Il Fiore del Partigiano - aprile 2012

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anno 3 numero 2

aprile 2012

CALAMANDREI: LA COSTITUZIONE, CARTA DELLA PROPRIA DIGNITÀ

La libertà va vigilata ogni giorno

Il discorso qui riprodotto fu pronunciato da Piero Calamandrei nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria il 26 gennaio 1955 in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi per illustrare in modo accessibile a tutti i principi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra vita associativa.

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FONDATA SUL LAVORO

Ancora tutti da realizzare i valori primari della democrazia sanciti dalla Costituzione

illustrazione di marilena nardi

L’

art.34 dice: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra Costituzione c’è̀ un articolo che è il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». È compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare


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L’Italia è ancora il fiore del partigiano

LA NOSTRA ASSOCIAZIONE È DA SEMPRE IN PRIMA FILA NELLA DIFESA DEI VALORI

Il tema dell’articolo 18 ha tenuto banco per molte settimane, diventando l’elemento discriminante della “riforma Fornero” del mercato del lavoro. A giochi ancora non conclusi, mentre si discute su come interpretare il compromesso al vaglio delle Camere, ci preme evidenziare quanto sia lontano il dibattito politico e le proposte governative dagli impegni verso la perequazione sociale che la nostra Costituzione indica fin dalle sue prime parole. L’ANPI ha voluto dedicare la giornata del 25 aprile al sostegno della rivendicazione di un degno lavoro per tutti. Sull’argomento ospitiamo in queste pagine alcuni autorevoli interventi, i cui spunti di riflessione rimangono validi, al di là dell’esito della riforma dal sito www.domenicogallo.it 22 marzo 2012

L di

DOMENICO GALLO

o sciopero indetto dalla FIOM lo scorso 9 marzo si fondava sull’ammonimento che il lavoro è un bene comune, da rivendicare con intransigenza, perché particolarmente maltrattato in questa contingenza storica. Non si può non essere d’accordo, il lavoro è un bene comune, ma non è un bene esistente in natura, come l’acqua, è un bene comune in quanto istituito dalla Costituzione come supremo bene pubblico repubblicano. Il principio lavorista, generato dall’art. 1 della Costituzione (l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro) costituisce uno dei cinque principi fondamentali che reggono l’edificio della Costituzione (gli altri - secondo la nota definizione di Costantino Mortati - sono il principio democratico (art. 1), il principio personalista (art. 2 e 3), il principio pluralista (art.2), il principio internazionalista o supernazionale (artt. 10 e 11). Il lavoro è posto a fondamento della Repubblica. Non si tratta di una espressione

➔ SEGUE DA PAGINA 1 una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo - «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» - corrisponderà̀ alla realtà̀. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in

lieve o banale. Basti pensare quanto essa appare polemica, oggi, rispetto ad un modello economico-sociale in cui tutti gli indici di riferimento sono fondati sul mercato e sulla proprietà privata. Né si tratta di una scelta di classe a favore dei lavoratori dipendenti, quale avrebbe potuto essere adombrata nell’espressione «Repubblica democratica di lavoratori» proposta dai partiti di sinistra nell’Assemblea costituente. In realtà la dignità del lavoro è strettamente collegata ai diritti della persona. Di qui l’affermazione del diritto-dovere al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini, e del dovere della Repubblica di renderne effettivo l’esercizio (art. 4). Di qui il principio, contenuto nell’art. 35, secondo cui «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme.» Il bene comune lavoro richiede che le persone siano occupate in modo qualitativamente accettabile e coerente con il pieno rispetto dei diritti costituzionali. Il lavoro come bene comune comporta la tutela di questo bene sia nei confronti del capitale privato (proprietà), sia nei confronti del sistema politico (governo) che del capitale privato sempre più frequentemente è succube. È stato osservato, che: «il fine precipuo della difesa del lavoro come bene

comune è quello di consentire ai lavoratori l’accesso ad una esistenza libera e dignitosa nell’ambito di una produzione ecologicamente sostenibile» (Mattei, 2011). Non v’è dubbio che da lungo tempo il bene comune lavoro è sottoposto ad un attacco durissimo da una politica assoggettata ai dictat del potere privato che vuole smantellare i presìdi che la legge ha posto a tutela della dignità del lavoro. L’aggressione al bene della dignità del lavoro è avvenuta attraverso la precarizzazione crescente dei rapporti di lavoro e la demolizione delle garanzie e delle tutele giurisdizionali, fino ad arrivare all’art.8 del decreto legge della manovra dell’agosto 2011 (D.L. 13/8/2011 n° 138 convertito con la L. 14/9/2011 n° 148), con il quale la tutela della dignità del lavoro e dei lavoratori è stata sottratta all’impero della legge e consegnata alla dinamica dei rapporti di forza, consentendo a soggetti privati la facoltà di dettare regole, in deroga a quelle leggi dello Stato, attraverso le quali si è incarnato il principio lavorista. Adesso con la riforma Monti-Fornero l’aggressione al bene della dignità del lavoro fa un ulteriore passo avanti e raggiunge quegli obiettivi che il Governo Berlusconi

grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi! È stato detto giustamente che le Costituzioni sono anche delle polemiche, che negli articoli delle Costituzioni c’è sempre anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro

il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato. Ma c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché́ quando l’art. 3 vi dice: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana» riconosce che questi ostacoli oggi vi


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fondata sul lavoro? il fiore del partigiano

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illustrazione di marilena nardi

ETICI E SOCIALI SANCITI DALLA CARTA COSTITUZIONALE

aveva perseguito invano, trovando uno sbarramento insuperabile nello sciopero generale indetto dalla CGIL il 23 marzo 2002. La sostanziale abrogazione dell’art. 18, annunziata nel piano del governo sul lavoro, al di là delle chiacchiere sulla tutela dei lavoratori da comportamenti disono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche, dalla impossibilità per molti cittadini di essere per-

scriminatori, si risolve nello smantellamento, puro e semplice della tutela pubblica contro il licenziamento illegittimo, in violazione della Costituzione e della stessa Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che esige (art. 30) la tutela dei lavoratori contro ogni licenziamento ingiustificato. Il problema non è che possono aumentare i licenziamenti, come paventano alcuni, in una situazione già difficile per l’occupazione, il problema è che cambia la natura del rapporto di lavoro. L’art. 18 è una norma di chiusura, rappresenta la sanzione che tiene in piedi l’intero edificio dei diritti dei lavoratori. Se si toglie la sanzione, l’edificio crolla e lo Statuto dei lavoratori che definisce i diritti dei lavoratori ed i limiti del potere privato diviene un pezzo di carta. Quando fu varato lo Statuto dei lavoratori, il commento unanime fu che finalmente la Costituzione entrava in fabbrica. Che finalmente anche i lavoratori acquistavano la libertà di esprimere le proprie opinioni, di iscriversi al sindacato da loro scelto, di non essere sottoposti alle vessazioni di po-

sone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente. Però, vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo

lizie private, di non essere controllati nelle loro opinioni politiche, etc. Tutto questo è destinato a sparire, la dignità del lavoratore ed il rispetto dei suoi diritti costituzionali, diventeranno merce di scambio da inserire nella contabilità dei costi e ricavi. La cancellazione dell’art. 18 (cioè della sanzione contro i comportamenti illegittimi del potere privato) espelle la Costituzione dai territori che sono dominio del potere privato e trasforma il lavoratore in un non-cittadino, realizzando la profezia nera di Marchionne, che aveva annunziato l’avvento di una nuova era. Siamo proprio sicuri che è di questo che l’Italia ha bisogno?

A Milano la manifestazione nazionale la manifestazione nazionale del 25 aprile 2012, si svolgerà a milano dalle ore 14,30 con il corteo che si muoverà da porta Venezia e si concluderà con i discorsi in piazza duomo. il Comitato antifascista ha definito il programma delle Celebrazioni del 67° anniversario della liberazione ed emesso il seguente appello: «Uscire dalla crisi con più socialità, uguaglianza e diritti. Per una Europa democratica, politicamente e socialmente unita».

politico che è - non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani - una malattia dei giovani. «La politica è una brutta cosa», «che me ne importa della politica»: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà, di quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: «Ma siamo in pericolo?», e questo dice: «Se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda». Allora lui CONTINUA A PAGINA 4 ➔


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Il reintegro è come l’uguaglianza nella Costituzione

INTERVISTA AL PRESIDENTE CARLO SMURAGLIA

Senatore, componente del Csm oggi presidente dell’Anpi, Smuraglia è autore di numerose opere sul diritto del lavoro. Memoria storica fondamentale per il Paese, avverte: «Stiamo tornando indietro a prima del ‘68, quando c’era Brodolini»

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da il manifesto del 22 marzo 2012

artigiano combattente, professore all’Università di Milano, presidente della regione Lombardia, senatore, componente del Csm e oggi presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, classe 1923, è soprattutto un maestro del diritto del lavoro. Fondamentale il suo commento allo Statuto dei lavoratori del 1970. Professore, gli entusiasti di questa annunciata riforma del mercato del lavoro parlano di “fine di un’epoca”, l’epoca cioè del “consociativismo”. Siamo davvero a un passaggio storico? Si può parlare di fine di un’epoca, ma solo nel senso che si torna indietro. Cancellando a cuor leggero un principio per il quale si è combattuto per anni, e con ragione. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è il frutto di una stagione di lotte, ma anche del falli-

➔ SEGUE DA PAGINA 3 corre nella stiva a svegliare il compagno e dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda!». Quello dice: «Che me ne importa, non è mica mio!». Questo è l’indifferentisno alla politica. È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani,

mento della legge sul licenziamenti del luglio 1966. In quella legge si prevedeva, appunto, che anche nel caso di licenziamento ingiustificato riconosciuto come tale dal giudice, il lavoratore aveva diritto esclusivamente al risarcimento economico. La grande novità dell’articolo 18 fu il diritto al reintegro. Oggi torniamo al ‘66. Quanto fu difficile l’introduzione del principio dell’articolo 18 nello Statuto dei lavoratori? Ci fu una discussione accesa in parlamento e ci furono forti pressioni contrarie degli industriali, ma fu soprattutto alla luce dell’esperienza precedente che alla fine il ministro Brodolini accettò il principio. Ma lo Statuto fu votato da socialisti e democristiani, il PCI e il PSIUP si astennero. Le loro obiezioni erano sulla seconda parte dello Statuto, quella che riguardava la rappresentanza sindacale. Non sul reintegro, per il quale si può dire che non ci fossero più dubbi addirittura dagli anni Cinquanta, dal dibattito seguito al famoso licenziamento per motivi politici del dirigente Fiat Battista

