Il Fiore del Partigiano - gennaio 2012

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GENNAIO 2012

ANNO 3 NUMERO 1

TESTIMONIANZE: “IO, EX BAMBINO DELLE ELEMENTARI”

Quel giorno delle leggi sulla razza

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Palazzo dei Pio di Carpi: affreschi sulle pareti del Museo al Deportato (FOTO

GIANCARLO VILLA)

Scritte sui muri della Sinagoga di Kowel Nel settembre 1942 quelli dei 10 mila ebrei abitanti a Kowel, in Volinia (Polonia), che non erano ancora stati massacrati, furono presi dai tedeschi e rinchiusi nella sinagoga. Vi furono lasciati diversi giorni senza cibo né acqua. Un certo numero di loro, presi a piccoli gruppi, furono fatti uscire e fucilati. Poi la sinagoga fu data alle fiamme. Sopravvisse solo una donna che impazzi. Sui ruderi della sinagoga furono ritrovati estremi messaggi, in yiddish, alcuni dei quali scritti con il sangue.

e porte si aprono. Eccoli, i nostri assassini. Vestiti di nero. Sulle loro mani L sporche portano guanti bianchi. A due a due ci cacciano dalla sinagoga. Le mani alzate sulle nostre teste. Care sorelle e fratelli come è duro dire addio per sempre alla vita cosí bella. E quelli che restano in vita non dimenticate mai la nostra innocente piccola via ebraica. Sorelle e fratelli vendicatevi sui nostri assassini. Ester Srul (uccisa il 15.9.1942)

dal Corriere della Sera del 12 novembre 1998, Lettere al Direttore

aro Direttore,le scrive un ex bambino di otto anni che, in un lontano venerdì 11 novembre 1938, divenne improvvisamente uomo.Era il giorno in cui il “Corriere della Sera” pubblicò in prima pagina un lungo articolo che spiegava come “Le Leggi per la difesa della razza” fossero state approvate dal Consiglio dei Ministri. Da quel giorno noi ebrei eravamo “altro e peggio” rispetto a tutti gli altri cittadini Italiani. Le leggi, quelle cose da rispettare: ce lo insegnavano a noi bambini. Ma allora, perché mio padre e mia madre che erano due persone per bene e rispettose delle leggi quella sera si sono chiusi in camera e hanno parlottato tra loro con quel tono così malinconico? Io non sapevo che da quel giorno gli ebrei “non possono prestare servizio militare, non possono esercitare l’ufficio di tutore, non possono essere proprietari di aziende interessanti per la difesa nazionale, non possono essere proprietari di terreni e fabbricati, non possono avere domestici ariani, devono essere espulsi dall’Italia se non sono cittadini italiani, non possono sposarsi con un cattolico/a italiano/a, non possono accedere agli impieghi statali, parastatali, di interesse pubblico, e nelle scuole...” Nelle scuole, nella mia scuola, io che avevo otto anni e avevo fatto la seconda elementare e avevo vinto il Primo Premio Per Profitto, mi sono sentito dire: non vale perché́ tu sei ebreo. E io mi sono sentito scippato, mi sono sentito vittima di un’ingiustizia. Un’ingiustizia stabilita per legge. Sono passati sessant’anni, e in un mercatino delle cose usate ho trovato una copia del “Corriere della sera” di quel giorno. E, quel giorno, m’è̀ tornato in mente. Mia madre mi disse: sei ebreo. Sei ebreo significava, non per mia madre naturalmente, ma per il popolo italiano, per la CONTINUA A PAGINA 2


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Ricordare, capire che il delitto di Auschwitz è anche nostro

ANCHE QUEST’ANNO MOLTE INIZIATIVE SI RIVOLGONO AI RAGAZZI DELLE SCUOLE

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l 27 gennaio è il “Giorno della Memoria” istituito proprio nel giorno della liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Si invita ognuno di noi a guardare in faccia il peggiore evento del secolo appena trascorso, un male che ha attraversato e segnato l’Europa con la Shoah: discriminazione, persecuzione, deportazione, spoliazione e distruzione dei cittadini ebrei di ogni Paese dominato dal nazismo e dai governi di ispirazione nazista e fascista. Per riflettere su un simile delitto e sulla sua inconcepibile assurdità, nel mezzo di paesi colti, evoluti e industriali, occorre ricordare le leggi razziali, l’antisemitismo e le sue fonti anche colte e religiose, l’ambientazione culturale che lo hanno reso possibile, accolto e tollerato nella sua meticolosa organizzazione. Siamo richiamati a ricordare una tragedia che non è di un solo Paese, ma di quasi tutti i Paesi d’Europa che hanno tutti una data per il “Giorno della Memoria”. È bene non dimenticare che la Shoah è anche un delitto italiano. La parte italiana di quel delitto - nel progetto, nelle leggi, nei propositi organizzativi del regime fascista mandante di quel delitto - è una parte molto grande. È il contributo politico, istituzionale, burocratico, ma soprattutto morale, di un grande Paese allo sterminio di un popolo. A cominciare dai cittadini italiani ebrei, messi a disposizione della macchina tedesca dello sterminio dopo essere stati privati di ogni diritto. Memoria, qui vuol dire sapere e ricordare quanto silenzio, quanto opportunismo, quante misere convenienze personali (strappare una cattedra, occupare un appartamento) hanno reso possibile la parte del delitto. Vuol dire anche però, ricordare e celebrare coloro che hanno rifiutato di partecipare al delitto, che si sono opposti, che hanno dato e rischiato la vita, anche tra le fila di coloro che per finzione o militanza, avrebbero dovuto essere persecutori. Il “Giorno della Memoria”, è dedicato alle vittime della Shoah e delle deportazioni, dei militari e dei politici che non si sono piegati. Sapere, riflettere, pensare, ricordare è dovere di tutti. È tributo ai giusti che si sono opposti e hanno impedito in tal modo che leggi e comportamenti folli - oltre che vergognosi contagiassero tutto il Paese, la sua imma-

gine, la sua storia. È anche l’occasione per capire che se una società perseguita una sua propria componente, o peggio ancora ne progetta scientificamente lo sterminio, è una società ammalata e che questo suo stato di malattia finirà per colpire, prima o poi, inevitabilmente, anche altre componenti della società stessa. “Ricordare”, significa pertanto riprendere in considerazione eventi passati per capirne le cause, per verificare se esse sopravvivono nella nostra società odierna, per ipotizzare infine una nostra comune azione, qui e oggi, perché questo passato non debba più ripetersi. Per non ricadere nel passato bisogna spingere all’azione le istituzioni e l’opinione pubblica di fronte ai sempre più frequenti atti di razzismo culminati nei due casi emblematici del 10 dicembre 2011 a Torino, dove un raid razzista ha messo a ferro e fuoco un campo rom, incendiato come vendetta per un stupro inventato da una sedicenne, e del 13 dicembre 2011 a Firenze, dove un razzista di estrema destra ha sparato all’impazzata contro dei senegalesi, ne ha ucciso 2 e feriti altri prima di suicidarsi. L’ANPI propone per Marzo un incontro sull’inasprimento del razzismo in Italia.

ANPI di Bellinzago Lombardo (tratto da articoli di F. Colombo e A. Luzzato)

A fine gennaio l’Assemblea annuale della Sezione di Cassano d’Adda

Sabato 21 gennaio 2012, dalle ore 15 alle 19,presso Casa Berva in via Verdi, 26 si terrà l’ASSEMBLEA ANNUALE della sezione Bonifacio Colognesi di Cassano d’Adda. Il programma prevede: • Proiezione del film “I fratelli Cervi” (ingresso libero) • Relazione del presidente sull’attività 2011 e programma per il 2012 • Bilancio e tesseramento • Dibattito • Rinnovo del direttivo di sezione e dei revisori dei conti • Conclusioni di un compagno del Consiglio Provinciale Al termine dei lavori ci sarà un aperitivo, accompagnato dai canti partigiani del coro “Note di libertà”

Anche quest’anno le Sezioni Anpi della nostra Zona organizzano appuntamenti intorno alla data del 27 gennaio.

CASSANO D’ADDA

Dal 23 al 28 Gennaio iniziative per le scuole • Proiezioni del filmato “La breve vita di Anna Frank” - scuole elementari • proiezioni del filmato “Il treno per Auschwitz” - scuole medie

Dal 26 al 29 Gennaio - Casa Berva, via Giuseppe Verdi 26 • mostra di pittura di Giuseppe Caruso “Le aquile non volano a stormi” Sabato 28 gennaio ore 18,00 presentazione della mostra Domenica 29 Gennaio ore 16,30 – Auditorium Villa Borromeo, via Dante 13 • rappresentazione teatrale “Stucke pezzi invisibili” della Compagnia Le Fenicie Teatro all’interno della rassegna teatrale Tagadà

Tutta la cittadinanza è invitata a partecipare. Organizzano: ANPI, ANPC, ACLI, ARCI, Circolo del Popolo, Emergency. Con il patrocinio della città di Cassano d’Adda Assessorato alla Cultura.

INZAGO

Mostra fotografica ma... non solo presso la sede dell’Anpi da lunedì 23 a sabato 28 gennaio dalle ore 9.30 alle ore 11.30 e dalle ore 15.00 alle ore 17.00 Per la giornata della memoria “In musica” incontri con gli studenti dell’Istituto Bellisario a cura del gruppo corale “Pane e Guerra”

SEGUE DA PAGINA 1 legge del popolo italiano, sei diverso, inferiore, sei un nemico. E il mio Premio, conquistato a scuola, che era un libro di quelli che se li apri si alzano le figure in cartoncino dei personaggi, non l’ho mai ricevuto. E alla scuola con i miei amici non ci potevo più andare. La mattina, noi ebrei di otto anni, non potevamo andare a scuola perché rischiavamo di contaminare, con la nostra presenza gli (ariani?) italiani. Ma io ero italiano e lo sono e sono contento e orgoglioso di esserlo. Fatto sta che dall’11 novembre in avanti vado a scuola al pomeriggio. I miei compagni di classe sono tutti ebrei. Gli insegnanti anche: professori universitari mandati a fare i maestri delle elementari. Per me è stata una fortuna. Come è stata una fortuna che ci fosse gente come la signora Zucconi,


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GENNAIO 2012 FOTO DI IVO CEREA

Anno nuovo sede nuova La Sezione inzaghese ha iniziato l’anno potendo contare finalmente su di una nuova sede, più ampia e accogliente. Il locale ha ospitato, alla vigilia delle scorse feste natalizie, un brindisi d’inaugurazione

