aniasi, la Anselmi, per citare solo qualche esempio, ma la presenza di ex resistenti diminuisce. D’altro canto non si può dimenticare che la Repubblica nata dalla Resistenza nasce un po’ “figliastra”, condizionata da una continuità delle istituzioni e dei poteri che il passaggio dalla monarchia alla Repubblica non sarà sufficiente a spezzare. Così come non ci riuscirà la Costituzione repubblicana, altra conquista fondamentale della lotta partigiana ma che, se non vogliamo raccontarci storie, sta venendo modificata a colpi di maggioranza parlamentare, dopo che una vera, reale e completa applicazione dei suoi dettati più avanzati è stata disattesa per decenni. Insomma, lungi da me l’insinuare che la Resistenza sia stata tradita. Non l’ho mai pensato né lo penso, ma resta il fatto che se la Resistenza ci ha dato la Repubblica e la Costituzione, non è però riuscita a sradicare dal corpo sociale del Paese il fascismo e quegli interessi e quei poteri che lo avevano partorito e che lo hanno sostenuto per vent’anni beneficiandone largamente. E inevitabilmente questo ha condizionato i criteri formativi e selettivi dei gruppi dirigenti di quelli che sono stati un tempo chiamati i partiti dell’arco costituzionale.
Alla fine della Resistenza,dopo il 25 aprile, ci furono dei gappisti che entrarono a far parte del nascente gruppo armato della Volante Rossa? Allo stato attuale, dalla documentazione risulta solamente Mauro Bosetti. Non è da escludere che qualcun altro, non ancora identificato, possa avervi preso parte, magari con ruoli secondari ed esterni al gruppo più ristretto, ma di fatto, dopo le indagini poliziesche e il processo a loro carico, i nomi degli appartenenti al vero nucleo della Volante sono noti da decenni. Secondo te qual è il modo migliore per trasmettere la memoria ai gio-
vani? Il mondo della scuola e quello della cultura si stanno impegnando a sufficienza per fare in modo che la memoria di quegli eventi storici diventi patrimonio comune e non si limiti invece a mera celebrazione? Bisogna uscire dal mito e rifuggire gli imbarazzi, le autocensure, la retorica celebrativa. Il nodo centrale del problema è che la storia non si ricostruisce per condannarla o per giustificarla, ma per comprenderla, per capire in quale contesto, come e perché si siano originate determinate scelte e come e perché si siano verificati determinati fatti e determinati comportamenti, compresi quelli che confliggono con le nostre idealizzazioni. Se vogliamo trasmettere onestamente ai giovani la memoria di quei venti mesi di lotta, dobbiamo sostanziarla con una conoscenza critica di ciò che accadde veramente, senza edulcorare né mistificare nulla. Se vogliamo che i giovani ci credano davvero, e soprattutto se vogliamo che la conoscenza di quei momenti possa aiutarli a divenire cittadini consapevoli e responsabili, dobbiamo raccontarglieli onestamente senza omissioni o mistificazioni, nella convinzione che anche con i suoi inevitabili errori e le sue tragedie, quella della Resistenza e della lotta partigiana resterà sempre la pagina più importante e più generosa della storia del nostro Paese. Quanto al mondo della cultura, se penso all’appiattimento monocorde di gran parte delle iniziative e delle celebrazioni del 70° della Liberazione, non mi pare proprio che sia orientato in questo senso. Vorrei concludere aggiungendo – e parlo per esperienza diretta – che sarebbe bene che molti insegnanti la smettessero di limitarsi a invitare lo storico al solito incontro con gli studenti nel solito mese d’aprile. Calare sulla testa dei ragazzi quella che finisce per essere una noiosa lezione fron-
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tale di una storia che non conoscono e a cui spessissimo non sono stati preparati, serve solo ad annoiarli e ad allontanarli. Bisogna invece fare in modo che i ragazzi si trasformino in “giovani apprendisti storici”; bisogna discutere e stabilire insieme a loro programmi, anche minimi, di ricerca, che li vedano poi impegnati direttamente, in prima persona. Si accorgeranno così che fare ricerca è cosa ben diversa dal “copia e incolla”; impareranno a consultare un archivio, a confrontarsi in primo luogo con le fonti documentali e che il testimone, in sé, non sempre è sufficiente garanzia di una corretta ricostruzione. Per non dire, poi, che può rivelarsi un’arma a doppio taglio, perché, se quel che conta è “l’essere stato presente, l’avere visto con i propri occhi”, beh, stiamoci attenti perché anche l’ex repubblichino della X MAS o delle brigate nere è un testimone. Insomma, la storia si comprende se la si studia e la si ricostruisce attraverso una buona bibliografia e attraverso i documenti, e soprattutto educando i giovani ad esercitare sempre un pensiero critico. Allora sì scopriranno e sentiranno quella storia come qualcosa che appartiene non solo al passato dei loro nonni, ma anche al loro presente. Ed è possibile farlo. A Milano esiste l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e a Sesto San Giovanni la Fondazione Istituto per la storia dell’età contemporanea che aspettano insegnanti e studenti a braccia aperte. Basta contattarli, chiedere l’assistenza dei responsabili delle sezioni didattiche e inveY stire un po’ di tempo.
*Storico, ricercatore Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea di Sesto San Giovanni **ANPI Cernusco sul Naviglio
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Lontano da Predappio
le idee
NO A UN MUSEO DEL FASCISMO COME QUELLO CHE SI VORREBBE REALIZZARE
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da il manifesto del 5 aprile 2016
ENZO COLLOTTI
musei storici non hanno mai rappresentato un momento di eccellenza nella politica culturale del nostro paese. A deprimerne ulteriormente le sorti circola adesso l’idea di insediare a Predappio un museo del fascismo, con la complicità del ministro Franceschini e purtroppo dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione, che non meriterebbe di suggellare il suo declino con questa ingloriosa iniziativa. Non si nega, sia ben chiaro, la necessità che il sindaco di Predappio prenda tutte le iniziative che ritiene opportune per impedire che la località rimanga ostaggio del pellegrinaggio di irriducibili nostalgici. Ma se già per lui sarà difficile, al di là dei migliori propositi, allontanare dalla località il motivo al quale deve la sua fama, ben diversa si prospetta la sorte per una iniziativa di carattere nazionale che dovesse in essa realizzarsi.
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L’idea di un Museo del Fascismo, come luogo di rappresentazione a fini di conoscenza di una stagione storico-politica che ha segnato il nostro recente passato e che in parte segna ancora il nostro presente, arriva certamente in ritardo in un paese che si è inspiegabilmente attardato in una discussione spesso insensata su memoria divisa e memoria comune. Chi si richiama a iniziative come quella del Museo del Nazional Socialismo inaugurato un anno fa a Monaco di Baviera sottovaluta che alle spalle di questa iniziativa vi sono stati decenni di vive discussioni che hanno riflettuto l’iter della storiografia tedesca sul nazismo e il percorso di una memoria pubblica che ha accettato di fare i conti con il passato, in un processo che peraltro non è mai venuto meno. Anche per noi prescindere da un processo storico politico-culturale di tale portata sarebbe incomprensibile. Proprio per questo l’idea di approfittare dell’occasione Predappio per dare luogo ad una iniziativa come quella prospettata ap-
pare quantomeno frettolosa e improvvisata. In primo luogo no a Predappio significa svincolare una iniziativa seria dall’ipoteca di una sede che è non solo provinciale ma che rischia di renderla prigioniera del luogo, che resta inevitabilmente evocativo, simbolico e celebrativo e che ad onta delle migliori intenzioni non può non ricondurre ad una visione riduttiva del fascismo come mussolinismo. In secondo luogo questo rifiuto è un invito a ripensare senza l’urgenza di una scadenza da non perdere ad una iniziativa di cui finalmente si riconosce l’opportunità, ma a condizione che se ne valutino opportunamente la scelta della sede (che non può non essere Roma o Milano) e soprattutto le grandi linee interpretative e i criteri informatori per farne realmente uno strumento di conoscenza critica e di conY sapevolezza storica e civile.
mento di liberazione in italia (inSmli). per il presidente dell’anpi carlo Smuraglia si tratta di «un passo avanti per la memoria comune, un punto di approdo utile non solo per ricercatori ed esperti ma per il pensiero comune dei due paesi, italia e germania, per superare alcune contraddizioni ancora vive e costruire una memoria comune». claudio Silingardi, direttore generale inSmli, plaude a un’impresa «collettiva molto impor- tante, un passaggio fondamentale per creare un vero e proprio memoriale delle vittime civili della seconda guerra mondiale e incentivare un rapporto con la scuola, un investimento per il futuro». il direttore generale del ministero degli esteri giuseppe Buccino grimaldi parla dell’atlante come di «un dovere morale, un importante progetto della memoria per sottrarre all’oblio il nostro doloroso passato» e mettere «a disposizione di tutti uno spazio virtuale di confronto con il passato». il progetto è stato finanziato dal governo tedesco. per l’ambasciatrice di germania in italia Susanne Wasum-rainer la nascita dell’atlante è il traguardo di «un cammino lungo e difficile» che deve servire a «creare una comune cultura della memoria» e ad «assicurare alle vittime una degna memoria». poi, precisa: «la
germania si è assunta la responsabilità storica dei terribili eventi accaduti per mano tedesca e noi ci inchiniamo dinanzi alle vittime causate da quella politica tedesca, tuttavia noi crediamo che oggi la questione delle riparazioni non si ponga più. abbiamo messo tantissimi fondi a disposizione e vogliamo continuare a farlo per dare un segnale di riparazione per le persone che hanno dovuto subire così tante sofferenze. l’abbiamo fatto e vogliamo continuare a farlo per ogni vittima che finora non ha avuto la possibilità di ricevere una riparazione, però chiediamo che la questione vera e propria delle riparazioni oggi non si ponga più». pezzino spiega ancora: «abbiamo censito 5.400 episodi circa e 23mila vittime, ma i numeri saranno continuamente in aggiornamento: è un work in progress, ci aspettiamo notizie di integrazioni, segnalazioni, anche eventuali errori per affinare sempre più la ricerca». a cosa serve oggi un sito internet come l’atlante? «non solo a ricostruire il momento storico importante dell’occupazione tedesca e della repubblica sociale italiana, ma anche a sostenere le politiche della memoria che sempre più spesso su questi temi si diffondono e che ora avranno una solida base di conoscenza per potersi sviluppare». Y
On line le stragi naziste e fasciste in Italia da dire.it del 7 aprile 2016
nline da oggi il sito dell’atlante delle stragi naziste e fasciste in italia – www.straginazifasciste.it. l’atlante è sta-to presentato alla Farnesina ed è promosso dall’anpi e dall’istituto nazionale per la Storia del movi-
pillole di resistenza culturale a cura di
MAURIZIO GHEZZI
La prospettiva del disastro non garantisce che le nazioni facciano quel che devono fare. Soprattutto se orgoglio e pregiudizi rendono i leader poco inclini a vedere ciò che dovrebbe essere ovvio. Y Paul Krugman
Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Y
Antonio Gramsci (da Odio gli indifferenti)
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IL DIARIO SEGRETO DI UN GIOVANE “NON EROE” DI FAMIGLIA OPERAIA MILANESE
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8 settembre 1943, a 19 anni il coraggio di una scelta: Aldo Aldi, studente-operaio, parte per il fronte alleato e intraprende il lungo viaggio da Milano a Taranto. Tra rischi, sacrifici e paure, scopre la coraggiosa solidarietà di tanta gente umile
uesto è il breve diario di uno dei tanti giovani che, dopo l’8 settembre 1943, a soli 19 anni, ha saputo scegliere con la propria testa, con il cuore e con coraggio, come lottare contro le prepotenze, le crudeltà dei nazisti e dei fascisti. La sorella, Nella, ha scoperto solo alla sua morte il quaderno in cui vengono narrati - giorno dopo giorno - i sacrifici, le paure, i rischi passati durante i 600 chilometri di strada percorsa per arrivare al fronte, ma anche la solidarietà e il coraggio di tanta buona gente che, nonostante i bombardamenti, i rastrellamenti dei nazifascisti, la paura e i lutti, è sempre pronta ad aprire la porta di casa a chi chiede aiuto. Aldo Aldi combatterà con il reggimento San Marco al seguito degli inglesi, sarà ferito e tornerà a Milano il 25 aprile del ‘45. Grande invalido di guerra, ammalato di tbc, dovrà essere ricoverato in sanatorio per tre anni. Terminerà gli studi, si iscriverà ad una scuola di regia e farà a lungo il regista di allora popolarissimi fotoromanzi. L’8 settembre del ‘43 Aldo Aldi aveva 19 anni, 6 mesi e undici giorni. Famiglia operaia, di Gorla, periferia di Milano. Aveva studiato e lavorato come operaio fino al diploma delle scuole tecniche e quell’8 settembre era a Venezia, a casa di parenti, per preparare con l’aiuto di una cugina, insegnante, l’esame da privatista al liceo. Era un bel ragazzo, di una bella famiglia e con un suo grande amore segreto per Lory. Tutta la vita davanti.
19 anni. Studente e operaio, Aldo Aldi divenne soldato per scelta di libertà di
ALDO ALDI
Ore 13 del 19 ottobre 1943 Mi decido a scrivere questo diario, ho l’impressione che stia per maturare qualche cosa d’importante nella mia vita. Ma nessuno lo leggerà mai, nessuno saprà che io l’ho scritto. Non mi capirebbero e mi coprirebbero di ridicolo. Solo la mia mamma avrebbe potuto…
20 ottobre 1943 Undici ore da Venezia a Milano! Partito da Venezia alle Ho l’impressione 12,20, sono arrivato a Milano alle 23. Fino alle 5 del pomeriggio me la sono cavata bene ragionando sui problemi che stia che più mi stanno a cuore; ragionamenti però che non mi per maturare hanno portato ad alcuna conclusione o meglio, ad una: il mio cervello è ancora completamente avvolto nella nebqualche cosa bia. Triste ma vero. Nebbia e oscurità completa. Dopo, la d’importante penuria di sigarette ha cominciato a farsi sentire divenendo ben presto una tortura. A farlo apposta una vecchia nella mia vita signora vicino a me fumava placidamente un’Africa dopo l’altra guardandomi con un’aria di pena infinita. Io mi dimenavo lanciandole occhiate sature d’odio e, finalmente, di fronte a tanta sofferenza ha ceduto e me ne ha offerta una (la tiranna!). Arrivo a Milano e mi accoglie un nebbione fantastico. “Siamo a posto” mi dico “nebbia dentro e nebbia fuori”. Tirem innans. Milano, 21 ottobre 1943 Eccomi di nuovo nel mio letto. Sono un poco innamorato di questa vecchia branda che ha cullato e continua a cullare i miei sogni e pensieri. Ed ora ne ho tanti! Costituiscono il mio capitale. C’è stato un periodo nella mia vita che non ricordo bene e deve corrispondere ad una triste crisi della mia famiglia. Fino a tredici anni ho avuto tutto continuA A pAginA 20 ➔
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quello che un bambino ed un ragazzo possano desiderare. Ero l’orgoglio di mia madre. Ma un giorno capii che qualcosa che qualcosa era accaduto; lo capii dal volto di mio padre e dagli occhi turgidi di mia madre quando mi disse: «Aldo, ormai sei un ometto… devi capire… forse il babbo avrà bisogno di te, non potrà più farti studiare…». Povera mamma! Ora capisco quanto deve aver sofferto nel dirmi quelle parole, lei che vedeva tutto in me, e che avrebbe voluto vedermi felice. Invece gli studi continuarono, e credo per un puntiglio di mia madre verso i miei zii che avrebbero voluto vedermi dietro un banco di lavoro perché, essi dicevano «l’operaio deve fare chi è figlio di operaio». I miei cugini erano già tutti lanciati verso una laurea. Gli studi proseguirono ma i debiti aumentarono. A casa mia si respirava male. Dove avrebbe dovuto essere la pace, la tranquillità, l’amore, vedevo visi scuri e udivo parole aspre. Io stesso avevo perso quell’allegria che è naturale in un giovane e spronavo la mia volontà per riuscire, per arrivare; capivo che si aspettava qualche cosa da me. Poi mio padre fu costretto a partire per la Germania. Lavorò ancora duramente per la casa, per i figli, e immagino quanto deve aver sofferto, quanto da diversi anni in qua andava sacrificando. Ancora adesso guardandolo mi sento arrossire: “Hai vissuto continuamente alle sue spalle” penso, e devo avergli pesato non poco. Ma quando mi iscrissi all’università l’ho visto piangere di gioia e gli ho udito mormorare guardandosi le mani incallite «Mio figlio… mio figlio…». Mia madre era già malata. Non posso scrivere di questo. Ma fu allora che le promisi che sarei giunto a qualunque costo dove lei desiderava. Il diploma delle superiori non bastava più, ci voleva la laurea, diventare ingegnere! Il mio sogno. Lavorai per un periodo di tempo ad ilÈ più forte di me, lustrare dei giornaletti, poi come operaio alla Safar, ma riuscii a racimolare sento come i soldi per le tasse. Era iniziato un una forza nuovo capitolo della nostra vita. Un capitolo più tranquillo, più sereno, ricco irresistibile che di promesse; Venezia ci ha dato tutto mi spinge questo. Sono giovane, studente, povero e quasi ad agire innamorato. Del resto anch’io come gli altri del genere umano sono sensibile a quel sentimento che chiamano amore; sta a vedere poi come andrà a finire. Lei non sa ancora nulla o forse lo sa da un pezzo; in ogni modo credo che non le dirò mai nulla, mi basta immaginare che pare pure essa mi ami e in funzione di questo amore e per rendermene degno io agisco e agirò. Me ne verrà sempre un bene e dovrò sempre ringraziarla. Questa mattina sono uscito ed ho incontrato Levi. È dei nostri, simpatico ragazzo, ma parla troppo, parla soltanto. Mi ha detto che Mino è scappato; questo mi ha arrecato dispiacere ma voglio accertarmene di persona. Degli altri non sa nulla. Voglio fuggire. Se trovo Mino tanto meglio, andrò con lui, se non lo trovo bisognerà che mi decida diversamente, ma qualche cosa devo fare. È un chiodo in testa dall’otto settembre e che non vuole uscire; è più forte di me, sento come una forza irresistibile che mi spinge ad agire in quel senso. So che è la strada giusta e non posso mancare. La cosa che maggiormente richiede del coraggio non è tutto quel viaggio, i rischi e i pericoli che con esso vado incontro, ma quello di abbandonare la casa e i miei. Intanto domani mi darò da fare per sapere qualcosa di Mino e di Paolino. Oggi pomeriggio lotta accanita per conquistare dieci sigarette. Fortunatamente a casa abbiamo una scorta discreta. Chissà se Lory e Luciana avranno già letto le mie lettere, mi risponderanno?