Santhià. Ci fu un importante convegno nel 1955 in cui molti giuslavoristi introdussero il tema del reintegro e poi la legge del ‘66 e infine lo Statuto. Ci vollero degli anni e molti scioperi; tornare indietro rispetto a tutto questo significa non capire cosa vuol dire riconsegnare al datore di lavoro la possibilità di licenziare a propria discrezione. Ma la riforma Fornero prevede ancora il reintegro per il licenziamento discriminatorio. Ci mancherebbe, su quello non ci può essere alcun dubbio. Il licenziamento discriminatorio è un atto nullo per un principio giuridico che non dipende neanche dallo Statuto dei lavoratori, ed è evidente che di fronte a un atto nullo resta in vigore la situazione precedente. Naturalmente la riforma di cui parliamo non dice che il datore di lavoro potrà licenziare a suo piacimento, ma temo che gli effetti saranno questi. Anche nel caso di licenziamento per motivi economici? Siamo franchi, quando ci sono delle ragioni economiche reali, una crisi aziendale, si tratta sempre di circostanze oggettive. Ma

di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica. La Costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo. Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946, questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le

libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori- il caos, la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi. Ricordo - io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui - queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio Paese, del nostro Paese, della nostra Patria, della nostra Terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro Paese. Quindi, voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendervi conto - questa è una delle gioie della vita


il fiore del partigiano se il datore di lavoro non riesce a provarle e il giudice stabilisce che il licenziamento è infondato, perché mai non si dovrebbe ripristinare il rapporto di lavoro? Torniamo appunto a prima del ‘66: sarà possibile liberarsi di un lavoratore pagando. L’imprenditore deciderà solo sulla base dei suoi costi e dei suoi benefici. E dovremmo aggiungere un altro problema. Quale? In molti casi persino il diritto al reintegro nel posto di lavoro si è dimostrato insufficiente, per cui più che smantellarlo si sarebbe dovuto renderlo effettivo. Pensi alla vicenda dei lavoratori Fiat a Melfi che l’azienda si è rifiutata di far tornare al loro posto e capirà come ancora oggi il principio trovi difficoltà di applicazione. Chi parla della fine di un’epoca lo fa anche con riferimento alla mancata concertazione, anche questo è un passaggio epocale? Mi sorprende che tutti quelli che in questi anni hanno riconosciuto la convenienza della concertazione adesso si rallegrino che sia stata stracciata. Secondo me si tratta di un errore di valutazione, soprattutto da parte del governo che non ricaverà nulla di positivo da questa scelta di rottura. Per venire incontro alle indicazioni di una parte molto liberista dell’Europa, rinuncia alla pace sociale. La Cgil pagherà l’isolamento? Dieci anni fa hanno riempito la piazza sull’articolo 18, è impossibile che i lavoratori abbiano cambiato idea. È vero che siamo in crisi ma i principi valgono anche in tempo di crisi. Cominciare a smantellarli è pericoloso perché non si sa mai dove si finisce. È un discorso analogo a quello che si fa sulla Costituzione. Si può cambiare, ma non si può nemmeno immaginare di toccare i principi fondamentali. E l’articolo 18 nel sistema del diritto del lavoro equivale al principio di uguaglianza nella Costituzione. Andrea Fabozzi - rendervi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo. Ora vedete - io ho poco altro da dirvi -, in questa Costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra Storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo nell’art. 2, «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», o quando leggo, nell’art. 11, «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la Patria italiana in mezzo alle altre Patrie, dico: ma questo è Mazzini; o quando io leggo,

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VIVERE LA COSTITUZIONE

Diritto al lavoro riconosciuto per il progresso della società ARTICOLO 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Lavoro “Sul feudo Verde c’erano duemila contadini e quasi cento aratri che lavoravano la terra incolta. Il capitano dei carabinieri con un me-

gafono intimò l’alt, gridando: «In nome della legge, fermatevi!». Gli aratri si fermarono. Dal fondo della pianura la voce del presidente della cooperativa fece eco: «In nome della Costituzione, compagni, lavoriamo!» e cento aratri si rimisero al lavoro.”

da Giuliana Saladino 1977

da “Vivere la Costituzione” edito dal museo diffuso della resistenza, della deportazione, della Guerra, dei diritti e della libertà di torino www.museodiffusotorino.it

Anni ‘50. Manifestazione per il diritto al lavoro dei braccianti sulle terre incolte siciliane (foto arChiVio storiCo de l’unità)

nell’art. 8, «tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour; quando io leggo, nell’art. 5, «la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo; o quando, nell’art. 52, io leggo, a proposito delle forze armate, «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica» esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo, all’art. 27, «non è ammessa la pena di morte», ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro a ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei

campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì̀ è nata la nostra Costituzione.

Piero Calamandrei


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il fiore del partigiano

Per i nostri partigiani è ancora primavera

IN OGNI PIAZZA DELLA MARTESANA DECINE LE INIZIATIVE

Dai concorsi dedicati ai ragazzi delle medie sulla Resistenza nella nostra Zona, alle conferenze, ai concerti, ai cortei, alle manifestazioni di piazza, ogni paese del nostro circondario celebra il 25 aprile. Il fiore del partigiano qui ha buone radici; i suoi petali ora colorano anche il web, dal sito ANPI di Bellinzago

Cassano d’Adda ricorda i suoi martiri

la sezione dell’anpi B. Colognesi di Cassano d’adda organizza, in occasione del 67° anniversario della liberazione:

Da sabato 21 al 25 aprile, nell’atrio della Biblioteca saranno esposti i lavori delle classi di 3ª media che hanno partecipato alla 7ª edizione del Concorso “Luigi Restelli” Venerdì 20 aprile ore 21.00 - Conferenza tenuta dalla prof.sa Valeria sgambati “Resistenza: tra memoria e storia” Casa Berva - Via Verdi, 26 Martedì 24 aprile ore 20.45 - Concerto dei Barabàn “Venti5 d’Aprile” auditorium della Biblioteca - Via dante

Mercoledì 25 aprile Manifestazioni pubbliche ore 9.00 - s. messa nella chiesa di s.zeno ore 9.45 - Concentramento in p.zza matteotti, corteo e alzabandiera in p.zza Garibaldi ore 10.15 - Corteo al cimitero di Cassano d’adda e orazioni ufficiali Con il patrocinio della Città di Cassano d’adda

Troviamoci su Internet con Bellinzago

www.anpi-bellinzagolombardo.com la nostra sezione è entrata nel grande mondo di internet, per raccontarci ai nostri iscritti e tutti coloro che condividono i nostri ideali e per farci conoscere un po’ da tutti. diverse le pagine: Home per il quotidiano, ANPI-Bellinzago per spiegare chi siamo (con le sottopagine riunioni, documenti e Come iscriversi all’anpi di Bellinzago), Itinerari per raccontare le nostre visite ai luoghi della memoria), Eventi per le nostre iniziative in Bellinzago, Stampa&Media per riportare cosa dicono di noi gli altri, Contatti per chi ci vuole mandare un messaggio. una pagina speciale per la

nostra iniziativa di quest’anno: il Bando 25 Aprile rivolto alle scuole, descritto qui di seguito. e poi c’è anche la pubblicità per il fiore del partigiano. Bando di concorso per il 25 Aprile. la nostra sezione ha proposto un bando di concorso riservato agli studenti della scuola secondaria di i grado di Bellinzago lombardo come iniziativa per l’anniversario della resistenza e della liberazione: la premiazione il 25 aprile. Questo per ribadire l’attualità dei valori che hanno spinto donne, uomini, giovani, anziani, preti, militari, persone di diversi ceti sociali, diverse idee politiche e religiose a organizzarsi nella resistenza per combattere e liberare l’italia dal dominio nazifascista: libertà, giustizia, democrazia, spirito critico, rispetto dell’altro, uguaglianza. Valori che sono alla base della nostra Costituzione. il concorso propone la preparazione di un elaborato per le classi terze e un logo per le classi prime e seconde: i vincitori saranno premiati con tre borse di studio da € 200. il logo richiamerà i temi attinenti la festa della liberazione e sarà riportato sui documenti e i manifesti della sezione anpi e ne costituirà il simbolo.

i temi per l’elaborato sono i seguenti: 1. la resistenza nei comuni del naviglio della martesana. raccogli e riporta gli episodi della resistenza che si sono svolti nella nostra zona e che ti sembrano particolarmente significativi. 2. nei media si parla spesso di diritti, dimenticando che questi sono sempre controbilanciati dai doveri. inventa una storia che evidenzi questa necessità. 3. immagina che tu e la tua famiglia siate costretti improvvisamente a emigrare in un altro nazione di cui non conosci la lingua: come ti aspetteresti di essere accolto? 4. le ultime vicende di cronaca vedono spesso gli immigrati oggetto di violente aggressioni. siamo tutti esseri umani uguali, ma troppo spesso c’è prevaricazione verso il più debole. Cosa ne pensi? Poesia del nostro anziano iscritto riproponiamo qui sopra la poesia scritta dal nostro iscritto antonio losito e letta durante l’intervento dell’anpi nella serata organizzata dal Comune per commemorare il Giorno della memoria.