Rafforzare l’antifascismo e il futuro della democrazia

Con questo slogan l’Anpi di Inzago lancia la campagna per il tesseramento 2012. Per tutto il mese di gennaio l’Anpi vuole ribadire il proprio ruolo e cioè, un punto di riferimento ancora più forte e ampio per tutti coloro che intendono assumere un impegno di responsabilità per il paese e per dire “NO” a chi sta togliendo dignità all'Italia e speranza in un futuro migliore ai cittadini. Ci troverete presso la nostra sede in via Piola, 10 (Centro De André) il martedì, dalle 15 alle 17 il sabato, dalle 10 alle 11,30. Sez. Quintino Di Vona Inzago

quella del terzo piano, che diceva a suo figlio: Luciano, l’ebreo, è tuo amico, tutto il resto non conta. E, intanto, gli intellettuali stavano zitti. Facevano finta di non sapere: è da lì̀ che comincia il luogo comune per cui le leggi razziali in Italia erano una buffonata, nel senso che c’erano ma nessuno le rispettava. E, invece, le rispettavano, eccome: per esempio, i miei genitori persero i diritti civili, compreso quello al lavoro. E finimmo tutti sul lastrico. Ci era vietato anche possedere una radio e quando, a otto anni, sentivo quella dei miei amici ascoltavo o capivo cose di questo tipo: gli ebrei sono una razza di maleducati e prevaricatori, lo dicevano i gerarchi e anche il “democratico” Bottai. Era il ‘38: il Reich tedesco annetteva l’Austria, in Spagna falliva l’ultima offensiva dei repubblicani, Hitler otteneva dalla Conferenza di Monaco il ter-

ritorio cecoslovacco dei Sudeti, in Germania si scatenava la “notte dei lunghi coltelli”. E io, un bambino che due anni prima era un “figlio della lupa”, non capivo perché improvvisamente ero diventato un figlio del Male, un ebreo “maleducato e prevaricatore”. Non capivo perché se andavo in vacanza a Chiavari venivo cacciato perché quella era zona di importanza strategica e militare e io, ebreo, non potevo stare lì. Poi c'è̀ stata la guerra e gli ebrei erano costretti a fare le pulizie delle strade tra le risate dei passanti. Poi è arrivato l’8 settembre e gli ebrei li portavano via e non tornavano più. Io sono ancora qui perché́ qualcuno avvisò mio padre: stasera, tu e la tua famiglia non tornate a casa, c'è̀ un camion pronto per venirvi a prendere. Noi siamo scappati in un altro posto e io vedevo nella vil-

letta di fronte al nostro rifugio gli ufficiali nazisti con le loro divise e li guardavo in silenzio. Invece il mio amico Italo (Italo, lo avevano chiamato così i genitori ebrei: per amore dell’Italia in cui vivevano e di cui si sentivano parte) quel giorno è tornato a casa e lo hanno preso e lo hanno portato via e non è mai più tornato. Se scrivo è perché, sessant’anni dopo, le leggi razziali non sono più nemmeno un ricordo, sembrano cancellate dalla memoria di noi italiani. Ebbene, questo ex bambino di otto anni vi chiede: fermatevi un momento a pensarci, ditelo ai vostri bambini di otto anni che cosa è successo davvero quella volta. Non succederà più, d’accordo, ma, forse, è meglio sapere lo stesso come sono andate le cose. Luciano Consigli 68 anni, architetto - Milano


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Il lager italiano e il museo testimoni dell’orrore

A FOSSOLI E GATTATICO, SUI LUOGHI DELLA MEMORIA CON LA SEZIONE DI CASSANO

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omenica 16 ottobre siamo partiti molto presto per quella che già dall’inizio, e in tutti i sensi, prometteva di essere una bella giornata. La prima meta che abbiamo raggiunto è stata la cittadina di Fossoli vicino a Carpi e in provincia di Modena, dove abbiamo visitato i resti di quel che è stato uno dei più grandi campi di concentramento di ebrei e prigionieri politici, prima di essere deportati verso i lager del Reich. Qui ci hanno accolto due bravissimi ricercatori della Fondazione Ex Campo di Fossoli che ci hanno guidato all’interno del campo, spiegandoci come era organizzato e raccontandoci anche alcune delle testimonianze che loro stessi stanno raccogliendo fra i superstiti che ancora sono in vita. Il campo era in origine costituito da due aree, il campo vecchio e il campo nuovo; purtroppo oggi le uniche strutture ancora visibili sono quelle del campo nuovo, anche perché negli anni il campo è stato utilizzato in diversi modi e quindi in parte modificato. Dal 1947 al 1952 viene usato da Don Zeno Saltini che vi insedia la comunità di Nomadelfia, per bambini abbandonati e orfani di guerra; dal 1954 al 1970 ospita una comunità di profughi giuliano–dalmati provenienti dai territori dell’Istria passati sotto il controllo della Repubblica Jugoslava. Infine, nel 1984 l’Amministrazione di Carpi ottiene a titolo gratuito dallo Stato Italiano l’area dell’ex Campo di Fossoli; nel 1996 si istituisce la

Fondazione Ex Campo di Fossoli, che dal 2001 ha messo in atto un lavoro di recupero, mantenimento e conservazione del sito storico. Dopo aver visitato la ricostruzione di una delle baracche del settore ebrei, siamo ripartiti alla volta di Carpi e in particolare del Museo al Deportato. Prima di entrare nel Museo che si trova a piano terra del Palazzo dei Pio, nel centro della cittadina, le nostre bravissime guide ci hanno raccontato la nascita di questo Museo, nel 1973 progettato dallo studio di architetti BBPR (Bel-

LE FOTO SONO DI GIANCARLO VILLA

gioioso, Banfi, Peressutti e Rogers), alcuni di loro deportati in lager tedeschi, in collaborazione con Renato Guttuso e Giuseppe Lanzani. La visita si sviluppa attraverso 13 sale, dove luci muri ed elementi grafici hanno creato attorno a noi una atmosfera molto particolare di grande impatto emotivo. Le pareti delle sale sono ricoperte da frasi incise, che ci hanno accompagnato lungo tutto il percorso e costituiscono la principale testimonianza del Museo. Sono brani scelti da Nelo Risi dalle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea. Le pareti di alcune sale sono anche decorate da bellissimi ed intensi graffiti eseguiti su bozzetti di grandi pittori, Cagli, Guttuso, Léger, Longoni, Picasso, mentre le teche contengono pochi reperti e fotografie che documentano la vita dei prigionieri nei campi. L’ultima sala ha le pareti e le volte completamente ricoperte dai nomi di 15.000 cittadini italiani deportati nei lager. Il percorso finisce nel Cortile delle Stele: 16 monoliti in cemento, alti sei metri su cui sono incisi i nomi dei più tristemente famosi


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VOCI D’AUTORE

Ultima rima. Per i grandi

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A destra e qui sopra, la delegazione cassanese in visita al campo di Fossoli. A sinistra, in basso, il Cortile delle Stele del Palazzo dei Pio e un particolare degli affreschi del Museo del Deportato. Sotto, i ritratti dei fratelli Cervi nella casa-museo a Gattatico.

campi di concentramento nazisti. Dopo esserci rifocillati, siamo ripartiti verso la seconda meta della nostra gita, la Casa Museo dei Fratelli Cervi a Gattatico (RE). Anche qui siamo stati accolti da due guide che ci hanno accompagnato dentro la casa e dentro la vita contadina della famiglia Cervi. Una famiglia profondamente legata alla terra ed ai principi patriarcali, ma con una visione moderna, basata sullo studio e l’innovazione, di come dovesse evolvere l’agricoltura e di quelli che erano e sono i diritti delle persone (e in cui ha avuto un ruolo fondamentale la madre).

Da questo humus è nata anche la scelta antifascista e partigiana che ne ha fatto una famiglia contadina esemplare. Molto emozionante è stato entrare nelle stanze della casa, dove sono perfettamente conservati i mobili e gli oggetti della vita quotidiana e contadina di allora; così come emozionante è stato ascoltare i racconti e gli aneddoti riguardanti tutta la famiglia Cervi e vedere nelle fotografie i volti dei sette fratelli uccisi dai fascisti, dei loro compagni di lotta, delle sorelle, della madre e del padre Alcide. La bella giornata è finita con il ritorno a casa, ma le emozioni che abbiamo provato e le storie che abbiamo ascoltato rimarranno come un ricordo indelebile che continuerà a farci riflettere. Marilena Ripamonti

Direttivo ANPI di Cassano

BRUNO TOGNOLINI

Scongiuro contro il nazismo futuro Gli abbiamo detto che la rabbia non è bene Bisogna vincerla, bisogna fare pace Ma che essere cattivi poi conviene Più si grida, più si offende e più si piace Gli abbiamo detto che bisogna andare a scuola E che la scuola com’è non serve a niente Gli abbiamo detto che la legge è una sola Ma che le scappatoie sono tante Gli abbiamo detto che tutto è intorno a loro La vita è adesso, basta allungar la mano Gli abbiamo detto che non c’è più lavoro E quella mano la allungheranno invano Gli abbiamo detto che se hai un capo griffato Puoi baciare maschi e femmine a piacere Gli abbiamo detto che se non sei sposato Ci son diritti di cui non puoi godere Gli abbiamo detto che l’aria è avvelenata Perché tutti vanno in macchina al lavoro Ma che la società sarà salvata Se compreranno macchine anche loro Gli abbiamo detto tutto, hanno capito tutto Che il nostro mondo è splendido Che il loro mondo è brutto Bene: non c’è bisogno di indovini Per sapere che arriverà il futuro Speriamo che la rabbia dei bambini Non ci presenti un conto troppo duro

da RIME DI RABBIA di Bruno Tognolini, Salani Editore - www.brunotognolini.com


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ANCHE INZAGO VIDE ALCUNE SCRITTE MURALI VOLUTE DAL REGIME

La propaganda del fascismo

T

DI

LUCIANO GORLA

utti sappiamo quanto sia importante oggi la pubblicità, per incrementare le vendite e lanciare sul mercato prodotti nuovi. Per lo più diffusa attraverso gli audiovisivi, la pubblicità è quasi un’arte, oggetto di studi e ricerche. Anche una volta, quando la radio era poco diffusa e la televisione era di là da venire, si faceva pubblicità; o meglio propaganda o réclame, per usare termini più consoni al passato. I veicoli principali della pubblicità di allora erano la carta stampata ed i cartelloni posti ai lati delle strade di grande comunicazione, per altro ancora oggi ampiamente utilizzati. Anche il fascismo seppe sfruttare abilmente le potenzialità della propaganda, al fine di promuovere la fascistizzazione della popolazione e soprattutto per calare nell’immaginario degli italiani la figura carismatica del suo fondatore, Benito Mussolini: il capo indiscusso di tale movimento politico che, fondato a Milano nel 1919 con il nome di Fasci Italiani di Combattimento, si costituì poi in Partito Nazionale Fascista e dopo il delitto Matteotti si trasformò in regime.