Milano, 22 ottobre Finalmente oggi ho visto Mino. Gli ho parlato per telefono e nel pomeriggio è venuto a casa mia. L’incontro dopo tanti mesi è stato commovente, avevamo tante cose da dirci! Mi ha raccontato tutte le sue traversie, non escluse quelle amorose. Ne ho dedotto che è sempre un poco squilibrato. Abbiamo parlato a lungo di “conquiste” e quando gli ho detto che né quell’anno ho voluto farne e né avrei avuto intenzione di farne per gli anni a venire mi ha risposto: «Senti, non ti riconosco più; o stai diventando un ragazzo serio, o sei veramente innamorato». La verità è che a 19 anni si è più stupidi dell’acqua tiepida, quando invece sarebbe più opportuno incominciare a mettere la testa a posto; ed io sono di questo proposito. Non posso permettermi il lusso di perdermi in baggianate, non sono né tanto signore né tanto stupido da poterlo fare; ed ero sciocco, mille volte sciocco e disonesto quando lo facevo. Disonesto, sì, ingannavo me stesso e i miei quando essi si toglievano il pane di bocca per me. Ma sento, capisco di essere cambiato, e questa serenità e tranquillità che non avevo mai provato da tre o quattro anni in qua, la devo appunto al fatto di avere la coscienza tranquilla per aver compiuto i miei doveri e il proposito di compierli sempre d’ora in avanti. Questo mutamento è subentrato in me da poco più di un anno; come e perché? Non so spiegarmelo neppure io precisamente. Devo confessare arrossendo che dopo la morte di mia madre mi ero buttato in una china tutt’altro che abilitante; vedevo tutto nero, credevo che per me le cose belle non sarebbero più venute, stavo diventando in poche parole un mascalzone. Ed ecco che un cielo, un mare, una città di sogno e… - o prima o poi devo ammetterlo - Lory, hanno potuto in me questo cambiamento. Credo di essere sulla buona strada ora e non l’abbandonerò più; ho capito troppe cose. Nel pomeriggio con Mino sono andato al Plinius, uno dei pochi cinema rimasti ancora in funzione, e lì con tatto gli ho esposto tutto il mio piano. La risposta era quella che mi aspettavo: «Vengo anch’io». La partenza è fissata per la settimana entrante, soltanto non siamo più in due, ma in quattro: Mino, due suoi amici della teppa di Crescenzago che conoscevo da tempo, ed io. Quei due tipi appartengono a quella categoria di gente senza scrupoli, svelti di mano più che di pensiero, ma in fondo molto generosi e fedeli all’amicizia. Tuttavia credo che non si decideranno a compiere questo passo. Mino mi dice che lui e i due compari avevano già progettato alcune settimane fa un affare simile e mi ha esposto il suo piano che consisterebbe nel rubare una macchina ai tedeschi e partire con quella. Il piano mi sembra semplicemente inconcepibile, per quanto mi abbia assicurato sulla facilità dell’attuazione e per quanto conosca l’abilità degli operatori. Ma conosco Mino e so quanto facilmente si lasci trasportare dalla fantasia. Chissà cosa direbbe Lory se sapesse di tutta questa macchinazione! Milano, 23 ottobre Oggi ho visto Mino. Come prevedevo, anche lui si accorge dell’impossibilità dell’attuazione del piano che lui stesso aveva proposto, e a poco a poco viene dalla mia parte. Ha sempre fatto così da quando lo conosco, il suo entusiasmo si spegne tanto facilmente quanto si accende e allora comincia a ragionare come si conviene ad una persona equilibrata. Tuttavia ora non è completamente convinto, ma sono sicuro che farà quello che dirò io e mi seguirà anche a piedi. Di un’altra cosa sono quasi certo: che se si parte a piedi, gli altri due non verranno; ora li lascio parlare, progettare, sfogare come meglio credono, quando saremo al dunque faranno quello che dico io (ma è difficile, forse si ritireranno, tranne Mino che ci tiene troppo alla parola data). Io dal mio canto insisto su due punti: 1) partire assolutamente entro questa settimana; 2) partire a piedi o, se ci riesce, di rubare da qualche parte una bicicletta (lo escludo fin d’ora). Di questo devo convincere Mino e ci riuscirò.
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il fiore del partigiano Ho passato l’intera giornata a ragionare e ad esaminare la mia situazione. Perché dovrei rimanere? Per studiare? Per non recare dolore ai miei? In quanto a questo, i genitore sono tutti egoisti, e se rimanessi mi roderei l’anima continuamente e senza concludere niente di buono. In fondo mi dispiace perché i miei studi sono avviati bene ed è nel mio interesse compierli senza perdere un solo anno. Avrei tanti progetti in testa! Per me poco importa, ogni umiliazione per il mio cuore e per il mio orgoglio è una spronata per la mia volontà a riuscire ad arrivare dove voglio. Quante volte ero stato sul punto di gridare a Lory: «Ma non capisci che ti voglio bene, che sei tu che io voglio!» e sempre la parola mi moriva in gola, cozzava contro quel maledetto nodo che dovevo inghiottire. Mai nulla le ho detto, non le dirò mai nulla. Se i miei diciannove anni (fino a un certo punto) non mi impedivano di parlare, me lo impedivano le mie condizioni. Del resto è ridicolo solo a pensarci. Che cosa posso prometterle, che fra cinque o sei anni quando avrò preso la laurea… davvero mi vien voglia di ridere, ci vuole ben altro per lei, Franco per esempio; beato lui! Eppure quando si trattava di Nino e Luciana mi sembrava tutto naturale e per me invece… Non importa, mi sono ripromesso di fare tutto come se lei mi ricambiasse, sarà tanto di guadagnato per me. Però se il destino riserverà anche a me il matrimonio, colei che sarà la mia compagna dovrà assomigliarle in tutto: nel carattere, nei gusti, nel suo modo di fare e di parlare, sopratutto nel parlare poiché parla poco. Se sapesse Lory come mi piaceva chiamarla “mogliettina”!
Milano, 24 ottobre A messa ho pregato santa Rita perché mi aiuti nel mio intento. Come prevedevo, Mino si è deciso a partire a piedi e degli altri due, Giordano si è ritirato, suppongo che anche Piero si ritirerà al momento di partire. Pertanto la partenza è fissata per giovedì mattina. Giornata allegra, oggi, con Mino sono andato da Tano, il piccolo saggio uomo. Abbiamo arrostito e mangiato dei marroni, bevendoci sopra un litrozzo di quello buono. Tano è fascista convinto e in buona fede anche adesso. Si è arruolato, senza dire niente ai suoi, nella milizia. Da che frequentavo l’istituto radiotecnico, nella nostra classe vi sono sempre state due correnti politiche contrarie, ma se nei primi anni erano solo deboli discussioni o esposizioni di opinioni personali, nell’ultimo la discordia è venuta via via accentuandosi, finché ora, escludendo quelli che si vanno trincerando dietro un atteggiamento di opportunismo, si trovano vecchi compagni di scuola, di bagordi e di conquiste “l’un contro l’altro armati”. È triste, lo ammettiamo, ma al di sopra dell’amicizia c’è il dovere da compiere e ognuno è pronto a morire per la propria fede e… a mangiare marroni in compagnia. Per ora mangiamo, poi se nei campi di battaglia ci incontreremo… Dio dia la vittoria al giusto. Oggi è l’anniversario del primo bombardamento di Milano; il cielo è bello come allora, ricordo la corsa che ho fatto fare a Luciana e ad Adora, poverine. Come mi sembra tutto tanto lontano.
Milano, 25 ottobre Giornata di pioggia. L’ho passata quasi tutta a letto per riposarmi e preparami al “grande viaggio”. Mancano solo due giorni alla partenza; l’itinerario è già stato fissato, sono più di 600 chilometri da coprire a piedi per arrivare alle linee, senza sapere quello che ci attende, senza sapere se potremo man-
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giare ogni giorno e dormire in luogo chiuso, ma ci sostiene una grande volontà e la gioia di poter fare anche noi qualche cosa per questa cara Italia. Partiremo con i peggiori vestiti che possediamo, a me manca un paio di pantaloni, ma vedrò di procurarli. Verso sera, non sapendo cosa fare e per distrarmi, ho riletto tutte le lettere di Lory; sono poche in confronto all’altra pila di Luciana.
Milano, 26 ottobre Ho ricevuto una lettera di Luciana; ha impiegato sei giorni per arrivare, ma era censurata. Come al solito provo un grande piacere nel leggerle, producono una specie di effetto ricostituente. Spero ardentemente di riceverne una anche da Lory, ma già… quel maledetto difetto! Nemmeno oggi Mino si è fatto vivo; domani però dovrà venire certamente, perché saremo alla vigilia e dovremo fare l’inventario delle cose che porteremo con noi. Sto escogitando un metodo per far pervenire una lettera a Lory per avvisarla, ma per ora non sono venuto a capo di nulla. Così anche oggi è passato nell’ozio più completo che mascalzone pari mio possa desiderare su questa terra. Con la scusa dei tedeschi…
Milano, 27 ottobre Questa mattina, fulmine a ciel sereno, la “Sirenella” - come la chiama Lory - è arrivata a Milano con la sua signora madre e uno dei fratelli. Sono arrivati perché Alfredino ha deciso di sposarsi. Quelle teste di ghisa si sognano di svegliare la Al di sopra gente per bene alle sei del mattino tramite telefono, e di invocare aiuto dalla stazione, non dell’amicizia sapendo da che parte dirigere i passi. Le opec’è il dovere razioni di soccorso, sebbene con parecchi epiteti ed eterogenee maledizioni all’indirizzo dei da compiere e meridionali in generale e dei baresi in particolare, sono state condotte da mia madre, poognuno è pronto veretta, io mi son ben guardato dal farmi vivo. a morire Quel trio mi fa l’effetto di tre grosse oche spaventate. Un altro colpo per me e assai più doloroso del primo, e che non mi sarei mai aspettato, l’ho avuto nel pomeriggio: Mino si è ritirato. Questo fatto mi ha portato ad una conclusione: o io sono veramente pazzo, o la spedizione richiede un gran coraggio e Mino è un chiacchierone come tutti gli altri. Ma ormai la mia decisione è presa, parto da solo. L’unico contrattempo consiste nel rinvio della mia partenza di un giorno o due. L’arrivo della “Sirenella”, d’altra parte, costituisce per me una fortuna, perché ho trovato così il mezzo di far recapitare a Lory la mia lettera. Frattanto, nel pomeriggio, ho ricevuto l’invito al matrimonio di Alfredo “il bello”. Questo è il quarto matrimonio in un anno a cui presenzio, va bene per la mia collezione di portacenere. Non capisco, però, la fretta che ha questa gente di sposarsi, già prevedo la giornata di domani, ricevimento borghese, niente di originale ma molte arie da super-famiglie. Inoltre dovrò subirmi per chissà quante ore gli stupidi discorsi e le smorfie di quella sciocca di Wanda. Milano, 28 ottobre Le persone al matrimonio che davano l’assalto con una sfacciataggine senza pari al piatto dei dolci! Queste sono cose che continuA A pAginA 22 ➔
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si fanno, sì, ma con eleganza, da persone fini, senza farsi vedere e riempirsi le tasche (come ho fatto io). Rifiutavo quello che mi veniva offerto, per educazione, e facevo sparire per mio conto. Per fortuna un gagà, assediandola cortesemente a distanza ravvicinata, mi ha salvato dalle scarlatte grinfie di Wanda. Incomincio a guardare con riconoscenza questi campioni del sesso forte. Non ho ancora stabilito il giorno della mia partenza, questa notte rifletterò ancora. Accidenti a Mino!
Milano, 29 ottobre DOMANI PARTO! Il mio animo è attraversato da troppi sentimenti opposti perché io possa scrivere. Mi pervade una grande emozione. Vedo i miei così sereni e tranquilli, mi ripugna ingannarli così; non ho mai mentito, non ci sono abituato, ma sono deciso: domani, e sarà domani. Mentre scrivo mi giungono le note del Nabucco, è tutto il Risorgimento italiano che si affaccia alla mia mente. Sono invincibilmente commosso. Penso anche ad un’altra canzone, alla mia canzone… Milano, 30 ottobre Angelo di Dio, tu sei il mio solo compagno, aiutami e proteggimi, dammi forza e volontà, guidami sulla buona via e fa che io possa trovare di donare per la mia causa anche l’ultimo respiro. Così sia. Ciao mamma, ciao babbo, ciao Nenè.
