Il Fiore del Partigiano - settembre 2011

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SETTEMBRE 2011

ANNO 2 NUMERO 3

QUANDO L’OBLIO VIENE DALL’ALTO

Nessuna giustizia senza memoria

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er troppi decenni la richiesta di far luce sulle stragi compiute dall’esercito nazista (con la collaborazione di fascisti italiani) durante la ritirata dalla “linea goticaâ€? si è arenata di fronte all’omertĂ e alla connivenza di chi, a livello istituzionale, avrebbe avuto il compito e il dovere di fornire alla giustizia le informazioni per indagare. Ricordiamo tutti il famoso “armadio della vergognaâ€?, di cui ultimamente si è pure messa in discussione l’esistenza. Poco importa, in realtĂ , se esista o meno “un soloâ€? nascondiglio per carte scottanti, semmai è innegabile che su quelle stragi e su altre che, purtroppo, si sono succedute per vari anni dalla fine degli anni ‘60 ad opera di formazioni bombarole fasciste, lo Stato ha preferito girare la testa altrove. Si deve alla tenacia di alcuni giudici e alla inesaurita voglia di veritĂ dei familiari delle vittime degli episodi tra i piĂš efferati della guerra sull’Appennino tosco-emiliano se oggi, finalmente, cominciano ad arrivare le sentenze di condanna per quei crimini. Sono 17 i tedeschi condannati in via definitiva all’ergastolo; uno solo di questi è stato condannato anche da un tribunale tedesco. Non sta in galera, ma ai domiciliari, in favore della tarda etĂ . Gli altri 16 potrebbero, forse, vedere la propria condanna in Italia riconosciuta anche dalla Germania. Sempre che il nostro ministro della Giustizia chieda che lĂŹ vengano eseguite le sentenze dei nostri tribunali. Finora non è stato fatto.

ILLUSTRAZIONE CECOSLOVACCA SUGLI ORRORI DELLA GUERRA

(ARCHIVIO

DE L’UNITÀ)

Servizi (ALLE PAGINE 8-10)


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La lezione di civiltà del Professore Commemorazione I venerdì 9 settembre

LA FIGURA DI QUINTINO DI VONA APPASSIONATO DOCENTE ANTIFASCISTA

Il video

“Ricordati di ricordare” è il titolo del dvd realizzato nel 2009 per mantenere viva la memoria della figura del professor Quintino Di Vona. Concepito nella ricorrenza del 65° anniversario del sacrificio del Professore, è tuttora reperibile presso la sede ANPI di Inzago (aperta ogni sabato mattina, dalle 10 alle 12, in Via Piola 10), versando un contributo di € 10,00.

l giorno 7 settembre, ricorrenza della fucilazione del patriota professor Quintino Di Vona, è - e rimarrà nel tempo - una data importante e non soltanto per la storia d’Inzago, ma più in generale per quella della Resistenza in Martesana. La storia del professor Di Vona, le vicissitudini che lo portarono “sfollato” ad Inzago (dove continuò l’attività antifascista già in messa in opera a Milano), il suo notevole spessore culturale ed intellettuale, la sua passione di docente e la sua straordinaria capacità di testimoniare e trasmettere ai giovani non soltanto il sapere, ma anche gli ideali della libertà, della giustizia e della passione politica, oggi la conosciamo meglio. La conosciamo meglio grazie agli scritti su di lui, ma anche per l’attività della sezione ANPI inzaghese, a lui intitolata, e le iniziative civiche che le Amministrazioni comunali del dopoguerra hanno attuato in omaggio del Professore: vale a dire la dedicazione di una piazza cittadina e la posa di una lapide nel luogo del suo martirio. Una lapide, il cui testo si deve alla vedova del Professore, l’insegnante Lina Caprio, posta a perenne ricordo di un sacrificio il cui significato e valore non conosceranno mai il tramonto. Personalmente, quella lapide la ricordo fin da ragazzino. Da quando cioè, durante le vacanze scolastiche, nelle estati della seconda metà degli anni Cinquanta, seguivo gli adulti che di mercoledì si recavano al mercato, allestito allora proprio nella piazza principale. Alcune volte mi fermavo davanti ad essa per leggere lentamente il testo ed osservare la fotografia del patriota caduto. Mi colpivano le parole: «Fucilato da giovinetti incoscienti armati dalla prepotenza straniera e dalla tirannide domestica» e cercavo, nel luogo della fucilazione, di immaginare quello che dovette provare il Professore davanti al plotone d’esecuzione, negli istanti precedenti la scarica dei fucili. Pensando a ciò, un brivido mi correva lungo la schiena. Allora, ovviamente, non sapevo cogliere pienamente il valore e l’importanza di quella morte; di quel sacrificio che più volte sentii raccontare dagli adulti. Un avvenimento, quello dell’arresto e della fucilazione del Professore, che ri-

e domenica 11

L'ANPI e il Comune di Inzago, nell’anniversario della fucilazione del Professor Quintino Di Vona, organizzano

“Per non dimenticare” Venerdì 9 settembre 2011

presso il Centro De André Ore 21,00 Chi era il Prof. Quintino Di Vona Documento a cura di Luciano Gorla Ore 21,30 Canti della Resistenza A cura del gruppo Pane e guerra Domenica 11 settembre 2011

Ore 10,30 - Dalla sede dell'ANPI, via Piola 10, partenza del corteo per la posa delle corone al Cimitero

Ore 11,00 - Piazza Maggiore Posa delle corone sulla lapide e discorsi commemorativi del Sindaco di Inzago e di un rappresentante dell'ANPI provinciale

schiò di sfociare in rappresaglia e scosse la Comunità inzaghese già provata dalla guerra, dall’occupazione tedesca e dalle frequenti incursioni dei nazifascisti. Questi, infatti, cercavano di contrastare l’azione delle formazioni partigiane locali e ricercavano quei giovani, cosiddetti “sbandati”, che si erano rifiutati di arruolarsi nelle formazioni militari della Repubblica Sociale Italiana (RSI) fondata da Benito Mussolini, e sostenuta dai tedeschi, dopo i fatti del 25 luglio 1943. L’ANPI inzaghese, oltre a tenere vivo il ricordo del sacrificio di Quintino Di Vona mediante le celebrazioni anniversarie in collaborazione con l’Amministrazione comunale, promuove di-


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A INZAGO I CORSI AUTUNNALI

FOTO DI GABRIELLA MERCADINI

Quei Diritti fondamentali da ristudiare L’

(ARCHIVIO

ANPI d’Inzago organizza per questo autunno un corso con tema “I Diritti fondamentali nell’Età Repubblicana”, suddiviso in otto incontri serali, con cadenza settimanale, di 2 ore ciascuno. Il corso si terrà di lunedì, dalle 21 alle 23, al Centro culturale De André, via Piola 10, a Inzago. La quota di partecipazione è di € 50,00 (riduzione per giovani e studenti). Iscrizioni presso la sede ANPI di Inzago, Via Piola 10, il sabato dalle ore 10 alle 12.

DE L’UNITÀ)

1. (17 ottobre) - Introduzione storica: I diritti nella Costituzione repubblicana - Giulio Vigevani e Claudio Martinelli

POESIA

Migrante Nostro

2. (24 ottobre) - Le libertà civili e i diritti delle minoranze - Paolo Bonetti e Federico Furlan

3. (31 ottobre) -I diritti riguardanti la famiglia - Elisabetta Lamarque e Paolo Zicchittu 4. (7 novembre) - I diritti delle donne - Federico Furlan e Mina Tanzarella 5. (14 novembre) - Il diritto alla salute - Aldo Bardusco e Paolo Bonetti

da l’Unità del 6 agosto scorso

6. (21 novembre) - I diritti dei lavoratori - Tiziana Vettor e Riccardo Artaria

7. (28 novembre) - Il fine vita - Diletta Tega e Paolo Zicchittu

8. (5 dicembre) -I diritti di partecipazione democratica (Artt. Cost. 17, 18, 21, 49, 75) Giulio Vigevani e Claudio Martinelli

Giulio Enea Vigevani è professore di Diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano - Bicocca Claudio Martinelli è professore di Diritto pubblico comparato alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano - Bicocca Aldo Bardusco è professore di Diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano - Bicocca

Paolo Bonetti è professore di Diritto costituzionale alla Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano - Bicocca Federico Furlan è professore di Diritto parlamentare alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano - Bicocca verse iniziative - indirizzate anche alle scuole - per meglio far conoscere e rimarcare l’importanza della Resistenza e della Lotta di Liberazione, nonchè dei contenuti e dei valori portanti della nostra democrazia e della Carta Costituzionale che da esse sono nati. Con specifico riferimento a Quintino Di Vona si deve segnalare un importante progetto realizzato nel 2009 dall’ANPI inzaghese, per l’iniziativa e la sensibilità della sua presidente, la Sig.ra Margherita Catanzariti. Si tratta di un documento video, realizzato con grande cura, anche dal punto di vista tecnico, che ripercorre gli avvenimenti

Elisabetta Lamarque è professore di Istituzioni di diritto pubblico alla Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Milano Bicocca

Diletta Tega è professore di Diritto degli Enti locali alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano - Bicocca Tiziana Vettor è professore di Diritto del Lavoro alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano - Bicocca

Palmina Tanzarella è ricercatrice in Diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano - Bicocca

Paolo Zicchittu è dottorando di ricerca in Giustizia costituzionale presso l'Università degli Studi di Pisa

che il 7 settembre 1944 portarono all’arresto ed all’uccisione del Professore. Il video è di rilevante valore documentario perché la narrazione degli avvenimenti è svolta nei luoghi che videro il determinarsi di quella tragedia. Il filmato raccoglie, inoltre, preziose ed inedite testimonianze di persone che furono, in modi diversi, testimoni dell’accaduto. La sua realizzazione, effettuata nel 65° anniversario della morte di Quintino Di Vona, ha costituito un nuovo ed efficace omaggio alta sua memoria. Inzago ha pianto e mai potrà dimenticare Quintino Di Vona, ormai entrato nella Storia; così come i numerosi antifascisti e pa-