La stampa fascista era sempre attentissima a riferire cronache, discorsi e pubblicare fotografie del capo del Governo. Gli obiettivi delle cineprese erano sempre puntati su di lui per riprendere e consegnare alla storia le immagini di un personaggio ammaliante che appariva sempre sicuro di sé; soprattutto quando si mostrava e parlava in pubblico o durante le cerimonie e le parate militari, dove la scenografia e la coreografia del regime ne amplificavano l’effetto propagandistico. Benito Mussolini, infatti, tenne sempre in grande considerazione la cinematografia che definì: “L’arma più forte”. Quelle immagini documentarie dell’Istituto Luce, che abbiamo più volte visto nelle trasmissioni storiche televisive, erano proiettate come cinegiornali e commentate da voci stentoree che s’imponevano, nelle sale cinematografiche, all’attenzione degli spettatori. I primi cinegiornali, non ancora sonorizzati, furono realizzati già nel 1927 e dal 1931 al 1943 ne furono prodotti quasi duemila. Ma i cinegiornali non arrivavano ovunque nell’Italia fascista dei primi tempi. Ecco, quindi, che il regime seppe introdurre un altro efficace mezzo di propa-

I motti di Mussolini, riportati a caratteri cubitali sui muri volevano stimolare negli italiani il consenso ad un regime smanioso di grandezza ganda che interessò anche i luoghi abitati più remoti della nazione: le scritte murali. Si trattava di scritte a caratteri cubitali, realizzate con lettere nere su fondo bianco, allo scopo di darne la massima visibilità, che listarono gli edifici delle vie, delle piazze e delle contrade rurali d’Italia. Vi erano riprodotte le frasi più incisive pronunciate da Mussolini, tese ad istillare negli italiani la fede fascista che avrebbe dovuto rigenerare, forgiare e galvanizzare l’azione di un popolo nuovo. Anche ad Inzago, per direttiva del regime, furono realizzate tali scritte di propaganda. Scritte che resistettero a lungo; anche quando, dopo la caduta del fascismo, la fine della Seconda Guerra Mondiale ed il ritorno alla democrazia, si provvide prontamente alla loro cancellazione. Il colore nero delle lettere, quasi indelebile, tendeva però a riemergere e queste, benché sbiadite, resistettero a lungo; tanto che nei primi anni del dopoguerra alcune loro tracce erano ancora identificabili. Tali scritte

Una delle scritte murali tra le più diffuse dal regime fascista (fotografata in Lunigiana)

furono ubicate sulla facciata del palazzo comunale, dove si leggeva: “Le culle sono vuote e la nazione invecchia - La pace della nazione riposa sulle forze armate”. In Piazza Maggiore (all’epoca piazza Vittorio Emanuele II) sul muro di un edificio d’angolo con Via Marchesi, una scritta richiamava l’importante ruolo che Roma fascista avrebbe nuovamente conquistato. Una scritta dello stesso tenore era ubicata in Via Adolfo Fumagalli. Mentre all’ingresso del paese, provenendo da Villa Fornaci, vale a dire in Via Cavour, un’altra scritta recitava: “Il fascismo trova nel passato e nel presente le energie per balzare verso il futuro”. Erano appariscenti messaggi di propaganda miranti a stimolare ed incrementare il consenso al regime. Un regime che, come la storia ha dimostrato, soffocò la libertà e cancellò la democrazia, basata sulla pluralità politica, perseguitò i dissidenti ed asfissiò la vita degli italiani. Un regime smanioso di grandezza che dopo “la conquista dell’Impero” (1936) e l’introduzione delle leggi razziali (1938), si alleò con la Germania nazista (1939); trascinando l’Italia in una drammatica guerra mondiale che causò alla nazione lutti e rovine. Una guerra nella quale soffrirono e morirono anche molti giovanissimi: cioè quelle persone che soltanto qualche anno prima avevano occupato le culle che il fascismo voleva non restassero mai vuote.


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CRIMINI NAZISTI, ALL’AJA INIZIATO IL PROCESSO PER I RISARCIMENTI Sul tema dei processi per le stragi e le deportazioni naziste pubblichiamo tre interventi. Cominciamo con l’intervista concessa al manifesto (3/9/2011) dall’avvocato Lau, difensore di deportati italiani e greci. Nelle pagine seguenti, l’appello dell’Associazione familiari vittime delle stragi nazifasciste e le considerazioni di un giudice militare che su questi casi ha lavorato.

N DI

GUIDO AMBROSINO

el dicembre 2008 la Germania ha citato in giudizio l’Italia davanti alla corte internazionale di giustizia dell’Aja, con la complicità del governo Berlusconi, che dichiarò “utile” un chiarimento giuridico in quella sede. Oggetto del contendere le sentenze italiane che condannano la Germania a risarcire sia i familiari delle vittime delle stragi commesse in Italia da soldati tedeschi tra il 1943 e il 1945, sia il lavoro coatto estorto ai deportati e agli internati militari, e che inoltre autorizzano le vittime greche della strage di Distomo a rivalersi su beni te-

sovrana immunità

Alla Corte di giustizia si discute se i tribunali italiani e greci hanno il diritto di chiedere il risarcimento per le vittime delle stragi e delle deportazioni naziste. Per Angela Merkel la sovranità viene prima degli orrori. Parla l’avvocato Joachim Lau, che difende i deportati

deschi in Italia. Per il governo Merkel queste sentenze violerebbero il diritto della Germania, come stato sovrano, a non essere giudicata da tribunali stranieri. Per la corte di Cassazione italiana, invece, l’immunità giurisdizionale degli stati cessa di fronte a gravi crimini di guerra e a violazioni dei diritti umani. La causa, in cui anche la Grecia ha chiesto di intervenire, è cominciata ieri all’Aja. La sentenza è attesa entro la fine dell’anno. La decisione non riguarderà solo i risarcimenti per le vittime dei crimini nazisti, ma anche la possibilità per le vittime delle guerre attuali e future di citare in giudizio per danni gli stati che le praticano. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Joachim Lau, giurista tedesco con studio a Firenze, che difende da anni vittime italiane e greche dei crimini nazisti. È stato Lau, con le sue battaglie anche in Cassazione, a ottenere le sentenze che fanno disperare il governo tedesco. Come si è arrivati al ricorso della Germania alla corte dell’Aja? Col trattato di Londra nel 1953 sui debiti pregressi della Germania, la Repubblica federale tedesca aveva promesso di regolare dopo la riunificazione i danni per i crimini commessi dal Reich nei paesi occupati durante la guerra. Ottenne così un rinvio. Richieste di cittadini stranieri danneggiati venivano respinte fino al 1990 dai tribunali tedeschi, con riferimento a questi accordi, come «infondate nella situazione attuale». Dopo la riunificazione ci sono stati diversi tentativi di far riconoscere dai tribunali tedeschi l’obbligo risarcitorio della Bundesrepublik, come responsabile sul piano del diritto civile. Questi tentativi sono tutti falliti, perché ora si sosteneva – disattendendo precise disposizioni – che i diritti al risarcimento sarebbero nel frattempo caduti in prescrizione, o comunque non avrebbero potuto essere fatti valere nei confronti dello stato tedesco, in mancanza di accordi di reciprocità con gli stati dei querelanti. Perciò le persone danneggiate si sono rivolte a tribunali greci e italiani, sebbene la Germania si ritenga immune dalla loro giurisdizione. Su questa pretesa immunità dovrà ora decidere la corte dell’Aja.

Maria Padiska, che nella strage del 1944 a Distomo perse la madre, fotografata quattro mesi dopo l’eccidio per Life da Dmitri Kessel. A pagina 8, Nordhausen (Germania): i corpi di 3000 operai coatti di un lager nazista (foto Jahn Florea)

Come hanno reagito i tribunali greci e italiani alle obiezioni della Bundesrepublik? Nel 2000 il supremo tribunale civile greco si ocCONTINUA A PAGINA 8


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COMUNICATO STAMPA DELL’ASSOCIAZIONE VITTIME ECCIDI NAZIFASCISTI

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Sui processi alle stragi naziste il Governo italiano si pronunci Marzabotto, 30 dicembre 2011

Associazione Familiari ha appreso dell’emanazione del Decreto Legge 29 dicembre 2011, n. 216 definito “Milleproroghe”, che all’Art. 7 ha prorogato i termini fino al 31 dicembre 2012, disposti dal decreto 63/2010, recante disposizioni urgenti in tema di immunità di Stati esteri dalla giurisdizione italiana e di elezioni degli organismi rappresentativi degli italiani all’estero. Entrando nel merito, il Decreto n° 63/2010 disponeva la sospensione dell’efficacia dei titoli esecutivi nei confronti di Stati esteri o di organizzazioni internazionali nel caso in cui sia pendente un giudizio innanzi alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, diretto all’accertamento dell’immunità dalla giurisdizione italiana. Tale giudizio deve avere ad oggetto controversie connesse ai titoli esecutivi. È da ricordare che la nuova disposizione, già entrata in vigore in data 29 aprile 2010, ha avuto un’immediata ricaduta sul noto contenzioso italo-tedesco. Allo stato è infatti pendente presso la Corte Internazionale dell'Aja un ricorso tedesco che contesta all’Italia di aver violato i suoi obblighi verso la Germania in base al diritto internazionale, dal momento