Borgo Panigale (Bologna), 30 ottobre Questa mattina la fortuna mi sembrava avversa, ma ho dovuto ricredermi. Il treno che mi doveva portare a Piacenza era un modernissimo elettrotreno e per giunta niente affatto affollato. Ero salito ugualmente, ma proprio dietro a me l’imponente figura del controllore aveva fatto il suo ingresso. Non ho fatto altro che scendere dall’altra porta, uscire dalla stazione e avviarmi a piedi. Il pensiero della casa non mi turbava più, non vedevo altro che la meta. Non so quanti chilometri avevo fatto, dovevano essere circa quindici, perché ero vicino a Melegnano; i «Buona fortuna!» piedi incominciavano a dolermi, le scarpe ostentavano mirabilmente i ricordo di aver loro difetti. Invano, piazzandomi in provato tanto mezzo alla strada, facevo cenni disperati ai più eterogenei mezzi di locomosollievo quando zione perché mi dessero un passaggio; mi guardavano con un sorriso di infimi fu rivolto nita compassione e tiravano oltre. questo augurio La fortuna decisamente non mi voleva aiutare. Questa bella dea nei biglietti della lotteria di Merano di solito viene rappresentata a cavallo di un velocissimo purosangue; a me è apparsa sotto le spoglie di un carrettiere. Il sangue del cavallo era ben lungi dall’essere puro, ma intanto mi risparmiava qualche chilometro. Poco prima di Melegnano stava fermo un autocarro pieno di gente. Stava un duecento metri più vanti a noi. «Ch’el lì» mi fa il carrettiere «el fa servisi fin a Lodi». Lo incoraggiai a raggiungerlo. I cavalli sono bestie generose ed io dovrò essere loro sempre riconoscente. Ho visto quel ronzino fare sforzi disperati per coprire il più rapidamente possibile la distanza che ci separava dal camion, il quale aveva già acceso il motore. A venti metri, salto dal carretto e faccio una volata, mi aggrappo al camion appena in tempo! Urlo un grazie al carrettiere e volo verso Lodi. Io scappo per combattere i tedeschi e loro stessi me ne forniscono i mezzi. Più tardi saprò che il camion arriverà fino a Piacenza. Si passa Lodi e Casal Pusterlengo, anche il Po (era una grande preoccupazione questo fiume) è passato a novanta al-
l’ora e Piacenza è raggiunta. Erano le dieci. Dopo un rapido calcolo avevo concluso che per la sera avrei potuto essere a Fidenza; volevo dormire il più lontano possibile da Milano, temevo che ripensandoci sopra mi sarebbe venuta la tentazione di ritornare. Fuggire, fuggire volevo. E di nuovo camminavo; i piedi mi dolevano orribilmente, sebbene la giornata non fosse molto bella pure cominciavo a sentire caldo e il cappotto mi pesava. Alle dodici ero a Pontenure; mi sono fermato per riposarmi e per rosicchiarmi il panino duro che tenevo in tasca. Per la sera mi sarebbe rimasto l’altro mezzo e una sigaretta. Bisogna che mi metta a razione. Questa mattina prima di partire ho tagliato due tagliandi da ciascuna tessera del pane di casa mia. Otto tagliandi costituiscono la mia colazione, pranzo e cena per otto giorni! Ma non temo esaurimenti, ho praticato molto sport e il mio corpo è ben allenato. Finito di rodere, mi sono rimesso di nuovo in cammino e alle tredici avevo raggiunto Cadeo. Qui, davanti ad una trattoria, stava ferma una vecchia carcassa, una specie di camion ribaltabile che trasportava cemento. Mi aveva sorpassato non ricordo dove e avevo notato il posto libero vicino all’autista. Mi avrebbe potuto trasportare. Evidentemente l’autista era andato a pranzare. Decido di aspettarlo e abbordarlo. Dopo una mezz’oretta uscì un omone grande e grosso che prese posto in cabina; mi avvicinai e chiesi un passaggio. Non trovò difficoltà, mi fece accomodare e mise in moto. Sbuffando, traballando e sollevando cemento da tutti gli angoli, quella vecchia macchina mi rendeva un immenso servigio. Dapprima conversai con l’autista, badando bene però di non lasciare trapelare nulla sulle mie intenzioni, poi ognuno si immerse nei suoi pensieri. Dal finestrino vedevo sfilare la campagna emiliana. Gli Appennini, a destra, correvano paralleli alla via Emilia fino al mare, sulla sinistra la pianura Padana si confondeva, grigia, con il cielo grigio. La stanchezza incominciava a farsi sentire, accompagnata da un certo languore di stomaco, ma ero contento di aver percorso già tanta strada. A Fidenza la fortuna doveva assistermi ancora. Il mio uomo aveva appena fermato, con un enorme fragore, il suo bolide, che un collega si avvicinò per salutarlo. Quest’ultimo doveva condurre un camion a Parma, e così feci il trasbordo, fortunata coincidenza! Quando scesi dal trappolone per salire sull’altro camion, ero tutto bianco di cemento, ho dovuto togliermi il cappotto e dargli una buona sbattuta per ritornare ancora presentabile. Dunque, di bene in meglio, ora si va verso Parma, e devo dire che secondo il mio piano primitivo alla fine del primo giorno avrei dovuto essere solo a Casal Pusterlengo! Questa volta in cabina eravamo in tre; i miei compagni erano molto simpatici e pieni di quello spirito proprio degli emiliani, parlavano il dialetto bolognese e la loro compagnia sollevò un poco il mio morale; mi offrirono anche una sigaretta che mi ristabilì completamente. E raggiunsi anche Parma. «Buona fortuna!» mi dissero quando li lasciai, e ricordo di aver provato tanto sollievo quando mi fu rivolto questo augurio. Erano le 16,30; di camminare non me la sentivo più, i piedi si erano gonfiati e mi davano delle fitte ad ogni passo, decisi di prendere il treno. Sapevo che c’era un accelerato che partiva da Milano per Bologna nel pomeriggio, ma sarei arrivato a tempo? Mi diressi verso la stazione che incominciava ad imbrunire. Pensavo che salendo ad una stazione intermedia fra Milano e Bologna sarebbe stato più facile eludere il controllo, perché poteva darsi che questo fosse già stato effettuato nel tragitto Milano-Parma. La stazione era affollatissima, raggiunsi a stento l’orario delle partenze e potei constatare con piacere che il treno per Bologna doveva arrivare alle 18,15: dovevo aspettare un’ora e mezza. Dovetti lottare ancora accanitamente con quella turba di gente per poter passare, e finalmente fui sotto la pensilina. Avevo freddo, mi rimbaccucavo nel cappotto, misi la pipa in
il fiore del partigiano bocca e cominciai ad aspettare. Ormai s’era fatto buio, mi sentivo il cuore stretto da un’angoscia che mi opprimeva; ero solo, lontano da casa e non sapevo dove avrei passato la notte. C’erano molte persone intorno a me, ma tutte avevano un letto che le attendeva e in più erano munite di regolare biglietto. Facevo conto di dormire nella stalla di qualche contadino, ma come avrei potuto trovare la strada giusta con quel buio? A Bologna c’ero già stato, ma per poco tempo, perciò l’ubicazione della città non la conoscevo. E il coprifuoco? A che ora era? E nel caso fossi arrivato dopo l’orario, mi avrebbero permesso di dormire in stazione? Prima di domandare, cercai di appurare qualche cosa dalle conversazioni che sentivo; potei così capire che il treno non arrivava alla stazione di Bologna-Centrale, ma a quella di Borgo Panigale, a due chilometri dalla città, e questo perché la Centrale era stata distrutta dai recenti bombardamenti. Il treno arrivò con quaranta minuti di ritardo: la solita confusione; salii sulla prima vettura di terza classe e mi cacciai in un angolo vicino al finestrino. Con sollievo constatai che l’illuminazione era soppressa totalmente; il buio mi veniva in aiuto. Dovevo avere un febbrone da cavallo, battevo i denti dal freddo e la gola mi bruciava. Mi sentivo ancora più solo e avrei voluto parlare con qualcuno per non sentire più quella continua apprensione. Forse i miei a quell’ora mi stavano già aspettando. Poche persone scesero con me a Borgo Panigale, ma sufficienti per riempire la sala d’aspetto della piccola stazione. Ognuno si dispose alla meglio per passare la notte; io mi accomodai sebbene quest’ultima non sia proprio la parola adatta - in una panca avendo al mio fianco una bella bolognese. Questa, poiché non aveva fame, mi offrì un bastone di pane imbottito con della carne. Mangiai e fumai con soddisfazione profonda. Ora, mentre scrivo, sono seduto in un comodissimo pullman(1) di un elettrotreno che domani partirà per Firenze; il capostazione ci ha dato il permesso di pernottare qui. La bella bolognese sonnecchia al mio fianco, con le gambe allungate sulla poltrona di fronte. Le ho dato una lettera da imbucare a Milano, poiché lei ci ritornerà. Mi ha anche fornito preziose informazioni. Si sta proprio bene qui dentro, c’è persino il riscaldamento; devo ringraziare il Signore: fuori piove, sento la pioggia battere sull’imperiale(2), parecchi dormono già. La bolognese si è svegliata perché sente freddo; mi tolgo il cappotto e glielo stendo sopra. Mi ringrazia con un luminoso sorriso e mi chiede a chi scrivo, io non le rispondo, metto la luce blu e accendo la mia ultima sigaretta. Pensavo che sarebbe stato bello, molto bello, se invece di lei ci fosse stata Lory, e quel treno ci avesse accompagnati in un bellissimo viaggio. Cosa farà ora la mia mogliettina? Buona notte, Lory; tu puoi dormire tranquilla, sognando magari un aviatore, io mi accontenterò di guardare questa tua fotografia.
Cattolica, 31 ottobre Scrivo alla pallida luce di un lumicino ad olio. Mi sento bene quando scrivo, chissà perché, come se scrivessi a casa. Sono sdraiato sul mio giaciglio di paglia e mi sembra di riposare sul più bel letto; tre paia di buoi mi tengono compagnia, sdraiato al mio fianco e già profondamente addormentato, un compagno che ho trovato a Bologna. È un militare scappato da Treviso, che cerca di raggiungere la sua famiglia a Foggia: piccolino, con tutte le caratteristiche dei meridionali, decentemente vestito con un abito borghese e abbondantemente provvisto di cibo e di tabacco. Queste due ultime constatazioni sono state quelle che mi hanno distolto dall’idea di abbandonarlo,
come era mia intenzione, perché lui personalmente mi piace poco. Sono molto stanco, ma in compenso abbastanza rifocillato. Anche oggi non speravo di fare tanto cammino, e anche questa volta la cosa dipende dal fatto che siamo riusciti ad eludere la sorveglianza del controllo. Manovre difficili, però condotte con raziocinio, danno i loro frutti. Da Rimini a Cattolica, però, abbiamo dovuto affidarci alle nostre gambe. Rivedere l’Adriatico e sentirmi salire agli occhi le lacrime è stato un tutt’uno per me, mi sembrava di ritrovare un amico dei tempi belli e spensierati. Respirando la sua brezza mi sono sentito più leggero, riudendo la sua voce sono divenuto più lieto, e il mio pensiero non ha potuto fare a meno di correre ad un’altra spiaggia, ad un altro lungomare, a lei. Quindici chilometri non sono molti, ma una notte pressoché insonne passata su una poltrona e due giornate di strapazzo contribuiscono a far desiderare a un essere di togliersi almeno le scarpe. È la prima volta in vita mia che dormo in una stalla, e dire che a casa mia disdegnavo le lenzuola di quindici giorni! Buona gente, quella che ci ospita. Ci hanno fatto sedere a tavola con loro e il vecchio ci narrava di suo padre garibaldino. Mi dava del tu e, prima che andassi a dormire, mi benedisse dicendomi un po’ in romagnolo e un po’ in italiano: «Com se t’föss al me fiol… Va’, spero che come te ui ni sia ‘na masa!(3)». Ho sonno, sento soltanto i buoi ruminare e correre qualche topo. Buonanotte, Lory, mogliettina adorabile.
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Falconara, sala d’aspetto della stazione, 1 novembre La penna s’è scaricata. Siamo appena arrivati col treno della sera. Questa mattina, dietro nostro avviso, ci hanno svegliati alle quattro, ma malgrado ciò il treno ci è scappato sotto il naso. Siamo stati costretti a camminare lungo la spiaggia per evitare un ponte sorvegliato. Bella notte: il mare, la spiaggia, e sopra un cielo stellato come ne ho visti solo a Venezia. Davanti alla luna non c’erano però le guglie Buona gente, d’oro delle cupole di San Marco, c’ero soltanto io che la guardavo. Chissà se pure Lory… Imquella che ci possibile - pensavo -, lei a quell’ora dormiva, ospita. Il vecchio si sveglierà soltanto alle undici, accenderà una sigaretta e penserà guardando il fumo. ci narrava Penserà a chi? Se avessi avuto la certezza che per qualche istante avesse pensato a me, forse di suo padre avrei avuto meno freddo. Oppure andrà a garibaldino scuola, e la vedo fra quei mocciosi che la fanno disperare. Ti vedranno mai distratta per un momento, Lory? Le ho mandato una lettera per mezzo di una signora che andrà a Padova. Fa freddo qua dentro e prevedo che non riuscirò a chiudere occhio. Siamo stati costretti a passare tutta la giornata a Cattolica (molti gagà fuori stagione) e a partire soltanto alla sera, nascosti in un vagone di legna. Finora la spedizione è andata Y bene, ma tra poco verrà il difficile. 1 Denominazione attribuita in origine, e ancor oggi nei paesi anglosassoni, soltanto alla carrozza ferroviaria di un elettrotreno. 2 In alcuni veicoli (per es., diligenza, autobus, torpedone), la parte situata sopra il tetto, costruita in modo tale da potervi sistemare i bagagli ed eventualmente, in passato, anche posti a sedere per i passeggeri. 3 «Come fossi mio figlio... Va’, spero che come te ce ne siano tanti!»
continuA nel prossimo numero
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Valori da difendere. il fiore del partigiano
le Istituzioni
PRESENTATO A MATTARELLA IL DOCUMENTO CONCLUSIVO DEL SEMINARIO “PER UNO STATO
O
On. Presidente della Repubblica Italiana
norevole Presidente, il ripetersi, con frequenza sempre più fitta e diffusa sul territorio italiano, di iniziative e manifestazioni di stampo fascista, così come la presentazione di liste elettorali con espliciti richiami a simboli fascisti e come la vendita – particolarmente accentuata in varie zone d’Italia, care al fascismo – di simboli, gadget, immagini tipiche del regime mussoliniano, inducono da tempo l’associazionismo democratico a serie preoccupazioni, alimentate ulteriormente dall’enorme diffusione, sulla rete, di dichiarazioni, appelli, comunicati di tipo fascista e razzista, spesso con particolare virulenza. L’associazionismo democratico e molte cittadine e cittadini reagiscono in modo civile, con proteste, presìdi, sollecitazioni per interventi delle Autorità competenti, sempre evitando conclusioni violente e tali da impegnare seriamente l’ordine pubblico. Ma la pazienza e l’autocontrollo hanno un limite, che – quantomeno l’ANPI, l’Istituto Cervi ed altre organizzazioni democratiche – hanno sempre cercato di non superare. Tuttavia le provocazioni aumentano e si estendono anche alla partecipazione (frequente, specie a Milano e in Lombardia) di esponenti di movimenti razzisti, fascisti e nazisti di diversi Paesi europei. Lo Stato sembra occuparsi di questi problemi solo sotto il profilo dell’ordine pubblico; ma non emerge (non solo ora, ma da molti anni) una precisa volontà politica, di tutti gli organi dello Stato, di reagire a questi fenomeni, realizzando quella “vocazione” antifascista, a cui è ispirata l’intera Costituzione. Spesso non si interviene, in nome del rispetto di alcuni diritti fondamentali previsti dalla Carta costituzionale, come se essi non avessero limiti, intrinseci ed estrinseci; spesso si oppone alle proteste l’affermazione «che non ci sono leggi», laddove almeno due (la legge 20 giugno 1952, n. 645, nota come legge “Scelba” e la legge 25 giugno 1993, n. 205, nota come legge “Mancino”) sono tuttora in vigore e vengono applicate con coerenza dalla stessa Corte Suprema di Cassazione. Ma c’è di più: l’art. 9 della citata legge 645/ 1952 (“Scelba”) conteneva un imperativo ed un impegno assai precisi, che vale la pena di riportare testualmente: «La Presidenza del Consiglio bandisce concorsi per la compilazione di cronache dell’azione fascista, sui temi e secondo le norme stabilite da una Commissione [...] presieduta dal Ministro per la Pubblica Istruzione, allo scopo di far conoscere in forma obbiettiva ai cittadini e
del presente. Tutti gli interlocutori hanno convenuto sull’urgenza di concentrare l’attenzione anche sulle stringenti tematiche delle discriminazioni, delle chiusure, delle derive nazionalistiche, odierne. L’antifascismo utile all’Italia e all’Europa del XXI secolo è anche quello che impedisce la costruzione di muri, che tiene le frontiere aperte, che risponde al bisogno di sicurezza L’ANPI e l’Istituto Cervi hanno concordato con il presidio della legalità democratica. da tempo sulla convinzione che qualunque Non v’è battaglia più attuale e più coerente tipo di mobilitazione dei cittadini potrà avere con il lascito dell’esperienza storica antifarisultati effettivi e durevoli solo se sarà ac- scista, di quella per la difesa dei valori della compagnata da una presa di posizione anti- libertà, del diritto, della solidarietà, della defascista da parte dello Stato, intendendo per mocrazia che hanno costruito l’Unione Eutale il complesso delle istituzioni “statuali”, ropea e che devono costituire il fondamento da un lato e il sistema delle autonomie dal- e la base della convivenza democratica, in l’altro. Di tale convincimento hanno operato Europa e nei singoli Paesi che la componuna verifica già in due occasioni, a Gattatico, gono. Non sono stati ritenuti presso la sede dell’Istisufficienti, peraltro – nel tuto Cervi in un ConveIl documento finale seminario – né la constagno del 2012 ed a Roma, in una sala pubblica, nei del seminario tenutosi tazione dei fenomeni, né il convincimento della pressi del Parlamento, il all’Istituto Alcide Cervi loro rilevanza e pericolo31 marzo 2014. Di quesità, né ci si è accontenst’ultima iniziativa, sono è stato presentato tati di un richiamo alla stati anche pubblicati e dall’on. Soliani e dal attenzione e all’iniziativa diffusi gli atti. Presidente Smuraglia dei pubblici poteri. Sono Di recente, ed esattaemerse anche richieste e mente il 9 gennaio 2016, alle massime proposte concrete di tipo le due Associazioni hanrappresentanze generale e per singoli setno promosso un semitori; ed è stato dato, ai nario presso l’Istituto istituzionali, due Presidenti, rispettiCervi, per una giornata, cominciando vamente dell’ANPI e delcon il contributo di dalla Presidenza l’Istituto Alcide Cervi, esperti come il politol’incarico di rappresenlogo Pietro Ignazi, il madella Repubblica tarle ed esporle alle masgistrato Carlo Brusco e sime Autorità del nostro l’ex Ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Berlinguer (le cui re- Paese. E questo facciamo, col presente atto, e lazioni sono state integrate da importanti con l’esposizione di almeno alcune delle prointerventi di esperti) e con l’apporto di una poste, indicazioni e richieste emerse dal setavola rotonda riservata alle Autonomie, cui minario. hanno partecipato il Sindaco di Torino e Pre- Ci permetteremo poi di chiedere di poterli ilsidente dell’ANCI, il Presidente della Re- lustrare di persona alle massime Autorità del gione Emilia-Romagna, i Sindaci di Udine e Parlamento e del Governo. di Reggio Emilia, il Presidente della Provin- Di seguito, le proposte e richieste, divise per “settori”. cia di Reggio Emilia. Dal seminario, molto partecipato, è emerso, rafforzato, il convincimento già più sopra in- ASPETTI GENERALI dicato, circa la necessità assoluta ed urgente Si ritiene necessario che lo Stato assuma, nel di una “presa di posizione” complessiva, da suo complesso ed in tutti i comportamenti parte di tutte le Istituzioni, statuali e delle dei suoi esponenti, un atteggiamento più Autonomie; e sono stati sottolineati i pericoli nettamente e dichiaratamente “antifascista”, che derivano dalla situazione più sopra de- nel presupposto che a contraddistinguere il nunciata, essendo pacifico – per tutti i par- nostro sistema come “antifascista” non è soltecipanti – l’insegnamento di storici come tanto la XII disposizione transitoria, ma tutta Pierre Milza, secondo cui la storia può ripe- la Costituzione, per il netto contrasto tra i tersi, anche in forme diverse, per cui bisogna princìpi e valori che essa esprime ed ogni tipo sempre tenere presente quanto è accaduto di fascismo, di autoritarismo, di razzismo, di nel passato, per confrontarlo con i pericoli populismo. Non si tratta solo di aspetti forparticolarmente ai giovani delle scuole, per i quali dovranno compilarsi apposite pubblicazioni da adottare per l’insegnamento, l’attività antidemocratica del fascismo». Ebbene, questa legge non è stata mai applicata, né dal Governo in carica al momento della pubblicazione della legge stessa, né da uno qualsiasi dei tanti Governi successivi a tutt’oggi.