Migrante Nostro, Che sei nei centri, Sia rispettato il tuo nome Venga il giorno in cui ovunque la terra ti accolga, Ti sia restituita la tua Dignità, Come in mare Così in terra. Che non ti sia negato il pane quotidiano Perdona a noi la violazione dei tuoi diritti Come noi ci impegnamo a non esserti più debitori. E non ricorriamo ingiustamente alla detenzione Ma liberiamoti dal mare... Amin Gian Marco Giuliana organizzatore del campeggio Amnesty a Lampedusa

trioti combattenti, presenti anche ad Inzago, che furono i protagonisti del secondo Risorgimento italiano. Una schiera d’uomini e donne (anche giovanissimi) che seppero opporsi con coraggio e determinazione al sopruso e alla tirannide nazifascista. In quella lunga notte di oblio essi lottarono, e molti sacrificarono la vita, per tenere alti i valori fondanti della dignità di un popolo. Nella bufera furono come delle luci di riferimento, alle quali guardare per non perdere la speranza e trovare il coraggio e la forza per costruire un futuro migliore. Luciano Gorla


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I fratelli Cervi, contadini “di scienza” e di cuore

LA SEZIONE DI BELLINZAGO IN VISITA ALLA CASA-MUSEO DI GATTATICO E A REGGIO

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na rapida conta dei partecipanti, quindi partenza per Gattatico, piccolo paese della bassa reggiana, verso cui siamo diretti per visitare la casa museo dei fratelli Cervi, membri di una straordinaria famiglia per cui vale la pena spendere parola. Ci accoglie una giovane ragazza, che con visibile passione ci accompagna lungo il percorso che si snoda dal portico della cascina fino alle sale del Museo e nella casa colonica. I Cervi erano anzitutto una famiglia di contadini della zona che, dagli anni ’90 del secolo diciannovesimo, lavoravano a mezzadria un podere in località Tagliavino di Campegine. Secondo questo contratto molto diffuso all’epoca, gli agricoltori non possedevano la terra, sulla quale lavoravano con grandi fatiche, perciò dovevano consegnare al proprietario la metà (spesso anche di più) dei raccolti; alla scadenza del contratto, solitamente a metà novembre, erano costretti a traslocare in un altro podere. Questa situazione d’instabilità non consentiva di costruire un futuro per sé e per i propri figli. Ecco dunque che i Cervi decisero di compiere il grande miglioramento, diventando affittuari: pur non essendo proprietari potevano, a fronte del pagamento dell’affitto, condurre il fondo come meglio credevano. Questo fu il momento della svolta, l’occasione per lavorare la terra e gestire la stalla sulla base delle proprie idee d’avanguardia. I Cervi, “contadini di scienza”, avevano ca-

pito prima di altri che per uscire dalla povertà e dallo sfruttamento era necessario usare il cervello e la volontà oltre che le braccia. Nonostante che a quei tempi la scolarizzazione nelle campagne fosse molto bassa, in casa di Alcide e Genoveffa Cervi giravano libri e opuscoli: ai loro nove figli, sette maschi e due femmine, seppero trasmettere l’amore per la lettura ed il sapere. Tutti i fratelli trasferirono passione e volontà di sapere nel lavoro, come testi-

moniano gli attestati di partecipazione a corsi professionali e di specializzazione per migliorare la coltivazione del frumento o le tecniche di apicoltura, nonché l’attività casearia. Proprio nella produzione del latte la famiglia concentrava i maggiori sforzi, tanto che alla fine degli anni Trenta venne raddoppiato lo spazio per il ricovero del bestiame. Grazie alla loro apertura mentale i Cervi furono dei veri pionieri nella meccanizzazione del lavoro in campagna: nel 1939 acquistarono un trattore Balilla che oggi campeggia nella Casa Museo insieme al mappamondo del terzogenito Aldo, due simboli indivisibili della volontà di progresso ed emancipazione. Intanto, nelle campagne il regime fascista imponeva a tutti i contadini di sottostare all’“ammasso”, una sovrattassa sui raccolti, in pratica un’arbitraria confisca di porzioni di prodotti agricoli da ammassare in depositi pubblici a disposizione delle autorità: voleva dire togliere il pane di bocca alle famiglie. I Cervi si opposero strenuamente e incoraggiarono alla rivolta i lavoratori dei campi. Due dei fratelli, Gelindo e Ferdinando, finirono in carcere per quest’opposizione attiva. Dieci anni prima il carcere era toccato ad Aldo, per un’ingiusta condanna durante la leva: venticinque mesi dietro le sbarre a Gaeta gli permisero di conoscere le teorie politiche antifasciste, attraverso l’incontro con in-


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Dopo l’ascolto di questa toccante testimonianza, la nostra comitiva riparte, destinazione il ristorante Gemmi in località Cadelbosco; nel frattempo, infatti, si è fatta l’ora di pranzo. Rinfrescati e rifocillati, si riparte in pullman per Reggio Emilia, che dista circa 15 chilometri. La guida che ci attende è una signora che si ascolta volentieri raccontare i luoghi della città, mentre li percorriamo. Si comincia da Piazza Martiri del 7 Luglio, dedicata alla memoria di cinque operai reggiani, vittime degli scontri avvenuti il 7 luglio 1960 durante una manifestazione sindacale. Nel punto della piazza in cui persero la vita si possono vedere cinque targhe della memoria. Sulla bella piazza, che pochi anni fa è stata oggetto di un importante progetto di riqualificazione urTerra di uomini liberi e combattenti bana (notevoli i giochi d’acqua), Qui sopra, il trattore e il mappamondo si affaccia il Teatro Municipale conservati nella casa-museo dei fratelli Cervi Romolo Valli. a Gattatico. A sinistra, il gruppo organizzato Respiriamo una boccata di atdall’ANPI di Bellinzago ascolta il racconto mosfera sacra all’interno del della guida. Sotto, la visita alla Sala del Duomo, con le sue cappelle riTricolore del Palazzo Comunale di Reggio Emilia vestite di marmi e la pregevole cripta con le spoglie dei martiri Crisanto e Daria. tellettuali ed esponenti dei movimenti che Interessante è anche la visita al Palazzo si opponevano al regime. Tutta la famiglia del Comune e alla Sala del Tricolore, oggi Cervi si unì ad altre famiglie della zona adibita alle sedute del Consiglio Comunella lotta clandestina; tutti insieme si ri- nale. In questa sala il 7 gennaio 1797 si riutrovarono il 25 luglio 1943 in piazza a nirono i rappresentanti delle città libere di Campegine per festeggiare con una grande Reggio, Modena, Bologna e Ferrara per pastasciutta la caduta del regime. proclamare la Repubblica Cispadana, Dopo l’8 settembre, casa Cervi diventò adottando il vessillo nei tre colori verde centro di raccolta per rifugiati e di riforni- bianco - rosso, assunti poi come bandiera mento per i Partigiani, mentre i sette fra- nazionale. Al piano superiore visitiamo il telli con altri compagni organizzavano in Museo del Tricolore: la prima sezione è montagna la loro intensa ma breve Resi- dedicata al periodo napoleonico; nella sestenza fino al 25 novembre, quando i fa- conda sezione, inaugurata nel 2006, sono scisti incendiarono la stalla e il fienile: ne esposti i documenti originali e i cimeli seguì la resa della famiglia e l’arresto dei concernenti le vicende storiche del Risorfratelli. Essi furono tradotti nel carcere di gimento nazionale. Reggio Emilia, dove rimasero fino a quel Durante il viaggio di ritorno vengono tragico 28 dicembre 1943 in cui vennero estratti i numeri vincenti (tutti recapitati), barbaramente fucilati insieme al loro abbinati alla nostra lotteria. Il ricavato, al compagno Quarto Camurri, come rappre- netto delle spese, sarà utilizzato per fisaglia per un attentato dei Partigiani. nanziare le prossime attività. Cogliamo Solo diversi mesi dopo la fine della guerra l’occasione per ringraziare tutti coloro che Alcide Cervi, che nel frattempo aveva hanno contribuito acquistando i biglietti, perso anche la moglie Genoveffa, poté ria- e quanti hanno partecipato alla splendida vere le spoglie dei suoi figli. Davanti alla giornata. folla silenziosa radunata a Campegine per Antonella Montini tributare le solenni esequie, il 25 ottobre ANPI sezione “25 aprile” di Bellinzago 1945, papà Alcide ebbe la forza di prendere la parola, per dire con commossa ma lucida saggezza «Non chiedo vendetta ma Per maggiori informazioni sulle attività delgiustizia... Dopo un raccolto ne viene un l’ANPI di Bellinzago potete contattare i sealtro: avevo cresciuto sette figli, adesso bi- guenti numeri: sogna tirar su undici nipoti... Andiamo Antonio 338 3415494 - Giorgio 347 8003979 - Angelo 338 8895197 avanti»

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VOCI D’AUTORE

Patrioti, vil razza dannata

da l’Unità del 6 agosto scorso

DI

MONI OVADIA

ATTORE E SCRITTORE

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l 2 Agosto, in piazza Maggiore, ho partecipato al concerto per il 31esimo anniversario della strage alla Stazione di Bologna, assente il Governo. Ho letto, nel contesto di una composizione di musica contemporanea, alcuni testi, fra i quali, frammenti di pensieri di Giuseppe Mazzini sulla Patria. Ecco alcuni di questi pensieri. «La patria è una comunione di liberi e d’eguali affratellati in concordia di valori verso un unico fine... non v’è dunque veramente patria senza un diritto uniforme. Non v’è Patria dove l’uniformità di quel diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze... vi è non Nazione, non popolo, ma moltitudine, agglomerazione fortuita... In nome del vostro amore alla Patria, voi combatterete senza tregua l’esistenza d’ogni privilegio, d’ogni ineguaglianza...».