SEGUE DA PAGINA 7 cupò delle richieste dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime della strage di Distomo, un villaggio dove nel giugno 1944 le SS uccisero 218 persone. Quel tribunale respinse le obiezioni di immunità della Rft, sostenendo che lo stato straniero, violando gravemente i diritti umani, avrebbe tacitamente rinunciato ai propri diritti di immunità sul piano del diritto internazionale. E dispose un risarcimento di circa 28 milioni di euro. Tuttavia la sentenza non poté essere eseguita in Grecia, perché il governo di Atene, sottoposto a pressioni tedesche, non concesse l’autorizzazione politica richiesta dalla normativa greca. In seguito una corte speciale, appositamente costituita, ha ristabilito l’immunità della Germania dalla giurisdizione ellenica. Le vittime greche mi diedero allora mandato di eseguire in Italia la sentenza di Distomo, perché secondo una sentenza della corte costituzionale italiana – si trattava del disastro provocato da un pilota americano che col suo aereo aveva tranciato i cavi della funivia del Cermis – richieste di risarcimento nei confronti di uno stato estero non devono essere autorizzate dal governo italiano. Quanto alle richieste di risarcimento di cittadini italiani, nel 2004 anche la corte di cassazione, decidendo nel caso del mio mandante Luigi Ferrini deportato al lavoro coatto in Germania nel 1944, negò il diritto della Bundesrepublik a valersi dell’immunità statale. La corte sostenne che, altrimenti, non sarebbe stato possibile garantire sul piano del diritto internazionale la

che la magistratura italiana ivi inclusa la Corte di Cassazione, ha sinora negato la sussistenza dell’immunità giurisdizionale procedendo a emettere i titoli esecutivi nei confronti dello Stato tedesco. Ad oggi la Corte Internazionale dell’Aja, non ha ancora emesso la sentenza relativa a questo ricorso e non ci sono previsioni certe sui tempi di emissione. La nostra Associazione fa appello al nostro Governo perché si possa aprire un confronto su questo tema che coinvolge lo Stato Tedesco, ma che non può lasciare lo Stato Italiano ai margini, visto che è dall’occultamento dei fascicoli nel “Armadio della Vergogna” e dalla negazione della giustizia per una “Ragione di Stato” che anche oggi, si emette una proroga che sospende un diritto già sancito dalle sentenze emesse. La nostra Associazione ricorda che il 17 aprile 2002 il Presidente della Repubblica Federale Tedesca Johannes Rau a San Martino di Caprara, insieme al nostro Presidente Carlo Azeglio Ciampi, nell’incontrare i Familiari, pronunciò le seguenti parole: “L’egoismo nazionale doveva essere sostituito dalla cooperazione. Questa visione è diventata realtà. Possiamo essere grati e affermare con gioia che i nostri due Paesi hanno apportato un grande contributo e continuano

ad apportarlo per costruire la nuova Europa. Vi ringrazio per aver fatto diventare Marzabotto un luogo che non divide Italiani e Tedeschi. Quello che successe qui fa parte della nostra storia comune ed è l’impegno per un futuro comune”. È con questo auspicio che chiediamo al Nostro Governo, di confrontarsi con le Associazioni familiari degli eccidi nazifascisti compiute negli anni 1944-1945, per riaffermare il diritto a veder riconosciuto i danni dell’occultamento dei fascicoli di indagine. Associazione vittime eccidi nazifascisti

tutela da gravi violazioni dei diritti umani. Secondo la cassazione, tutti i tribunali di ogni stato sono tenuti a perseguire questi crimini, e ciò contempla anche la condanna degli stati responsabili a risarcimenti di diritto civile. In seguito il tribunale di Firenze dispose per Ferrini un risarcimento di 30mila euro. Quante sentenze sono state nel frattempo pronunciate contro la Germania e quante sono ancora pendenti? A sette anni dalla decisione della cassazione che sottopone la Germania alla giurisdizione dei tribunali italiani per i suoi crimini di guerra, credo che pendano più di 200 cause. Finora sono state pronunciate una decina di sentenze di condanna a risarcimenti, sia per i massacri ai danni della popolazione civile – il primo caso fu la sentenza del 2006 per la strage nazista di Civitella, con più di 200 vittime – sia per le deportazioni e il lavoro coatto, a cominciare dal caso di Luigi Ferrini. Ma di regola nelle prime istanze i tribunali italiani tendono a respingere le richieste di risarcimento per la deportazione e il lavoro coatto, considerandole prescritte. Il governo tedesco, invece di rispettare i patti internazionali che lo impegnerebbero a negoziare con i governi greco e italiano il risarcimento di questi danni, ha preferito rivolgersi alla corte dell’Aja. Certo anche in ragione della sua dominanza economica, ha “convinto” il governo Berlusconi a dichiararsi d’accordo con la richiesta di un “chiarimento”, davanti alla corte internazionale di giustizia, della questione giuri-

Grizzana, Marzabotto, Monzuno

dica dell’immunità della Germania dalla giurisdizione dei tribunali italiani. Senza questo assenso del governo italiano, il procedimento all’Aja non avrebbe potuto essere aperto, perché sulla questione dei risarcimenti, compresa la competenza della giustizia ordinaria dei singoli paesi, la competenza spetta esclusivamente a un collegio arbitrale, previsto dall’articolo 28 dell’accordo di Londra sui debiti della Germania. Come ha reagito il governo italiano nel vedersi citato in giudizio dalla Germania? Berlusconi, Frattini e Alfano, con un decreto convertito in legge nel giugno 2010, hanno sospeso l’esecuzione in Italia di sentenze contro la Germania fino al 31 dicembre 2011, termine entro il quale si aspetta una decisione della corte dell’Aja. Non è stato così finora possibile risarcire le vittime di Distomo, che pure avevano già ottenuto l’iscrizione di un’ipoteca giudiziale sulla sede del centro studi italo-tedesco di Villa Vigoni, a Menaggio sul lago di Como, e il pignoramento dei crediti delle ferrovie tedesche presso Trenitalia, crediti connessi alla vendita i biglietti su tratte internazionali. Questa leggina non ha tuttavia trattenuto i tribunali militari, che giudicano sulle stragi nazifasciste, dal continuare a condannare il governo tedesco, come responsabile sul piano del diritto civile, a risarcimenti per i crimini della Wehrmacht. È avvenuto ancora il 6 luglio scorso al tribunale militare di Verona, per i massacri commessi dalla divisione Hermann Göring a Monchio, Cervarolo, Vallucciole e in altri paesi dell’Appennino.


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Voci dall’armadio senza vergogna A QUANDO I RISARCIMENTI DALLA GERMANIA PER GLI ECCIDI NAZIFASCISTI IN ITALIA?

U

na persona nata nel 1960, l’anno dell’inaccettabile “provvisoria archiviazione degli atti”a firma del procuratore generale militare Enrico Santacroce, potrebbe essere nipote di uno degli italiani assassinati dal 1943 al 1945. Una persona nata nel 1994, quando gli atti vengono faticosamente rimessi in moto, potrebbe essere figlia di quella nata nel 1960. Oggi i nati nel 1994 stanno diventando maggiorenni. Molti di quei processi sono finiti, ma altri pendono in dibattimento, o sono in fase d’indagine. Dal 1994 la magistratura militare, che quasi sempre ha giurisdizione su questi casi, ha fatto parecchio ma non ha ancora fatto tutto, malgrado la tenacia di alcuni. Chi tratta questi processi sfoglia carte farinose, foto sgranate, documenti in varie lingue. Vede testimoni sprofondati nella vecchiaia ridestarsi a un nome, donne sciogliersi in pianto, ricordi emergere con la timidezza di un ruscello e poi la forza di un diluvio. Chi scende in questi abissi e ne riporta un segno, non è uguale a chi ne torna indifferente, e in questo la memoria, la giustizia e quella cosa senza nome che sta fra l’una e l’altra sono iniziazioni e armi. E sia chiaro, uniscono ma dividono. Dentro la questione degli eccidi, l’identità italiana sta in modo lacerante. Alle parole “Ardeatine” o “Stazzema”, capita di ascoltare risposte riduzioniste o giustificazioniste, sul genere delle mancanze italiane, della debolezza, del tradimento italiano, come se per la costruzione identitaria fosse affiAl di là dei risarcimenti per le vittime del nazionalsocialismo, che conseguenze potrà avere il pronunciamento dell’Aja? La questione dell’immunità degli stati assume un’enorme importanza nella attuale fase di tensioni economiche e sociali. La crisi globale del capitalismo è accompagnata in misura crescente, a livello internazionale e anche all’interno di alcuni stati, da massicci interventi militari, nel cui ambito si verificano sistematicamente uccisioni, torture, sequestri di persona, insomma gravi violazioni dei diritti umani, eufemisticamente definite “danni collaterali”. La responsabilità penale internazionale degli autori di questi crimini, ora regolamentata dal diritto internazionale, ha tuttavia solo una limitata efficacia preventiva. Un forte potere deterrente potrebbe avere invece l’attuazione del principio della responsabilità civile degli stati, come previsto dall’articolo 8 della dichiarazione universale dei diritti umani. Ma un ripristino della dottrina tradizionale dell’immunità degli stati, ora invocato dalla Germania, vanificherebbe questo deterrente. Ripristinare l’immunità degli stati anche in presenza di gravi violazioni dei diritti umani, come vorrebbe il governo Merkel, è il linea di principio un obiettivo contrario al diritto, anacronistico e reazionario. Ma le considerazioni che inducono a questa valutazione vengono tenute fuori dall’aula dell’Aja, perché le vittime greche e italiane della seconda guerra mondiale, così come le vittime delle guerre attuali, non hanno voce nel procedimento.

Si ha l’impressione che le sentenze dei tribunali italiani siano carte false. Ma la gratitudine di chi ascolta dopo tanti anni una condanna, pur senza esecuzione, dice tutt’altro, e merita rispetto

dato all’aggressore l’ordine del discorso. C’è ancora chi crede al diritto di rappresaglia, istituto giuridicamente inesistente, abito immaginario dell’omicidio vero. E a volte il comune sentire è fiacco, ma è saldo nelle comunità locali, specialmente nell’area fra il Lazio e l’Emilia-Romagna, dove il combattimento è stato più duro, e dove le culture appenniniche, lo notava Pasolini, resistono caparbie. Così, spesso i volti dei testimoni e dei familiari delle vittime sono toccanti, come le foto che accompagnano gli ex voto in qualche santuario fuori mano: c’è il richiamo di un’Italia profonda senza voce. Le tribù che restarono indietro hanno attraversato il deserto, e cercano di farsi intendere. Ma a conferma di una vocazione antipopolare, in sede politica si è trascurato di difendere le vittime, le famiglie, gli enti locali, e si è vista persino questa bruttura: un decreto legge italiano, il 63 del 2010, nell’interesse della Germania. Il bisogno di giustizia è rinfrescato dai processi. Paesi dove da sempre si mettono i fiori al monumento delle vittime, sono scossi dall’arrivo dell’autorità. Il contadino troppo malato per venire in udienza, ha sfogliato nel casolare le foto dei soldati tedeschi giunte dagli archivi, e l’ho sentito fremere: «È questo». Il pensionato che vide suo zio evirato, muti-

Se lei potesse intervenire nel dibattimento all’Aja, cosa direbbe ai giudici? Gli ricorderei innanzitutto che sin dal 1907, con la convenzione dell’Aja sulle leggi e gli usi della guerra terrestre, gli stati, Germania compresa, proibirono di «dichiarare abolite, sospese o inammissibili in una corte di giustizia i diritti e le richieste di cittadini del partito avverso» (articolo 23 H), nel nostro caso i cittadini dell’Italia e della Grecia occupate. Ed è proprio questo che il governo Merkel vorrebbe dalla corte dell’Aja: tornare indietro di più di cento anni. La Germania e l’Italia, con la convenzione di Ginevra del 1949 per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, hanno espressamente ribadito (articolo 154) la vigenza della convenzione del 1907 sulla guerra terrestre, confermando così che pure il suo articolo 23 H, che vieta di impedire l’accesso ai tribunali alle vittime civili delle guerre, continuava a valere, anche per il passato. Dunque lo stato tedesco non può non accettare le sentenze di risarcimento dei tribunali italiani, emesse dopo che i tribunali tedeschi si erano rifiutati di discutere le istanze dei ricorrenti. Né la Germania può obiettare che durante la guerra valevano altre regole. Le cause di risarcimento attualmente in discussione vanno decise secondo gli standard procedurali attuali. E non è colpa dei ricorrenti se di risarcimenti si discute ancora, a 66 anni dalla fine della guerra.