Sempre
PIENAMENTE ANTIFASCISTA”
mali, ma del “segno” che da parte delle pubbliche Autorità deve essere dato, nella citata direzione, a tutte le iniziative ed a tutti i comportamenti di qualsiasi organo dello Stato. Va ricordato, una volta per tutte, il “segnale” che è derivato dal fatto che il Presidente della Repubblica Mattarella, nel suo discorso di insediamento, abbia fatto specifico riferimento alla Resistenza ed al 70° Anniversario della Liberazione. Buona parte delle Istituzioni ha avvertito il “segnale” e ad esso si è attenuta, anche nelle celebrazioni, appunto, del 70°. Lo stesso va detto per la manifestazione svoltasi alla Camera dei Deputati, con la presenza del Presidente della Repubblica e del Presidente del Senato, il 21 Aprile 2015, alla quale, la partecipazione di molti partigiani ha conferito una valenza del tutto particolare e significativa, e come tale, chiaramente percepita da tutto il Paese. Con ciò, si intende dire che in tutte le manifestazioni, le prese di posizione, le iniziative, deve sempre emergere il particolare connotato del nostro sistema democratico, che è quello di essere “antifascista”.
LEGISLAZIONE E GIUSTIZIA Le due leggi già richiamate, (la legge 20 giugno 1952, n. 645, nota come legge “Scelba” e la legge 25 giugno 1993, n. 205, nota come legge “Mancino”) sono chiaramente applicabili, tant’è che in diverse occasioni la stessa Corte Suprema di Cassazione le ha utilizzate per collocare i simboli fascisti, come il fascio littorio e il saluto romano, tra quelli che contraddistinguono una manifestazione in senso fascista, e come tali sono punibili, in quanto costituiscono reato (v. in particolare la sentenza 2026/2007 della Terza Sezione Penale e la sentenza 415/2014 della Prima Sezione Penale); naturalmente entro i limiti fissati, per la prima legge, della Corte Costituzionale, come da notissime decisioni. Va, peraltro, chiarito, poiché è frequente l’osservazione che non sono ammissibili leggi che contrastino col principio di libera manifestazione del pensiero, che la stessa Corte Europea dei diritti ha chiarito di recente, a chi invocava l’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che esiste anche l’art. 17, che reprime ogni manifestazione di abuso dei diritti di libertà («sono legittime le restrizioni alla libertà di espressione quando essa viene utilizzata per fini contrari al testo ed allo spirito della Convenzione europea; fini che, se ammessi, contribuirebbero alla distorsione dei diritti di libertà previsti dalla Convenzione» - sentenza del 21.12.2015, nel procedimento 25239/13). Esistono anche sentenze che riconoscono il carattere fascista di certe Associazioni che
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il fiore del partigiano Quadro sintetico delle richieste e proposte
1- adeguamento dei comportamenti di tutte le istituzioni (dello Stato e delle autonomie) ai connotati profondamente antifascisti desumibili dalla costituzione; 2- adempimento dell’indicazione precisa di cui all’art. 9 della legge “Scelba”; 3- celebrazione dell’anniversario della repubblica e del “Voto alle donne” con interventi al massimo livello e con adeguati finanziamenti pubblici; 4- celebrazione del 2 giugno come festa della repubblica e della costituzione; 5- emanazione di una direttiva, da parte del ministero dell’interno, per il divieto (e per la prevenzione) delle manifestazioni pubbliche con caratterizzazione spiccatamente fascista e razzista; 6- porre in atto tutte le iniziative necessarie nella Scuola, per l’ampliamento delle ore dedicate alla storia della Seconda guerra mondiale, della resistenza, della costituzione; 7- impegno, in tutte le scuole, per l’indirizzo dei giovani verso una consapevole “cittadinanza attiva”; 8- ancora per la scuola, organizzazione di corsi di aggiornamento per insegnanti, sui temi più volte menzionati (fascismo, resistenza, costituzione); 9- infine oltre a quanto indicato ai punti 5,6,7, dare piena attuazione a quanto disposto dalla legge 30.10.2008 n. 169 e dalla legge 15.07.2015 (riforma della Scuola), rispettivamente all’art. 1 della prima e all’art. 1, c.7, lettera d ed e della seconda. 10- interventi legislativi, compatibili con i precetti della costituzione ed armonici con l’indirizzo antifascista della carta, sui seguenti temi: a. coordinamento delle norme urgenti (legge “Scelba” e legge “mancino”) in forma di Testo unico innovativo, introdu-
comunemente operano sul territorio italiano e talora cercano anche di concorrere ad elezioni (basti per tutte, la sentenza n. 11/2010 della Quinta Sezione Penale, contrassegnata da un’ampia ricostruzione anche di natura storico-giuridica). Restano, tuttora, molte incertezze, molte decisioni contraddittorie su fatti analoghi (significativo il caso di Milano, dove – per una manifestazione che si ripete puntualmente ogni anno con le stesse modalità di tipo fascista – un Giudice ha condannato ed un altro ha assolto). Restano ancora evidenti manifestazioni di disattenzione e di sottovalutazione dei fenomeni e ritardi che vanno al di là della nota lentezza della giustizia. Così come resta assolutamente scoperto tutto il campo delle dichiarazioni, comunicazioni, iniziative assunte attraverso la “rete”, che sono numerosissime, dotate di particolare offensività anche per la facilità di diffusione e tutte sottratte ad un regime penalistico sanzionatorio. Resta altresì
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cendo norme estensibili alle manifestazioni e pubblicazioni fasciste sulla “rete” con previsione di specifiche responsabilità anche di controllo; b. disciplina della vendita, distribuzione ed esibizione di beni, oggetti e gadget di chiaro stampo fascista; c. introduzione nelle norme che disciplinano le votazioni, di disposizioni che inibiscano la presentazione di liste con esplicita qualificazione fascista;(queste iniziative possono essere realizzate anche mediante una ricerca dei disegni di legge esistenti in parlamento su queste tematiche con attribuzione ad un’unica commissione ai fini del coordinamento e di formazione di testi unificati e innovativi). 11- introduzione, nella Scuola Superiore della magistratura, di corsi formativi, a carattere storico-politico, sul fascismo, sulla Seconda guerra mondiale, sulle vicende del dopoguerra, la resistenza e la costituzione; 12- provvedimento di indirizzo perché nei regolamenti comunali che dettano la disciplina dell’uso degli spazi pubblici, venga introdotta una norma che consenta al Sindaco di negare spazi per manifestazioni esplicitamente fasciste; 13- esaltare e diffondere le “buone pratiche” in atto presso l’amministrazione pubblica e nel sistema delle autonomie, che applichino concretamente l’indirizzo democratico e antifascista della costituzione; 14- generalizzare l’emanazione, da parte delle regioni, di leggi a tutela della memoria e per la conoscenza della storia più recente (fascismo, Seconda guerra mondiale, resistenza, costituzione) con adeguati finanziamenti; 15- previsione di finanziamenti adeguati per le leggi regionali già esistenti, sulle tematiche indicate al punto precedente. Y
la vendita ed esposizione di beni e prodotti tipicamente fascisti, assolutamente impunite. Su queste tematiche ci sono diversi disegni e proposte di leggi, fermi in Parlamento. È singolare che nessuno di essi abbia fatto passi avanti in concreto e che, per alcuni, non sia stato ancora neppure nominato il relatore: ulteriori segnali di disattenzione, sui quali sarebbe utile che si intervenisse. Prescindiamo del tutto da ogni valutazione di merito sulla bontà dei singoli disegni di legge, che spetta al Parlamento giudicare, ma che richiederebbero quantomeno una discussione. Né sembrerebbe inutile l’impostazione di un dibattito parlamentare su un possibile Testo Unico (di carattere “innovativo”) che riordinasse la materia e provvedesse ad integrarla ed a renderla più efficace. Non va, poi, sottovalutato il tema della “cultura” storico-policontinuA A pAginA 26 ➔
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le Istituzioni
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tico-giuridica, della Magistratura, chiamata ad affrontare procedimenti che implicano anche un certo tipo di conoscenze, quantomeno storiche. Su questo sarebbe sicuramente utile un intervento della Scuola Superiore della Magistratura, per istituire appositi corsi, a fianco di quelli più strettamente e squisitamente “giuridici”. Del tema risulta essersi occupato il precedente Consiglio Direttivo della Scuola e la questione verrà riproposta all’attuale Consiglio, confidando che esso possa essere finalmente recepito ed attuato in concreto.
SCUOLA È assolutamente evidente che alla scuola spetta il compito di formare dei “cittadini”, per di più attivi. In questo contesto, è nella scuola che non solo devono essere fatti conoscere gli eventi storici principali del secolo scorso (il fascismo, la Resistenza, la Seconda guerra Mondiale, la Costituzione), ma tutto deve essere orientato nella direzione della formazione alla “cittadinanza attiva”. Ci sono non poche iniziative in corso, anche in virtù di un protocollo d’intesa sottoscritto da ANPI e MIUR; allo stesso modo, l’Istituto Cervi è ente accreditato per la formazione, e con lo stesso MIUR ha in approvazione un protocollo sui temi della formazione democratica. Occorre attuare questi strumenti più in profondità e bisogna soprattutto che si dia applicazione alla normativa vigente, spesso non adeguatamente rispettata. In realtà, oltre all’impegno consacrato nell’art. 9 della legge 20.06.1952, n. 645, dedicato principalmente ai giovani della scuola («per i quali dovranno compilarsi apposite pubblicazioni da adottare per l’insegnamento [...] per far conoscere l’attività antidemocratica del fascismo»), ci sono altri provvedimenti di legge che interessano a questo fine e dovrebbero essere attuati concretamente,. Anzitutto la legge 30.10.2008, n. 169, all’art. 1 dispone che a partire dall’anno scolastico 2008-2009 «sono attivate azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale, finalizzate all’acquisizione nel primo e secondo ciclo di istruzione, della conoscenza e delle competenze relative a “cittadinanza e Costituzione”, nell’ambito delle aree storico-geografica e storico-sociale». La stessa legge di Riforma della scuola, approvata di recente (Legge 13.07.2015, n. 107, art. 1, comma 7, lettera D) fissa alcuni obiettivi da perseguire, tra cui «lo sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva e democratica, attraverso la valorizzazione dell’educazione interculturale e alla pace, il rispetto delle differenze e il dialogo tra le culture», e più oltre (lettera E) «impegno allo sviluppo di comportamenti responsabili ispirati alla conoscenza e al rispetto della legalità», etc. Dunque, gli istituti ci sono; ma come vengono utilizzati se le ore dedicate alla storia ed alla educazione alla cittadinanza attiva si restringono anziché aumentare? Occorre, dunque, su questo piano, un vero e
proprio salto di qualità, senza il quale continuerà a verificarsi il fenomeno evidenziato dalla scelta attuata dagli studenti in occasione della prima prova dell’esame di Stato, per le Scuole secondarie di secondo grado, in cui solo il 2,5-3,1% ha optato per la traccia “C”, che proponeva un tema storico e di attualità. In occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico 2015-2016, l’ANPI nazionale ha distribuito nelle scuole una copia della Costituzione italiana, con una introduzione del suo Presidente intitolata «Dai valori della Costituzione alla cittadinanza attiva». Può essere qualcosa di utile, se gli insegnanti la utilizzeranno come strumento didattico e informativo; ma è certo che un’Associazione può anche attivarsi e concorrere, in qualche modo, alla realizzazione di un obiettivo fondamentale per il futuro del Paese, ma non può sicuramente pensare di surrogarsi a quello che è, e resta, uno dei compiti fondamentali della scuola.
CONOSCENZA E RISPETTO DELLA COSTITUZIONE Partendo dalla premessa che quella richiamata è, per definizione, una Costituzione democratica e antifascista, risulta evidente la necessità di favorirne la piena conoscenza da parte di tutte le cittadine e tutti i cittadini ed in particolare dei giovani perché non solo la apprezzino, ma imparino anche a rispettarla ed “amarla”. Un illustre relatore, nel seminario all’Istituto Cervi, si è richiamato alla necessità della realizzazione di un forte “patriottismo costituzionale”, come base di una corretta convivenza civile; e molti altri lo hanno seguito su questa linea. Inutile rilevare che la semplice distribuzione della Costituzione, che spesso viene fatta da Associazioni e Comuni, è pur sempre utile, ma certamente non sufficiente. Se si vuole contrastare l’affermazione di valori che tali non sono e che, anzi, confliggono con quelli costituzionali, lo Stato – nel suo complesso – deve attivarsi per raggiungere lo scopo della valorizzazione dei princìpi e dei valori costituzionali, intendendo per tali non solo quelli che attengono a diritti, ma anche quelli che richiamano doveri, non meno importanti, come quelli «di solidarietà politica, economica e sociale» (art.2 della Costituzione).
AUTONOMIE Anche in questo campo c’è moltissimo da fare, essendo le Regioni dotate sia delle competenze sia degli strumenti necessari ed essendo particolarmente rilevanti anche sul piano etico-politico, le posizioni dei Sindaci. In diverse Regioni sono state approvate leggi per sostenere e rafforzare gli studi e le ricerche storiche sulla realtà contemporanea, sulla seconda guerra mondiale, sulla Resistenza, sulla Costituzione. Molte di queste leggi, tuttavia, non sono state finanziate o lo sono state in modo assolutamente inadeguato. Una recente legge della Regione Emilia-Romagna ha dimostrato che si “può fare”, non solo approvando la legge, ma preve-
dendo anche il finanziamento di un milione. Altre, come la Lombardia, hanno una legge simile, dal 2010, ma non l’hanno mai finanziata; solo in occasione dell’ultima legge “finanziaria” è stato approvato un emendamento che stanzia 50.000 Euro (in Lombardia!). In altre Regioni non c’è nulla ed è evidente che invece occorrerebbe un impegno più fattivo e concreto anche per far conoscere i fenomeni e i fatti più recenti, dal fascismo, alla Liberazione ed alla Costituzione. Quanto ai Sindaci, che si trovano molto spesso di fronte alla richiesta di spazi pubblici per riunioni fasciste, regna una notevole incertezza. C’è una proposta, formulata in Romagna (ad Imola), di introdurre in tutti i regolamenti comunali relativi agli spazi pubblici, una clausola che inibisce il rilascio di autorizzazioni, quando la motivazione è di carattere “fascista”. È da vedere se questo potrebbe essere fatto con un provvedimento nazionale, oppure se debbano essere i Sindaci a dovervi provvedere. Certo, vi è una situazione di incertezza, allo stato attuale, che occorre rimuovere. In ogni caso, è stato giustamente osservato da un Sindaco che il Primo cittadino non può restare “imparziale”, quando si tratta di violazioni dello spirito della Costituzione e deve assumere le proprie responsabilità. C’è, infine, la questione delle liste elettorali, oggi rimessa alle decisioni di ogni singola Commissione. Occorre stabilire il principio che le liste con netto e dichiarato connotato fascista non devono essere ammesse. Ci sono dei precedenti positivi, c’è un pronunciamento del Consiglio di Stato. Anche qui sarebbe utile una legge di indirizzo, che risolvesse il problema una volta per tutte. Nell’attesa, sarebbe certamente utile quantomeno un “indirizzo” formale da parte del competente Ministero. Sottoponiamo queste riflessioni e queste proposte, scaturite da un dibattito franco e aperto e da confronti ed approfondimenti dei due organismi promotori (l’ANPI e l’Istituto Alcide Cervi) all’attenzione delle massime autorità politiche dello Stato, a partire dalla più alta, quella del Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale ed è il supremo garante del rispetto e dell’attuazione della Costituzione e dunque anche della convivenza civile del Paese. Si confida nella sensibilizzazione di tutte le Istituzioni statuali e delle Autonomie, per la presa in considerazione delle proposte formulate e, ove possibile, per la loro attuazione, con la creazione, nel Paese, di un “clima” politico e istituzionale pienamente corrispondente agli intendimenti di chi ha combattuto per questa Costituzione democratica e antifascista e di chi l’ha discussa e approvata nell’ormai lontano 1947. Y Con osservanza, Roma - Gattatico, 10 febbraio 2016 Prof. Carlo Smuraglia* e on. Albertina Sogliani** *Presidente Nazionale ANPI **Presidente dell’Istituto Alcide Cervi
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Soffia la caccia allo straniero
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le idee
MIGRANTI: I GOVERNI EUROPEI IN GRAN PARTE SONO LANCIATI A SEGUIRE LE DESTRE
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di
da il manifesto del 23 marzo 2016
GUIDO VIALE
L’asilo, la protezione internazionale accordata ai profughi e normata dalla convenzione di Ginevra, era stato concepito finora, più che come un diritto, come una concessione delle democrazie liberali a chi fuggiva per sottrarsi a una dittatura e poi, per estensione, a una guerra civile. Ma oggi quelli con cui l’Europa e gli Stati che per ragioni geografiche o storiche gravitano intorno al Mediterraneo si confrontano sono esodi di massa in cui i fattori guerra e dittatura si mescolano inestricabilmente con quelli ambientali e climatici. Tanto che all’origine di molti dei conflitti armati in corso – compreso quello in Siria – non è difficile riconoscere un deterioramento ambientale provocato dallo sfruttamento incontrollato di risorse locali, ma anche, sempre più spesso, dai cambiamenti climatici in atto. Questo rende priva di fondamento la di-
Quello scontro tra chi rivendica un diritto “naturale” alla vita e chi glielo vuole negare si ripercuote, all’interno degli Stati membri dell’Unione europea, in un conflitto sempre più acceso e centrale – tanto da far passare in second’ordine tutti gli altri, o da subordinarne ad esso le manifestazioni – tra chi si schiera a favore dell’accoglienza e chi si mobilita per sostenere i respingimenti. Ai due poli di questi schieramenti, che stanno facendo piazza pulita della configurazione tradizionale dei partiti e delle forze politiche, troviamo da un lato una folta schiera di volontari, delle più varie estrazioni sociali e anche politiche o religiose, che si adoperano in mille modi per assistere e accogliere i profughi. Dall’altro degli squadristi impegnati in assalti ai siti dove i rifugiati vengono spesso solo “immagazzinati”. Ma intorno a questi squadristi si sta creando un cordone di condivisione e di aggregazioni politiche di stampo nazionalista (o “sovranista”) e, in buona misura, razzista, in netta avanzata ovunque. Mentre la simpatia che suscita l’azione dei volontari stenta – per usare un eufemismo – a farsi strada sia in termini di appoggio politico che come “comune sentire”. Anche perché le soluzioni prospettate dalla destra sono semplici, spicce e non affrontano le loro inevitabili conseguenze: una stretta, non solo politica, ma anche economica e sociale, sui diritti di tutti, una guerra che trasforma in nemici tutti coloro che oggi cercano e non trovano salvezza in Europa, una serie infinita di stragi in terra e in mare che finirà per configurarsi come un vero sterminio; mentre la scelta di accogliere, al di là delle emozioni immediate che suscita la vista di tanta miseria, è complicata, richiede programmi, ragionamenti, svolte e impegni radicali. Da tempo i governi europei si sono in gran parte lanciati all’inseguimento delle forze di destra. Una rincorsa vana, per-
ché quegli argomenti li sanno usare meglio le forze apertamente razziste. Ma soprattutto perché sono incapaci di fare i conti con la dimensione effettiva del problema e delle misure necessarie per farvi fronte: rinuncia all’austerity, alla contrazione di spesa pubblica e welfare, a quella precarizzazione del lavoro che ha creato milioni di disoccupati, e un impegno effettivo nella conversione ecologica, unico modo, peraltro, per creare milioni di nuovi posti di lavoro utili a tutti. Quella incapacità li sospinge così verso politiche sempre più feroci e antipopolari, come gli hot spot, il filo spinato, la guerra in Libia o l’indecente accordo con la Turchia, insensato e suicida quanto cinico e spietato. Che però ha fatto contenti tutti i governanti, che possono così aspettare qualche mese, fino a una nuova resa dei conti, per ammettere che non sanno che cosa fare; compreso Renzi, che si è improvvisamente fatto paladino di un’Europa più “umana”, ma che ha chiesto subito l’estensione di quell’accordo alle altre situazioni su cui verranno deviate le prossime ondate di profughi.