Perché queste parole di Mazzini non sono diventate la catechesi civile italiana? Perché malgrado la Resistenza antifascista abbia conferito al concetto un nuovo significato, coniugandolo con i valori di libertà, uguaglianza e giustizia, la permanenza dell’eredità fascista nel tessuto profondo della destra reazionaria del nostro Paese, con l’uso strumentale della retorica, ha inquinato alle radici il valore che chiamiamo Patria. Quella destra indecente che, mai emancipata dalle vocazioni antidemocratiche, nell’ultimo ventennio ha trovato il suo vate naturale in Berlusconi con il suo tristo bagaglio di menzogne. In questi anni luttuosi i patrioti sono stati i magistrati, i giovani del social forum di Genova, le assemblee della società civile e tutti gli italiani che si sono opposti alla distruzione della democrazia.


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SETTEMBRE 2011 Una scolaresca in visita al campo di Struthof a Natzweiler, tra le alture dell’Alsazia francese. A destra in alto, la collina spianata a balze che ospitava le baracche del lager. Sotto, il nostro gruppo in visita all’ingresso e all’interno del campo. Nella pagina di destra in basso, l’edificio del Parlamento Europeo a Strasburgo FOTO DI FRANCESCO (CECK) BRAMBILLA

Un viaggio IN VISITA CON LA SEZIONE DI

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Consigliamo una visita virtuale, consultando il sito http://www.struthof.fr/

l gruppo ANPI di Inzago con alcuni amici della sezione di Cassano ha organizzato un viaggio di tre giorni, il 2728-29 maggio scorso, con destinazione Francia. In particolare, le nostre mete erano: il campo di concentramento di Struthof - Natzweiler (in Alsazia) e le città di Strasburgo e Colmar. La prima meta del viaggio è stata la visita al campo di concentramento di Struthof. Questo è un sito poco conosciuto, ma è un importante luogo della memoria nazionale francese. Per raggiungerlo, abbiamo percorso una strada stretta in mezzo ai monti e alle colline; infatti, come per altri campi di sterminio, doveva essere ben nascosto dagli occhi della popolazione. Quando si arriva in questi luoghi colpisce sempre la bellezza del paesaggio, che contrasta con la tristezza e il senso di oppressione che si prova nel ripensare alle atrocità umane che lì sono state perpetrate. In questo campo, a partire dal 1941, furono deportate 52.000 persone, originarie di tutta Europa. Più di 22.000 di esse trovarono qui la fine della loro vita. Le testimonianze di quanto avvenne sono raccolte ed esposte in un Museo adiacente al campo. Particolarmente toccante in questo sito è la “Fossa delle ceneri”. Quando ci si trova lì, nel silenzio, sembra di vedere i volti di coloro che non ci sono più, e la loro sofferenza diventa la tua e continui a chiederti come è stato possibile


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fra memoria e futuro

INZAGO AL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI STRUTHOF E A STRASBURGO

e come sia possibile che continui ancora oggi, in tanti luoghi del mondo, tanta barbarie umana. Una nota di speranza, però, l’abbiamo provata nel vedere qui tante scolaresche delle medie superiori in visita. È importante che almeno la scuola continui ad educare i ragazzi per mantenere e tramandare la memoria di quanto è accaduto nella storia dei propri Paesi. Il secondo giorno del viaggio è stato dedicato alla visita di Strasburgo, sede del Parlamento Europeo. Da un luogo di sofferenza, quale quello visitato il giorno precedente, siamo passati ad un luogo che rappresenta il futuro di noi cittadini europei. La struttura che ospita il Parlamento è un edificio lineare e moderno, davanti a cui sventolano alte le bandiere delle nazioni appartenenti all’Unione. Quando vi si arriva, viene spontaneo guardare in su per cercare, tra le tante, la bandiera della propria nazione... così abbiam fatto anche noi! La nostra visita di Strasburgo è continuata nel centro storico della città, abbellito dai caratteristici canali, le famose case a graticcio e la stupenda cattedrale. Il terzo giorno di viaggio siamo arrivati a Colmar, antica cittadina alsaziana con caratteristiche medioevali. La città, essendo sul confine franco - tedesco ha avuto una interessante storia ed è stata alternativamente possedimento tedesco e francese.

L’architettura e la struttura della cittadina risente quindi delle influenze di entrambi i paesi confinanti. Nel ritorno verso casa, hanno meritato una breve sosta anche le Cascate del Reno a Sciaffusa (le più estese cascate europee), in Svizzera. Il nostro viaggio si è concluso in tarda serata e... come al termine di tutti i viaggi, ci

portiamo dentro tante immagini, tante notizie, tanti racconti, nuove conoscenze. L’importante è che ogni viaggio serva veramente come arricchimento culturale, ideologico e umano. Alla prossima occasione, quindi! Wilma Fumagalli

ANPI di Inzago

1° ottobre a Torino in visita ai luoghi della Memoria e del Risorgimento La sezione di Inzago sta organizzando per il primo di ottobre una visita Torino. Partenza alle 7 del mattino e rientro a Inzago alle 20,30. A Torino il programma prevede: - visita al Museo del Risorgimento di Palazzo Carignano - pranzo in ristorante - visita della città e percorso della Memoria nel centro storico. Costo trasferta: € 65,00. Per adesioni, rivolgersi in sede (Via Piola, 10, presso il Centro De André) il sabato dalle ore 10,00 alle 11,30.


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Stragi naziste, sette

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I PROCESSI PER INDIVIDUARE E PUNIRE I RESPONSABILI DEGLI ECCIDI DI FINE GUERRA

I testi di queste due pagine sono ripresi da il manifesto dello scorso 8 luglio e dal portale www.santannadistazzema.org che consigliamo di visitare PAOLA BONATELLI

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n lungo applauso liberatorio ha accolto la sentenza della Corte del Tribunale militare di Verona, presidente Vincenzo Santoro, pronunciata tra le 9 e le 10 di mercoledì sera dopo undici ore di camera di consiglio. Hans Georg Karl Winkler, Fritz Olberg, Wilhelm Karl Stark, Ferdinand Osterhaus, Helmut Odenwald, Alfred Luhmann, Erich Köppe, tutti appartenenti alla Divisione Corazzata Paracadutisti “Hermann Göring”, responsabile di una serie di massacri di civili sull’Appennino tosco-emiliano tra i mesi di marzo e maggio 1944, imputati per «concorso in violenza con omicidio contro privati nemici pluriaggravata e continuata», sono stati condannati alla massima pena, con 17 ergastoli comminati, perché qualcuno è responsabile di più stragi. Poi le pene accessorie, la degradazione, il pagamento delle spese processuali. Infine le provvisionali in vista del risarcimento dei danni ai familiari delle vittime e agli enti costituiti in parte civile, per cui è stata chiamata a rispondere anche la Repubblica federale tedesca, oltre alle spese da rifondere allo Stato italiano per la difesa d’ufficio di alcune delle vittime. Gli altri due imputati ancora viventi, Herbert Wilke e Karl Friedrich Mess, sono stati invece assolti per non aver commesso il fatto. Tre dei dodici imputati, Günther Heinroth, Horst Günther Gabriel e Wilhelm Bachler, nel frattempo sono morti e quindi i reati loro ascritti sono stati estinti. Una giornata pesante, quella trascorsa nell’aula delle udienze del Tribunale militare, in un’attesa ancora colma, a 67 anni dai fatti, di sofferenza e dolore, tra i figli e le figlie, allora bambini, di quei 400 uomini (e qualche donna) massacrati da soldati arrivati nelle contrade sperdute della montagna con l’aiuto di qualche “spia” italiana, per cercare e punire i “banditi”, i partigiani.

Da Reggio e da Modena sono arrivati due pullman, altri sono venuti in auto e adesso sono là, dignitosamente seduti, volti di gente vissuta nella memoria delle stragi, mai riconosciute dai governi della Repubblica nata dalla Resistenza, sepolte nella vergogna, non solo del famoso “armadio”, ma dell’indifferenza della “politica” di palazzo, che ieri, all’indomani della sentenza, si è svegliata, per ora nella sola persona di Vannino Chiti, presidente del Senato, il quale ha espresso «soddisfazione» per le condanne. Paola Fontana, figlia di Santina Vannucci, che sull’aia di Cervarolo ha perso il padre e un fratello, rispettivamente di 56 e 32 anni; Italia Costi, figlia di Ennio Costi, 45 anni, e sorella di Lino, 20 anni, ammazzati in casa la mattina della strage. Lei aveva 6 anni, sopravvissuto anche un fratello di 13 anni; Talide Vannucci, figlia di Giovanni Vannucci, 32 anni, ucciso sull’aia e nipote di Agostino Vannucci, anche lui fucilato. Lei aveva 8 anni e una sorellina di 11 mesi, erano chiuse in casa con la mamma, la nonna e la zia. Seduta accanto alla figlia Esterina Giovanna Manfredi: «Dopo la strage, hanno fucilato tutti gli uomini - racconta Talide - le case sono state bruciate, ci hanno mandato via con quello che avevamo addosso, siamo rimasti senza niente». Anche Artura Croci, figlia di Adolfo Croci, ucciso sull’aia quando lei aveva 13 anni, siede accanto alla figlia, Graziana Alberghi. Le hanno ucciso gli zii, Marco ed Egisto Alberghi. Marco era un reduce del fronte russo, dove aveva perso un occhio. Vicino a lei Natalina Maestri, che