POESIA

Auschwitz

Un treno che va! Vagoni da bestiame pigiati come bestie verso il macello. Rabbia, dolore, viaggio senza ritorno di quei martiri nella speranza di una vita. I loro cuori, sono diventati pietre, ciò che pulsava in amore, fratellanza, libertà, nulla di ciò… Auschwitz, luogo di sterminio senza desiderio di vivere di quella personale umanità. Un manto di neve, copre i tetti di quelle baracche ove persone viventi alloggiano tramutati… in cadaveri! Antonio Losito

18 aprile 2012: NON SOLO IMMIGRATI... - una serata tra immagini e parole sui temi dell’immigrazione, alle ore 21.00 presso la Biblioteca di Bellinzago lombardo, Via papa Giovanni XXiii. È un dibattito organizzato da anpi Bellinzago lombardo: interverranno Clara Castellucci di manitese milano e orazio amboni di CGil Gorgonzola.

l’idea di una riflessione parte dalla necessità di vigilare affinchè gli orrori del passato non si ripropongano ai nostri giorni. e certi episodi verificatesi nel dicembre dell’anno scorso (torino: un raid razzista incendiò un campo rom come vendetta per uno stupro inventato da una sedicenne; firenze: un esponente di estrema destra sparò contro dei senegalesi uccidendone due e ferendone altri prima di suicidarsi) superano certemente la soglia di allarme della convivenza civile. i temi: gli immigrati e il loro contributo alla ricchezza del nostro paese; il razzismo; stereotipi e pregiudizi sull’immigrazione; testimonianza su lampedusa. la lettura iniziale di un brano seguita dalla proiezione del film africa paradis metterà a fuoco i temi trattati. alla fine degli interventi seguirà dibattito.


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il fiore del partigiano sarà allestita una mostra fotografica sui migranti a lampedusa, visitabile anche nei giorni seguenti negli orari di apertura della Biblioteca dal giorno 19 al 28 di aprile. l’iniziativa ha il patrocinio del Comune di Bellinzago lombardo.

Il 16 Giugno a Marzabotto Quest’anno visiteremo marzabotto. ecco il programma: 06.45 - partenza 10.00 - arrivo previsto a marzabotto - Visita al sacrario e, a seguire, al sito archeologico etrusco, con guida 12.30 - pranzo libero o con prenotazione presso lo stand della festa nazionale dell’anpi 14.30 - Visita guidata ad alcuni luoghi della memoria 21.00 - arrivo a Bellinzago Chi volesse accompagnarci, può prenotare direttamente dal sito www.anpi-bellinzagolombardo.com

A Inzago mettiamo “in mostra” gli ideali

il Comune di inzago, in collaborazione con la sezione anpi, organizza iniziative per la festa del 25 aprile 2012, 67° anniversario della liberazione PROGRAMMA:

Mercoledì 25 aprile Ore 8,30 - s. messa in Chiesa parrocchiale a suffragio di tutti i caduti Ore 10,00 - ritrovo presso il palazzo Comunale e corteo verso il cimitero per la deposizione corona d’alloro alla Cappella dei Caduti, con accompagnamento della Banda s.Cecilia. Ore 10,45 - deposizione corona d’alloro sulla lapide del prof. Quintino di Vona in piazza maggiore. discorso del sindaco e di un rappresentante a.n.p.i.

al termine e per tutta la giornata in piazza maggiore, l’a.n.p.i. e il Gruppo pittori inzaghesi propongono l’iniziativa: "Liberalamente" - tutti i cittadini, grandi e piccoli, sono invitati ad esprimersi su questa giornata con parole, disegni, schizzi. saranno disponibili pennelli, colori, carta e ovviamente i pittori. Ore 14,30 - MANIFESTAZIONE NAZIONALE a Milano Sabato 28 aprile

Ore 21,00 - auditorium Centro de andré: Col sole in fronte “reading Concerto” sulla coraggiosa vita di rita rosani. ingresso gratuito. a cura dell’assessorato alla Cultura Fine maggio in Slovenia la sezione di inzago sta organizzando per la fine di maggio (da venerdì 25 a domenica 27) un viaggio in slovenia, per visitare lubiana, le Grotte di postumia, il Castello di predjama e l’ospedale partigiano di franja. per informazioni e adesioni, rivolgersi in sede (Via piola, 10, Centro de andré) il sabato dalle ore 10,00 alle 11,30.

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RICORDIAMO LO SCRITTORE PARTIGIANO CON UN SUO BRANO SULLA LIBERAZIONE DI CUNEO

La libertà batte alla porta

C

di

GIORGIO BOCCA

orso Nizza, con il suo asfalto liscio e ricurvo, con i suoi palazzi simmetrici, con le montagne nitide nello sfondo, colla sua profondità di piani, pare una immensa scena vuota. Una immensa scena vuota nell’attimo pieno di sensazioni incompiute che precede la comparsa di esseri viventi, l’attimo in cui le cose morte discoprono la loro anima. Tutte le persiane sono abbassate e chiuse, ma tutte hanno dietro di sé occhi che guardano. È passato qualche minuto fa un carro armato tedesco con un fragore di ferraglia rotolante nel silenzio della strada, poi non si è più vista persona. Che cosa succede? Quando sarà possibile avere notizie della battaglia di cui giunge ogni tanto, sordo per la lontananza, lo sgranare di raffiche? Nelle stanze, dietro le persiane chiuse, uomini e donne attendono con un tormento angosciato. Dopo venti mesi di sofferenze e di costrizioni, la libertà batte alla porta e quelle ultime ore di indugio divengono insopportabili. Insopportabili tanto che l’ansia e il desiderio vincono ogni timore, vincono il pensiero che fra coloro che combattono ai margini dell’altopiano ci sono figli e fratelli, una sola preghiera è in tutti: facciano presto! Riunitisi con gli uomini della brigata di Boves, i reparti della “Braccini” mossero il giorno seguente direttamente sulla città. Con una lotta furibonda combattuta di casa in casa, pervennero, verso le prime ore del pomeriggio, a spingersi sino all’altezza di corso Dante. La popolazione della zona liberata, anche se le pallottole fischiavano per le strade, anche se le esplosioni delle granate infittivano, uscì incontro ai suoi partigiani. Essi combattevano veramente in mezzo al loro popolo, fra le pareti delle loro case e i molti che caddero non sentirono forse l’angoscia di chi agonizza nel chiuso di una stanza. Morivano appoggiati ad un pilastro dei portici; intorno ad essi donne che li confortavano, vicino ad essi compagni in postazione che sparavano. Morivano come dissolvendosi in una divina intensità di vita. Da una casa ai margini di corso Dante il Comando di zona riuscì a mettersi in contatto telefonico con il comando tedesco, a cui intimò nuovamente la resa.

L’entrata dei partigiani ad Alba dal film “Il partigiano Johnny” (foto

ChiCo de luiGi, tratta da

“diario”)

Tentativo inutile come quello svolto più tardi da due ufficiali. La lotta continuò. E un altro esercito si sollevò in armi, alle spalle dei tedeschi. Gli uomini di Cuneo, i pacifici cittadini della più calma città piemontese, scesero nelle strade impugnando le armi da tempo nascoste. Con i loro abiti da lavoro, col grembiule da cameriere, con la tuta da operaio, dopo aver calato le saracinesche del negozio o chiusa la porta dello studio, i cittadini di Cuneo si gettarono nell’ultima battaglia. Dopo un duro scontro la prefettura veniva occupata ed il nemico costretto a rinserrarsi nella zona delle caserme e della kommandantur. Di fronte alla pressione sempre più stretta tentò di reagire con un’azione di artiglieria diretta indiscriminatamente contro le abitazioni civili. I partigiani erano però decisi a tener duro, ad ogni costo. I tedeschi, impossibilitati a resistere oltre, dopo quattro giorni di lotta, dopo un ultimo bombardamento diretto a disunire temporaneamente il cerchio partigiano, riuscirono a fuggire nella direzione di Torino, abbandonando i loro materiali, i loro magazzini e i numerosi morti. La mattina del 29 Cuneo, in un palpito di bandiere, celebrò la sua gioia e pianse i suoi morti. da “partigiani della montagna” - feltrinelli editore


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il fiore del partigiano

La rosa “Bella ciao” ai cinque martiri di Cassano

UNA MANIFESTAZIONE NEL SOLCO DELLA MEMORIA, CON NUOVI INNESTI

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A Cassano d’Adda domenica 25 marzo è stata giornata di commemorazione dei martiri della Resistenza locale. La manifestazione, molto partecipata (con il Presidente Onorario ANPI Lombardia Sen. Pizzinato), ha vissuto uno dei momenti più toccanti con la scopertura di una targa che ricorda le Rose “Bella ciao”, donate dall’ANPI di Ravenna. Riproduciamo il testo del suo Presidente Artioli, letto da Giancarlo Villa.

lla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento da noi si iniziò a cantare una canzone. Non era titolata, e piano piano presero a chiamarla “Bella ciao”. All’inizio, a cantarla furono le mondine della pianura padana, da Vercelli fino a Cervia. L’avevano composta le stesse mondine: spontaneamente, senza partitura. Diceva: «Alla mattina, appena alzata,/ o bella, ciao, o bella, ciao, bella, ciao, ciao, ciao!/ alla mattina, appena alzata,/ devo andare a lavorar!…/ A lavorare laggiù in risaia,/ o bella, ciao, o bella, ciao, bella, ciao, ciao, ciao!/ a lavorare laggiù in risaia/ sotto il sol che picchia giù!». Parlava del lavoro faticoso, malsano, tra gli insetti che deturpavano il viso, con il “caporale” che con il suo bastone dava i comandi. E l’espressione “bella, ciao” indicava la giovinezza che si perde e sfiorisce nel lavoro. Dopo circa cinquant’anni, dopo poco più di mezzo secolo, nel ‘44 i ragazzi del popolo (operai, braccianti, contadini e intellettuali) ripresero quella canta: erano in montagna a fare i partigiani. e quell’aria familiare fu trasformata in un nuovo canto della libertà. Le parole un po’ cambiarono. “Bella ciao” fu adattata alla nuova lotta, che questa volta era contro il nazifascismo. All’inizio “Bella ciao” fu circoscritta in Emilia, fra l’Appennino bolognese e le zone della Repubblica partigiana di Monte Fiorino (dove si dice fosse stata ricomposta da un anonimo medico partigiano). Questa cantata diventò così la canta delle Brigate Garibaldi, ma poi “Bella ciao” fu di tutti: dei combattenti badogliani, di quelli di Giustizia e Libertà, delle Brigate Mazzini, Matteotti… Nella nuova canzone “Bella ciao” si parla di Resistenza e si dice che in battaglia la morte può arrivare. Ma si dice, anche, che alla morte del partigiano seguirà la sua rinascita attraverso un fiore: «Mi seppellirai lassù in montagna,/ sotto l’ombra di un bel fior» e più avanti viene aggiunto «Tutte le genti che pas-