Sostenitori e nemici dell’accoglienza, si ritrovano, tanto tra le forze di sinistra e di centro quanto nel mondo cristiano e soprattutto in quello cattolico, che su questo tema rischia una frattura storica e persino tra molte persone di destra (tra cui c’è ancora qualche emulo di Perlasca). È una contrapposizione che lavora alla dissoluzione degli schieramenti e dei rituali politici tradizionali, ma anche a un riposizionamento di classi e forze sociali, verso le quali c’è bisogno di un approccio politico nuovo, prammatico, non rituale né “ideologico” senza il quale la vittoria delle destre e del razzismo è scontata.Y
FoTo čTk, epa, reuTerS
l cordoglio e la pietà per le vittime degli attentati di Bruxelles dovrebbero renderci più umani e non più feroci nell’affrontare il vero conflitto con cui dobbiamo misurarci se vogliamo prosciugare lo stagno dove sguazza il terrorismo islamista: quel conflitto verso i profughi che rende l’Europa così fragile e debole. L’urgenza di difenderci non deve farci dimenticare che il terrorismo non si combatte con la guerra, che è ciò che lo ha prima covato e poi nutrito nel corso degli ultimi anni. Né con lo Stato di polizia, che non fa che promuoverlo, e meno che mai con la “caccia allo straniero”; bensì combattendo le discriminazioni e il disprezzo di cui si alimenta il rancore che alimenta il terrorismo. Per questo non c’è niente che metta in forse la convivenza in Europa quanto il cinismo e la ferocia con cui i suoi governi trattano i profughi che si presentano alle sue porte per sottrarsi al terrore che rende impraticabili tutti quei Paesi – e non solo la Siria – da cui cercano di fuggire. Quello che si è aperto, soprattutto nell’area che abbraccia Europa, Medio Oriente e Africa centrosettentrionale, è uno scontro intorno al riconoscimento di un diritto ovvio, perché “naturale” nel senso più banale del termine, ma ostico e difficile da accettare.
stinzione tra profughi di guerra, da accogliere, e migranti economici, da rimpatriare. In un modo o nell’altro, sono ormai tutti profughi ambientali – una figura non contemplata dalle convenzioni sulla protezione internazionale – ma la cui presenza sarà centrale nel contesto sociale e politico dei decenni a venire.
Questo è stato
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le storie - la Storia
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Vita di Piera Sonnino, unica superstite di una famiglia ebrea genovese di otto persone, sterminata dal nazismo. Il ritorno, il dolore del ricordo, la necessità della memoria
➔ segue dAl numero scorso
Mi chiamo Piera Sonnino
IL RACCONTO - QUARTA PARTE
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da Diario del mese del 24 gennaio 2003
l viaggio da Genova a Bolzano durò ventiquattr’ore. Attraversammo città e paesi sconvolti dalla guerra; incrociammo colonne di gente che fuggiva i bombardamenti; di chilometro in chilometro l’agghiacciante testimonianza del massacro e della distruzione bellica si accumulavano in una misura che aumentava il nostro terrore. Le guardie tedesche ci controllavano dall’alto della cabina dell’automezzo sulla quale era piazzata una mitragliatrice. Da parte nostra non vi fu alcun tentativo di fuga. Gli uomini che avrebbero potuto farlo, soprattutto tenendo conto del loro numero in confronto di quello delle guardie, avevano le mani legate dalle minacce di rappresaglie che erano state indirizzate a tutti noi qualora avessimo violato gli ordini che ci erano stati dati alla partenza. Si aggiunga inoltre che, salvo pochi casi, in genere sul camion e sul rimorchio viaggiavano membri della stessa famiglia. Ma più ancora del timore delle rappresaglie io ritengo trattenesse tutti noi la rassegnazione al nostro destino. Una sorta di fatalismo di antica data, connaturato alla nostra gente. Mentre l’automezzo correva stavamo aggrappati ai bordi del parapetto o alle corde del tendone come se quel viaggio fosse ineluttabile, come se per noi non ci potesse essere altro. Come se essere ebrei volesse dire dover essere massacrati. Il vento ci sferzava i volti rigati di lacrime. Ma soltanto di lacrime. Adesso, nel ricordo, io grido ai miei fratelli: «Salvatevi! Non pensate a noi!». A volte desidero che il ricordo sia la realtà e che in essa io sia come sono oggi e tendo le mani ai miei fratelli e agli altri ebrei come se potessero udirmi: «Salvatevi! Non temete le rappresaglie! Conquistate la libertà e lottate anche per noi...».
Arrivammo a Bolzano nella serata del 20 ottobre. La mia caviglia era grossa e tumefatta. Riuscivo a camminare a stento. La vista del campo ci parve meno paurosa di quanto avevamo previsto. L’altalena di speranze e di terrori che era in noi ci portava a stati d’animo continuamente diversi e contraddittori: vivevamo in una sovreccitazione tale che, al nostro giungere al campo, avevamo tutti gli occhi lucidi e la testa in fiamme come se fossimo in preda alla febbre. Ci sistemarono alla meglio in alcune baracche. Cademmo subito in un sonno profondo. Soltanto all’alba del giorno dopo, quando le sorveglianti ci destarono, ci rendemmo conto, mamma e noi tre sorelle, che eravamo nuovamente divise da papà e dai ragazzi. Il sole era ancora basso all’orizzonte quando ci fecero uscire dalle baracche per l’appello. Subito dopo ci divisero in squadre per il la-
voro. A causa dello stato della mia caviglia mi fu detto che potevo rimanere nella baracca. La mamma, Maria Luisa e Bice, incolonnate con le altre, furono condotte via. Le vidi allontanarsi e tornai a sdraiarmi sulla cuccetta dove avevo dormito. Stavo distesa senza pensare, affondata in quella nebbia che già allora avvertivo entro me e che sarebbe diventata sempre più fitta e nera fino a farmi smarrire dentro di essa. Le notizie che quel giorno e alla sera raccogliemmo sul campo di Bolzano furono scarse, ma abbastanza significative. Ci fu detto che nei mesi precedenti a diverse riprese era stato sovraffollato e non soltanto di ebrei. Può apparire strano ma fu soltanto quel giorno che per la prima volta udii parlare di partigiani, di gappisti, di resistenti. Cominciarono ad apparirmi chiare certe allusioni che avevo colto sulla bocca dei contadini di Pietranera di Rovegno, certi loro improvvisi misteri, e alcuni fatti accaduti in città che allora né io né il resto della mia famiglia avevamo compreso, assillati dall’ansia di non aver alcun rapporto con estranei, come se ciò fosse sufficiente a elevare tra noi e gli altri, tra noi e i nostri persecutori, una barriera che ci rendesse invisibili. La mamma, Maria Luisa e Bice tornarono alla sera. Mamma era esausta. Dal mattino le avevano fatte lavorare senza tregua in un grande castello, che probabilmente era destinato ad accogliere un comando militare tedesco.
Prima di notte, nonostante la stanchezza della mamma e delle mie sorelle e il dolore della mia caviglia, lasciammo la baracca e ci avventurammo fino ai reticolati guardandoci attorno per il timore di essere scoperte. Là ci attendevano Paolo e Roberto senza che ci fossimo passati parola per l’incontro. Essi sapevano che avremmo fatto di tutto per vederli. Chiedemmo ansiosamente notizie di papà e di Giorgio. Roberto ci pregò di non preoccuparci troppo. Paolo disse che, alla fin dei conti, eravamo ancora tutti vivi e, semmai, ci saremmo disperati quando sarebbe stato il caso di farlo. Ci apparvero perfino commoventi tanto erano ansiosi di infonderci un poco di speranza e di fiducia. L’indomani corse voce che era in preparazione un transport per la Germania. Non ci fu appello e il lavoro fu sospeso. La giornata trascorse nell’attesa. Nel campo vi era uno spaccio al quale era possibile acquistare mele. A sera mamma, quando pareva che la partenza fosse imminente, ci chiamò attorno a sé e ci confidò di essere riuscita a nascondersi addosso e a far sfuggire alla perquisizione, subita all’ingresso nelle carceri di Marassi, alcune decine di lire. Frugò in una scarpa e ci dette il denaro perché comprassimo mele per il viaggio. Fu l’ultimo dono di nostra madre. Partimmo il giorno dopo, rinchiusi nei vagoni piombati. Il convoglio
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il fiore del partigiano era scortato da un nugolo di Ss. Poche ore dopo avere lasciato Bolzano eravamo in territorio tedesco. Era il 23 ottobre. In viaggio verso l’ignoto. Nel vagone la luce è scarsa, un poco alla volta l’aria diventa irrespirabile. Lo spazio a nostra disposizione è così limitato che non possiamo muoverci. A malapena riusciamo a sederci dandoci il cambio. Molte tra noi sono donne anziane, vecchie signore che recano nell’abbigliamento tracce evidenti di pulizia e di eleganza. Si sono raccolte a un capo del vagone e parlano e si lamentano tra loro. Una specie di nenia, le loro voci basse. Tra le giovani ricordo la signora Eleonora Recanati Foà* di Torino e la moglie dell’ingegnere Corrado Saralvo**. L’ingegnere viaggia nel vagone in cui sono stati rinchiusi gli uomini. La signora Saralvo soffre di una forma acuta di diabete. Ha con sé una borsa contenente l’ago ipodermico e fiale di insulina che di tanto in tanto si inietta. Ricordo inoltre una donna, credo si chiamasse Maggi***, incinta di sei mesi, ossessivamente preoccupata di scoprire il mezzo per nascondere il proprio stato ai tedeschi. Si rivolge alle signore anziane e chiede loro di aiutarla. Nessuna si sente di illuderla. Non sappiamo dove ci stanno conducendo. Ignoriamo il destino che ci attende, ma le illusioni e le speranze sono morte.
La prima giornata di viaggio trascorre nella stessa eccitazione febbrile che avevo conosciuto nei giorni precedenti. La seconda ci coglie stanchi, affamati. Un poco alla volta i rapporti vanno riducendosi a poche parole appena sussurrate. Frequentissimi gli improvvisi scoppi di pianto. Il terzo giorno occhieggia grigio e giallo nel vagone. Abbiamo rinunciato a qualsiasi formalismo: pur di stare seduti ci acconciamo a qualsiasi posizione. L’aria è mefitica. Manca anche il bugliolo in questa tragica cella viaggiante. Mamma, Maria Luisa, Bice e io non ci muoviamo da ore. La mamma singhiozza continuamente. L’abbracciamo stretta come mai abbiamo fatto. Le mele acquistate a Bolzano sono ancora intatte. Come il pane che ci hanno dato. Lo stomaco rifiuta il cibo. E poi vi è in noi il pensiero dei ragazzi. Anche a Bolzano abbiamo dato loro una parte delle nostre razioni di viveri. Nel pomeriggio del terzo giorno il convoglio si arresta. Udiamo un coro di grida provenire dal vagone degli uomini: «Acqua! Acqua!». Una guardia tedesca fa scorrere la porta del nostro vagone e indica ad alcune tra noi di scendere. La caviglia mi fa molto male, ma non posso resistere e scendo anch’io. Ci troviamo in mezzo a una pianura sotto il cielo plumbeo. Raffiche di vento gelido ci investono. Un piccolo casello abbandonato e vicino una fontana. Gli uomini continuano a gridare: «Acqua! Acqua!». Riempiamo i pochi recipienti che abbiamo con noi, qualche scatola e un bicchiere di latta, e ci rivolgiamo alle guardie. Chiediamo se possiamo far bere i nostri parenti, i nostri fratelli. Le guardie rispondono di sì purché facciamo presto. Dalla feritoia in alto si tendono dieci mani. Per un attimo, quando i recipienti vengono ritirati, vedo i volti di Paolo e di Roberto. I loro occhi mi fissano. Scompaiono. Le guardie ci spingono verso il nostro vagone. Ci minacciano con il calcio delle armi. Risaliamo e il convoglio riparte. Quante tra noi sono discese, per lo sforzo cadono esauste. Il quarto giorno il convoglio si arresta diverse volte. Più di una volta abbiamo la sensazione che torni indietro sulla via già percorsa; ma probabilmente abbiamo perduto il senso della direzione. Siamo svuotate. La sensazione più precisa che ricordo è l’orribile certezza di essere nata e di dover vivere per tutta l’eternità tra quegli assi di legno in movimento, in quel lezzo. La mia esistenza è una riva che si allontana sempre di più, che sempre di più diventa come invisibile, avvolta in nebbie pesanti. Il pazzo desiderio di tornarvi, di ridestarmi nel mio letto dopo una notte di incubi, sfuma; a tratti non lo ritrovo più dentro di me. Dalla feritoia del vagone entrano la notte e il gelo quando il convoglio si arresta ancora una volta. Siamo immerse nella sonnolenza che ci ha colto ormai da ore. Quasi la coscienza si fosse ridotta fino a dimenticare se stessa. La sosta si protrae ma non vi prestiamo attenzione. A un tratto al di fuori esplode un inferno di grida e di colpi di fischietto. Sembra che mille cani stiano latrando nella lotta. Le porte dei vagoni vengono aperte con violenza. Fasci