lato, accecato, l’ho sentito singhiozzare: «Tutta la vita mi hanno visto poche volte sorridere. La ragione era questa. Grazie». Dici grazie, cittadino? Faccio troppo poco per te. Questo bisogno strappato con dolore al non detto, la mancanza di un ristoro materiale lo ricaccia nel non fatto, creando sfiducia e insieme impegno, e nuove relazioni e narrazioni. E c’è il rischio che la vecchia inerzia, quella legata alla Guerra fredda, diventi inerzia nuova, legata alla pax debitoria e alla globalizzazione, mentre la Germania è o sembra essere il più forte dei paesi dell’euro. Il Patto d’acciaio prosegue nell’oro? La via per ottenere estradizioni e risarcimenti dalla Germania è in salita, e si ha l’impressione che le sentenze dei tribunali italiani siano carte false. Ma la gratitudine di chi ascolta dopo tanti anni una condanna, anche se non se ne vede l’esecuzione, dice tutt’altro, e merita rispetto. Forse qui giustizia e memoria si intrecciano, importanti eppure senza l’efficacia piena né dell’una né dell’altra. Il giudice parla il suo linguaggio ma si trasforma in uno storico, dà lezioni ma gli allievi sono parti del fatto, scrive cose che solo altri giudici possono cancellare, esamina ma non boccia né promuove. Il prodotto del suo lavoro slitta in un campo che non è il suo, però con una corazza di leggi. L’effetto è distorto, come se in un orologio un ingranaggio sdentato facesse spasimare una lancetta, senza riuscire a muoverla. Ruoli e limiti sfiorano l’impossibile. Antonio Parisella, direttore del Museo della Liberazione, in via Tasso a Roma, mi ha fatto una confidenza. Un mattino, nella penombra, apre quelle stanze che furono celle. Girando la chiave, un tuffo al cuore: sente che i prigionieri sono tutti lì, e il carceriere è lui. Un attimo che dice una vita, una vita che dice altre vite. I custodi della memoria esistono, ma non in senso negativo: i loro pesi sono tesori, e viceversa. Io, lavorando su eccidi terribili, ho sentito presenze robuste e sorprendentemente benigne; la notte, il sonno è stato pieno e profondo. Da un giudice ci si aspetta fredda ragione, è vero. A chi conviene? Il gioco delle parti esige logica e mente dalla giustizia, concede emozione e muscoli all’ingiustizia. Ma facendo così, il corpo sociale ha una testa reclinata a sinistra e un unico braccio, il destro. Crocifisso risparmiando un chiodo, questo corpo deforme può indossare solo abiti taroccati, e infatti i suoi sarti sono bugiardi, che hanno vetrine e le chiamano libri, che hanno botteghe e le chiamano televisione. La trappola della memoria non è molto diversa, e forse ha ragione Finkelstein: “Il concetto di memoria è il più impoverito fra quelli prodotti negli ultimi anni”. Ma qualcuno vuole più poveri gli italiani: hanno crediti antichi e nuovi, e si sentono dire che sono debitori e falliti. Luca Baiada Magistrato militare


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TIPOGRAFO E ATTIVISTA, FIERO ANTIFASCISTA, SEMPRE SCHIERATO DALLA

Rolando Motta comunista “di carattere”

Rolando Motta, persona davvero speciale, era per noi del “Fiore” molto più che il nostro bravo stampatore: era “uno dei nostri”. Lo vogliamo qui ricordare per mezzo della penna di uno dei suoi più cari amici.

centinaia di Consigli di fabbrica si riunirono e produssero materiale di controinformazione. Tra questi, un volantone, nel quale un operaio sindacalizzato e sgamato spiegava a un collega un poco tonto le ragioni della protesta. Di quel singolare dialogo Rolando stampò diecimila copie, che andarono a ruba nella Bassa. Alcuni Consigli milanesi ne vollero una ristampa e stavolta DI FRANCESCO CATTANEO ne furono stampate cinquantamila copie. Un vero best seller on è ancora possibile della controinformazione opemisurare la gravità della raia! scomparsa di Rolando La faccenda colpì e divertì Motta nel panorama sociale, molto Rolando, che seguì tutta politico e anche economico del la vicenda degli autoconvocati territorio a est di Milano fino fino alla grande manifestaall’Adda. Uso una determinazione nazionale del 24 febbraio zione geografica così ampia 1984, a Roma, dove comparnon a caso: Rolando era un vero altri diecimila volantini di punto di riferimento per moltecontroinformazione stampati plici esperienze, da Milano al da Rolando. Posso dire che Lodigiano, all’area melzese. E senza la sua attività, il suo forse dimentico qualcosa. stampare a prezzi di favore, da Intendo punto di riferimento in vero militante, quella fase di una accezione molto ampia. La lotta nei nostri territori sua attività comprendeva l’iniavrebbe trovato non poche difziativa imprenditoriale della tificoltà a reggere e diffondersi. pografia, ma anche la militanza Rolando ebbe in sommo grado nell’Anpi, la presenza critica, il pallino, il genio dell’imprenvivacissima nella vita di Trucditore, cioè di colui che vede le cazzano. Soprattutto, di Ropotenzialità di sviluppo econolando era importante lo spirito Rolando, in un ritratto disegnato da un suo amico mico in ogni intrapresa. Se pocritico: anima inquieta, non si tenziò relativamente tardi la accomodava mai nella tranquillità dell’organizzazione politica (partito o della cultura nell’emancipazione sociale. sua azienda, fu semplicemente perché gruppo che fosse). Esercitava sempre un Per questo ha fatto in modo che ambedue aveva delle resistenze ideologiche, umanadiritto sacrosanto, che una volta era quello i figli, Luca e Giampaolo, studiassero e stu- mente comprensibili. Ma è stata assai più dei comunisti e dovrebbe oggi comunque diassero in buone scuole. Il più giovane, utile alla lotta sociale l’attività imprendiessere caratteristico di tutti coloro che si conformemente alle necessità dei tempi, in toriale di Rolando, che non tante iniziative partitiche o di propaganda. Intanto, perdicono di sinistra: ribellarsi davanti alle ambito internazionale. ingiustizie, schierarsi sempre in quella Ho conosciuto Rolando nel 1983, in occa- ché Rolando utilizzava parte delle risorse lotta perpetua che è la lotta di classe. Ro- sione del taglio dei punti di scala mobile per attività culturali e sociali dirette. E poi lando non credeva alle favolette belle che sul salario operaio, effettuato dal governo perché col suo lavoro ha permesso a tanti in questi ultimi trent’anni hanno cercato di Bettino Craxi. Allora Rolando aveva un strapelati giovani intellettuali di sinistra, a di convincerci che non ci sono più le classi, piccolo laboratorio, vicino al cimitero di tanti movimenti appena nati, a tante espeche ormai contano solo gli individui e via Truccazzano, due macchinette che con lui rienze debolucce finanziariamente di svollavoravano a tutto spiano. Erano sorti in gere una loro preziosa attività. E questo, cazzeggiando. Rolando sapeva bene, per esperienza per- quei mesi, per protestare contro il decreto Rolando e con lui il figlio Luca, vero e sonale, che invece proprio in questi de- del governo Craxi, numerosi coordina- degno erede, lo facevano senza porre vincenni lo scontro tra sfruttati e sfruttatori menti di consigli di fabbrica, che si erano coli di linea, di schieramento e nemmeno non è mai stato così accanito, soprattutto organizzati autonomamente, i cosiddetti economici. Il movimento dei precari, i picda una parte sola, quella dei capitalisti. “autoconvocati”. Nel Lodigiano e nel Cre- coli e micro editori, gli scrittori border Non era andato oltre la scuola dell’obbligo, masco (allora sindacalmente uniti) questo line, le sezioni dell’Anpi, le cooperative e ma conosceva bene l’importanza strategica movimento fu particolarmente rilevante: le case del popolo quanto devono alla di-

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il fi fioore del partigiano PARTE DEGLI OPPRESSI sponibilità fattiva e al contributo di idee e tecnico della Bianca & Volta, la tipografia di Rolando e Luca Motta? Rolando peraltro era militante politico di lungo corso. Anzitutto era antifascista, di un antifascismo inflessibile e radicale, che non concedeva nulla all’avversario mortale del movimento operaio. Per esperienza famigliare, del padre e del nonno, conosceva bene la tracotanza del fascismo, la sua pericolosità, soprattutto la sua permanenza nella società italiana, nonostante la sconfitta militare, grazie alle complicità dei governi del dopoguerra che si rifiutarono di fare fino in fondo i conti con coloro che si erano gravemente compromessi con la dittatura. Negli anni Settanta e Ottanta aveva avuto anche esperienze amministrative importanti a Truccazzano. Era stato assessore all’istruzione, con la collaborazione della moglie Ambra, maestra d’asilo, nella giunta Geppert. E prima ancora aveva partecipato alle dure, esemplari lotte dei lavoratori tipografi, come rappresentante sindacale. Lo so, quando si parla di una persona scomparsa, si tende sempre a vedere ogni bene, quasi in questo modo a santificare. Certo, per me Rolando è stato in qualche misura un santo laico, ma non nel senso del perbenismo ipocrita. Al contrario, per la forza e l’impeto che metteva nelle cose in cui credeva, di cui era convinto. Aveva avuto in questo un grande maestro, il padre Pietro, operaio comunista mai pentito, partigiano, antifascista sempre, in età avanzata anche combattente ecologista contro i criminali inquinamenti dell’Adda. Di tanto padre Rolando ha continuato tutte le battaglie, ha difeso tutte le aspirazioni ideali, modernizzandole negli strumenti e anche nei contenuti, mantenendo sempre il punto di vista di stare dalla parte degli sfruttati. Lascia un’eredità, Rolando, perché gli sfruttati ci sono ancora, perché gli sfruttatori ci sono ancora, in una misura molto maggiore di quella che ha conosciuto suo padre. Il quale aveva davanti i grandi proprietari terrieri, qualche grande azienda, vecchi e nuovi fascisti. Oggi Rolando e tutti noi abbiamo davanti una borghesia transnazionale, che controlla il mondo attraverso una ragnatela di comando finanziario, che avvolge noi cittadini del mondo sviluppato in una soffice dittatura, mentre tiene sotto il tallone di ferro di guerre continue popoli e continenti. Borghesia transnazionale che ci ha trascinato in una crisi economica senza precedenti, da cui non sa assolutamente come uscire. Ovunque sia, Rolando osserverà curioso, come è sempre stato, l’evolversi delle lotte. Non ce lo dirà, ma si aspetterà molto dai suoi compagni dell’Anpi, dei vari movimenti, del sindacato. Dobbiamo far di tutto per non deluderlo.