seranno/ mi diranno “Che bel fior!”»; più avanti ancora «È questo il fiore del partigiano/ morto per la libertà». A Ravenna, all’inizio del duemila circa (nel nuovo secolo, quindi) l’ANPI mette nella sua cassaforte i segreti del fiore del partigiano. I segreti degli innesti. Si tratta di un ibrido, che viene dalla tenacia e dalla competenza professionale del parti-

giano floricoltore Giulio Pantoli e da sua moglie Adriana. Dopo prove e prove, i Pantoli hanno creato una rosa dallo stelo alto, dal profumo intenso e dal colore rosso vermiglio. L’hanno chiamata, dietro consiglio della presidenza ANPI, rosa “Bella ciao” e l’hanno donata all’ANPI provinciale di Ravenna. Il fiore del partigiano è una rosa che ha la sua garanzia e la sua firma. Non la si trova in commercio e chi la vuole, purché s’impegni a curarla, la può avere rivolgendosi all’ANPI di Ravenna. Non è una rosa delicata. Giulio e Adriana l’hanno voluta forte, che non temesse né il gelo né il troppo sole. È, per così dire, tenace, ma… perde lucentezza e profumo se non è ben custodita. E per custodirla non basta metterla in una terra grassa e umida; e nemmeno basta potarla con energia quando arriva il freddo; serve di più, serve combattere gli “insetti nocivi” che l’aggrediscono. Quando arrivano gli “insetti nocivi” bisogna agire con decisione, con decisione e intelligenza: vanno tolti, ma senza danneggiare la pianta. Fuor di metafora, i nocivi nemici della “Bella ciao” sono i nemici delle lotte sociali dei primi del Novecento, della Resistenza, della Costituzione. Ce ne sono di tanti tipi. I nocivi che dicono che rivogliono il fascismo; e sono anche pronti a riconoscere che qualche errore il fascismo lo fece, ma dicono che Mussolini fu il più grande Primo ministro e sarebbe bene averne un altro come lui. Poi ci sono i nocivi parassiti. Sono quelli che usano le conquiste della Resistenza (la libertà di parola, il suffragio universale, la libertà di

La rosa “Bella ciao” mette radici a Cassano. Qui sopra la targa con la dedica ai cinque martiri. In alto, la lettura del messaggio dell’ANPI di Ravenna da parte di Giancarlo Villa. Nella pagina a destra, i ragazzi delle medie espongono i loro lavori sulla figura del professor Quintino Di Vona


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il fiore del partigiano vivere in pace con gli altri, la dignità nel lavoro…) usano le conquiste della Resistenza solo per farne un tornaconto personale; in questo sono dei veri campioni. Poi ci sono i nocivi infestanti. Sono quelli che vogliono annullare la democrazia, senza dirlo, ma attraverso artifici. Sì, la Scuola pubblica va bene, ma deve costare poco (e non lo dicono, ma per i loro figli c’è la Scuola privata). Sì, la Sanità deve essere garantita a tutti, purché non incida troppo nel Bilancio (e non lo dicono, ma per loro c’è una Sanità privata e di qualità). Sì, lo Stato dev’essere sociale, ma i servizi sociali vanno tagliati, sono troppo onerosi. E poi cos’è questa pretesa di essere tutti uguali davanti alla Legge?… E poi, la Resistenza è stata importante, però va riscritta. E poi, la Costituzione è una carta di buoni propositi, ma è roba vecchia… A questi insetti nocivi, e ad altri non in elenco, noi rispondiamo che siamo qui. Che siamo attenti. E diciamo anche che, dopo più di un secolo dalla “Bella ciao” delle mondine e mezzo secolo dalla “Bella ciao” dei partigiani, oggi c’è la rosa “Bella ciao”. È stata piantata nei giardini di case di antifascisti e nei luoghi evocativi come i monumenti ai partigiani, alla democrazia, alla libertà di stampa. E oggi è qui. È dai cinque martiri cassanesi. Il posto è importante. Le ragazze e i ragazzi cercano la Resistenza e cantano “Bella ciao” perché vogliono potersi collegare a un passato. Identificarsi. Vogliono una cultura onesta per costruirsi un progetto di vita onesto. Ma la coscienza civica e civile ha bisogno di una memoria ben fatta e nobile, e di simboli… Ebbene, questo luogo che avete scelto voi, ANPI di Cassano d’Adda, Sindaco, Comune, partiti antifascisti, donne e uomini per bene, ecco: questo posto va bene, è giusto che qui la “Bella ciao” profumi. La rosa “Bella ciao” è venuta volentieri da Ravenna. Per questa giornata s’è impegnato il vostro presidente Giancarlo Villa, latore di questa mia, e nel salutarvi, auspicando una collaborazione continua delle nostre ANPI e delle nostre città, vi porto il saluto di tutti gli antifascisti di Ravenna. La città di Bulow. Professor Ivano Artioli Presidente provinciale ANPI di Ravenna

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LETTERA AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Presidente Monti, onori la Resistenza

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di

GUERRINO BELLINZANI

l 25 aprile 2012, sessantasette anni dopo la vittoriosa guerra di Liberazione contro il nazismo e il vergognoso manipolo reggicoda dei “repubblichini” fascisti, lo si celebri oggi con immutato senso di orgoglio e di ammirazione per quei combattenti, che pur privi di armi e mezzi adeguati per affrontare un nemico spietato e crudele, hanno vinto contro la barbarie, meritandosi i più alti riconoscimenti da parte dei Comandi Alleati. È questa una data che ricordiamo e celebriamo, nella sempre più convinta testimonianza storica che quella fu l’inizio di una nuova era dell’Italia, finalmente unita e democratica. Ricorrenza senza paludate retoriche, ma fulgidamente viva nel ricordo del sacrificio dei Resistenti, che ci restituirono l’onore di Nazione degna di meritarsi la qualifica di Paese democratico. Signor Presidente del Consiglio, professor Monti, questa è l’Italia che, per le circostanze politiche del momento, Le spetta di rappresentare e di onorare a fronte del consesso internazionale delle Nazioni e di una collettività sentitamente partecipe. Un Paese riscattato da un passato buio, memore di misfatti contro altri popoli, tradito nella sua aspirazione civile, reale testimonianza di geniale operosità e di immensa creatività. Un Paese che ha sofferto indicibili orrori ad opera di suoi figli degeneri portati unicamente ad esaltare la propria vanità e le personali assurde ambizioni. Un Paese venduto al peggior nemico della civiltà democratica e del genere umano. Solo l’ideologia fascista, razzista e imperialista, poteva concepire di trascinare il nostro Paese in un’avventura portatrice di sterminio e massacri senza pari per l’intero novecento verso altri popoli ritenuti “colpevoli” di essere diversi per fede religiosa o per scelta di vita. Una indegnità che ha marchiato un regime dittatoriale e i suoi sostenitori, per

l’inumano dispotismo di governo e per la dottrina basata sull’odio di classe. Signor Presidente, noi antifascisti fidiamo nella sua cultura liberale e democratica, nel suo agire di conseguenza e crediamo che la ricorrenza la vorrà onorare con la sua autorevole presenza nel luogo che lei vorrà scegliere. È nostro augurio che la scelta da Lei liberamente assunta sarà radicalmente diversa da quella del suo predecessore, il quale disdegnava di definirsi antifascista e per questa sua posizione rifiutava di presenziare alle celebrazioni della Resistenza (salvo un’unica volta, nella terremotata Onna, che volle sfruttare come personale palcoscenico). Come giudicare un capo di Governo di un Paese la cui Costituzione è nata dalla lotta di Liberazione, che rifiuta di celebrarne la ricorrenza? Come si concilia ciò con il giuramento solenne all’atto della formazione di quel Governo? Intendiamo qui solo ricordare che l’Italia ha una Storia scritta, alla quale è auspicabile sia naturale riconoscersi, maggiormente per chi la rappresenta in incarichi pubblici. Signor Presidente e componenti l’attuale Governo, oggi rappresentate l’Italia, Paese laico e democratico (due aggettivi scaturiti proprio dalla guerra di Liberazione e sanciti nella Costituzione); questo ruolo vi impone il rispetto formale della consolidata tradizione. A voi il compito di rompere l’agnosticismo dimostrato dallo schieramento di berlusconiana formazione, più volte stigmatizzato e criticato da larghi stati di popolazione, dai Partiti democratici e dalle Associazioni antifasciste. Il 25 aprile è la ricorrenza di un popolo che ha sconfitto l’intolleranza, la dipendenza da un Paese straniero, la dittatura, l’odio razziale e la discriminazione religiosa. È la data finale di una sanguinosa lotta che ha creato le basi di una Costituzione Democratica. ONORIAMOLA!