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di luce ci abbacinano. Soldati in divisa nera e grigia ci urlano parole incomprensibili. Balziamo in piedi, atterrite. Un grosso camion sta manovrando per avvicinarsi al vagone. Quando si ferma, gli intraducibili ordini si moltiplicano. Viene gettata un’asse di legno tra la porta del vagone e il camion. Un soldato ingiunge a una donna di muoversi. L’asse è un ponte sottile, che trema, ma bisogna attraversarlo. Io sono tra le prime, nel gruppo delle giovani, le donne anziane si sono ritirate in fondo al vagone; una di esse è svenuta. Ho il tempo di dare un’occhiata al luogo in cui ci troviamo mentre a fatica, con la ca*Eleonora Recanati, viglia dolorante, cammino sull’asse e prima che il nata a Torino tendone del camion sul quale siamo caricate si abil 12 marzo 1922, bassi. Immagini della durata di frazioni di seconiugata con Guido Foà condo. Immagini d’eternità. Lontano, una distesa che sarà ucciso all’arrivo di piccole luci e nella nebbia immensi tralicci come ad Auschwitz. scheletri, altissimi. Un mare di fango, una pianura Fu liberata a di fango. Una pazzia gelida, buia, fangosa. Avverto Ravensbrück. di essere entrata in una dimensione dove nulla vi **Elena Segre, è di umano, totalmente nemica di tutto ciò che è nata a Torino umano, una dimensione che ha assorbito perfino il 26 ottobre 1904. i propri creatori, divenuta un meccanismo gelido, Morì ad Auschwitz fangoso e buio, fatale e inesorabile, sormontato da in data ignota. una piccola fiamma che ho veduto per un attimo rompere lontano l’oscurità, come bruciasse nel ***Non è stato possibile cielo, e che ancora ignoro che cosa sia. identificare Il camion ci trasporta dinanzi a una grande baquesta persona. racca. Scendiamo. Attendiamo le altre. Attendiamo i nostri fratelli. La signora Saralvo ci chiede: «Credete che porteranno anche gli uomini qui dentro?» La donna incinta ha le mani sul ventre quasi volesse difendere ciò che vi è dentro. A poco a poco la baracca si affolla. Ci troviamo al centro dell’incubo che dieci anni prima ci aveva inviato i suoi messaggeri. Tutta l’Europa è in suo dominio, anche se ormai il tempo è contato. Una grande spoglia baracca. Una lunga, interminabile notte. Roberto è venuto ad annunciarci che siamo ad Auschwitz. Il nome non ci ha detto nulla. Immaginiamo di essere in Germania e invece siamo in Polonia. Le donne sono raccolte al centro della baracca, unite una all’altra per scaldarsi reciprocamente con il calore dei propri corpi. Noi giovani andiamo spesso a spiare all’esterno guardando attraverso i vetri delle due finestre che si aprono su una parete della baracca. Una muraglia di tenebre. Non riusciamo a vedere nulla. Roberto e Paolo passano da un gruppo all’altro e di tanto in tanto vengono a riferirci ciò che si dice, le notizie che corrono. Giorgio è in grembo a nostra madre, rannicchiato come fosse tornato indietro nel tempo, come chiedesse a chi l’ha generato di riprenderlo in se stessa, di annullarlo gradatamente, di togliergli la vita che gli ha dato. Papà si muove come un automa, come fosse privo di sensi e di volontà. L’ingessatura della spalla gli dà più che mai fastidio, ma non se ne lamenta. Forse non se n’accorge neppure. Le nostre percezioni sensorie hanno subito un collasso. Viviamo ai margini della coscienza. In un mondo assurdamente irreale e reale nel contempo. È questa l’ultima notte che la mia famiglia trascorre assieme, unita. Non ve ne saranno altre. Otto creature legate da vincoli di sangue che si stringono d’appresso per l’ultima volta. Rivedo mia madre, mio padre, i miei fratelli, le mie sorelle, io stessa, attingere in noi, dalla nostra unione, l’estremo calore umano che ci è consentito. Ricordo i frammenti uditi dalla storia delle famiglie da cui la mia è nata. L’oscuro destino entro cui si sono sempre dibattute. Da appena due generazioni i Sonnino e i Milani hanno potuto essere liberati dall’umiliazione del ghetto di Roma entro cui i padri dei padri erano nati e cresciuti. Le mura del ghetto caddero nel 1870 e da quell’anno i miei avi furono liberi. Ma portavano in sé il ricordo di ciò che avevano subito, delle notti d’angoscia in cui gruppi di fanatici penetravano nel ghetto per rapire i loro figli e continuA A pAginA 30 ➔
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consacrarli col battesimo a un’altra religione, delle sofferenze della segregazione, dell’abiezione verso cui erano sospinti. La nonna materna di mamma si chiamava Rosselli e un giorno di tanti anni prima io avevo udito bisbigliare che Carlo e Nello erano stati uccisi dai fascisti ma non sapevo chi fossero, né che facessero. Al nome di Crescenzio Del Monte, poeta che scrisse in giudaico romanesco, cugino di primo grado di mamma, è intitolata una via di Roma, a Trastevere, dove le lapidi ricordano Belli e Trilussa. Zia Ersiglia, una sorella del nonno materno, aveva sposato un Modigliani, parente del pittore e lo zio Ettore Modigliani aveva per moglie Nelly Nathan, nipote del sindaco di Roma, e fino al 1938 era stato direttore della Pinacoteca di Brera. Due famiglie che avevano duramente lottato per conquistarsi la vita ed erano riuscite a vincere le prevenzioni razziali di certi ambienti della borghesia romana e napoletana e a farsi rispettare. Soltanto due generazioni libere tra il ghetto di Roma e la notte di Auschwitz. Una breve parentesi. L’ondata è tornata a rinchiudersi su di noi. Le ore trascorrono lente nella baracca. Un sussulto di orrore quando si apre la porta ed entra uno scheletro dagli occhi lucidi che indossa una divisa a strisce cascante sul suo corpo incredibilmente magro. Gli uomini gli si affollano attorno. Lo scheletro ha un secchio in mano. Si trattiene qualche istante poi con il suo passo lento attraversa la baracca e scompare. Ne seguono altri. Sono addetti ai servizi del campo. Turno di notte. Uno di essi si arresta dinanzi a me. Mi indica la caviglia fasciata e mi fa segno di togliere subito le bende. Indugio perché non comprendo. La parola selezione mi colpisce tra le altre. Lo scheletro si rivolge agli uomini e parla loro concitatamente. Parla in tedesco. Vi è chi lo traduce. Occorre far scomparire subito qualsiasi segno che possa rivelare una nostra menomazione fisica. Ferite o malattie. Le selezioni si vanno facendo sempre più severe. Le camere a gas e i forni funzionano a ritmo serrato. Chi non è in grado di lavorare viene eliminato. Mi tolgo subito la garza di carta e la sottile benda che mi stringono la caviglia. Le parole sembrano uscire non dalla bocca di un uomo, ma dalla notte. Imploriamo papà di fare altrettanto con la sua ingessatura. Papà scuote il capo. Sembra che non comprenda ciò che gli diciamo. Si lascia cadere in mezzo a noi e rimane immobile, con gli occhi chiusi. La mamma gli prende una mano e gliela stringe. Roberto, Paolo, Maria Luisa, Bice e io ci raduniamo attorno ai nostri genitori e a Giorgio. Così trascorriamo il resto della notte e qualsiasi cosa dicessi di quel tempo non avrebbe senso tradotto in parole, sarebbe un’esile ombra di quella realtà. Lo ruberei a me stessa, a ciò che è mio, disperatamente soltanto mio.
L’alba si preannunciava con grigie dita alle finestre della baracca quando vi irruppero le Ss. Con il mitra spianato, si dispongono attorno a noi, chiudendoci in un cerchio. Tre ufficiali, di cui uno porta i contrassegni di medico, ci ordinano di alzarci e di schierarci in colonna. Mano a mano che ognuno di noi viene chiamato, fa un passo in avanti e il medico lo scruta, lo esamina, gli tasta i muscoli del braccio. Siamo divisi in tre gruppi: i vecchi, i giovani e le giovani. Tutto avviene rapidamente. Non facciamo neppure in tempo a scambiarci un saluto: il gruppo delle giovani è il primo a lasciare la ba*Con ogni probabilità racca in mezzo a una tempesta di ordini si tratta di Bianca Maria gridati ad alta voce. Non riusciamo nepMorpurgo, pure a voltarci una volta, una sola volta, nata a Trieste per rivedere mamma e papà e i nostri frail 13 ottobre 1916, telli. Siamo spinti brutalmente all’esterno, deportata ad Auschwitz nel fango che ci si incolla alle scarpe, nelil 30 gennaio 1944 l’aria gelida. La signora Saralvo non è con e liberata a Lipsia. noi: piangendo, ha detto al medico di esLa sorella residente sere malata. È stata aggregata al gruppo a Genova era Maura, degli anziani e dei vecchi. È il 28 ottobre nata a Trieste 1944. il 21 marzo 1908 L’aria era nebbiosa e fredda. Desolatae uccisa ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. mente grigia nell’allucinata simmetria
delle baracche. Grida di uomini e latrati di cani. Imperiosi sibili di fischietti. Il fango raggiungeva le caviglie, spesso e vischioso. Colonne di fantasmi nella nebbia, immobili, in attesa, e parvenze d’uomo, appoggiate le une alle altre, sugli spiazzi tra le baracche. Appena uscimmo dal luogo dove avevamo trascorso la notte, ciò che ci accolse non ha nel linguaggio umano alcun riferimento. La mia memoria stessa, che pure lo ha registrato, si rifiuta oggi, a distanza di quindici anni, di restituirlo al pensiero e alla ragione. Per quanti sforzi io faccia, sullo schermo della mente le immagini trascorrono velocissime, confuse, come di un film proiettato troppo in fretta.
Ci trascinavamo a fatica, esauste per il lungo viaggio e la mancanza di cibo, per la notte vissuta nella baracca, per il terrore che ci oscurava la coscienza di noi stesse. Bice era tra Maria Luisa e me. Non guardiamo, ci dicevamo l’una all’altra. E puntavamo gli occhi sul fango, uno straordinario fango che mai avevamo veduto. Non pareva terra e acqua: ma qualcosa di organico che fosse andato in decomposizione, carne putrefatta, divenuta liquame. E nello stesso tempo aveva una sua presenza. Come se dalla morte fosse verminata una mostruosa forma di vita, subdola e insidiosa, che ci afferrava alle caviglie, che ci impediva di camminare veloci come ci veniva ordinato. Non ricordo per quanto tempo subimmo quel supplizio da cui se tentavamo di alzare gli occhi precipitavamo nell’orrore. Eravamo una ventina di giovani. Ci condussero in una grande baracca e ci fecero allineare. Una a una fummo chiamate a fornire le nostre generalità. Dopo la registrazione, le sorveglianti ci ordinarono di muoverci. Un’altra baracca. Ci perquisiscono accuratamente. Nulla sfugge alle abilissime mani delle «kapò». Ma non abbiamo niente addosso. Quel poco che da Bolzano abbiamo portato con noi è rimasto nel luogo dov’è avvenuta la prima selezione. Anche le mele, che nessuno, neanche i ragazzi, hanno voluto mangiare. Passiamo un lungo tempo, un tempo che non possiamo misurare, nella baracca dove siamo state perquisite. Quando torniamo fuori è quasi buio. È trascorso un giorno. Dall’alto dei camini dei crematori svetta una fiamma che rompe il grigiore e le tenebre che si stanno addensando. Nell’aria è un lezzo pesante. Noi pensavamo a nostro padre e a nostra madre, ai nostri fratelli. Noi ci auguravamo che a nostro padre e a nostra madre fossero risparmiati il fango e quelle visioni. Non potevamo raffigurarci nostro padre e nostra madre vittime di violenze. Anche oggi se cerco di ricreare entro me la realtà in cui sono periti, mi sento la mente vacillare come se fiotti di liquido nero la invadessero. Quella sera cercavamo, come al mattino, di non guardarci attorno, di sfuggire i riflessi rossastri di quella fiamma. Il secondo giorno passammo ancora da una baracca-ufficio all’altra per una serie di ulteriori registrazioni di cui non comprendevamo lo scopo. Da quando eravamo giunte ad Auschwitz non ci era stato dato un tozzo di pane. Soltanto il quarto giorno, dopo la doccia e la rasatura, ci fu dato da mangiare. Poche ore prima ci avevano marcato sul braccio i nostri numeri: Maria Luisa A26698, io A26699, Bice A26700. Una ciotola di brodaglia e una fettina di pane nero. Maria Luisa disse che dovevamo farci forza e mangiare. Stava per dare l’esempio quando udimmo una voce alle nostre spalle chiederci: «Siete italiane?». Ci voltammo. Una donna pallidissima e magra tentò di sorriderci. Disse di essere la dottoressa Morpurgo di Trieste* e ci chiese se avevamo notizie di una sua sorella che risiedeva a Genova. Se ci risultava che fosse stata catturata e se aveva viaggiato nel nostro stesso transport. Le rispondemmo di no. La donna parve tranquillizzarsi. S’informò di noi. Le domandammo a nostra volta se avevamo qualche possibilità di vedere i nostri genitori e i nostri fratelli. «I vostri fratelli se sopravviveranno... Vostra madre e vostro padre no. Sono già stati gasati». Indicò la direzione nella quale sorgevano i camini e dove alla notte rosseggiava sinistra la fiamma. Continuò a parlarci tristemente, mentre piangevamo, dicendoci che dovevamo affrontare la realtà così com’era, soffocando ogni sentimento, evitando l’insorgere di qualsiasi illusione, lottando soprattutto per sopravvivere. Ci disse che non era umano pian-
il fiore del partigiano gere la morte dei nostri genitori: in quelle condizioni dovevamo essere lieti che nostro padre e nostra madre fossero periti. Non potevano avere sorte migliore. Bice pareva divenuta di ghiaccio. Mi era accanto e la sentivo gelida. Maria Luisa si scioglieva in lacrime. La dottoressa Morpurgo le carezzava i capelli. Prima che le sorveglianti le ordinassero di allontanarsi ebbe ancora il tempo di annunciarci che probabilmente non saremmo rimaste ad Auschwitz. Alcuni settori del lager erano già stati evacuati. Confermò che le selezioni erano divenute quotidiane ed erano rigorosissime. Con accresciuta tristezza concluse: «La bestia è ferita a morte ed è divenuta, se possibile, più feroce». Ci rinchiusero nel blocco numero 12 dove rimanemmo in attesa della nostra sorte. Se rivado a quei giorni, nella mia memoria trovo soltanto notte. Buio. Come se la mia ragione fosse paralizzata.