Finalmente, dopo 67 anni, il Tribunale militare di Verona ha condannato a 17 ergastoli sette ex-paracadutisti tedeschi responsabili di una serie di stragi di civili compiute nel 1944 sull’Appennino tosco-emiliano oggi ha 80 anni, figlia di Sebastiano Maestri, ucciso a 68 anni. Allora aveva 13 anni e dice di ricordare tutto «come se fosse adesso, certe cose non si possono più dimenticare. Siamo venuti a sentire se questi signori saranno condannati per tutto il male che hanno fatto. Che ci resti almeno la soddisfazione di sentire se saranno puniti. Dopo la strage - racconta - hanno bruciato le case, per noi qualcuno ha costruito una baracca di legno, altri sono stati ospitati dai parenti, ne abbiamo passate di tutti i colori. Nessun riconoscimento né dallo Stato italiano, né da quello tedesco». Accanto a loro, con la fascia tricolore, i sindaci dei comuni colpiti dai massacri, i rappresentanti delle Province e delle Regioni costituitesi parte civile, e gli instancabili at-


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condanne

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COMINCIANO A DARE RISULTATI. TRA LA DISATTENZIONE DELLA POLITICA “UFFICIALE”

Sant’Anna di Stazzema - Da sinistra, girotondo dei bambini davanti alla scuola, alcuni degli uccisi nella strage, il monumento a loro dedicato. Sotto, la stele con l’elenco delle vittime

tivisti dell’Istoreco, l’Istituto storico per la Resistenza di Reggio Emilia, che per tutti questi anni - sei, dall’inizio dell’istruttoria li hanno accompagnati alle udienze, confortati nel dolore delle testimonianze, mantenendo viva la memoria con le tante iniziative intraprese. L’ultima loro fatica, la preparazione di un docu-film sulle stragi e sul processo, di cui hanno ripreso ogni udienza, vedrà al più presto la luce. Dopo la lettura della sentenza è iniziata l’interminabile lista dei risarcimenti per le parti civili, enti e istituzioni - Anpi, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Regioni Emilia-Romagna e Toscana, Province di Modena, Arezzo Firenze e Massa, Comuni di Palagano, Villa Minozzo, Arezzo, Vaglia, Sesto Fiorentino, Poppi, Pratovecchio, Bibbiena, Stia, S. Godenzo, Fivizzano - e poi tutti i familiari, nominati uno per uno, in un elenco straziante, e per ogni strage, la rifusione delle spese per i legali di parte civile, una trentina. Andrea Speranzoni, avvocato di parte civile di una novantina di familiari era ottimista: «Questa sentenza - dice - avrà una ricaduta. La politica, italiana e tedesca, non potrà ignorare ancora per molto questi processi e comunque, dopo settant’anni, una parola di giustizia è stata detta». Intanto i sette condannati, che hanno dormito (pare) sonni tranquilli nelle loro case per sette decenni, da oggi potrebbero assistere a manifestazioni davanti alle loro dimore. Così almeno hanno promesso gli antifascisti tedeschi, come è stato fatto per i boia di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema.

L’orrore di Sant’Anna nel racconto della carneficina

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gosto 1944. Gli Alleati avanzano verso nord nell’Italia centrale. Il 6 agosto i milleseicento partigiani della divisione Garibaldi entrano in azione nelle operazioni per la liberazione di Firenze (verrà liberata il 12 agosto). Il 5 agosto la Wehrmacht aveva disposto l’evacuazione di Stazzema, paesino in provincia di Lucca ai piedi delle Alpi Apuane. Come in molti altri casi soltanto una parte della popolazione aveva obbedito all’ordine; anzi fino a quel giorno fatale, in seguito al diffondersi di voci tranquillizzanti, non soltanto fecero ritorno alle proprie case un gran numero di donne e bambini, ma si rifugiarono a Sant’Anna anche numerosi sfollati provenienti da altre frazioni. La sera dell’11 agosto i tedeschi, che ritirandosi oppongono una forte resistenza e si abbandonano ad ogni sorta di eccidi, emanano un ordine (in tedesco Bandenunternehmen) per «l’impiego delle truppe contro le bande» considerando tutti quelli che abitavano nelle zone di montagna come dei «partigiani». L’unità della XVI divisione, in cui erano inquadrati anche soldati italiani delle SS, si muoveva verso Sant’Anna da quattro direzioni. Entrò in azione anche un discreto numero di collaborazionisti, almeno una quindicina. Guidarono i nazisti per le impervie mulattiere che portavano a Sant’Anna, si caricarono sulle spalle cassette di munizioni. All’alba del 12 agosto, reparti di SS, in tutto alcune centinaia, in assetto di guerra, salirono a Sant’Anna da Vallecchia-Solaio, Ryosina, Mulina di Stazzema e Valdicastello, utilizzando quali portatori alcuni uomini catturati precedentemente nella piana della Versilia. Verso le sette il paese era ormai circondato. Gli abitanti non pensavano ad una

strage, ma piuttosto ad una normale operazione di rastrellamento. Molti uomini infatti fuggirono, nascondendosi nei boschi. Troppo tardi si accorsero delle reali intenzioni dei nazisti. Così lo scrittore Manlio Cancogni narra gli avvenimenti di quella terribile giornata: «I tedeschi, a Sant’Anna, condussero più di 140 esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti; erano mezzi vestiti, avevano le membra ancora intorpidite dal sonno; tutti pensavano che sarebbero stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore né odio. Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero nel mezzo della piazza, una piazza non più lunga di venti metri e larga altrettanto una piazza di tenera erba, tra giovani piante di platani, chiusa tra due brevi muriccioli; e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi, li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterrefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare. Breve è la giustizia dei mitragliatori; le mani dei carnefici avevano troppo presto finito e già fremevano d’impazienza. Così ammassarono sul mucchio dei corpi ancora tiepidi e forse ancora viventi, le panche della chiesa devastata, i materassi presi dalle case, e appiccarono loro fuoco. E assistendo insoddisfatti alla consumazione dei corpi spingevano nel braciere altri uomini e donne che esanimi dal terrore erano condotti sul luogo, e che non offrivano alcuna resistenza. Intanto le case sparse sulle alture, le povere case di montagna, costruite pietra su pietra, senza intonaco, senza armature, povere come la vita degli uomini che ci vivevano erano bloccate. Gli abitanti erano spinti negli anditi, nelle stanze a pianterreno e ivi mitragliati e, prima che tutti fossero spirati, era dato fuoco alla casa; e le mura, i mobili, i cadaveri, i corpi vivi, le bestie nelle stalle, bruciavano in un’unica fiamma. Poi c’erano quelli che cercavano di fuggire correndo fra i campi, e quelli colpivano a volo con le raffiche delle mitragliatrici, abbattendoli quando con grido d’angoscia di suprema speranza erano già sul limitare del bosco che li avrebbe salvati. Poi c’erano i bambini, i teneri corpi dei bimbi a eccitare quella libidine pazza di CONTINUA A PAGINA 8


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SEGUE DA PAGINA 9 distruzione. Fracassavano loro il capo con il calcio della “pistol-machine”, e infilato loro nel ventre un bastone, li appiccicavano ai muri delle case. Sette ne presero e li misero nel forno preparato quella mattina per il pane e ivi li lasciarono cuocere a fuoco lento. E non avevano ancora finito. Scesero perciò il sentiero della valle ancora smaniosi di colpire, di distruggere, compiendo nuovi delitti fino a sera. A mezzogiorno tutte le case del paese erano incendiate; i suoi abitanti fissi e gli sfollati erano stati tutti trucidati. Le vittime superano di gran lunga i cinquecento, ma il numero esatto non si potrà mai sapere. Alcuni scampati all’eccidio erano corsi in basso a portare la notizia agli abitanti della pianura raccolti in gran numero nella conca di Valdicastello. La notizia la portavano sui loro volti esterrefatti, nelle parole monche che erano appena capaci di pronunciare e dalle quali chi li incontrava capiva che qualcosa di terribile era accaduto pur senza immaginare le proporzioni. Della verità cominciarono invece a sospettare nelle prime ore del pomeriggio quando le prime squadre di assassini scendendo dalle alture di Sant’Anna, si annunciarono sull’imbocco della vallata a monte del paese. Li sentivano venir giù precipitosi, accompagnati dal suono di organetti e di canzoni esaltate, e quel ch’è peggio dal rumore di nuovi spari, da nuove grida, che non convinti di aver ben speso quella giornata, i tedeschi la completavano uccidendo quanti incontravano sul sentiero della montagna. Alcuni che al loro passaggio s’erano nascosti nelle antrosità della roccia vi furono bruciati dentro dal getto del lanciafiamme. Una donna che correva disperata portando in salvo la sua creatura, raggiunta che fu, le strapparono dalle braccia il prezioso fardello, lo scagliarono nella scarpata e lei stessa l’uccisero a colpi di rivoltella nel cranio. Molti altri furono raggiunti dalle raffiche di mitragliatori mentre fuggivano saltando per le balze della montagna, come capre selvatiche contro le quali si esercitava la bravura del cacciatore. Quando i tedeschi raggiunsero Valdicastello cominciando a rastrellare gli abitanti, il paese era già stretto dall’angoscia; gli abitanti serrati nelle case e nascosti alla meglio; la strada deserta; tutti oppressi da un incubo di morte. Il passaggio dei tedeschi dal paese si chiuse con la discesa del buio sulla valle, dopodichè ottocento uomini erano stati strappati dalle case e condotti via, e un’ultima raffica di mitragliatrice accompagnata da un suono più sguaiato e atroce di organetto, aveva tolto la vita ad altri quattordici infelici, scelti a caso». Alla fine le vittime di questa strage furono 560, tra cui molti anziani, donne e bambini. Quella mattina la furia omicida si scatenò anche contro una bambina di 20 giorni, Anna Pardini: morirà un mese dopo, troppo piccola per sopravvivere alle ferite.