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il fiore del partigiano

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Auschwitz

foto liVio seniGalliesi

LE LEGGI RAZZIALI ALLORA E IL RAZZISMO NELL’ITALIA DI OGGI

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di

PAOLO NORI

da Il fatto quotidiano del 2 febbraio 2012

ppena tornato ho detto alla Battaglia che il vento, a Cracovia, ti tagliava la faccia. «E come facevi?», mi ha chiesto lei. «Eh, c’eran dei medici, in albergo, che tutte le sere ti ricucivan la faccia, te la mettevano a posto». «Davvero?» mi ha detto lei. «No, – le ho detto io. – Scherzavo». Ero stato ad Auschwitz con la fondazione Fossoli, cinque giorni. Eravamo andati in treno. Eravamo andati da Carpi a Cracovia. Poi da Cracovia, in corriera, tutti i giorni andavamo sui campi, se così si può dire, ad Auschwitz e a Birkenau. Tutto il giorno sui campi, a quindici sotto zero, al vento, a tagliarsi la faccia. E dopo, indietro a Cracovia. E di sera, tutte le sere, a veder gli spettacoli, al cinema Kijow, i primi due giorni, poi in una discoteca polacca nel quartiere universitario. Una discoteca che si doveva chiamare Officina Metallurgica e invece non si chiamava così. Si chiamava Studio zero, o Club studio, o qualcosa del genere. E, si vede che avevano appena lavato i pavimenti, c’era un gran odore di detersivo. Eravamo in settecento. E lo storico Carlo Saletti diceva: «Siamo qui in massa». E a me veniva da pensare: «Siamo qui insieme». C’ERANO DELLE COSE COMPLICATE, lì ad Auschwitz. La cosa più complicata, mi sembra, era: tutta questa bontà. Esser lì insieme a settecento studenti, tutta questa bontà. Ma lì io non ci pensavo, ci penso adesso che sono tornato: tutta questa bontà. Noi, siamo abituati che essere buoni c’è da avere vergogna, mi sembra. Noi siamo abituati così. Non in Polonia, in Italia. Agli studenti, uno, non sa cosa dirgli. A uno studente di diciassette anni, che è lì ad Auschwitz e a Birkenau, in gennaio, con quindici gradi sottozero, a tagliarsi la faccia, uno, cosa gli dice? Uno magari non gli dice niente. Però magari se ti chiedono di accompagnare le guide, di aggiungere ogni tanto qualcosa ai loro discorsi che sembrano preregistrati, tu, cosa gli dici? Magari gli dici che tu, un po’ di anni fa, su youtube, hai trovato un discorso del presidente della camera Fini sulle leggi razziali, che cominciava dicendo che era

Le parole per dirlo ai nostri figli

strano, che in un paese cattolico come l’Italia ci fossero state queste leggi contro gli ebrei e, quando avevi sentito così, ti era venuto in mente che ghetto, “ghetto”, è una parola italiana. E CHE I GHETTI ERANO STATI ISTITUITI il 14 luglio del 1555 dal papaPaoloIV, italiano. Con la bolla Cum nimis absurdum. E che Cum nimis absurdum era l’incipit della bolla, e significava: «Poiché è oltremodo assurdo». E la cosa oltremodo assurda e «disdicevole», c’era scritto nella bolla, era il fatto «che gli ebrei, che sono condannati per propria colpa alla schiavitù eterna», avevano «l’insolenza» di voler vivere in mezzo ai cristiani, e di voler possedere immobili, e di voler assumere balie e donne di casa. E per punirli per la loro insolenza, il papa italiano Paolo IV, con la bolla Cum nimis absurdum ordinava loro di «Abitare in un luogo separato dalle case dei cristiani», il ghetto, che nella bolla viene chiamato il serraglio, serraglio che doveva avere un solo ingresso e una sola uscita, e che di notte doveva essere chiuso, e tutti gli animali dentro, e due sentinelle cristiane all’ingresso a controllare, e pagate dalla comunità ebraica. E la bolla del papa italiano stabiliva, per gli ebrei, l’obbligo di portare un segno distintivo di colore giallo (un cappello giallo per gli uomini e un fazzoletto giallo per le donne), e l’obbligo di non tenere servitù cristiana, e l’obbligo di non lavorare durante le festività cristiane, e l’obbligo di non prestare denaro a cristiani, e l’obbligo di mantenere buoni rapporti con i cristiani. E il divieto di esercitare alcun commercio al di fuori di quello degli stracci e dei vestiti usati, e l’esplicito divieto a commerciare «beni alimentari destinati al sostentamento umano»; non potevano toccare con le mani una cosa che doveva esser mangiata da un cristiano. E non potevano curare i cristiani, i medici ebrei; e non potevano farsi chiamare con l’appellativo di “signore” da alcun cristiano, e non potevano fare un sacco di altre cose. E DOPO AVER LETTO Cum nimis absurdum, dicevi, non c’era tanto da sorprendersi, che in un paese cattolico come l’Italia ci fossero state le leggi razziali, e che questa idea che noi italiani siam tanto bravi, e che con la Shoah non c’entriamo niente e che quello è stato il male assoluto e che son stati i tedeschi e l’han fatto allora e coi nostri tempi non c’en-

tra niente, questo ti sembra un modo per farti dimenticare per esempio che tua nonna, quando eri piccolo, ti diceva di stare attento agli zingari che rubano i bambini, e ti diceva che le zingare hanno le gonne così larghe perché sotto ci nascondono i bambini, e quella cosa lì, anche se la diceva tua nonna, che tu le hai voluto un bene che non si può dire, era una menzogna razzista, perché non c’è mai stato, nella storia della Repubblica Italiana, nessuno zingaro condannato per rapimento di bambini. E ti viene in mente quelli che pochi mesi fa, a Torino, hanno bruciato un campo rom per vendicarsi di uno stupro che non c’era mai stato, e poi hanno impedito ai pompieri di avvicinarsi per spegnere il fuoco, esattamente come i nazisti con i negozi degli ebrei la notte dei cristalli. E ti viene in mente Dickens, che da qualche parte racconta che quando, da piccolo, andava a scuola, c’era un insegnante che prendeva sempre in giro un ragazzo che non era sveglissimo; «E noi, – scriveDickens, – cani, ridevamo». E che forse comincia tutto lì. E che in quel senso, solo in quel senso, tu riesci a capire quello che dice lo storico Carlo Saletti che dice che la cultura è il miglior alleato della barbarie, e lui ti sembra non lo dica in quel senso. E difatti è per quello che il compositore Carlo Boccadoro dice che quella, adesso riassumo, è una gran puttanata. E in tutto il vagone ristorante, siete in treno, state tornando, si accende una discussione e sono tutti intorno a Carlo Saletti a chiedergli: «Ma cosa dici?». E lui dice che quello che voleva dire era che «La cultura non ti immunizza dalla barbarie». E gli altri dicono «Ahhhh!». E una ragazza di diciassette anni ti chiede «Ma come faccio, a capire quello che devo fare?». E tu le rispondi che non lo sai. E di portare pazienza. E che se sta attenta, forse, se ne accorge da sola. E una ragazza di diciotto anni ti dice che lei, a Birkenau, voleva stare da sola. Senza la guida, senza la gente, senza la massa. Non insieme, da sola. E tu dici che Birkenau, è strano, ma è un posto bellissimo. E è un posto che non si può raccontare. E che ti mette addosso una voglia di raccontarlo che, da un certo punto di vista, è inspiegabile. E che tu, la prima volta che l’hai visto, quando sei uscito, hai pensato «Quando torno a casa lo devo raccontare alla Battaglia». E ti sei inspiegabilmente commosso. E la Battaglia è tua figlia. E allora aveva tre anni. E dopo, quando sei tornato, hai avuto vergogna e non gliel’hai raccontato.


il fiore del partigiano I GIOCHI DELLA PAURA. i disegni che illustrano questo articolo sono tratti dai “quaderni segreti” e dalle “cronache di milano” dell’architetto eugenio Gentili tedeschi, che è stato partigiano in Val d’aosta. una storia quasi a fumetti di un gruppo che comprendeva primo levi, silvio ortona, emilio diena e Vanda maestro (che fu arrestata in Val d’aosta con levi, e morì nei campi): l’altra faccia della gioventù, rispetto a salò. i disegni sono raccolti nel volume “i giochi della paura”, editore lechateau.

Gli assassini della via Pal da Diario del mese maggio 2001

N DI

GIOVANNI DE LUNA

el settembre del 1995, Carlo Mazzantini pubblicò I balilla andarono a Salò. L’armata degli adolescenti che pagò il conto con la storia (Marsilio, Venezia, 1995). Il libro era dedicato ai “ragazzi di Salò”, «mossi soprattutto dalla volontà di preservare l’onore della patria e la propria dignità di uomini». Un anno dopo, il nuovo presidente della Camera, Luciano Violante, appena insediato, si rivolse ancora ai fascisti che avevano militato nella Rsi, chiamandoli “ragazzi di Salò”. Il termine faceva così il suo ingresso trionfale nella grande arena dell’uso pubblico della storia, trovando una propria legittimazione sia sul piano editoriale che su quello politico-istituzionale. Come per “i ragazzi della via Pal” o “i ragazzi del ‘99” non si tratta di una espressione asettica, constatativa: il mantello assolutorio dell’adolescenza viene disteso sui protagonisti di quella oscura vicenda; e l’adolescenza evoca l’irresponsabilità o meglio la deresponsabilizzazione, spalancando la strada a una visione totalmente assolutoria di quell’esperienza. In una sorta di fanciullesca ingenuità precipitano gli eventi tragici che scandirono il percorso della militanza nella Rsi, (la complicità nella deportazione degli ebrei, la partecipazione diretta alle stragi dei civili), depotenziati di tutta la loro ca-

rica di orrore e di ogni spessore storiografico. Ma sappiamo veramente di cosa si parla, quando si usa l’espressione “ragazzi di Salò”?