Qualche giorno dopo si sparse la notizia che saremmo partite l’indomani. Nel pieno della notte ci destarono per l’appello. Eravamo schierate su uno spiazzo nudo e il buio incombeva cancellando ogni luce, ossessiva la fiamma rossa dei camini. Per resistere al freddo tentavamo di rifugiarci nei pensieri più strani e pazzi. Ma il gelo si insinuava nella pelle, nella carne, infondendo al cervello un torpore pesante. Finalmente ci dettero l’ordine di muoverci. Incolonnate, camminavamo in quel buio, senza sapere dove eravamo dirette. L’alba livida ci colse allineate lungo un convoglio. Salimmo sui vagoni e le guardie tedesche rinchiusero pesantemente le porte dietro di noi. Mentre il treno iniziava la sua corsa Maria Luisa, Bice e io cercammo di dare un’ultima occhiata ad Auschwitz: i nostri genitori e i nostri fratelli erano là. In fondo a ognuna di noi era l’inconfessabile speranza che nonostante tutto, nonostante ciò che avevamo veduto e appreso, mamma e papà fossero ancora vivi, che li avremmo riveduti assieme a Paolo, Roberto e Giorgio. Quel viaggio di due giorni non ha storia. Eravamo tutte allo stremo delle forze. Giacevamo l’una sull’altra senza muoverci, senza parlare. La fame, dopo un periodo di intensità spasmodica, pareva essersi acquietata. A me pareva di non avere più stomaco. Di non avere forma. Senza passato e senza avvenire. Avevo coscienza tuttavia che quello era soltanto l’inizio. Misuravamo, nei paurosi scheletri viventi delle altre compagne che erano con noi, le sofferenze che ancora ci attendevano. Quando il convoglio si arrestò e dopo una lunga sosta furono riaperte le porte dei vagoni, avemmo la sensazione di essere tornate al luogo da cui eravamo partite. Dinanzi a noi era la notte, una notte nebbiosa e gelida, e un mare di fango. La baracca che ci attendeva pareva uscita dai sogni di un folle: invasa da un lezzo che toglieva il respiro, con le cucce a castelli unite l’una all’altra, popolata da fantasmi. Ci pigiammo lì dentro cercando soltanto di darci calore a vicenda. Una di noi nell’attraversare il lager aveva chiesto dove ci trovavamo. «Belsen...», era stata la risposta. Dall’indomani mattina, all’alba, cominciarono gli appelli all’aperto, nell’aria gelida di un inverno rigidissimo. Esperimentammo fino in fondo la crudeltà. Per un futile errore durante il lavoro Maria Luisa fu battuta a sangue sotto i nostri occhi, miei e di Bice. Ogni mattina, all’uscita dalle baracche, le sorveglianti ci incitavano a muoverci più rapidamente, colpendoci una a una col bastone o con lo scudiscio. Avevamo il corpo coperto di lividure. Prima di prendere sonno, alla sera, il risveglio dell’indomani ci appariva come un incubo. Un mese dopo il nostro arrivo lasciammo Belsen. Maria Luisa, Bice e io, con una nostra correligionaria di Trieste, di cui non ricordo il nome, due di Lodi, la signora Eleonora Recanati Foà di Torino e la signora Noemi Jona* di Roma, fummo aggregate a settecento ebree ungheresi e trasferite in un campo dei dintorni di Braunschweig. Non ricordo quanto durò il viaggio. Né le condizioni in cui lo facemmo. Le assenze, nella mia mente, diventano sempre più prolungate. A Braunschweig fummo alloggiate in una stalla dove al massimo avremmo potuto stare in trecento. Un solo rubinetto doveva bastare per tutte. Le latrine erano una baracchetta di assi di legno
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sconnesse e putride. Ogni mattina all’alba attraversavamo la città dirette ai quartieri danneggiati dai bombardamenti. Maria Luisa, Bice e io, quando potevamo, camminavamo tenendoci per mano. Bice si era assai indebolita e, fin dagli ultimi giorni della nostra permanenza a Belsen, era stata colta da un’acutissima dissenteria. Maria Luisa era quella che più resisteva. Fisicamente era dimagrita e il petto e i fianchi le erano spariti, ma il suo cervello e i suoi nervi erano ancora sufficientemente saldi. Molte volte si sforzava di cantare per noi, di infonderci speranza e fiducia. Era più che nostra sorella. Bice e io finimmo per vedere in lei nostra madre. Al mattino, mentre andavamo al lavoro, tentava perfino di distrarci indicandoci ora un palazzo, ora un albero, ora un oggetto qualsiasi. Molte volte i passanti ci tiravano sassi e qualcuno si spinse fino in mezzo a noi per sputarci addosso. Ma esperimentammo anche l’altro aspetto, quello reale, quello non corrotto dell’hitlerismo, della Germania. Un mattino, dopo qualche ora di lavoro, Maria Luisa fu colta da malore. Cadde tra le macerie che stava spalando. Bice e io disperate, per il timore che la neve e il freddo aggravassero le condizioni di nostra sorella, l’aiutammo a rialzarsi e la ricoverammo in un portone. Eravamo lì da qualche minuto divisi tra l’angoscia che le sorveglianti scoprissero la nostra assenza e l’ansia ancor più grave che Maria Luisa peggiorasse, quando il portone che avevamo socchiuso si aprì. Entrò una donna tedesca, un’anziana signora con una corona di capelli bianchi attorno al viso, che reggeva un thermos. Ci Fototessere. fece segno che era per Maria Luisa. Il tè In alto, Giorgio, caldo rianimò nostra sorella. La signora cavò il più giovane da una tasca del grembiule, che portava sotto il pesante cappotto, un po’ di pane e ce lo divise in tre porzioni. Se dei fratelli Sonnino. Qui sopra, Maria. n’andò con un’ultima occhiata in cui ritrovammo qualIn basso, cosa di ciò che avevamo perduto. Ripreso il lavoro, la l’ultima foto scorgemmo dietro i vetri della finestra del palazzo di di Giorgina, fronte a quello che le bombe avevano distrutto. Anche la consegnata a Piera signora Eleonora Recanati Foà trovò dei tedeschi che da una vicina, l’aiutarono. Ella era sofferente di una piaga a una gamba dopo il ritorno che minacciava di andare in suppurazione. Non so se in a Genova nel 1950. una farmacia o in un’abitazione privata nelle immediate vicinanze del posto di lavoro ricevette le cure che le evitarono il peggio. Le sorveglianti si accorsero però delle sue assenze e di quanto accadeva. A Braunschweig incontrammo anche dei civili italiani. Erano addetti ai lavori di sterro e ogni mattina ci distribuivano le pale e le piccozze. Non avevano mai veduto deportati nei campi di sterminio. Furono terrorizzati dal nostro aspetto di larve. Quando appresero che tra le ungheresi vi erano delle italiane, ci cercarono. Anch’essi erano in condizioni tutt’altro che soddisfacenti e il loro vitto era scarso. Si industriarono con ogni trucco di farci scivolare ogni mattina tra le mani, assieme agli utensili, pezzetti di pane a volte piccoli come bocconi e sottilissimi. Tutto ciò che avevano. Quando non avevano nulla da darci, ci attendevano con un’espressione triste sul viso. Essi cercarono anche di aiutarci per quanto riguarda gli indumenti. Eravamo praticamente nude e indifese nei rigori dell’inverno. Le nostre mani erano screpolate e sanguinavano. Non poterono far molto, ma *Nata Foà a Castagnole Lanze (Asti) il 14 febbraio ci dettero dei guanti, sia pure spaiati, pezzi di co1908 e liberata nei pressi perta e di stoffa per ripararci alla bell’e meglio. A di Ravensbrück. Bice dettero un cappuccetto blu che le copriva il capo e le scendeva fin sul collo. Eravamo ai primi di gennaio del 1945. Y continuA nel prossimo numero
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il fiore del partigiano
L’Europa contagiata dal fascino di Mussolini
le idee
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
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giulia albanese - Dittature mediterranee laterza - 248 pagine, € 25,00
da Alias domenica del 28 febbraio 2016
n uno dei suoi commenti politici, apparso sulle colonne di «Ordine Nuovo» l’11 marzo 1921, Antonio Gramsci osservava che l’Italia si trova ad attraversare la stessa fase già vissuta in precedenza dalla Spagna, vale a dire quella «dell’armamento delle classi medie e dell’introduzione, nella lotta di classe, dei metodi militari dell’assalto e del colpo di sorpresa: anche in Italia la classe media crede di poter risolvere i problemi economici con la violenza militare». Sono concentrati in questa frase alcuni dei temi principali toccati dal libro di Giulia Albanese, Dittature mediterranee - Sovversioni fasciste e colpi di Stato in Italia, Spagna e Portogallo. C’è infatti in primo luogo l’idea di un percorso comune tra nazioni per certi aspetti simili, ancora prevalentemente rurali ma attraversate dalle perturbazioni indotte dai processi di modernizzazione e di impianto dei primi nuclei industriali. Nazioni che vivono in pieno le tensioni create dall’allargamento della platea elettorale (il suffragio universale maschile è introdotto nel 1890 in Spagna e nel 1912 in Italia) e dall’abbandono dei collegi uninominali censitari per addentrarsi nella «terra incognita» di sistemi elettorali più aperti ma anche poco favorevoli a quella che oggi chiameremmo la «governabilità». Nazioni, infine, attraversate da processi di politicizzazione e di radicalizzazione che interessano non solo le masse contadine e gli strati operai, ma anche gli artigiani, gli impiegati dei servizi e, non ultimo, il padronato. Ma soprattutto, nazioni che percorrono in quel torno di anni una strada politica simile, segnata da contrastati tentativi di espansione coloniale e da una ricorrente tendenza a cercare l’avallo sociale garantito dalla Chiesa cattolica. E che trovano uno sbocco all’insieme di queste contraddizioni in un profondo mutamento istituzionale: monarchie
costituzionali (o, nel caso del Portogallo, repubbliche) che vedono tramutare la loro natura istituzionale in qualcosa di nuovo e di diverso. Quando, nell’autunno del 1923, il re di Spagna Alfonso XIII viene in visita in Italia incontra non solo Vittorio Emanuele III ma anche Benito Mussolini, che già da un anno, e cioè dopo la marcia su Roma (evento al quale Albanese aveva dedicato un precedente volume), è il vero dominus della politica italiana. Ma anche nella delegazione spagnola spicca, al fianco del re e della regina, un personaggio arrivato a una simile centralità politica: il generale Miguel Primo de Rivera, protagonista poche settimane prima di un putsch che lo aveva portato a capo di un governo militare le cui prime misure erano state la chiusura del Parlamento e la sospensione delle garanzie costituzionali. Si intravede già dunque, solo cinque anni dopo la rivoluzione d’Ottobre, una via alternativa alla crisi del liberalismo parlamentare e costituzionale: vale a dire la creazione di regimi autoritari di ispirazione reazionaria e per i quali il fascismo italiano rappresenta un esempio riconosciuto e un modello da imitare. C’è, in quella visita di Alfonso XIII, un altro elemento che Albanese pone giustamente in rilievo, vale a dire il ruolo dei sovrani in quella che potremmo chiamare la transizione verso il dispotismo. Vittorio Emanuele III, come si sa, aveva sempre coperto le violenze delle camicie nere, probabilmente immaginando di poter utilizzare il movimento fascista come contrappeso alla forza elettorale dei nuovi partiti di massa, il socialista e il popolare. Soprattutto, in occasione della marcia su Roma, aveva prima rifiutato di controfirmare lo stato d’assedio, deciso all’ultimo momento dal riluttante governo Facta, e poi designato irritualmente Benito Mussolini come presidente del Consiglio. Analogamente, era stato proprio il sovrano spagnolo Alfonso XIII ad avallare il golpe militare di Primo de Rivera. La soluzione spagnola appare, a prima vista, più
I “neri” e i killer della Magliana
daniele Biacchessi - Fausto e Iaio - La speranza muore a diciotto anni - Baldini & castoldi - nuova edizione aggiornata - 208 pagine, € 12.00
austo Tinelli e Lorenzo Iannucci detto Iaio aveF vano 18 anni. Il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro, vennero uccisi a Milano,
in via Mancinelli, da otto colpi di pistola sparati da un commando di tre killer professionisti rimasti a oggi ignoti. Trentasette anni dopo il duplice omicidio e a distanza di vent’anni dalla sua prima edizione, esce la versione aggiornata di questo libro diventato ormai un punto di riferimento per la controinformazione e il giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese. Biacchessi racconta la storia di ragazzi uccisi solo per le loro idee, in una città plumbea e
violenta come la Milano di allora. E narra le indagini ufficiali e quelle parallele, fino a formulare alcune ipotesi investigative ancora attuali, dopo le ultime inchieste su Massimo Carminati e Mafia Capitale. Quello di Fausto e Iaio fu un omicidio organizzato da neofascisti e da uomini della banda della Magliana. Questa è la verità che non si potrà archiviare. E che ci dice molto su quegli intrecci fra criminalità e servizi seY greti che ancora affliggono il nostro Paese.
radicale, poiché in Italia Mussolini è ancora per il momento capo di un governo grazie al voto di un Parlamento e le garanzie costituzionali sono ancora in vigore, sia pure ormai quasi solo formalmente. E tuttavia, come il libro evidenzia, è il fascismo a proporre per primo la discontinuità: l’elemento che all’epoca colpisce di più gli osservatori europei, quello che aveva affascinato Primo de Rivera e che presto conquisterà il portoghese Salazar, è la capacità di combattere il sovversivismo anarchico e socialista rivoluzionario, mediante una violenza uguale e contraria, com’era in Italia quella delle squadre fasciste: un esercito «privato» che verrà presto istituzionalizzato nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. E di contrapporre, per questa via, al nuovo ordine del popolo, che impauriva le classi medie, il nuovo ordine della nazione. Certo, la soluzione scelta in Spagna (e poi in Portogallo), sarà quella di un governo dei militari, mentre il fascismo darà vita a un governo politico sempre più autoritario, ma la fascinazione che il regime mussoliniano esercita in tutt’Europa dipende dal modo originale con cui la retorica nazionalista viene riorganizzata e fatta giocare all’indomani di una guerra che, oltre ad essere stata Grande, è stata anche lunga. [...] certo vi è differenza tra la forzatura effettuata da Vittorio Emanuele III, che mette il Parlamento davanti al fatto compiuto sulla scelta di entrare in guerra (Patto segreto di Londra) e il minaccioso «discorso del bivacco» di Benito Mussolini del 16 novembre 1922, in cui la sopravvivenza della Camera viene presentata come una sua personale e temporanea concessione («potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto»). Ma e l’uno e l’altro di questi gesti non sono pensabili senza un processo di continua delegittimazione delle istituzioni parlamentari e delle garanzie costituzionali che si fa strada in tutt’Europa: in Italia come in Spagna e in Portogallo, ma anche in Grecia (un’altra nazione mediterranea in cui si imporrà, nel mezzo di tragiche convulsioni, il modello militare) o in Polonia e in altre aree dell’Europa orientale. Se dopo il «discorso del bivacco» uomini come Giolitti, Gronchi e De Gasperi votarono la fiducia a Mussolini, ciò non fu solo effetto di codardia, ignavia o cinismo politico ma anche il risultato della penetrante opera di delegittimazione del sistema di garanzie prodotto da una retorica antiparlamentare e anticostituzionale che aveva fatto breccia nei più vari ambienti, non ultimo quello ecclesiale. Ne viene una lezione che oggi, in tempi di antipolitica, non andrebbe dimenticata. Y Francesco Benigno
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Un Pulitzer che parla anche all’Italia
È
david i. kertzer - Il patto col diavolo – Mussolini e Papa Pio XI, le relazioni segrete fra il Vaticano e l’Italia fascista - rizzoli - 555 pagine, € 24,00
da Internazionale del maggio 2015
un premio Pulitzer che riguarda anche l’Italia quello assegnato quest’anno a David I. Kertzer, professore di storia e antropologia alla Brown University, autore di una ricerca dal titolo Il patto col diavolo – Mussolini e Papa Pio XI, le relazioni segrete fra il Vaticano e l’Italia fascista, edito da Rizzoli. Kertzer si è aggiudicato il prestigioso riconoscimento nella sezione biografie battendo la concorrenza di altre due opere: una di Thomas Brothers dedicata a Louis Armstrong, l’altra, scritta da Stephen Kotkin, incentrata su Joseph Stalin. Del lavoro di Kertzer, anche grazie al Pulitzer, sono stati messi in risalto soprattutto due aspetti: il primo attiene all’impostazione stessa del lavoro, ovvero al percorso narrativo adottato attraverso le biografie di due personaggi, il papa e il duce, messe in stretta relazione tra loro. Il secondo aspetto significativo è invece relativo alla novità della ricerca svolta dall’autore negli archivi vaticani la cui documentazione è ormai accessibile fino al 1939, anno appunto in cui muore Pio XI, sale al soglio di Pietro Pio XII e l’Europa si avvia verso la seconda guerra mondiale (il testo però si avvale anche di ricerche condotte nell’archivio di Stato italiano). A permettere la consultazione dei file riservati conservati Oltretevere, sono stati Giovanni Paolo II e poi, in modo definitivo, Benedetto XVI a partire dal 2006. Intorno a quegli archivi, del resto, si gioca una partita delicata per la Santa Sede: quella della ricostruzione del rapporto della Chiesa e dei due pontefici dell’epoca – Achille Ratti prima ed Eugenio Pacelli poi – con il fascismo e il nazismo, un tema che ha un punto di caduta decisivo ulteriore nelle leggi razziali. Kertzer, che aveva già studiato la questione del rapporto tra la Chiesa e l’antisemitismo, affronta dunque in parallelo l’ascesa di due personaggi chiave della storia italiana ed europea. Le date in questo senso lo aiutano: Pio XI viene eletto nel conclave del
1922, l’anno della marcia su Roma, l’evento originario della presa del potere da parte del fascismo e di Mussolini. L’intento di Kertzer è chiaro: dimostrare, documenti alla mano – e qui bisogna dire che l’autore produce ampi e diffusi riscontri al suo percorso – che la Chiesa sotto Pio XI non solo non si oppose al regime fascista, ma in più occasioni ne favorì l’affermazione, in un misto di timore, complicità, incertezza nel giudicare gli eventi e i tentativi – soprattutto – di salvaguardare se stessa, le proprie prerogative e quelle delle organizzazioni a essa legate, a cominciare dall’Azione cattolica. Certo il lavoro di Kertzer batte strade in parte note, e tuttavia si avvale di un preciso lavoro sulle fonti; di sicuro non esita a chiamare in causa le responsabilità del Vaticano. Nei capitoli conclusivi del volume, peraltro, l’autore mette anche in luce il malumore e le proteste crescenti di Pio XI verso Mussolini e la sua politica, in particolare a causa dell’alleanza sempre più stretta con Hitler, del nazionalismo esasperato e poi dell’adesione a un antisemitismo feroce. Un capitolo a parte, tuttavia, è costituito in questa storia – come vedremo tra poco – dalle leggi razziali del 1938. Nel succedersi degli eventi narrati emerge inoltre come molti dei collaboratori più stretti del papa, uomini di curia di cui egli stesso si fidava, frenarono in ogni modo qualsiasi tentativo tardivo del papa di dare ampia risonanza pubblica ai suoi dissensi, censurando anche, se necessario, i discorsi del pontefice pubblicati dall’Osservatore Romano (che non era sottoposto al controllo del regime). Si tratta di personaggi noti per la ricerca storica come il gesuita Pietro Tacchi Venturi, emissario del papa presso il duce, del cardinal Pacelli, il futuro Pio XII, di monsignor Francesco Borgongini Duca, primo nunzio apostolico in Italia. Sotto tale profilo i recenti studi sul periodo e sugli archivi vaticani coincidono con quello di Kertzer. Per esempio, un altro elemento di contrasto tra il papa e Mussolini fu la guerra all’Etiopia valutata come assurda e sbagliata dal pontefice (in questo Pio
Un eccidio avvolto nel mistero
loriano macchiavelli - Noi che gridammo al vento - mondadori - 384 pagine, € 19,50
prile 1980. Stella lascia Basilea, dove lavora alA l’università, e parte all’improvviso per Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo. Appena ar-
rivata, fa amicizia con Eva, Ditria e Vito. Ma forse non è la prima volta che li incontra. Forse doveva tornare in quella terra per scoprire l’origine degli incubi che la tormentano. Anche George, ‘u miricanu, arriva a Palermo dagli Stati Uniti. Ha una missione: parlare con chi comanda - in Sicilia e non solo - di alcuni misteriosi documenti che potrebbero far vacillare la stabilità della Repubblica. Poi c’è Francesca, Ceschina per gli amici.
Si aggira per i feudi attorno a Piana con una mitraglietta nello zaino, e se il primo maggio sale sempre a Portella non è per partecipare alle celebrazioni. Loriano Macchiavelli scava ancora una volta in uno dei nodi oscuri e irrisolti della nostra storia. Rievocando la madre di tutte le stragi italiane, mette in scena un pericoloso gioco di accordi tra mafia, politica e servizi segreti. E soprattutto racconta la dolorosa, umana verità di Y persone e luoghi violati.