il fi fioore del partigiano A 98 ANNI SCOMPARE L’ULTIMO SUPERSTITE DI BUCHENWALD, RINCHIUSOVI PERCHÉ OMOSESSUALE

Rudolf Brazda l’ultimo triangolo rosa da l’Unità del 8 agosto scorso

DELIA VACCARELLO giornalista e scrittrice

«C DI

he colore ridicolo, il rosa!», a dirlo è l’uomo che si è spento il 3 agosto a 98 anni ed è stato considerato l’“ultimo dei triangoli rosa”: Rudolf Brazda. «Mi portarono in una grande stanza con una piscina, dovevamo fare il bagno nudi, era la disinfezione, le SS mi spinsero la testa sott’acqua facendomi domande a cui non potevo rispondere. Dopo dovetti indossare i vestiti da prigioniero che avevano sul lato sinistro il triangolo rosa. Che colore ridicolo, il rosa! I criminali comuni portavano il triangolo verde, gli asociali quello nero, noi quello rosa e ovviamente venivamo derisi, non dai prigionieri, ma dalle SS». Brazda è stato molto attivo come testimone e ha affidato a un video su youtube alcune delle sue memorie dal campo di Buchenwald dove è stato rinchiuso dal 1942 al 1945. Prima di allora, nato in Germania nel 1913, aveva avuto un periodo di tranquillità come omosessuale, grazie al clima che si respirava gli ultimi giorni della repubblica di Weimar. Insieme al suo primo compagno, Werner, era riuscito fino al 1935 a vivere una vita felice, frequentando amici e amiche omosessuali incontrati in locali gay come il New York café. Ma dal ’35 tutto precipitò. Il Paragrafo 175 del codice penale tedesco, che puniva i rapporti tra omosessuali, venne ampliato, e ai gay fu data la caccia. Le vite degli amici di Rudolf furono passate al setaccio, i sospetti caddero anche su di lui, fu rinchiuso in prigione a più riprese, e separato da Werner che morì nel 1940 in guerra. Dopo il carcere, iniziò la deportazione l’8 agosto del 1942 con il numero 7952. Brazda fu costretto prima ai lavori forzati nelle cave di pietra e dopo a svolgere attività di manutenzione del campo, assistendo alla crudeltà dei nazisti sui compagni “meno fortunati”, finiti con iniezioni letali. Passati tre anni, ricevette l’aiuto di un Kapo addetto alle stalle. Lo nascose con i maiali in un capanno per gli attrezzi.

«Rimasi lì 14 giorni – racconta Brazda nel video – finchè arrivarono gli Americani e fui libero». E adesso che il senso della vita cambia, nulla va lasciato al caso. «Dissi a me stesso: devi organizzarti, fare la vita che scegli senza che nessuno ti imponga nulla». Inizia una nuova era. «Volevo trovare un nuovo fidanzato, e fu allora che incontrai Edouard, slavo ma con i familiari di origine tedesca. Non aveva una casa e venne a vivere da me, era così giovane, 18 anni in meno di me. Ma stavamo bene insieme e iniziammo la nostra vita, trovando entrambi un lavoro. Stavamo insieme esattamente come chiunque altro». Vivono in Alsazia – Brazda ottiene nel ’60 la nazionalità francese -, e la loro unione dura fino al 2003, anno in cui scompare Edouard per un incidente sul lavoro. Nonostante l’età, Brazda è stato fino all’ultimo un acuto osservatore e un attivista. In occasione del monumento eretto a Berlino nel 2008 per ricordare le vittime gay del nazismo – vittime che nel ’45 non furono riconosciute, ma solo molti anni dopo – decise di raccontare per esteso la sua storia. Lo scorso anno è stata pubblicata la sua biografia “La fortuna mi assisteva sempre. Rudolf Brazda: la sopravvivenza di un omosessuale nel Terzo Reich”. In aprile, è stato insignito in Francia della legion d’onore, anche per il suo coraggio. Per noi è l’ultimo testimone noto dei diecimila omosessuali rinchiusi nei lager. Molti hanno taciuto, per vergogna o troppo dolore. Le ceneri di Rudolf saranno poste accanto a quelle di Edouard. Riposeranno circondati dal ricordo e dalla gratitudine.


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LUCIDITÀ, IRONIA E CONCRETEZZA LA RENDEVANO DAVVERO SPECIALE

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GENO, CESA

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FOTO DI BRUNO GIULIANI

Nello scorso numero di aprile dedicavamo una pagina alla splendida figura di Giovanna Casorati, ritratta dai ricordi di un suo grande amico e compagno di militanza politica e sindacale. Giancarlo Villa, che aveva proposto al nostro giornale l’apertura di questo spazio, ci invitava tutti a scrivere. Di noi e delle nostre esperienze, per tenere vivo il pensiero e le motivazioni dell’antifascismo nel nostro territorio. Mai, però, avremmo pensato di trovarci da subito a scrivere di Isa Simone attraverso il ricordo. WILMA

sa, quanti ricordi! Da quella sera d’inverno del ‘68 in cui, con tono quasi d’angoscia, dicesti: «Io sto andando sempre più a sinistra». Capivi, come capivamo tutti, che quella scelta avrebbe comportato distacchi, conflitti, dolori, coerenza con quei sentimenti e quelle convinzioni che sentivamo nascere con tanta forza dentro di noi. Tanti fatti, persone, esperienze si sono succeduti negli anni, ma non ti sono mai mancate la forza di partecipare e la lucidità di analizzare i fatti della politica e della vita. Tanto che fino all’ultimo, già con poco fiato, volevi sapere cosa succedeva e non facevi mancare i tuoi commenti e i tuoi giudizi, conditi di saggezza, ma anche di sana ironia. E quando si parlava di scuola, quanto orgoglio emergeva nel ripercorrere le tappe di questo nostro lavoro nel quale abbiamo creduto fino in fondo e al quale abbiamo

Forte, fiera, colta ironica Isa

RICORDI DI CARTA Una giovane Isa, militante del Collettivo di Via Balconi, compariva in questa vignetta che chiudeva il fascicolo autoprodotto in ciclostile dal titolo “Unità popolare - giornale del movimento di lotta - Inzago”. Si era all’inizio del ‘76. Quanti fogli, quante idee, quante discussioni dentro e fuori quella sede...

dedicato passione, tempo e... a volte anche denaro. Ma quanta delusione nel constatare come la Scuola Pubblica, specie in questi ultimi anni, sia “maltrattata” dalla politica e non crei più nelle nuove generazioni di insegnanti quell’impegno e quell’entusiasmo che suscitava in noi. Rimane significativo che l’ultimo saluto che ti abbiamo dedicato sia stato concluso dalle parole di bambini che dicevano: «Isa, è stato bello fare i compiti con te», «Grazie per avere insegnato alle nostre mamme a fare il pane». Grazie davvero, Isa! Per tutte le volte che ci siamo aiutate, anche senza accorgerci di farlo, per la tua bicicletta sulla quale, nel cestino ci potevano stare, con la stessa naturalezza, libri, giornali, ma anche la la farina per preparare la pasta fatta in casa o la lana per fare o rifare quel maglione che ti piaceva o la copertina per quel bambino che doveva nascere. Tutto questo e tanto altro rimarrà sempre con noi e non può che essere ancora riassunto nella frase «Non esiste separazione definitiva, finchè esiste il ricordo»


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8 SETTEMBRE ‘43: UNA DATA SPARTIACQUE

Nasce la ribellione all’occupante nazista

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GUERRINO BELLINZANI

gni Paese è fatto di Storia, di date, di tragedie e di riscatti. La nostra Italia, riunita parzialmente da 150 anni, in realtà con una Storia di oltre 2 millenni, ha fatti e date che meritano di essere celebrati. Date che hanno “scritto” la Storia di questo Paese; che lo hanno reso celebre nel mondo, fatto studiare nelle scuole, fatto visitare da studiosi e turisti. A me interessa ricordarne una tra le tante: l’otto settembre 1943. Il ventennio fascista stava per finire per il disfacimento del Partito Nazionale Fascista, nel sentore della sconfitta della guerra ormai imminente. Il “duce” arrestato, i soldati sui vari fronti in disarmo, il popolo alla fame, che non aspettava che la fine delle sue sofferenze. Una resa ingloriosa per una guerra subita per volontà di fanatici che, in forza di una martellante propaganda, aveva illuso i più ad una necessaria prova di riscatto. La fine era iniziata il 25 luglio, con l’arresto di Mussolini e la dichiarazione di resa agli Stati belligeranti vittoriosi. La vita sembrava rinascere: tripudi, fiaccolate in attesa che i congiunti sotto le armi tornassero a casa. Poi cominciarono i primi screzi, divampava lo scontro polemico tra l’antifascista da oltre vent’anni umiliato e il fascista sull’orlo della disperata sconfitta... senonché, appunto, arrivò l’8 settembre. I nazisti liberarono Mussolini, permetterono ai Savoia di fuggire, dichiararono la costituzione del nuovo PNF con sede a Salò e minacciarono rappresaglie ai renitenti: la guerra continuava! Un marasma. L’Italia era stata occupata dai tedeschi, che disponendo di ogni potere, soggiogarono i fascisti, peraltro consenzienti, al ruolo di vili reclutatori di uomini indecisi o renitenti. A giovanissimi soldati, che dalla dichiarazione di resa non erano ancora tornati a casa, veniva imposto di presentarsi ai punti di raduno, pena la cattura o la fucilazione.