QUANTI ERANO. Furono circa 60 mila gli ufficiali del Regio Esercito che risposero al richiamo di Salò. A tutti, la Repubblica Sociale corrispose regolari stipendi che – per quei tempi – non erano niente male: tra le 15 e le 23 mila lire al mese per un generale, tra le 8 e le 16 mila per un colonnello, tra le 5 e le 7 mila per un capitano, (ricordiamo che operai e impiegati guadagnavano allora tra le 1500 e le 1800 lire al mese). Per quanto riguarda i soldati di leva (del 1923 e del 1924 in congedo provvisorio e di tutti quelli del 1925 della leva di terra), a tutto il dicembre 1943 erano circa 50 mila i giovani presentatisi alle caserme. La maggior parte di essi restò inoperosa nei battaglioni costieri e nei reparti del genio o disertò dopo pochi mesi. Le uniche divisioni neofasciste approdate alla linea di combattimento furono le quattro addestrate in Germania: la San Marco, la Monterosa, la Littorio e l’Italia. Impiegate in compiti secondari, salvo che in Garfagnana e sulle Alpi occidentali, falcidiate dalle diserzioni che – secondo stime partigiane – superarono il 25 per cento degli effettivi, le quattro grandi unità mantennero le rispettive posizioni fino al 25 aprile, dissolvendosi, poi, insieme al governo che le aveva volute. Di fatto, fu alle forze armate istituzionalmente nate con compiti di polizia che il fascismo morente affidò la sua

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presenza militare; vere bande armate, centri di raccolta per tutti gli irriducibili, furono impiegate esclusivamente in azioni di rappresaglia antipartigiana e di rastrellamento. Colpisce, in questo ambito, la cifra dei 20 mila volontari italiani affluiti nelle Waffen Ss, formazione militare internazionale che incarnava l’ideologia del Nuovo Ordine europeo propugnato dai nazisti. Nella maggior parte dei casi, esattamente come le compagnie di ventura, queste bande prendevano il nome dal loro capo (Koch, Fenizio, Carità). Le due più importanti, dal punto di vista quantitativo, furono la Guardia nazionale repubblicana e le Brigate nere; quella più significativa sul piano qualitativo, la X Mas comandata dal principe Junio Valerio Borghese. Nella Guardia nazionale repubblicana confluirono gli uomini della disciolta Mvsn (la milizia), quelli dell’Arma dei carabinieri e della Pai (Polizia Africa italiana) di stanza a Roma. Con l’apporto di 30 mila volontari, la Gnr poteva contare così, alla fine del 1943, su un totale di 150 mila uomini. Delle Brigate nere, fondate da Alessandro Pavolini, facevano parte invece gli iscritti al Pfr (Partito fascista repubblicano) tra i 18 e i 60 anni, su domanda volontaria: di qui un loro carattere più militante, quasi una rivisitazione dello squadrismo delle origini. A metà tra una unità regolare dell’esercito e una milizia di partito si pose invece la X Mas, una “banda” del tutto anomala, pur nell’accidentato panorama delle forze armate di Salò. Durante i 20 mesi della Rsi, la formazione arruolò un totale di 10 mila volontari, cedendone 5 mila alla divisione San Marco. Nominalmente era una divi-

Sui ragazzi di Salò, rastrellatori e collaborazionisti, è calato il mantello assolutorio dell’adolescenza. Ecco quanti furono, quanto guadagnavano, ma soprattutto che cosa fecero sione, ma in realtà si trattava di battaglioni autonomi, ciascuno con il suo condottiero: Barbarigo, Fulmine, Freccia, Sagittario, Lupo, Valanga. Il solo impegnato contro gli alleati sul fronte di Nettuno fu il Barbarigo, ritirato poi per partecipare alla lotta antipartigiana, in Piemonte, in Friuli, in Lombardia. COSA FECERO. «Nella luce (...) di un pomeriggio ancora tiepido, i condannati CONTINUA A PAGINA 12 ➔


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il fiore del partigiano sforma sevizie raccapriccianti in incidenti involontari. Nella sentenza Carrera, si sostiene che non va considerata sevizia particolarmente efferata appendere per i piedi un partigiano e giocare a calci con la sua testa che penzola: «le scudisciate, gli spintoni e i calci non sono sevizie ma forme normali di violenza»; nella sentenza Falanga viene applicata l’amnistia a un repubblichino che ha ucciso un partigiano perché costui «era morituro senza speranze di salvarsi». «Un uomo ridotto in quelle condizioni diventa un essere innocuo per il nemico. E pertanto la sua uccisione potrà costituire espressione di feroce odio politico, ma mai atto vantaggioso alle operazioni militari del nemico». Per amnistiare un capitano delle Brigate nere che dopo l’interrogatorio di una partigiana «l’aveva fatta possedere dai suoi militi, uno dopo l’altro, bendata e con le mani legate», la motivazione della sentenza arriva a affermare: «tale fatto non costituisce sevizia, ma solo la massima offesa all’onore e al pudore di una donna» (fonte Pier Giorgio Murgia, Il vento del Nord, storia e cronaca del fascismo dopo la resistenza, 1945-1950, SugarCo, 1975, p.171).

➔ SEGUE DA PAGINA 11 escono dalla casa del barbiere, contro il muro della quale avvengono le esecuzioni, a gruppi di sei, venendo derisi e percossi dai militi del plotone di esecuzione; da dentro hanno già sentito la scarica rivolta al gruppo precedente abbattersi contro la parete. Molti piangono, altri pregano, mentre a un certo punto viene messo al muro anche il parroco del paese; si discute, i militi bestemmiano: vogliono fucilare anche lui. Un ufficiale lo tira da parte; è una delle immagini più drammatiche che si può rivedere anche in fotografia. Altri graduati sono poco lontani a mangiare e a bere in una osteria, con vista sulla strage (...) al tramonto vengono portati via i cadaveri; davanti al muro c’è una cupa gora di sangue raggrumato, e sopra la scritta “Primo esempio”». Le fotografie di cui si parla si riferiscono alla strage di Villamarzana, del 15 ottobre 1944, in cui 42 civili furono massacrati dai fascisti della Repubblica sociale appartenenti alla compagnia Op. Ma ce ne sono mille altre che documentano questa “messa in scena della morte” da parte degli armati di Salò: gli impiccati di Bassano del Grappa, il mucchio dei cadaveri dei partigiani fucilati a piazzale Loreto, i corpi dei partigiani uccisi e abbandonati alla corrente del Po. Ogni volta un cartello (“ha colpito in armi la Decima”), un messaggio, una didascalia (“bandito”), quasi a trasformare quei corpi nei «monumenti di una diffusa pedagogia funeraria». La moltiplicazione seriale dei cadaveri nemici restituitaci da quelle fotografie ci introduce in una dimensione di spettacolarizzazione della morte, oltre che in un suo uso direttamente politico. Nelle guerre civili è implicito un eccesso di orrore; un surplus di violenza svincolato dalle stesse finalità immediate del confronto bellico. Per i fascisti, così, l’uccisione pubblica dei partigiani ha un significato complessivo che prescinde quasi totalmente dagli scopi puramente militari della guerra; quei ganci di macellaio utilizzati per appendere i nemici uccisi rinviano senza mediazioni alla degradazione dell’avversario a rango di bestia. Non basta la violenza normale; l’orizzonte della guerra civile implica anche la scelta, per i fascisti, di infliggere una doppia morte ai loro nemici, di far morire due volte i loro corpi: «Il fuorilegge muore due volte, la prima fucilato, la seconda impiccato, oppure due volte impiccato, permettendo ai suoi carnefici di far capitale della sua morte, terrorizzando molti vivi con un solo cadavere». QUANTI E COME SI SALVARONO. Quando l’8 giugno 1946, per festeggiare la vittoria della Repubblica, Togliatti annunciò la sua amnistia, nelle prigioni restavano circa 40 mila reduci di Salò. I primi ordini di scarcerazione arrivarono il 26 giugno. Alla fine del 1946 i detenuti si era-

no ridotti a quattromila. Usciranno poi quasi tutti tra il 1948 e il 1949. Il 25 gennaio 1952, il ministro degli interni Mario Scelba, (sì proprio lui, il “ministro di Polizia”), affermava: «La stampa neofascista parla ancora oggi di 150 mila eroici combattenti della Rsi che languiscono nelle carceri italiane. Sapete quanti sono questi valorosi combattenti? Sono 442 (...) Che cosa vogliono di più da noi i fascisti? Che cosa pretendono con la pacificazione giuridica? Essi dimenticano, a esempio, che nel Belgio sono ancora detenuti 5 mila collaborazionisti, 400 dei quali condannati a morte. In realtà non si chiede la pacificazione, ma il capovolgimento dei criteri. Si chiede insomma il nostro riconoscimento dell’infallibilità di Mussolini». Nel corso del 1947, 1948, 1949, la Cassazione, per consentire l’applicazione più generalizzata possibile dell’amnistia, emette una lunga serie di sentenze in cui tra-

MOTIVAZIONI E RICORDI. Gigi Ganapini (La repubblica delle camicie nere, Garzanti, 1999, pp.519) ha scavato nelle motivazioni di quanti aderirono alla Repubblica di Mussolini: «Vestimmo la camicia nera. Da non molto era passato l’8

Tra il 1947 e il 1949 la Cassazione, per favorire l’amnistia, ha trasformato le sevizie in banali incidenti settembre. Eravamo pochi! Intorno a noi l’incomprensione più assoluta, il vuoto più esasperante. Non amo e non amerò mai la vita e i piaceri della vita, non esistono per me altro che questi ideali: Dio-Patria-Famiglia; Rispetto assoluto che ogni uomo deve a se stesso, ossia di fedeltà alla parola data, al giuramento con cui ha impegnato il proprio avvenire; La voce antica e sempre viva della Patria. E vuol essere la bandiera dell’onore e della salvezza dell’Italia». Onore, fedeltà, patria, famiglia, sono i termini che più frequentemente rimbalzano dai giornali di Salò ma anche nelle memorie dei reduci. Ganapini ce ne offre un campionario vastissimo, la cui lettura lascia come un senso di straniamento. È come se ci si confrontasse con un aggregato di valori assolutamente destoricizzati, rintracciabili in congiunture storiche anche molto diverse da quella della guerra ci-