XI era sostenuto da monsignor Domenico Tardini, che lavorava nella Congregazione per gli affari straordinari). E però anche in quel caso (si veda Il papa non deve parlare di Lucia Ceci) la Santa Sede non riuscì a esprimere il suo dissenso forte e chiaro, mentre gran parte del clero italiano cantava le lodi dell’impero. Tra gli elementi che frenarono in modo determinante l’azione del papa in queste diverse occasioni, al primo posto troviamo la firma dei Patti lateranensi, vale a dire la fine della questione romana e la conseguente nascita dello Stato pontificio in versione moderna. Tra l’altro il Vaticano ricevette come indennizzo per gli espropri risorgimentali un miliardo e 750 milioni di lire dell’epoca, il “tesoretto” iniziale dal quale nacque nel 1942 lo IOR, la banca vaticana. L’accordo del 1929 fu considerato un successo enorme dalla Chiesa e valutato come un evento storico da parte della diplomazia e dell’opinione pubblica mondiale (in questo senso sono interessanti le testimonianze riportate da Kertzer). [...] E tuttavia il tema delle leggi razziali e dell’antisemitismo ha ancora una volta un ruolo nevralgico. Lo studioso statunitense ha infatti trovato tra le carte degli archivi i riscontri di un accordo segreto sottoscritto fra la Santa Sede – nella persona di padre Tacchi Venturi – e Mussolini, a ridosso della promulgazione delle leggi razziali del 1938. In sostanza la Chiesa s’impegnava a non criticare pubblicamente le leggi in questione in cambio di un margine di ampia tolleranza verso l’Azione cattolica. In modo vagamente grottesco e conforme al volere vaticano, Mussolini s’impegnava poi «a non rendere le nuove leggi antiebraiche più dure di quelle che gli stessi papi avevano imposto nei secoli passati». Un capitolo ancora a parte riguarda la querelle tra regime e Santa Sede in merito all’estensione delle leggi razziali ai matrimoni misti, quindi a convertiti, in un crescendo di dettagli inquietanti e illuminanti. Ma il libro produce ancora, in questo senso, un abbondante materiale documentario sulle teorizzazioni antisemite della pubblicistica cattolica più qualificata e ufficiale, dalla Civiltà cattolica, alla Compagnia di Gesù, all’Osservatore Romano. In questo contesto la figura di papa Ratti che ormai malato e infermo prova a commissionare al gesuita statunitense John LaFarge la famosa enciclica contro l’antisemitismo nazista mai pubblicata (Pio XI morì prima), o i suoi tentativi estremi di pronunciarsi contro l’antisemitismo nazista, appaiano drammatici quanto figli di una contraddizione insanabile tra alleanza con il regime fascista, politica dei concordati (anche con la Germania di Hitler) e necessità di affermare profeticamente la parola del Vangelo. Una materia ancora oggetto di studio per gli storici. Y Francesco Peloso
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il fiore del partigiano
Se riesplode l’Algeria
le storie - la Storia
ESCALATION. DIETRO LA MALATTIA DI ABDELAZIZ BOUTEFLIKA INFURIA LA LOTTA PER IL
C di
Altro che caos libico. La catastrofe è dietro l’angolo da il manifesto del 14 novembre 2015
KARIM METREF
hi si ricorda dell’Algeria? Sapete, quel piccolo Paese grande come l’Europa occidentale sull’altra riva del Mediterraneo. Proprio di fronte alla Sardegna. Non si parla quasi mai dell’Algeria. Tranne se un gruppo di terroristi prende in ostaggio o taglia la testa a qualche cooperante occidentale. I media internazionali hanno sempre coperto pochissimo il Paese nordafricano. Poche notizie ne escono. Anche la sanguinaria guerra civile degli anni ’90 che ha falciato quasi 300 mila persone è stata una delle guerre meno documentate nella storia moderna. Sarà perché in Algeria tra un’uccisione di occidentali e un’altra non succede nulla? Non è così. L’Algeria è un Paese molto dinamico dove succedono molte cose. C’è una società civile che lotta per uscire dalla terribile situazione in cui è rinchiuso il Paese dalla fine della guerra. Ci sono conflitti sociali importanti. Ultimamente ci sono stati persino scontri etnici tra popolazioni arabofone sunnite e una minoranza berberofona ibadita. Quindi c’è guerra etnica e religiosa. Il piatto favorito dell’infotainment globale. Eppure niente. Nessuno ci ha dato importanza e i timidi lanci delle agenzie sono andati a finire nella pattumiera delle notizie non notiziabili. Questo silenzio è dovuto al fatto che l’Algeria è un Paese poco conosciuto all’estero. Perché è rimasto chiuso per molti anni su se stesso. E in qualche modo lo è ancora. Ma è dovuto anche al fatto che il regime algerino è molto ricco e molto abile nell’arte di comprare il consenso internazionale. Dieci pozzi per i francesi, venti per gli americani, un gasdotto per gli italiani, qualcosina per i tedeschi, qualcosina per i canadesi… e così via. Se sai ingraziarti le multinazionali di ogni luogo diventi un Paese al di sopra di ogni sospetto.
Come cosche mafiose Il regime algerino somiglia molto alle cosche mafiose. E si sa che quando la mafia sta bene, quando i clan si sono spartiti il territorio in modo equilibrato, non c’è notizia. È quando cadono gli equilibri che si perde il controllo e si comincia a sparare. In Algeria sta succedendo una cosa molto simile. Una cosa interessante ma, ahimé, molto pericolosa che rischia di riportare il Paese al bagno di sangue. Come molti sanno, il presidente Abdelaziz Bouteflika si è fatto rieleggere, o è stato fatto rieleggere, per un quarto mandato consecutivo mentre è gravemente malato. Fino alla sua ul-
Abdelaziz Bouteflika (lapreSSe)
tima rielezione, malgrado i limiti fisici, ha continuato a dare segni di relativa lucidità. Ma da qualche tempo è scomparso completamente dalla vita politica algerina. Tranne apparire alla tv nazionale mentre accoglie qualche delegazione straniera. Ma senza mai dire nulla pubblicamente. Nel frattempo sono in atto gravi sconvolgimenti nelle istituzioni algerine. E molti pensano che non può essere lui, che è sempre stato cauto e diplomatico, a causare squilibri così pericolosi tra i vari poteri. La conformazione del regime algerino attuale è una eredità della fine della guerra degli anni 90. Nel 1991 il Fronte Islamico per la Salvezza (FIS) stravince il primo turno delle prime elezioni legislative plurali della giovane storia del Paese. Al secondo turno era sicuro di prendere la maggioranza assoluta e i suoi attivisti preannunciavano profondi cambiamenti nel modo di vita degli algerini. L’esercito uscì dalle caserme, fermò il processo elettorale, obbligò il presidente e il governo in carica alle dimissioni e nominò un governo provvisorio. Da lì si scatenò una serie di eventi che portarono il Paese a una lunga e sanguinosa guerra. In quegli anni i generali golpisti (in buona parte finti disertori dell’esercito francese durante la guerra di liberazione) oltre a rafforzare enormemente il loro potere, finora controbilanciato dal partito di governo, il Fronte di liberazione nazionale (FLN), e a mettere le mani sull’economia del Paese, privatizzando a loro vantaggio diretto l’economia statale del defunto sistema socialista, si macchiarono di gravi crimini: rapimenti,
esecuzioni sommarie, massacri, torture, manipolazioni, falsi attentati… Nel 1998 la «comunità internazionale» (leggere gli USA) impose un negoziato di pace e un piano di uscita dallo scontro armato. Questo piano comportava pochi punti: liberalizzazione del mercato e apertura delle risorse energetiche alle multinazionali, in cambio di amnistia per i militanti dei gruppi armati che accettano di deporre le armi. Da parte loro le monarchie del golfo avrebbero smesso di soffiare sul fuoco della guerriglia islamista e l’occidente non avrebbe attivato i tribunali internazionali per crimini contro l’umanità. Per innaffiare tutto questo c’era anche un accordo economico tacito: il governo che sarebbe uscito dagli accordi avrebbe gestito le risorse energetiche (gas e petrolio) portandole progressivamente in mano alle multinazionali, i generali avrebbero avuto il monopolio su alcuni settori dell’import export e i capi islamisti avrebbero avuto aiuti economici per lanciarsi nel commercio interno e nella piccola industria. A garanzia degli accordi gli Stati uniti e i loro alleati del Golfo hanno imposto un presidente che da una decina di anni è politicamente in disparte: Abdelaziz Bouteflika.
“Concordia civile” e immunità È così che il nostro uomo fu “eletto” nel 1999 e subito dopo convocò un referendum detto della “concordia civile” che in cambio della pace dava l’immunità a tutti i criminali che da una parte e l’altra hanno insanguinato il Paese. Da lì in poi non si accontentò di gestire gli equilibri ereditati dagli accordi segreti, ma portò progressivamente buona parte del potere in mani sue. Il tutto senza mai attaccare frontalmente. A piccoli passi, anno dopo anno, conquista dopo conquista. Oggi quei generali sono quasi tutti in pensione o già morti. Il potere dell’esercito è stato molto ridimensionato, il generale forte del momento mangia nella mano del presidente Bouteflika. E l’FLN è sotto il controllo totale degli uomini del presidente. Cosa mai successa in Algeria dall’indipendenza, tutti i poteri sono concentrati nelle mani di una sola persona. Ma quest’uomo che detiene così tanto potere è malato, molto malato. Dato varie volte per morto e poi resuscitato per miracolo. Non cammina, riesce a fatica a muovere una sola mano, a malapena può pronunciare qualche parola. Il problema di quelli che vivono sotto la sua ombra è che in tutto il loro clan, il nostro Abdelaziz è l’unico ad avere la storia e l’esperienza politica, le relazioni nazionali e internazionali e il carisma popolare necessari per mantenersi al potere. Intorno a lui niente. E quindi lo mantengono al suo posto per poter continuare
il fiore del partigiano POTERE TRA I CLAN RIVALI
Una bomba a orologeria In seno al partito FLN, una struttura piena di quadri di grande esperienza e competenza, hanno messo in primo piano un branco di incapaci, analfabeti che gettano fango su tutta la classe politica. L’unico criterio che conta è la lealtà assoluta al clan presidenziale. In queste condizioni le istituzioni sono completamente paralizzate, il Paese lasciato a se stesso, la corruzione a livelli mai visti e il malcontento popolare, anche se ancora silente, sale alle stelle. Una bomba a orologeria che rischia di esplodere da un momento all’altro. Nell’attacco al potere dei generali, c’è anche la creazione di un nuovo servizio di intelligence, chiamato a sostituire gli attuali servizi segreti, il Département du Renseignement et de la Sécurité (DRS). Ma nonostante i tentativi di smontarlo, il DRS resta molto potente e molto ben inserito sia nei meandri del potere che nella società algerina. Ha delle unità speciali. Controlla migliaia di informatori militari e civili. Ha addirittura gruppi armati pseudo islamisti ancora in azione tra le montagne e nel deserto, e ha migliaia di mercenari pronti a scatenare l’inferno al primo bonifico. La domanda che si pongono molti algerini è chi sta usando oggi la ruspa contro i clan rivali? Un gruppo di personalità politiche, tra cui alcuni ex ministri molto vicini a Bouteflika, scartati dopo la sua malattia, come l’ex portavoce Khalida Messaoudi, la segretaria generale del Partito trotzkista (PT) Louisa Hannoun, lo scrittore e intellettuale di fama internazionale Rachid Boudjedra, in una lettera pubblica hanno chiesto udienza alla presidenza della Repubblica. Vogliono accertarsi, dicono, che ci sia veramente il presidente «eletto dal popolo» dietro a questa politica che sta portando il Paese al collasso, o se dietro ci sono altre persone sconosciute al Paese. Gli esiti di questa lettera non saranno mai resi noti ufficialmente. L’unico segno di vita dato dalla presidenza della Repubblica questa settimana è stata la promulgazione di un nuovo piano per la protezione degli uffici, delle residenze presidenziali e delle aree circostanti, compreso lo spazio aereo. C’è paura di un golpe. Sarà un golpe bianco come quello compiuto da Ben Ali in Tunisia molti anni fa? Ci saranno scontri per le strade? Forse, come è abitudine dei clan al potere in Algeria, si saprà trovare un modo per far quadrare i cerchi in segreto senza generare troppe onde. O forse no. E in questo caso, la catastrofe è dietro l’angolo. Ma se succede saranno guai seri. L’Algeria non è la Libia, parliamo del più grande Paese africano e dell’esercito meglio attrezzato del continente dopo quello del Sudafrica. Se i suoi arsenali finiscono in mani sbagliate, tutta la regione sarà sconvolta. E con regione si intende anche il sud dell’Europa. Y
PIOVONO PIETRE
«Oriana scusaci»? Non ho capito bene di cosa…
le idee
l’opera di saccheggio sistematico delle risorse del Paese iniziata da qualche anno. Sanno che se il presidente crolla, crollano tutti con lui. Ma negli ultimi mesi qualcosa è cambiato. Il presidente non si vede più in pubblico ma sembra non sia mai stato così attivo come adesso. A nome suo, il clan presidenziale sta attaccando frontalmente i gruppi rivali, principalmente quello dei generali, arrivando fino a mandare in pensione l’ultimo rimasto ancora al potere, il capo dei servizi segreti militari, il generale Mohammed Medienne detto generale Toufik, un nome che bastava a far tremare il Paese intero fino a poco fa, e ad arrestare persino alcuni dei suoi diretti collaboratori.
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O di
da il Fatto Quotidiano del 15 novembre 2015
ALESSANDRO ROBECCHI
gni conflitto ha i suoi effetti collaterali, e questo si sa. Non deve stupire dunque che in Italia l’effetto collaterale abbia un nome e un cognome: Oriana Fallaci. Resuscitata grazie agli assassini di Parigi nelle classifiche dei libri e nel rumore di fondo dei social network, la sora Oriana si è meritata anche una specie di panegirico sul Corriere della Sera, con tanto di «scusaci Oriana» e «risarcimento postumo», e altre amenità confezionate con il noto barbatrucco de «la rete dice». Insomma, ad ogni pallottola sparata da assassini integralisti, ci tocca per contrappasso rileggere brani degli integralisti nostri: i Salvini, i Belpietro e compagnia belligerante (armiamoci e partite, ça va san dire), con sottofondo delle intemerate un po’ isteriche della nota scrittrice, una che metteva nello stesso fumante calderone chi si fa esplodere nei mercati e chi fa pipì vicino ai monumenti di Firenze, per dire della profondità di analisi. E va bene, prendiamo atto. Dunque, la versione riveduta e corretta è che bisogna chiedere scusa alla signora Fallaci, ma scusa di cosa, alla fine non si capisce. Riassumiamo: all’indomani dell’11 settembre 2001, il primo clamoroso, spettacolare, micidiale, schifoso atto di guerra dell’integralismo, la signora Fallaci diede voce alla pancia del mondo, parlando di guerra di civiltà, occidente colpevole di «buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà», insomma precedendo di un decennio abbondante le sottili argomentazioni di un Salvini. Bene. Quelle scenate da anziana signora – tipiche dei molto spaventati che dicono: non ho paura – furono diffuse per pagine e pagine sul primo quotidiano nazionale, rilanciate, sottoscritte. I libri con quelle ricette moderate (dichiariamogli guerra e sterminiamoli tutti, con tanto di insulti alla religione di un miliardo di persone sul pianeta) vennero stampati in milioni di copie, fecero per qualche tempo la fortuna dell’editore (lo stesso del Corriere, peraltro), divisero e fecero discutere, assumendo un valore di gran lunga supe-
Oriana Fallaci in Vietnam
riore alla loro sostanza. E ora si scopre che dovremmo dire «scusaci Oriana». Ma scusaci di cosa? No, perché di solito si chiede scusa quando uno dice una cosa giusta, non lo si ascolta, si fa il contrario, e dopo anni si scopre che aveva ragione lui e allora si dice: scusa. E qui casca l’asino. Perché invece, negli anni che seguirono l’11 settembre 2001 non si fece il contrario di quello che predicava la sora Oriana, ma si fece esattamente quello che chiedeva lei. Una guerra “di civiltà” che fece almeno centomila morti civili in Afghanistan, cui seguì una guerra illegale in Iraq con un milione di morti civili, la deposizione di un dittatore con conseguente consegna del Paese e della regione a bande armate e assassini che adesso se ne vanno sparacchiando per l’Europa e il mondo. Insomma: non è che Oriana suggerì di dispensare fiori e cioccolatini. No. Suggerì invece esattamente quello che mister Bush e mister Blair (supportati da alcuni personaggi minori tra cui l’esimio Berlusconi) fecero: una guerra indiscriminata e feroce che non risolse nulla e che peggiorò la situazione. Tanto che anche mister Blair – inspiegabilmente rimasto faro per qualche blairiano rinato che abita e governa qui – ha candidamente ammesso che fu proprio quella guerra a determinare le condizioni per la nascita dell’Isis. Insomma, a tirare le somme, l’assunto per cui la Fallaci aveva ragione e non le si diede retta è fortemente campata per aria. Anzi è proprio il contrario: la Fallaci aveva torto e le si diede fin troppo retta, ed eccoci dove siamo. Il che a rigor di logica dovrebbe tradursi in una condizione speculare e contraria: non Oriana scusaci, ma Oriana (e tutti i Y fallaci fallaciani) chiedete scusa.
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la Storia
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Lo sguardo dei figli della rivoluzione CARTOLINE DA CUBA
La statua del Che e del “Figlio della rivoluzione”, a Santa Clara. In alto, una biblioteca e una farmacia a Trinidad. Qui sotto, ragazzi giocano a biglie e un gruppo di ballerini improvvisano una “salsa” per strada. In basso, una famiglia sul parapetto del Malecón, il lungomare dell’Avana
U
gennaio 2016 n sogno che vive dall’età dell’adolescenza, quello di andare a Cuba, vedere l’Isola della rivoluzione, conoscerne il popolo, che del mito è parte. E, finalmente, il viaggio. Nei colori, nei suoni, nei sapori della leggenda, alla scoperta di ciò che del sogno rimane. Dello sguardo del Che e del “Figlio della rivoluzione”. Le immagini parlano di un’umanità provata da anni di stenti, tra strutture spesso fatiscenti (ma presenti comunque numerose, se si cerca una biblioteca o una farmacia). Tra la gente dei vicoli dell’Avana vecchia antichi giochi di strada, ricordi della nostra infanzia, e nei balli una gioia dei sensi quasi sconosciuta a noi poveri “polentoni”. Affacciati sul braccio di mare che li separa da un ‘altro’ sogno che strizza l’occhio ai più giovani, i cubani Y R.O. non perdono il sorriso e la voglia di vivere.
il fiore del partigiano
PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE DIVISIONE
NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA FIUME ADDA Redazione: presso la sede della Sezione Quintino di Vona di Inzago (MI) in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Direttore responsabile: Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)