L’otto settembre 1943 fu lo spartiacque tra il passato fascista e la soccombente situazione di sudditanza al nazismo. Da lì montò la reazione degli italiani mossi da sentimenti patriottici, che già non sopportavano la dittatura fascista, e ora si trovavano sudditi di un paese straniero. Speranzosi della fine della guerra, ne vedevano imposta la continuità sotto la dittatura tedesca. Ecco come nacque la ribellione, poi via via tramutatasi in guerra contro l’invasore. Guerra di popolo. Con la Resistenza l’Italia ha scritto una pagina di Storia gloriosa, che ha riscattato fatti non proprio esemplari del suo passato, quando ancora non si sentiva Nazione, un unico gruppo sotto la stessa bandiera, la stessa lingua, erede della stessa civiltà, con un solo destino. La Resistenza fu una pagina tanto gloriosa, da poterla paragonare all’epopea Risorgimentale. Costellata di migliaia di episodi eroici, le morti per la Libertà, l’orgoglio di popolo altrimenti soffocato dalla dittatura, la nascita della nostra Legge fondamentale: la Costituzione. Episodi non secondari, leggendari per audacia e spirito di sacrificio, con adesione spontanea, affinché i posteri potessero vivere in libertà. Riconoscimenti ampi e solenni verranno tributati a guerra finita dagli stessi comandanti degli eserciti liberatori. Credo che il moto resistenziale sia stato splendidamente riassunto in libri che di quella epopea sono testimoni vivi. Un “pezzo” come questo ha il modesto valore di voler ricordare una data, il significato politico e storico di quella lotta, il senso patriottico di quella scelta, l’onore riflesso alle generazioni successive fino a quelle dei nostri giorni. Totalmente inaccettabile è l’atteggiamento di chi intende oggi oscurare il valore della Resistenza, o di chi pretende di equiparare nella Storia gli aguzzini ai martiri.

NO ALLA SOPPRESSIONE

Giù le mani da 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno a il fascismo è ancora un’altra cosa: è «M lo scetticismo di larghi strati della popolazione circa la propria attitudine a deci-

dere in modo autonomo il loro destino collettivo, è l’annosa consuetudine ad attendere che tutte le decisioni vengano dall’alto, è l’acquiescenza, la sopportazione, è nell’attesa il piccolo e mediocre opportunismo, il lasciare correre sulle piccole ingiustizie sulle quali poi si edificano le ingiustizie più grandi e radicali, è in una parola l’inerzia politica e la sfiducia nella libertà, che non è un dono, ma si conquista e si difende in ogni ora della vita. Questo nemico, questo aspetto del fascismo è più pericoloso ancora dei precedenti perché si annida dentro di noi e non è riconoscibile sensibilmente e minaccia perpetuamente di pregiudicare anche le più ardite e conseguenti conquiste rivoluzionarie. Ma anche contro questo nemico i partiti antifascisti sono i soli qualificati a lottare con successo: la loro tradizione di un’attività instancabile, sorretta da un potente idealismo morale, li ha sempre portati ad approfondire i problemi politici, oltre le formalità istituzionali, nell’intimo delle coscienze, a mediare la prassi politica coll’attività pedagogica, a puntare essenzialmente sull’autonomia, così dell’individuo come del gruppo. Se ieri l’ambito della loro attività era forzatamente ristretto, oggi le circostanze sono più favorevoli, più lo saranno domani: se i partiti antifascisti non tradiranno la loro missione di libertà, il successo anche in questo campo non mancherà.»

(Quaderni dell’Italia libera - n°3, 1 ottobre 1943. Vittorio Foa)

Trovando attualissimo il pensiero di Foa, ed essendo sicuri che il fascismo ancora vive... Chiediamo a tutte le Istituzioni a noi vicine, ai partiti, ai sindacati, ai movimenti, alle associazioni, a tutti i cittadini che credono nella Costituzione e nelle sue profonde radici che arrivano dalla Resistenza, di urlare con noi: «Non toccate il 25 Aprile!» No a un simile disegno di legge che oltraggia il sacrificio di migliaia di donne e uomini che lottarono per un’Italia e un mondo migliore. Se tale obbrobrio dovesse malauguratamente diventare legge di Stato, noi scenderemo sulle strade delle nostre città a urlare la nostra rabbia, perché ancora crediamo nell’onestà del lavoro, nella memoria e nelle idee mai morte di libertà, eguaglianza e giustizia che quelle giornate fortemente propongono, rinnovano ed attualizzano e che sono base civile della Storia della nostra Patria. ANPI


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RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA

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Storie dimenticate di ordinaria resistenza Valerio Gentili - Bastardi senza storia - Castelvecchi edit.

partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del Novecento, in Inghilterra, a fronte del crescente proselitismo dei gruppi neofascisti nei quartieri delle aree metropolitane più depresse, prese corpo l’Antifascist Action (Afa) un network dislocato in una ventina di città. Ad animarlo giovani di sinistra, anarchici e comunisti, per la gran parte fuoriusciti dal Socialist workers party e dall’Anti nazi league. Questa esperienza si caratterizzò per la costituzione di squadre di autodifesa che iniziarono a pattugliare i quartieri con alte percentuali di minoranze etniche, scontrandosi non di rado anche fisicamente con i fascisti. In gran parte composte da bianchi, si mossero sulla base dell’idea che l’azione non dovesse essere indirizzata tanto a solidarizzare con le vittime, quanto a intercettare i gruppi razzisti. I militanti dell’Afa non disdegnarono in questo contesto di darsi un look decisamente paramilitare, con tanto di bomber, anfibi e mimetiche, lanciando una sfida aperta al nemico sul suo stesso terreno. Un fenomeno che non rimase isolato in Europa. Nei primissimi anni Novanta, anche nella Germania segnata da ripetuti episodi di violenza contro gli immigrati (fu di risonanza internazionale l’incendio nel 1992 a Rostock del centro di accoglienza), si manifestarono analoghe forme di resistenza giovanile. Qui si rispolverarono sigle e simbologie di organizzazioni che tentarono al tempo della Repubblica di Weimar di contrastare le squadre naziste, come l’Antifaschistische Aktion, recuperandone anche il grido di battaglia: «Colpite i fascisti ovunque li incontriate!». Così in Francia, a metà degli anni Ottanta, quando a Parigi si combattè una guerra sotterranea tra gruppi neonazisti e giovani provenienti dalle fila della sinistra extraparlamentare, autorganizzatisi in bande sotto la sigla Chasseurs (Cacciatori). Ci furono gang, come i Red Warriors, spesso elitarie, in cui si entrava per coraggio fisico e conoscenza delle arti marziali, che rivendicavano il ricorso all’autodifesa at-

tiva. Anche in questo caso i tratti estetici tendevano a rassomigliare a quelli del nemico da combattere, dal cranio parzialmente rasato alle toppe con falci incrociate non al tradizionale martello ma alla ben più evocativa mazza da baseball. A cavallo degli anni Duemila, proprio alcuni elementi degli ormai discioltisi Red Warriors tornarono a utilizzare un vecchio simbolo, un tondo con all’interno tre frecce inclinate con la punta orientata verso il basso, che contrassegnò l’Eiserne Front (Fronte di Ferro), costituitosi in Germania alla fine del 1931 per contrastare i nazisti con l’adesione del Reichsbanner (l’organizzazione di autodifesa socialdemocratica) e dei principali sindacati tedeschi. Questo stesso segno divenne poi anche il logo del network mondiale della Rash (Red and Anarchist Skinheads). Alla ricostruzione storica delle esperienze degli anni Venti e Trenta, nate per fronteggiare le aggressioni naziste in Germania, come i movimenti fascisti in diversi altri paesi europei, è dedicato Bastardi senza storia Dagli Arditi del popolo ai Combattenti rossi di prima linea: la storia rimossa dell’antifascismo europeo (Castelvecchi, pp. 184, € 16) di Valerio Gentili, già autore di due approfondite ricerche sugli Arditi del popolo (La legione romana nel 2009 per la Purple Press e Roma combattente nel 2010, sempre per la Castelvecchi). Particolare attenzione è qui dedicata alle vicende tedesche, inquadrate nella militarizzazione della lotta politica, un fenomeno che assunse dimensioni di massa (sconvolgente il numero dei morti e dei feriti negli scontri di piazza), che investì quel paese dalla fine della prima guerra mondiale. Smentendo un luogo comune circa l’inesistenza di iniziative di opposizione fisica alle truppe d’assalto naziste, vengono in queste pagine riportate alla luce le gesta della Reichsbanner (Lega dei veterani di guerra repubblicani), formatasi nel 1924 a Magde-

per la lettura e la discussione

Massimo Ottolenghi - Ribellarsi è giusto - Chiarelettere

«Noi non ce l’abbiamo fatta, abbiamo fallito, ora tocca a voi.» Un’ammissione di colpa grave e un appello vigoroso quelli di Massimo Ottolenghi, classe 1915, un simbolo della resistenza civile. «Un miracoloso soprassalto», ecco quello che ci vuole per togliere il potere dalle mani dei più anziani e partecipare in prima persona alle scelte del Paese. Il pericolo di una deriva antidemocratica è evidente.

burgo per garantire ai difensori della repubblica l’agibilità politica per le strade e nei luoghi della vita politica. Con al proprio interno le Schufos (Formazioni di difesa), veri e propri reparti scelti dotati di divise, la Reichsbanner inquadrò ben due milioni di aderenti. Quasi contemporaneamente presero corpo altre formazioni di matrice comunista come la Rfkb (“Lega dei combattenti rossi di prima linea”), con decine di migliaia di militanti, i Rote Kampfer (Combattenti rossi) legati alla Kapd (l’altro partito comunista allora esistente), la Rote Ruhrarmee (Armata rossa della Ruhr). Dopo il 1929, a seguito della messa al bando della Rfkb, anche la Kampfbund gegen der faschismus (Lega di combattimento contro il fascismo) e l’Antifaschistische Aktion (Azione antifascista) furono sciolte. Nelle diverse campagne elettorali del 1932 la Germania assistette a picchi di violenze inauditi. La sinistra riuscì comunque a riconquistare piazze e strade. Ma proprio in quella estate - quando il neo cancelliere Franz von Papen, prendendo a pretesto gli scontri nel bastione rosso di Altona dove si contarono 18 morti nel conflitto tra nazisti, polizia e antifascisti, destituì il governo socialdemocratico di Prussia - la mancata resistenza dei vertici della Spd aprì le porte alla convinzione che la repubblica potesse essere abbattuta. Le divisioni della sinistra e l’inazione condannarono all’impotenza le milizie popolari. Forse la storia non sarebbe cambiata, ma il nazismo trovò comunque da allora la strada spianata. Da queste esperienze, ignorate dalla storiografia ufficiale, il recupero odierno da parte dei giovani antifascisti europei di sigle e simboli, uno per tutti, quello dell’Antifaschistische Aktion, con le bandiere sovrapposte. Vecchie e nuove Antifa. Una storia da conoscere in tempi tornati difficili.