il fiore del partigiano vile italiana 1943-1945; si tratta di virtù che hanno la granitica compattezza dello stereotipo, che si presentano per questo tanto immutabili quanto inattaccabili dal dubbio e dall’incertezza. Oggi, a 60 anni di distanza, la memoria dei sopravvissuti è così ancora segnata da un’autorappresentazione edificante, dalla riproposizione di quella esperienza giovanile nei termini totalizzanti e assoluti con cui fu allora, da adolescenti e da giovanissimi, vissuta. Quella stessa memoria, tuttavia, si sofferma con insofferenza sulla deportazione degli ebrei italiani, svoltasi con il contributo determinante della Repubblica di Salò i cui ragazzi, oltreché soldati, furono anche rastrellatori e deportatori di ebrei. La ricerca di Gigi Ganapini ne mette in luce l’impressionante corredo razzista, la progettazione di nuove misure antisemite, la fattiva collaborazione con i tedeschi nella cattura degli ebrei, attingendo a materiali documentari di grande interesse (come, per esempio, i testi elaborati dagli allievi della Scuola Ufficiali della Guardia Nazionale Repubblicana). Eppure, i ricordi dei reduci si addensano ancora intorno al «non lo si sapeva». Bene, ma oggi si sa. Eppure i ricordi, quei ricordi, sono ancora improntati alla fedeltà all’alleato tedesco, una fedeltà che equivaleva al coinvolgimento diretto nello sterminio. FORTUNE E SFORTUNE STORIOGRAFICHE 1945-1955. La memoria di Salò fu nell’immediato dopoguerra oggetto di una straripante moda editoriale; gerarchi e gregari si sbizzarrirono nei loro ricordi, per nulla “dannati”; inseriti pienamente nei circuiti della comunicazione, reintegrati nelle amministrazioni pubbliche, sottratti all’epurazione, amnistiati, i fascisti di Salò costruirono una loro prima vulgata, pienamente assolutoria, enfatica, vittimistica. Citiamo alcuni esempi: Filippo Anfuso, Roma, Berlino, Salò, 1936-1945. Memorie dell’ultimo ambasciatore del duce, Garzanti, 1950; Rodolfo Graziani, Ho difeso la patria, Garzanti, 1950; Ermanno Amicucci, I 600 giorni di Mussolini. Dal Gran Sasso a Dongo, Faro, 1948; Carla Costa, Servizio segreto. Le mie avventure in difesa della patria oltre le linee nemiche, Ardita, Roma, 1951; Giovanni Dolfin, Con Mussolini nella tragedia. Diario del capo della segreteria particolare del Duce, 1943-1944, Garzanti, 1949; Fulvia Giuliani, Donne d’Italia. Le ausiliarie nella RSI, L’Arnia, 1952; Giorgio Pini, Itinerario tragico, 1943-1945, Omnia, 1950. Fanno eccezione in questo contesto due opere di grande spessore letterario: Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Mondadori, 1953 (ora nei tascabili Einaudi); Giorgio Soavi, Un banco di nebbia. I turbamenti di un “piccolo italiano”, Einaudi, 1955.

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una dimensione esistenziale plumbea, a una pornografia raccapricciante in grado, tuttavia, di restituirne con grande efficacia il significato storiografico più profondo. GLI ANNI OTTANTA. Sono gli anni di una netta inversione di tendenza nello spirito pubblico e nell’uso pubblico della storia. Mentre declina il paradigma antifascista, una nuova ondata memorialistica (Luigi Bolla, Perché a Salò. Diario della Repubblica Sociale Italiana, a cura di Giordano Bruno Guerri, Bompiani, 1982; Guido Bonvicini, Decima marinai! Decima Comandante!, Monza, 1988) riaffiora tra i reduci di Salò. Diventerà un fiume in piena negli anni Novanta. Il suo titolo più significativo, quello che porrà le basi alla sua successiva evoluzione in direzione di una sempre più piagnucolosa aggressività, è Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, Mondadori, 1986 (ora nei tascabili Marsilio).

1955-1968. Sono gli anni in cui lentamente, soprattutto a partire dal luglio Sessanta, l’antifascismo diventa il paradigma di riferimento anche della nostra Repubblica. E sono anche gli anni in cui l’ondata della memorialistica neofascista rifluisce, per lasciare il posto a più meditate ricostruzioni storiografiche, in particolare: F.W. Deakin, Storia della repubblica di Salò, Einaudi, Torino, 1963; Enzo Collottti, L’Amministrazione tedesca dell’Italia occupata (1943-1945). Studi e documenti, Lerici, 1963. La risposta neofascista è affidata a Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, Fpe, Milano, 1965. GLI ANNI SETTANTA. Sono gli anni dell’antifascismo militante. La storiografia sulla Rsi si arricchisce di alcuni titoli significativi (Giorgio Bocca, La repubblica di Mussolini, Laterza, 1977; Riservato a Mussolini, a cura di Natale Verdina, Feltrinelli 1974), mentre nella memorialistica neofascista è il momento dei duri e degli irriducibili (Giorgio Almirante, Autobiografia di un fucilatore, Milano, Il Borghese, 1973; Junio Valerio Borghese, Decima flottiglia Mas, Garzanti, 1971). Nell’uso pubblico della storia, tiene banco il dibattito sulla Resistenza (“rossa” o “tricolore”). La memoria di Salò sopravvive solo nelle frange dell’estremismo neo-fascista. Le 120 giornate di Sodoma, il film di Pier Paolo Pasolini, sottolinea il nesso tra l’esperienza di Salò e un progetto biopolitico di morte. Questo nesso allontana dalla politica quell’esperienza e la consegna a

GLI ANNI NOVANTA. Una nuova vulgata diventa predominante nell’uso pubblico della storia. L’egemonia revisionista che caratterizza il mondo dei media si nutre anche di un esplicito tentativo di rivalutazione complessiva della Rsi: Giorgio Pisanò, Io, fascista 1945-1946. La testimonianza di un superstite, Il Saggiatore, 1997; Carlo Borsani jr., Carlo Borsani. Una vita per un sogno, 1917-1945, Mursia, 1995; Carlo Mazzantini, I Balilla andarono a Salò. L’armata degli adolescenti

Nel dopoguerra gerarchi e gregari, perfettamente reinseriti, si sbizzarrirono nei loro ricordi pieni d’enfasi e vittimismo che pagò il conto della Storia, Marsilio, 1995. Paradossalmente, emarginata e minoritaria nella grande arena dell’uso pubblico della storia, la ricerca storica su Salò conosce in quegli anni una sua grande stagione, ricca di studi e di titoli significativi (Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, 1943- 1945, Bollati Boringhieri, 1993; Dianella Gagliani, Brigate Nere, Bollati Boringhieri, 1999; Gigi Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Garzanti, 1999; Renzo De Felice, Mussolini l’alleato, 1940-1945. II. La guerra civile, 1943-1945, Einaudi, 1997). E, tuttavia, lo spessore di questi studi non basta: sul piano della trasmissione del sapere storico e nella costruzione del senso comune storiografico, la vulgata revisionista affidata ai media si rivela tremendamente più efficace della storiografia accademica.


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Stati impuniti il fiore del partigiano

LA SENTENZA DELL’AJA SU TUTELA DEI DIRITTI UMANI E IMMUNITÀ:

Deve ripartire la battaglia per una giustizia

I

di

da il manifesto del 3 marzo 2012

ANDREAS FISCHER-LESCANO*

tribunali italiani e greci, condannando la Repubblica federale tedesca a risarcimenti per crimini di guerra commessi nel secondo conflitto mondiale, avrebbero violato il diritto internazionale. Lo ha stabilito il 3 febbraio 2012 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja (in seguito Icj, International Court of Justice), con una decisione carica di conseguenze. Nessuna norma di diritto internazionale, secondo la sentenza, consentirebbe a persone private danneggiate di citare in giudizio la Rft di fronte a tribunali italiani o greci. Con la sua sentenza l’Icj ha fatto propria l’argomentazione tedesca, tesa a dimostrare che l’immunità degli stati vieterebbe una siffatta tutela decentrata dei diritti umani. La documentazione è accessibile in inglese e francese sul sito www.icj-cij.org. Un mandato per un negoziato Nel caso in discussione davanti all’Icj il risultato è particolarmente drammatico, perché i tribunali tedeschi hanno respinto le richieste di risarcimento delle vittime, e la via dei ricorsi in Germania è già esaurita. Le sentenze della Cassazione italiana impugnate dalla Germania davanti all’Icj attribuivano risarcimenti a deportati civili come Luigi Ferrini, a familiari di vittime delle stragi commesse da militari del Reich tedesco, come quella di Civitella in Toscana, e consentivano alle vittime greche della strage di Distomo di rivalersi su beni tedeschi in Italia. All’Aja non era controverso che questi gruppi di vittime, come anche gli internati militari italiani, avessero sofferto gravi violazioni del diritto internazionale di guerra, né che finora non fossero stati risarciti. Tanto che l’Icj, riferendosi in particolare agli internati militari, ha espresso «sorpresa e rammarico» per il rifiuto a indennizzarli opposto dalla Rft. Ma la sentenza purtroppo non va oltre questo segnale di sensibilità. Chiudendo l’accesso ai tribunali di altri stati, lascia le vittime senza tutela, e dà loro solo un barlume di speranza quando mette in chiaro che la garanzia dell’immunità lascia impregiudicata la questione se esista un obbligo di risarcire. Comunque, per i gruppi di vittime non ancora indennizzati, l’Icj ritiene che le loro richieste di risarcimento «possano divenire oggetto di ulteriori negoziati tra gli stati inte-

ressati, al fine di risolvere la questione». Complessivamente nella sentenza si può ben vedere l’affidamento di un mandato agli stati per rinegoziare le richieste di risarcimento pendenti.

Una Corte per gli stati Ma, con questo mandato per un negoziato, l’Icj lascia aperto solo un piccolo spiraglio alle vittime del Reich tedesco. A loro la Corte ha tolto vie effettive per ottenere giustizia. Perciò la sentenza è un disastro per la tutela dei diritti umani. La pianticella del riconoscimento di compensazioni per gravi violazioni dei diritti umani da parte dei tribunali nazionali è stata calpestata dall’Icj piuttosto brutalmente. Dal punto di vista giuridico la sentenza è contestabile. Essa interpreta una contraddittoria prassi di diritto internazionale con un approccio tutto incentrato sulla sovranità. I tre voti di minoranza, formulati dai giudici Antonio Cançado Trindade (Brasile), Giorgio Gaja (Italia) e Abdulkaw Yusuf (Somalia), sono invece nettamente improntati alla tutela individuale dei diritti umani. Le motivazioni di questi voti di minoranza appaiono più accurate e convincenti della sentenza. L’Icj non tiene conto in modo esaustivo della prassi del diritto internazionale. Dimostra di essere un tribunale degli stati per gli stati. La sentenza dell’Icj cerca di rimettere in ordine il diritto, nel disordine globale, rivitalizzando il principio per cui i diritti degli individui dovrebbero trovare affermazione per il tramite dei rispettivi stati d’origine. Ricorsi individuali innanzi ai tribunali nazionali vengono dichiarati fattori di disturbo. È prevedibile - questa l’ipotesi politica di fondo - che i tribunali di altri stati decidano nell’interesse di questi altri stati. L’esito di un procedimento davanti a tribunali ceceni, per violazioni russe dei diritti umani in Cecenia, sarebbe prevedibile, come aveva formulato l’esperto di diritto internazionale Andreas Zimmermann. L’indipendenza della giustizia, perfino la pace mondiale, verrebbero messe a rischio dalla possibilità di ricorsi individuali. «Estremismo dei diritti umani», così Christian Tomuschat, procuratore legale della Germania nel procedimento all’Aja, ha definito questo pericolo per l’ordine del secondo dopoguerra, sul settimanale Die Zeit. In seguito al ricorso del governo della Rft all’Icj, la politica del diritto internazionale tedesca ha ora ottenuto l’inglorioso risultato di vedersi confermata questa posizione da quella Corte.