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La morte del ricco VOCI D’AUTORE

GIOVANNI PASCOLI (1878) DI

Ha il prete a lato, e il nembo urla di fuori: un sinedrio d’ombre incappucciate gli siede intorno: egli ode... – Accusatori, accusate, accusate! –

Sorge una donna: Egli mentì l’amore! Sorge un bimbo: Il mio nome ei mi negò! Sorge un villano: Io vuo’ strappargli il core, ché mi fece sudare e mi rubò! Un minator dice: Morii sotterra, pria che morto, sepolto. Un soldato: Ed io caddi ucciso in guerra, prima uccisor che ucciso, egli m’ha tolto

vita e innocenza. – E tu, spettro, che hai? – Fame – E tu? – Freddo – E tu? – Voglio odiarlo! che per lunghi anni io lavorai e non ebbi un minuto per amar! – Voi chi siete? – Signore, un assassino! – Voi? – Mio signore, un ladro! Ah, ma il delitto non s’ama, egli è un destino che nella fronte, esso che muor, ci ha scritto! – E tu perché l’abbranchi? – Ero fanciulla pura e bella; e son morta a l’ospedal!... – Tu perché fremi? – Ah! Ch’io morii nel nulla, iio ch’ero nato a vivere immortal!...

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Venga l’esecutor! Dubbio, t’avanza! Fissalo col tuo grande occhio sbarrato. Costui d’un’altra vita ha la speranza: che muoia disperato!

uesta poesia giovanile del Pascoli (scritta all’età di 22 anni) appartiene al periodo anarchico-socialista del poeta romagnolo. Amico di Andrea Costa (prima anarchico e poi deputato socialista) Pascoli scontò anche, nel 1879, tre mesi e mezzo di galera per aver manifestato sostegno ai dei condannati politici. Questa composizione ha quindi intenti propagandistici e educativi del popolo; non è una delle migliori poesie del Pascoli, ma sicuramente è una lirica che avvince il lettore per mezzo dell’artificio retorico del processo al ricco che, in punto di morte, con accanto il prete, vede come in un sogno le diverse figure dei suoi accusatori: la donna sedotta e il figlio non riconosciuto, il contadino smanioso di vendetta, il minatore sepolto prima che morto, il soldato caduto in guerra. Di fronte a tutte queste vittime c’è una sola maschera di sopraffazione: quella del ricco, rappresentativo di tutti i suoi simili. Addirittura, a un certo punto, il ricco viene posto sotto accusa dall’assassino e dal ladro, senza nessuna accusa specifica, ma solo per essere, con il suo comportamento impunito in vita, esempio da imitare in negativo. La serie degli accusatori si completa con le testimonianze di una “fanciulla” che, una volta “pura e bella”, finì la sua vita all’ospedale (vittima delle passioni del nostro imputato?) e del poeta stesso, deluso nei propri sogni di fama artistica: addirittura la fanciulla in un atto di rabbia “abbranca” il morente, mentre il poeta freme di sdegno. Alla fine del processo l’immaginario giudice chiama in campo l’esecutore della condanna, il dubbio, a cui si chiede di instillare timore e disperazione nell’animo del ricco circa l’esistenza della vita eterna (“Fissalo col tuo grande occhio sbarrato. Costui d’un’altra vita ha la speranza: che muoia disperato!”) versi feroci e di grande impatto che da soli valgono artisticamente la poesia, splendida chiusura del componimento. Questa poesia rappresenta l’evidenza di come sia possibile unire denuncia sociale e forma artistica compiuta; cose che, purtroppo, nel ‘900, andranno gradualmente disgiungendosi. Pietro Tagliabue


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CONVERSANDO CON MARISA RODANO, FONDATRICE E PRESIDENTE DELL’UDI

Ragazze, la vostra libertà nacque in quell’età di cui non c’è memoria da l’Unità del 13 aprile 2010

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DI

MARIA SERENA PALIERI

erché le ragazze italiane di oggi rifiutano l’eredità del femminismo? La domanda ce la facciamo in molte da un bel pezzo. Ma è la prima volta che ascoltiamo una risposta esauriente come questa che ci dà Marisa Rodano. «Primo - osserva - perché si sentono libere, da un lato, e, dall’altro, non sanno che la parità acquisita non è “naturale” ma ha richiesto battaglie durate decenni. Secondo, perché condividono “paritariamente” coi coetanei maschi il grande dramma di questi anni, la precarietà. Terzo, perché vivono, come tutti noi, in un’epoca segnata da un feroce individualismo.» Marisa Rodano, 89 anni da poco compiuti, può dirlo perché prima “c’era”. Memorie di una che c’era s’intitola il saggio in cui ricostruisce la storia dell’associazione di cui è stata nel ‘44-45 tra le fondatrici, l’Udi (Unione donne italiane), e che ha presieduto dal ‘56 al ‘60. Sono, i secondi Quaranta e soprattutto i Cinquanta e i primi Sessanta, gli anni, sotto questo aspetto, cruciali, ma anche più opachi e di cui si ha meno memoria... Perché l’idea su cui si reggono le appassionanti 276 pagine di questo libro è che in Italia la lotta per la libertà femminile non sia esplosa ex-novo alla fine degli anni ‘60, quando il “personale” diventò “politico”, come opinione comune oggi vuole, ma sia corsa lungo l’intera storia repubblicana, E che essa subisca oggi una totale rimozione. Oggi, le chiediamo, le trentenni non avrebbero un tema enorme per cui lottare, la maternità impossibile? «È come se non l’avvertissero. Forse perché il modello televisivo impone un’altra idea di sessualità, dove la molteplicità dei rapporti è preferibile a una relazione duratura. E in un quadro così la maternità perde importanza» replica. Pensando a queste stagioni viene in mente la parola “beffa”. Non è come se certe parole d’ordine di un tempo, per esempio “autodeterminazione”, ci tornassero indietro capovolte? «Io ho l’impressione che siamo sotto un contrattacco grave. Gran parte delle conquiste legislative oggi sono diventate diritti inesigibili. Se c’è il precariato, quanto vale il divieto di licenziamento per matrimonio? E se non hai copertura previdenziale, cosa

IL LIBRO

“Memorie di una che c’era” storia dell’Udi, ma non solo

Marisa Rodano (Roma, 1921), nella Resistenza romana e nel Partito della Sinistra Cristiana, poi nel Pci, è stata tra le fondatrici dell’Udi e sua presidente dal ‘56 al ‘60. Nel ‘63 è la prima donna vicepresidente della Camera. È stata senatrice e parlamentare europea. Ha raccontato la sua vita in “Del mutare dei tempi” (due volumi, Memori 2008). “Memorie di una che c’era. Una storia dell’Udi” (Il Saggiatore, pp. 284, € 19) è il suo nuovo libro appena pubblicato.

significa tutela della maternità?» ribatte. Memorie di una che c’era ci rinfresca la memoria. L’Udi nasce nel 1945, a Firenze, col primo congresso. Dietro c’erano i Gdd, Gruppi di difesa della donna nell’Italia occupata e, al meridione, l’impegno di migliaia di donne nei circoli sorti dopo la liberazione di Roma ad opera del Comitato di Iniziativa fondato dalle donne dei partiti del Cln. Nel ‘44-’46 quali furono i primi obiettivi? «Il diritto di votare e di essere elette, conseguenza dell’impegno femminile nella Resistenza: le donne erano state catapultate nella sfera pubblica. Chiedevamo il seguito.» Non era successo qualcosa di simile già nell’altra guerra, con le donne in fabbrica? «Allora erano state precettate. La partecipazione alla Resistenza invece era stata volontaria. E di massa. Dopo la prima guerra mondiale si era creato un movimento di femministe cattoliche e laiche, per chiedere il voto, ma era un’avanguardia minoritaria. Poi si insediò il regime fascista, che operò una totale cancellazione di quella esperienza.» Nel ‘45-46 qualcuno ancora si azzardava a dire che le italiane non dovevano votare? «I favorevoli erano i partiti nuovi, azionisti, Pci, Psi, Dc. Altrove allignava un’ostilità appena mascherata. Non osavano dire “no”, ma rimandavano alla Costituente. Ma un’Assemblea tutta di maschi cosa avrebbe deciso? Nel ‘45, tredici milioni di italiane erano casalinghe, il 10% firmava con la croce. Nel codice erano sanciti debito coniugale e delitto d’onore, il marito poteva vietare alla moglie di lavorare. C’erano donne nelle professioni. Ma era una cosa per ricchi. Io ho imparato allora,

per diretta esperienza, che quando i diritti dell’uomo si affermano, lì comincia la battaglia per i diritti delle donne.» La Chiesa? «Era per il sì. Pio XII nel discorso del 21 ottobre ‘45 dice chiaro, “Tua res agitur”. Perché pensava che le donne, praticanti, mentre gli uomini si erano distaccati dalla Chiesa, potessero operare a difesa della religione.» ... “Emancipazione” è stata una parola messa a processo poi dal femminismo. Per voi cosa significava? Le donne dovevano emanciparsi come avevano fatto gli schiavi? «Significava conquistare il diritto a lavoro, indipendenza economica, autodeterminazione. Uscire dalla schiavitù del destino servile, secondario, segnato per nascita.» Dopo il Sessantotto che aveva messo in discussione tutto lo status quo, famiglia e scuola, partiti e sindacato, le “figlie” - le neofemministe - si ribellarono appunto a queste “madri”. E nell’81 l’Udi, in quanto organizzazione di massa, si scioglie. «Noi abbiamo tardato a capire la novità del femminismo. Ma il femminismo ha sbagliato a ridurre la nostra battaglia per i diritti a una lotta per l’omologazione» commenta oggi Marisa Rodano. La storia continua così: i semi della Carta germinano, tutela della maternità, parità salariale, accesso alle carriere, tutela del lavoro a domicilio, lotta alle discriminazioni indirette, servizi sociali, standard urbanistici, diritto di famiglia, divorzio, aborto, violenza sessuale... C’è una parola che lega il movimento delle donne nel corso di tutto il Novecento, chiediamo? «Forse non solo una: libertà, ma anche diritti, parità, autodeterminazione.»


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RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA

Quegli strani insorti con il futuro alle spalle Matteo Speroni - Brigate nonni. I ribelli del tramonto - Cooper edit.