Saverio Ferrari

Osservatorio Democratico sulle nuove destre

Mario Portanova, Giampiero Rossi, Franco Stefanoni - Mafia a Milano, 60 anni di mafia e delitti - Melampo editore

Un racconto organico e completo. La stagione dei sequestri di persona, la finanza nera di Sindona e Calvi, l’arresto di Liggio, i colletti bianchi del narcotraffico in affari con lo “stalliere” di Berlusconi, i quartieri di periferia controllati e militarizzati. Nel nuovo millennio, complice il silenzio che li circonda, i clan trapiantati a Milano e dintorni si sono riorganizzati e rafforzati.


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Ebrei d’Africa, storia morta e sepolta TESTIMONI RACCONTANO LE ATROCITÀ INFLITTE DAGLI ITALIANI

Le tracce dei delitti fascisti nei cimiteri dei lager Questo testo (con le foto) è ripreso da Diario del mese del 26 / 12 / 2007

N

TESTO E FOTO DI

ERIC SALERNO

ella valle delle Comunità scomparse, un angolo appartato del memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme, una gelida parete di cemento bianco ricorda le comunità ebraiche africane nel loro insieme, i nomi dei Paesi che le ospitavano fino a qualche anno fa, elencati in ordine alfabetico. È un’addizione relativamente recente al complesso dedicato alle vittime dell’Olocausto. Non ci può essere paragone tra quello che accadde alle comunità ebraiche in Nord Africa – Marocco, Algeria, Tunisia e Libia – e lo scempio compiuto in Europa. I nazisti non ebbero tempo sufficiente per completare la loro opera di distruzione, per allargarla come avrebbero voluto, ma dall’analisi dei documenti emersi dopo la guerra da decine di archivi e dalle testimonianze orali dei sopravvissuti risulta chiaramente la loro volontà di andare avanti, non soltanto in Europa ma anche altrove. Nel 1979 pubblicai Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (1911-1931), frutto di una ricerca negli archivi italiani e sul campo, in Libia. È emerso un quadro nero della storia italiana: esecuzioni sommarie, bombardamenti con gas (le nostre “armi di distruzione di massa”) della popolazione civile in Cirenaica, campi di concentramento dai quali uscì viva una percentuale spaventosamente bassa degli internati. Il “problema ebraico” in Cirenaica Negli ultimi anni, durante la mia lunga permanenza in Israele come corrispondente, nel corso di altri viaggi in Libia e parlando in Italia con molti esuli, sono riuscito a ricostruire un altro episodio della storia coloniale e fascista italiana. Questi sono alcuni dei documenti rintracciati, testimonianze raccolte e pagine di appunti di viaggio. Faranno parte di un altro volume sulle atrocità italiane che cominciarono con l’introduzione delle leggi razziali anche in Libia.

Il 12 maggio 1942, il console tedesco a Tripoli, Walter, scriveva all’ambasciata tedesca a Roma per raccontare in poche parole gli sviluppi della situazione in Libia dove infuriava la guerra e il fronte sulle rive del Mediterraneo, dalla Sirte all’Egitto con Bengasi al centro, andava avanti e indietro. Un tormento sanguinoso, quel fronte che si spostava agitandosi come un ventaglio, lasciando a ogni passaggio invece di un soffio d’aria fresca, morti e feriti e prigionieri. Gli inglesi erano riusciti ad arrivare a Bengasi e una parte della popolazione rimasta nella città in riva al Mediterraneo nonostante le bombe e la paura aveva gioito. Non tanto i musulmani, abituati a vedere eserciti stranieri andare e venire, e non certo gli italiani bloccati nella capitale della Cirenaica, ma una parte degli ebrei libici. Alcuni avevano saputo da viaggiatori venuti dall’Europa, dalle poche lettere recapitate con difficoltà, quello che stava accadendo nel vecchio continente. E, poi, con i britannici combatteva la brigata ebraica, le truppe della Palestina, ebrei come loro, sionisti come molti di loro erano o stavano diventando. La loro felicità, però, durò poco. Il 3 aprile 1941 Bengasi venne rioccupata dagli italiani. Il pendolo si era brusca-

mente spostato. E quattro mesi dopo, sbarcò l’Afrika Korps al comando di Rommel “volpe del deserto”, lo chiamavano, ma i suoi panzer, la sua brillante tecnica poco ortodossa non furono sufficienti per bloccare l’operazione Crusader, la nuova spinta degli Alleati, e a capodanno la linea del confronto era tornata ancora una volta a el Agheila. Si sarebbe spostata ancora. Quella del console era una nota informativa come tante altre, che conferma la collaborazione tra nazisti e fascisti non soltanto in campo strettamente militare. «Dopo la ritirata degli inglesi abbiamo affrontato per la prima volta il problema ebraico, anzitutto in Cirenaica. Come è stato riferito nel precedente resoconto, è stato deciso dopo la ritirata degli inglesi dalla Cirenaica, che in seno all’accordo sui nativi, bisognerebbe concentrare tutti gli ebrei residenti della Cirenaica in un campo di concentramento in Tripolitania. Questa decisione è stata presa dopo l’annullamento del piano di trasferimento di questi ebrei in Italia». Pochi giorni più tardi, il 19 maggio, con un’altra nota il console volle precisare gli intenti suoi, del suo governo e del regime fascista: «La soluzione per gli ebrei in Tripolitania è assai più difficile. Anzitutto


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Il testimone. Questo anziano signore di Giado ricorda bene gli ebrei rinchiusi nel campo e i rapporti con gli arabi e i berberi. Nella pagina a sinistra, ciò che resta del cimitero ebraico di Giado. Ogni giorno si scavava per seppellire i morti. A decine.

sono più numerosi; in secondo luogo il loro potere economico è notevolmente maggiore. La concentrazione di questi ebrei potrebbe provocare una crisi economica creando una situazione intollerabile. Perciò abbiamo deciso per il momento d’evitare l’esecuzione del piano di trasferimento degli ebrei tripolitani in Italia… Comunque, non vi è dubbio che al momento giusto il problema degli ebrei verrà regolato anche in Tripolitania». Ricordi e fantasmi a Giado Ottobre 2004. Giado, sull’altipiano a sud di Tripoli. Il filo spinato che circondava il perimetro del campo è scomparso da tempo, un bulldozer giallo, incrostato di sabbia, stava demolendo gli ultimi edifici, mattoni e pareti rossi come la terra. Restavano ricordi e fantasmi, mi assicurava l’anziano libico che mi guidava nella mia prima visita. Khalifa Massoud Eidoudi, passo svelto, stretta di mano forte, voce sicura come la memoria, anno di nascita 1914, raccontava: «All’inizio li portarono dalla Cirenaica, li accusavano di tradimento, di complottare con gli inglesi contro gli italiani e i tedeschi, poi arrivarono anche altri arabi yehudi». Arabi ebrei, li chiama. «Non toccarono gli ebrei di qua, non quelli dei villaggi sul Gebel. Gente come noi. Vestiti come noi. Parlavano come noi. Vivevano come noi. Molti ebrei della Cirenaica, però, furono mandati proprio nei villaggi dei dintorni, nelle caserme vicine alle altre comunità ebraiche, perché il campo di Giado non bastava a contenerli tutti. E forse c’erano anche altri motivi. Forse la gente, pagando qualcosa ai fascisti o a qualche capo degli ebrei, riusciva a evitare il campo e a farsi mandare presso altri ebrei. Non sono sicuro. Non ero qui, in quei mesi. Combattevo con gli italiani. Mio fratello fu ucciso a Sidi Barani. Io fui fatto prigioniero e rimasi quattro anni in un