C’

da il manifesto del 30 dicembre scorso

era una volta la fantascienza come letteratura d’anticipazione: si prendevano elementi del presente e si seguivano nella loro possibile evoluzione fino ad arrivare a costruire un mondo futuro. Il nuovo universo, spesso, presentava caratteristiche oscure, negative, contro cui i protagonisti si trovavano a confrontarsi. Si pensi a tutte le storie ambientate dopo una catastrofe, spesso nucleare, o alle distopie come 1984 di George Orwell. Da un po’ di tempo qualcosa sembra cambiato. E se in passato si poteva parlare di futuri alternativi o possibili, oggi, forse, ha più senso parlare di presenti - o al massimo di futuri molto prossimi - alternativi o possibili. Insomma, è come se la metafora si fosse dislocata cronologicamente: non più in un tempo lontano, ma adesso, ora, nel nostro quotidiano. Tale procedimento ha preso l’avvio, probabilmente, nel campo del fumetto supereroistico, dove il meccanismo sembra essere più naturale in quanto tutto avviene in un universo contemporaneo al nostro ma “altro”. Si pensi, a tale proposito, a saghe come Terra di nessuno della DC o a Dark Reign della Marvel, dove, rispettivamente, la città di Batman viene abbandonata dal governo americano e isolata dal resto del paese e dove i villain prendono in pratica il potere negli Usa. La crisi delle economie occidentali, dell’Europa e in particolare dell’Italia non poteva non rappresentare un succulento spunto per costruire un romanzo sulle possibili e quasi immediate evoluzioni della situazione attuale. Nasce così il nuovo libro di Matteo Speroni,

Brigate nonni. I ribelli del tramonto (Cooper, pp. 256, euro 14), incentrato sulla storia di un gruppo rivoluzionario composto soprattutto da anziani, oltre che emarginati e migranti, che si trova ad operare, appunto, in futuro vicino, all’interno del nostro paese. Gli elementi di fondo della situazione presente ci sono praticamente tutti, seppur estremizzati: la crisi internazionale, il debito pubblico, il lavoro nero e precario, la corruzione e la dissolutezza della classe politica, le tendenze separatistiche, l’individualismo e l’egoismo esasperato. Solo che la bolla è esplosa. Non ci sono più neppure i soldi per pagare le pensioni, nonostante le cosiddette riforme attuate che avevano portato a tagli drastici con conseguente ulteriore impoverimento dei pensionati. Riforme che ricordano in maniera impressionante quelle attuate dal governo Monti. La catastrofe è tale che si arriva ad organizzare squadre paramilitari che hanno il compito di uccidere «il numero più alto possibile di neopensionati per abbattere il costo sociale della vecchiaia». Su questo sfondo - tra moti e rivolte, dichiarazioni regionali di indipendenza e creazione di spazi autogestiti all’interno delle città - si muovono i componenti della “Stella del Mattino”, la frangia milanese più importante delle Brigate Nonni, «il gruppo di rivoluzionari meglio organizzato, più numeroso ed esperto». Un pugno di persone guidato da Vincent, ex-tassista appassionato di semiotica. I nuovi anziani guerriglieri si muovono in una Milano dark, divisa in ghetti e suk, in vista della «grande operazione di primavera» che li vedrà tra i protagonisti principali e che dovrà rappresentare un grande balzo in avanti nella lotta che conducono da tempo, e che avrà un esito del tutto inaspettato. Loro contraltare la coppia di poliziotti for-

per la conoscenza e la discussione

Saverio Ferrari - Fascisti a Milano. Da Ordine nuovo a Cuore nero - Bff ediz.

È la storia milanese di quelli che Renato Sarti ha chiamato i “mai morti”. E che Saverio Ferrari, in Fascisti a Milano, da Ordine Nuovo a Cuore Nero, descrive come un mondo in cui nomi e gesta si ripetono nei decenni. È un sottobosco che oggi si muove tra locali bene e palestre di boxe, tra lamate ai compagni e pistolettate ai camerati infedeli, tra spaccio e vendita di armi. E che riemerge in modo carsico dai rivoli putrescenti della storia, infiltrandosi nella pieghe del potere (oggi Lega Nord o Pdl), agendo frazionato in squadracce, cooptando la malavita e scendendo a patti con le mafie.

mata dal capitano Franco Palude e dall’agente Chiambrotti, sbirri onesti, costretti ad operare tra i disastri causati dalla crisi - primo fra tutti la cronica mancanza di carburante per le auto di servizio - e sotto il comando di dirigenti corrotti e legati al potere. La narrazione si sviluppa seguendo le vicende di questi e pochi altri personaggi, offrendo, al contempo, un quadro incisivo degli eventi, delle motivazioni anche personali, della situazione generale. E, soprattutto, facendo emergere una critica davvero corrosiva ed impietosa non solo del potere, ma anche delle persone, di parte dei cittadini, quasi trasformati geneticamente, corrotti da decenni di sudditanza nei confronti dell’ideologia dominante, fondata su egoismo e ignoranza, su servilismo e prepotenza. Il tutto arricchito da una scrittura agile e veloce, in grado di cimentarsi col comico e col grottesco - esilarante in tal senso la progressiva trasformazione dei separatisti nordisti in Nostristi e poi in Ioisti, che «predicavano la totale guerresca violenta difesa dell’io, anche all’interno della famiglia» - ma capace anche di raccontare affetti e solidarietà in modo toccante senza mai scadere nel patetico o nel dolciastro. In grado, inoltre, di far emergere, con piccoli tocchi, l’anima più profonda di una città come Milano, rappresentata come ferita e umiliata ma, allo stesso tempo, come il centro nevralgico, il punto di coordinamento della ribellione in nome di un futuro diverso. Un futuro che, paradossalmente, sembra poter essere attuato proprio da quelli che letteralmente hanno meno futuro o non ce l’hanno affatto, in quanto già in cammino lungo il viale del tramonto, ma che proprio per questo «non avevano più nulla da perdere». Mauro Trotta

a cura di David Baldini - Il futuro della memoria - Valore Scuola La memoria non è solo un ricordo che si fissa in qualche parte della nostra mente. La memoria della nostra storia, soprattutto quella recente, è motivo di riflessione, di educazione, di ricerca. Non è un esercizio sterile, deve aiutarci a evitare nuove tragedie. Questo è un libro corale che racchiude studi, testimonianze, articoli, brani antologici: tutto quello che di più significativo è stato prodotto per le celebrazioni del “Giorno della Memoria” e non solo per quello. “No, non è una questione privata, non è nemmeno un fatto che riguarda soltanto gli ebrei. Auschwitz fa parte della storia europea. Pensandoci bene, probabilmente è l’avvenimento più europeo di tutta la storia del Novecento” (Anna Wieviorka).


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il fi fioore del partigiano

Ritorno a Tripoli “bel suol d’amore”

IN UN SECOLO MOLTO È CAMBIATO, MA NON I MECCANISMI DELLA CONQUISTA

A cent’anni dall’occupazione coloniale della Libia Da il manifesto del 5 ottobre 2011

I DI

MANLIO DINUCCI

l 5 ottobre 1911, dopo due giorni di bombardamento navale, il primo contingente italiano sbarcò a Tripoli, iniziando l’occupazione coloniale della Libia che, proseguita e rafforzata dal fascismo, sarebbe durata trent’anni. È una pagina storica definitivamente chiusa? Non c’è quindi alcuna analogia tra la prima guerra di Libia e quella attuale? Certo, in un secolo molte cose sono cambiate. Ma i meccanismi della guerra sono rimasti sostanzialmente gli stessi. Gli interessi dell’espansionismo Agli inizi del Novecento l’Italia, restata dopo la sconfitta di Adua (1896) una potenza coloniale di secondo piano con i possedimenti di Eritrea e Somalia, rilanciò la sua politica espansionista: obiettivo la conquista della Libia, parte dell’impero ottomano che si stava sgretolando. A spingere in questa direzione erano i circoli dominanti finanziari, industriali e agrari, che volevano penetrare in Nord Africa, e i fabbricanti di cannoni, che volevano una guerra per accrescere i loro profitti. La conquista iniziò con una aggressiva strategia economica, attuata dal governo attraverso il Banco di Roma, potente istituto finanziario legato ad ambienti vaticani e cattolici. Con grossi capitali e forti contributi governativi, esso cominciò nel 1907 a penetrare in Libia, aprendo succursali, banchi di pegno e agenzie commerciali. Mise le mani anche sull’agricoltura, acquistando terreni, impiantando una grande azienda presso Bengasi e un enorme mulino a Tripoli, e promosse ricerche minerarie. In tre anni realizzò un giro d’affari di oltre 240 milioni di lire. Ciò suscitò la crescente ostilità delle autorità turche. L’Italia rispose dichiarando guerra alla Turchia, nonostante la sua ampia disponibilità a fare concessioni. Oggi, per le élite economiche e finanziarie europee e statunitensi, la Libia è ancora più importante. Nello “scatolone di sabbia” vi sono le maggiori riserve petrolifere del-

Sete di profitti, intenti “umanitari” e “civilizzatori”, uno schiacciante dominio militare... Di nuovo c’è che lo “scatolone di sabbia” è ancora più cruciale. E che la Sinistra plaude l’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale; vi è l’immensa riserva di acqua della falda nubiana, in prospettiva più preziosa del petrolio. E la Libia è il paese che ha raggiunto in Africa il più alto livello di sviluppo economico, che ha grossi capitali investiti in molti paesi. Sulle sue risorse misero le mani soprattutto Gran Bretagna e Stati uniti, quando il paese ottenne l’indipendenza nel 1951 ma restò dipendente dal colonialismo che aveva assunto nuove forme. Condizione che terminò quando, nel 1969, gli “ufficiali liberi” di Muammar Gheddafi abolirono la monarchia di re Idris, strumento del dominio neocoloniale, e fondarono la repubblica, nazionalizzando le proprietà della British Petroleum e costringendo le compagnie petrolifere a versare allo stato libico quote molto più alte dei profitti. Ora, con la guerra, viene rimesso tutto in gioco.

Il delirio dell’opinione pubblica Un secolo fa, la guerra per l’occupazione della Libia fu preparata e accompagnata da una martellante propaganda, condotta da quasi tutti i maggiori quotidiani, soprattutto quelli cattolici legati al Banco di Roma. Si diffuse un vero e proprio delirio: nei café-chantant si cantava «Tripoli, bel suol d’amore ti giunga dolce questa mia canzone, sventoli il tricolor sulle tue torri al rombo del cannone». Motivo conduttore era che l’Italia, nazione civile, doveva liberare la Libia dal barbaro dominio turco, aprendo la strada al suo sviluppo politico ed economico. In realtà i libici avevano già conquistato molti diritti politici, che gli italiani abolirono quando occuparono il paese. Il Partito socialista, sopravvalutando la propria forza e non credendo Giolitti capace di gettare l’Italia in una avventura coloniale, rimase sostanzialmente immobile. Solo all’ultimo, sotto pressione dei circoli operai e giovanili, la direzione del Psi proclamò uno sciopero generale il 27 settembre 1911, raccomandando però che fosse “dignitoso e composto”. In realtà, già da tempo noti esponenti socialisti erano divenuti sostenitori del colonialismo. «Col mio socialismo - scriveva Giovanni Pascoli non contrasta l’aspirazione dell’espansione coloniale». E, iniziata la guerra per la conquista della Libia, annunciava che «la grande proletaria si è mossa» per dare lavoro ai suoi figli, per «contribuire all’umanamento e incivilimento dei popoli».