Gli ebrei libici accolsero con entusiasmo Mussolini quando visitò Bengasi. Per loro si aprirono dopo le porte del campo di concentramento di Giado dove in seicento morirono. Altri furono deportati in Italia o in Germania campo degli inglesi al Cairo. Quando sono tornato a casa, qui a Giado, gli ebrei non c’erano più. Le loro tracce erano rimaste giusto nel camposanto. Tombe fresche, la terra spostata la si riconosce dal colore, tante». Dovevano essere stati terribili quei lunghi mesi nel campo e non soltanto dal punto di vista materiale, delle condizioni di vita, delle malattie, delle angherie che comunque poco avevano a confronto con quello che negli stessi anni e negli stessi mesi stava succedendo nei campi allestiti dai nazisti in Europa. L’impatto psicologico per i più colti e abbienti degli ebrei trascinati fuori dalle loro case in Cirenaica e trasportati come bestiame sul Gebel doveva essere stato, invece, altrettanto pesante. Questi ebrei libici, che avevano guardato all’Italia come loro seconda, poi prima patria, che avevano imparato e insegnato l’italiano ai loro figli, che avevano tanto contribuito all’impresa coloniale, sposandola, che avevano in gran parte aderito al fascismo con lo stesso impegno di una parte della comunità ebraica italiana, si sentirono improvvisamente traditi. Quando Mussolini, il Duce, visitò Bengasi e una parte dell’hara, il ghetto, di Tripoli e anche Barce, fu accolto con ghirlande di

fiori, con metri e metri di tappeti e stoffe pregiate distese nelle vie, con bambini e bambine inneggianti e plaudenti. Dalla Comunità di Tripoli, il leader dell’Italia fascista ebbe in dono una chanukkia d’oro massiccio. «A Benito Mussolini gli ebrei di Tripoli con profonda riconoscenza e devozione», era scritto sul tradizionale candelabro. Ho trovato negli archivi della comunità ebraica francese una lettera mandata a Parigi da quella tripolina per descrivere, con toni trionfalistici la visita di Mussolini e la sua accoglienza. Ma è sufficiente leggere quanto pubblicato su Israel, giornale della comunità, per capire quanto il rapporto con il Duce era considerato importante. «È opinione anche di personalità dello stesso seguito del Duce che l’accoglienza fatta dagli ebrei di Tripoli sia una fra le più importanti tributategli in questo trionfale viaggio nell’Africa italiana, il cui ricordo rimarrà vivo nella memoria della nostra popolazione. Tutti hanno avuto la sensazione che non solo una nuova era, ma una nuova storia incomincia per queste terre e per tutti i suoi abitanti, senza distinzione di razza e di religione. Alla nuova epoca di lavoro, di pace e di valorizzazione verrà impresso un ritmo ancora più celere e più intenso e gli ebrei della Libia contribuiranno con il loro ingegno e la loro attività a tale opera di civiltà e di progresso ed all’affermazione dell’Impero d’Italia nel Mediterraneo e nel mondo». Chi s’ammalava era morto Moshe Saban è nato a Bengasi nel 1930. Aveva dodici anni quando fu portato a Giado con i genitori dalla capitale della Cirenaica. Molte delle sue parole assomigliano a quelle di altri intervistati. Il viaggio da Bengasi, il tormento di quelle lunghe giornata di viaggio. Ricordi di allora ma anche memorie ricostruite negli anni successivi quando, come è normale, ci si scambia le esperienze con gli altri coetanei sopravvissuti e si cerca di dare un senso a ciò che affiora dal passato. Come vi tenevate puliti nel campo? «Era terribile. È così che ci siamo ammalati, tutte quelle infezioni e il tifo. Ricordo di essermi tolto la maglietta e di aver visto le cimici, grandi la metà di una zanzara, che strisciavano sul mio corpo. La sera, verso le 19 quando cominciava a scendere il buio, eravamo costretti ad addormentarci. L’ufficiale entrava con una frusta e guai a chi continuava a parlare o faceva altri rumori. “Asini”, “cani”, gridava, sbraiCONTINUA A PAGINA 16


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il fi fioore del partigiano Coltiva la Memoria abbonati al Fiore

Ordinò a tutti i soldati e guardiani di lasciare il campo immediatamente, di lasciarci stare, di non ucciderci. tava, in italiano. Bestemmiava. Andava da una ba- Ma non se ne andarono subito. Gli ufficiali del campo racca all’altra per controllare chi aveva la febbre e erano molto frustrati per come stavano andando le portava i malati in ospedale. Chi lasciava la famiglia cose e ci ordinarono di spazzare il campo. Rav Gezin, e andava in ospedale sapeva che non sarebbe mai più uno dei rabbini, fu costretto a spazzare per terra con tornato». la sua barba. Credetemi, pulimmo per terra e ci guarPerché? Cosa succedeva? davamo negli occhi per convincerci che eravamo ani stanno pro«Non venivano curati. Le loro vite erano finite». cora vivi». vando in tutti Hai visto i morti, i corpi trascinati via dall’ospedale? Quello che restava del campo di Giado (dopo la i modi ad ucci«Certo». guerra, le baracche sono state utilizzate per una dere la cultura, Cosa facevano con i corpi? scuola per insegnanti) è stato completamente demola dignità del «C’era una montagna dove dicevano che una volta, lito. Al suo posto, di fronte a una vecchia fortezza lavoro, il futuro tanti anni prima, c’era un cimitero ebraico. Qualcuno turca e poi italiana, si è allargato il mercato e il poper i giovani, ha spaccato e spostato le pietre. Ha trovato il cada- steggio delle auto, nell’attesa, forse, di costruire qualla stessa idea di vere di un ebreo con la barba e i tallit (è l’indumento cosa di moderno. democrazia. indossato per la preghiera, L’unico ricordo di quanto acnda), e così cominciarono a cadde sul Gebel in quegli anni Non vorrai mica seppellire i morti, nuovi, i nodi guerra è il cimitero, un valdargliela vinta? stri, nella stessa zona. Li seplone anonimo dove le tombe Fagli un dispetto pellivano praticamente nella sono coperte da pietre e sterpi che ti migliorerà roccia, la terra non era sabe, dopo la stagione invernale l’umore: iscriviti biosa, eravamo sulla montadelle piogge, fiori gialli e viola. all’ANPI e gna e la montagna era Duemilaseicento ebrei, più o sostieni questo rocciosa, sassosa. Non era fameno, furono internati a foglio con un cile scavare le fosse. La gente Giado e di questi quasi seiabbonamento. lavorava un giorno intero e cento morirono per maltrattaCon soli 5 euro alla fine riusciva a seppellire menti, malattie, tifo e febbre ti garantirai la dieci corpi. Dieci in un solo tifoidea, fame. Uomini, donne lettura dei 3 nugiorno, e la storia andava e tanti bambini dei cui nomi, meri annuali e ofavanti così, giorno dopo però, non esiste un elenco. frirai alla nostra giorno». Non furono le uniche vittime CRIMINI COLONIALI. Situata sui associazione un Chi lo faceva, chi scavava, chi dell’Olocausto in terra libica. monti del Gebel Nefusa, Giado ospitò, seppelliva i morti? Cinquecento, ebrei libici, prezioso sostegno tra il 1942 e il 1943 il lager italiano «Volontari». gente con passaporto anche e uno stimolo con il maggior numero di vittime Dal campo? britannico venuta nei secoli a proseguire «Certo, lo facevamo noi. Lo faprecedenti da Gibilterra e, il suo impegno. ceva chiunque fosse in grado dunque, considerati nemici Puoi scegliere di farlo. Chi non era malato, chi era ancora in forze». dal regime fascista e “merce di scambio” dai suoi altra la formula leati nazisti, furono deportati in altri campi in Italia cartacea o video Il momento per uccidere (Civitella del Tronto e Bagno) e in seguito a Bergen(formato pdf); E Ofek, altro testimone, spiega con toni più dramma- Belsen e Biberach in Germania e un campo a Inoppure, con la tici. Quei momenti gli sono rimasti nella memoria, nsbruck in Austria. Non tutti tornarono. Herzl formula “sosteniogni particolare, e non nasconde la sua rabbia: «Una Regginino, per nominarne uno soltanto, aveva otto tore”, l’abbinata ventina di giorni prima della vittoria britannica, assi- anni all’epoca. Fu tra gli ebrei libici con passaporto di entrambi i forstemmo a una giornata nera. Io ero in piedi in cima britannico spediti a Bergen-Belsen. Ricorda il giorno mati, al prezzo alla collina dell’ospedale nel campo e vidi molti ebrei in cui fu ucciso suo fratello. Era inverno, la tempera(minimo) di 8 raccolti intorno alla bandiera. Chiesi al comandante tura sottozero.«I guardiani del campo lo spogliarono euro. cosa stava succedendo e, con un tono tranquillo, nudo e lo bagnarono con secchiate d’acqua. Morì concome se fosse una sciocchezza, mi disse che sarebbe gelato». Richiedi l’abbostata una brutta giornata per noi. Aveva ricevuto l’or- Per troppi anni queste storie sono rimaste sepolte namento presso dine di ucciderci tutti. Gli chiesi dei 480 malati in negli archivi e nella memoria di chi, per pudore o perle sedi ANPI della ospedale, tanti ce n’erano in quel momento, e disse ché scoraggiato, le aveva accantonate. All’epoca del Zona Martesana, che tutti sarebbero stati fatti scendere nello scanti- processo Eichman, una richiesta di inserire nell’atto o scrivendo a nato e bruciati. Cominciai a tremare. Sparati, bru- d’accusa anche le sofferenze degli ebrei nordafricani fiorepartigiano@ ciati! Abbiamo detto le nostre preghiere. Lasciai la fu respinta e soltanto negli ultimi anni i figli dei sogmail.com collina e vidi un poliziotto tirare a rav Yosef Gezen. Il pravvissuti hanno cominciato a parlare. poliziotto aveva trascinato il rabbino Yosef, che era avvolto nel suo tallit. E lo stava trascinando verso il centro del campo. Gridava: «Questo è il momento per uccidere. Non per pregare». Masse di ebrei stavano lì a piangere. Gli agenti di polizia, i soldati, stavano sui PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA tetti con sguardi satanici sui loro volti. Erano pronti ZONA DELLA MARTESANA a ucciderci tutti, uomini, donne e bambini. PregaRedazione: presso la sede della Sezione Quintino Di Vona di Inzago (MI) in Via vano, si aspettavano di morire da un momento all’alPiola, 10 (Centro culturale De André) tro. È difficile per me discutere di questi momenti. In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Dalle otto alle undici siamo rimasti sotto il cielo, afDirettore responsabile: Rocco Ornaghi famati, assetati e aspettavamo la morte…aspettavamo Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) la telefonata di conferma dal comandante militare. Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf) Alle undici in punto il telefonò squillò. Eravamo salvi. SEGUE DA PAGINA 15

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