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il fi fioore del partigiano Oggi come ieri. A sinistra, il Generale Badoglio, distintosi in Libia nelle feroci repressioni per annientare i focolai di resistenza. Qui a lato, un caccia Tornado e recenti immagini di guerra

Una enunciazione ante litteram del concetto di “guerra umanitaria”, che oggi è alla base della martellante propaganda mediatica a sostegno dell’attacco alla Libia. La motivazione è ancora quella di liberare il popolo libico, in questo caso non dal barbaro dominio turco ma da quello del dittatore Gheddafi, per aprirgli la strada allo sviluppo politico ed economico con il contributo del lavoro italiano. E oggi, molto più che nel 1911, c’è una “sinistra” che appoggia la guerra. Con un segretario del Pd che sostiene: «L’articolo 11 della Costituzione ripudia la guerra come soluzione delle controversie internazionali, ma non certamente l’uso della forza per ragioni di giustizia». L’attacco e la resistenza La guerra del 1911 fu a lungo preparata, infiltrando agenti segreti in Libia con un duplice compito: raccogliere informazioni militari e reclutare capi arabi disponibili a collaborare. Deciso l’attacco, l’Italia usò la sua schiacciante superiorità militare: oltre 20 corazzate e altre navi da guerra bombardarono Tripoli senza subire alcun danno, dato che i loro cannoni avevano una gittata molto maggiore di quella dei vecchi cannoni a difesa della città. Fu usata anche l’aeronautica, che il 1° novembre in Libia effettuò il primo bombardamento della storia. Ma subito dopo l’inizio dello sbarco del corpo di spedizione, forte di 100mila uomini, scoppiò la rivolta popolare, e diversi soldati italiani furono mas-

sacrati. Gli italiani scateneranno una vera e propria caccia all’arabo: in tre giorni ne furono fucilati o impiccati circa 4.500, tra cui 400 donne e molti ragazzi. Migliaia furono deportati a Ustica e in altre isole, dove morirono quasi tutti di stenti e malattie. Iniziava così la storia della resistenza libica. Nel 1930, per ordine di Mussolini, vennero deportati dall’altopiano cirenaico circa 100mila abitanti, che furono rinchiusi in una quindicina di campi di concentramento lungo la costa. Per sterminare le popolazioni ribelli, furono impiegate dall’aeronautica anche bombe all’iprite, proibite dal recente Protocollo di Ginevra del 1925. La Libia fu per l’aeronautica di Mussolini ciò che Guernica fu in Spagna per la luftwaffe di Hitler: il terreno di prova delle armi e tecniche di guerra più micidiali. Nel 1931, per isolare i partigiani guidati da Omar al-Mukhtar, fu fatto costruire dal generale Graziani, sul confine tra Cirenaica ed Egitto, un reticolato di filo spinato largo alcuni metri e lungo 270 km, sorvegliato da aeroplani e pattuglie motorizzate. Omar al-Mukhtar venne catturato e impiccato il 16 settembre 1931, all’età di oltre 70 anni, nel campo di concentramento di Soluch, di fronte a ventimila internati. Significative analogie si ritrovano nella guerra attuale. Anche questa è iniziata con l’infiltrazione di agenti segreti e il reclutamento di capi arabi disponibili a collaborare. Anche questa viene condotta con una schiacciante superiorità militare: le forze aeree Usa/Nato, di cui fanno parte quelle italiane, hanno effettuato dal 19 marzo oltre 10mila missioni di attacco, sganciando circa 40mila bombe, distruggendo oltre 5mila obiettivi senza subire alcuna perdita. E scopo della guerra resta quello di occupare un paese la cui posizione geostrategica, all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente, è di primaria importanza. Oggi soprattutto per Stati uniti, Francia e Gran Bretagna, che con la fine della monarchia di re Idris persero le basi militari che gli aveva concesso in Libia e che ora cercano di riavere. Resta però ancora da vedere quale sarà la reazione del popolo libico a quella che si prospetta come una nuova occupazione in forme neocoloniali. Chissà se il presidente Napolitano - convinto che l’Italia, oggi fermo presidio della pace, si è lasciata alle spalle gli anni bui del bellicismo fascista - celebrerà, dopo il 150° dell’unità nazionale, anche il centenario della prima guerra di Libia. Per capire non tanto che cosa fosse l’Italia allora, ma che cosa sia oggi.

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ITALIA-RAZZISMO*

Ci tutela la Costituzione, non le leggi

I

da l’Unità del 2 marzo 2010

nostri Costituenti ci hanno consegnato quelle che avrebbero dovuto essere le ragioni del nostro vivere insieme. I primi articoli della Carta rappresentano il nostro comune biglietto da visita e l’art. 3, quello che riconosce che le persone sono tutte uguali davanti alla legge, è certamente la più bella presentazione per un moderno Stato democratico. Uguali senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È un principio che è stato scritto per i più deboli, per le minoranze, per tutelare i pochi e non i molti. Vuol dire che gli stranieri hanno i nostri stessi diritti fondamentali, mentre viviamo in un Paese in cui è stato introdotto il reato di immigrazione clandestina. Un Paese dove certi pifferai magici vorrebbero farci credere che i principi di uno stato occidentale si difendono regredendo pericolosamente verso forme primordiali di razzismo. (…) L’art. 3 della nostra Costituzione vuol dire questo e molto altro ancora e noi abbiamo il preciso dovere di riappropriarci del nostro futuro e dei nostri sogni perché, come diceva Gramsci, «Quello che accade, accade non tanto perché una minoranza vuole che accada, quanto piuttosto perché la gran parte dei cittadini ha rinunciato alle sue responsabilità e ha lasciato che le cose accadessero». Non facciamolo noi e riappropriamoci finalmente della parte migliore del nostro passato.

*Italia-razzismo è un osservatorio promosso da: Laura Balbo, Rita Bernardini, Andrea Billau, Andrea Boraschi, Valentina Brinis, Valentina Calderone, Giuseppe Civati, Silvio Di Francia, Francesco Gentiloni, Betti Guetta, Pap Khouma, Luigi Manconi, Ernesto M. Ruffini, Iman Sabbah, Romana Sansa, Saleh Zaghloul, Tobia Zevi. www.italiarazzismo.it/


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il fi fioore del partigiano

La diga del Gleno un disastro in epoca fascista

L’OBLIO DI REGIME CANCELLÒ PER ANNI LA TRAGEDIA DELLA VAL DI SCALVE

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li escursionisti che percorrono il sentiero n 411, che dalla frazione Pianezza di Vilminore in Val di Scalve porta al rifugio Tagliaferri, si imbattono, dopo circa un’ora di cammino, in una costruzione dall’aspetto sinistro che sbuca dai boschi come antiche vestigia di una sperduta civiltà maya. Tale è l’impressione che se ne può ricavare, vedendo i resti della diga del Gleno rimasti tali e quali dal disastro che colpì l’intera valle 88 anni fa.

Alle prime luci dell’alba del 1 dicembre del 1923 il sig. Francesco Morzenti, custode della diga, sente prima il rumore per la caduta di un masso, poi un tonfo; per salvarsi corre sulla montagna. Il crollo della diga inizia da un pilone posto sulla parte inferiore, sei milioni di metri cubi d’acqua si riversano nella valle. Prima che la valanga d’acqua giunga nella valle sottostante, un violento spostamento d’aria, preceduto da un tremendo boato, rade al suolo il paese di Bueggio. La massa d’acqua percorre l’intera valle, spazzando ogni cosa che incontra; esplodono le centrali idroelettriche di Povo e di Valbona. Il fiume minaccioso percorre l’intera Via Mala fino a spegnersi nel lago d’Iseo; il livello idrico del lago si innalza di alcuni centimetri, segni della furia dell’acqua si intravedono tuttora sulla via Mala. I morti accertati saranno 356, si pensa che le vittime effettive furono in numero ben superiore. Da subito iniziarono a rimpallarsi le responsabilità; si arrivò persino ad ipotizzare un attentato.

La diga, in origine, doveva essere eseguita solo a gravità, con un’imponente struttura variabile dai 30 ai 40 metri di spessore. I lavori, sotto la direzione dell’ingegner Viganò iniziarono nel 1919; progressivamente il progetto iniziale si trasformò. L’invaso divenne più capiente, alla diga iniziale completata col sistema a gravità, nel 1921 fu aggiunta un’altra, sopraelevata col sistema ad archi. Anche a seguito del cambio della direzione dei lavori seguirono violente polemiche. Recentemente è stata ritrovata una lettera inviata al Genio Civile in cui si denunciava la scadente qualità dei materiali impiegati e i pericoli connessi; tale lettera anonima era stata scritta da una persona tecnicamente molto competente. La diga fu completata nel luglio del 1923, l’invaso riempito, l’impianto entrò in funzione prima delle autorizzazioni delle autorità competenti. Quattro mesi dopo si verificò il disastro. Il processo contro la ditta Viganò si concluse con pesanti condanne. Al processo

il fiore del partigiano

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA ZONA DELLA MARTESANA

Redazione: presso la sede della Sezione Quintino Di Vona di Inzago (MI) in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Direttore responsabile: Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)

Sopra, la diga in costruzione e ad opera conclusa. Sotto, l’abitato di Dezzo dopo il disastro. A sinistra, i ruderi visibili oggi

d’appello furono tutti assolti, nessun risarcimento fu dato per le vittime. La retorica fascista tesa a mostrare efficienza, competenza e diversità rispetto allo stato liberale non poteva tollerare che si continuasse a parlare di una vicenda così dolorosa. Sulla tragedia del Gleno scese una pesante cappa di piombo, gli abitanti della valle di Scalve, zona di duro lavoro nelle miniere, cercarono di ricucire le profonde ferite che gli erano state inferte con la vicenda della diga. Per decenni, solo per montanari, minatori e pastori quei ruderi che emergono dal bosco ricordavano la tragedia. Se ne riparlò all’epoca del Vajont, anche se lì crollo un’intera montagna, non la diga. Da alcuni anni la comunità montana della valle indice convegni e promuove iniziative in ricordo della tragedia. Attualmente, a monte dei ruderi si è formato un ameno laghetto, facilmente raggiungibile. Sul posto, ad opera di Enel Green Power, si sta attuando un progetto di recupero sui resti della diga. Luigi Gatti


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