Diritti inagibili La portata del principio dell’immunità degli stati è da anni controversa, in misura crescente. Diversi processi negli Usa, tra l’altro per i crimini della Shoah, il vertiginoso sviluppo del diritto penale internazionale e le cause civili davanti a tribunali europei, hanno portato a un ridimensionamento del principio dell’immunità nella prassi del diritto internazionale, a vantaggio di un’effettiva affermazione giudiziaria dei diritti umani. Lo scudo dell’immunità - questa la chiara tendenza nella prassi giuridica globale - non deve più valere illimitatamente in presenza di violazioni dei diritti umani. È un’evoluzione da approvare dal punto di vista della politica del diritto. In presenza della sotto-istituzionalizzazione dei diritti umani nella società mondiale, i tribunali nazionali sono un tassello importante nel sistema dell’affermazione transnazionale di questi diritti. Non a caso l’organizzazione per i diritti umani Amnesty International aveva cercato di influire sul procedimento in corso davanti all’Icj con un parere dell’esperto di diritto internazionale Michael Bothe. Le organizzazioni delle vittime sanno quanto è difficile far valere le ragioni della tutela dei diritti umani contro stati maldisposti. Naturalmente i rischi di nuovi conflitti in seguito a azioni giudiziarie, e di iperpoliticizzazione dei processi nazionali per i diritti umani, non possono essere esclusi a priori. L’Icj avrebbe potuto tenerne conto. Avrebbe potuto limitare la tutela giudiziaria nazionale a gravi crimini di guerra. E enunciare criteri procedurali da cui far dipendere il riconoscimento di decisioni di tribunali nazionali. Avrebbe così contribuito a delegittimare sentenze nazionali palesemente arbitrarie e a stabilire infrastrutture efficaci per la tutela transnazionale dei diritti umani. Insomma: la Corte avrebbe potuto delineare un quadro giuridico vincolante per la tutela dei diritti umani da parte di tribunali nazionali. L’Icj ha scelto un’altra strada, ignorando tra l’altro anche i «Principi fondamentali e lineeguida sul diritto a ricorsi e riparazioni per le vittime di flagranti violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario», dichiarazione approvata nel 2005 dall’assemblea generale delle Nazioni unite. In queste linee guida, che danno una formulazione al diritto internazionale consuetudina-


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il fiore del partigiano

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FINO A QUANDO DOVREMO ATTENDERE CHE SIA FATTA GIUSTIZIA?

globale

rio, si afferma che le vittime di gravi violazioni devono avere un efficace accesso alla giustizia. Le prossime cause La decisione dell’Icj contraddice questa finalità. Toglie alle vittime un efficace strumento di ricorso contro stati che violano i diritti umani. La corte, per dirla crudamente, si è dichiarata non competente sul terreno della tutela globale dei diritti umani. Le future strategie processuali delle organizzazioni per i diritti umani dovranno tenerne conto. Farebbero bene a rivolgersi, più che in passato, a altri fori. Non ci sarebbe da stupirsi se le corti regionali per i diritti umani, le commissioni per i diritti umani istituite dai due patti universali sui diritti umani, o anche il comitato contro la tortura e altre commissioni, contrapporrano un po’ alla volta alla decisione dell’Icj una prospettiva centrata sui diritti umani, restringendo ulteriormente la portata dell’immunità. Il risultato di un simile sviluppo sarebbe paradossale, ma non improbabile. In tal caso la decisione dell’Icj, lungi dal ristabilire la sicurezza del diritto, avrebbe invece contribuito a un’ulteriore frammentazione del diritto internazionale, perché altri fori non si uniranno all’alleluja immunitario dell’Icj. La sottovalutazione della tutela dei diritti umani da parte dell’Icj porterà a un indebolimento di questa corte. Chi giudica senza tener conto delle esigenze di giustizia, e delle condizioni strutturali della società mondiale, non ha meritato altro. * professore di diritto pubblico, diritto europeoe diritto internazionale all’università di Brema (traduzione dal tedesco di Guido ambrosino)

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Stragi naziste, quei diritti senza giustizia

da il manifesto del 11 febbraio 2012

er comprendere appieno la valenza della sentenza della Corte dell’Aja ritengo che bisogna tenere a mente alcune considerazioni: 1. La Repubblica federale tedesca non è lo stato “successore” del Deutsches Reich fondato nel 1871 e mai dissolto (neanche dalla cosiddetta “Repubblica di Weimar” (1919) e ancor meno dal millenario “Terzo Reich”), ma essa ha preteso per sé la identità con il Reich stesso, anche per poter rivendicare dopo il 1949 “i territori persi ad est” – e, last but not least, anche per escludere in definitiva ogni eventuale legittimazione alla Repubblica Democratica tedesca (v. la dottrina Hallstein). Come tale la Rft è responsabile anche per quel passato tedesco “che non passa” neanche nel terzo millennio, come mostrano le ultime vicende dolorose rievocate con la citazione dell’Italia davanti alla Corte Internazionale dell’Aja per rivendicare da parte della Rft la “immunità degli stati”. 2. Durante vari momenti della storia postbellica la Rft – sottrattasi fino ad oggi ad un regolare trattato di pace e al pagamento degli ingenti danni di guerra all’Europa intera – ha dovuto acconsentire ad alcuni indennizzi forfettari nei confronti di vari stati a livello bilaterale, ma Enzo Collotti (Memoria senza diritti, 7 febbraio) ha ricordato quanto poco questi “risarcimenti” fossero adeguati alla portata reale dei danni e dei crimini perpetrati. L’Italia ha ottenuto nel 1960 ben 40 milioni di marchi. E Collotti ricorda che fino ad oggi la Germania non ha mai riconosciuto il reale status dei 600.000 ex internati militari italiani, ai quali – una volta deportati nel Reich – veniva negato lo status di prigionieri di guerra per

poter eludere l’osservanza delle rispettive norme della Convenzione di Ginevra. 3. L’auspicio che possa essere demandato un possibile regolamento della complessa questione a future “trattative diplomatiche tra stati” ha un vago sapore di beffa, considerato il fatto che la Germania ha eluso da decenni proprio questo rapporto con il passato. Altrimenti non si sarebbe mai arrivato alla situazione odierna. E la responsabilità della Rft per non avere mai fatto fino in fondo i conti con il proprio passato (si ricordi il vecchio saggio di Ralph Giordano, “Die Zweite Schuld”). La seconda colpa, riferita proprio a questa mancanza, dopo la guerra, non viene alleviata dalla constatazione, alquanto dolorosa, della complicità politica dei governi occidentali nel contesto atlantico ed europeo durante la guerra fredda e oggi per motivi economici. E non c’è, da parte tedesca, monumento all’Olocausto che tenga. 4. Se la sentenza dell’Aja appare dunque in sintonia con una lunga e vergognosa tradizione giuridica tedesca essa si trova però oggi in contraddizione non solo con l’auspicio di un progressivo superamento delle barriere tra stati nell’ambito della globalizzazione – ma anche con i tentativi mal celati di voler abbattere con la forza economica la sovranità di uno stato come la Grecia, dove sono proprio esponenti della Germania a chiedere più o meno il commissariamento dello stato, altro che “immunità”! 5. Il diritto individuale dei singoli cittadini europei contro il sopruso da parte degli stati nei propri confronti non esce rafforzato da questa sentenza e nemmeno il diritto dei popoli, che vedrà di fatto legittimata la licenza di futuri crimini. Susanna Böhme-Kuby

Risarcimenti: domande al governo Monti

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da il manifesto del 3 marzo 2012

a corte dell’Aja, con la sentenza del 3 febbraio, ha assegnato dei “compiti” al governo. La Repubblica italiana, «con appropriate misure legislative, o con altri provvedimenti a sua discrezione», dovrà far sì che «cessino di avere effetto le decisioni adottate dai suoi tribunali in contrasto con l’immunità di cui gode la Repubblica federale tedesca». Faccenda delicata perché - ricorda l’avvocato Joachim Lau - i deportati come Luigi Ferrini, o i superstiti delle stragi commesse dal Reich tedesco, che si sono visti confermare compensi in cassazione, «sono titolari di diritti di risarcimento definitivi, e non possono esserne espropriati senza indennizzo».

Come intende procedere la ministra della giustizia Paola Severino? Quanto alle «richieste di cittadini italiani finora non regolate» il governo può «farle oggetto di ulteriore negoziato» con la Germania. Il ministro degli esteri Giulio Terzi ha dato prova di attenzione ricevendo il 7 febbraio il comitato dei familiari delle stragi di Marzabotto, l’associazione dei reduci dalla prigionia e dalla deportazione (Anrp), quella degli internati militari (Anei) e l’Anpi, in rappresentanza dei partigiani. Enzo Orlanducci, presidente dell’Anrp, ringrazia, ma attende “fatti”. Può dirci il ministro Terzi quali passi ha intrapreso per ottenere dalla Germania il risarcimento delle vittime? Guido Ambrosino


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il fiore del partigiano

aprile 2012

CONTRO L’ESPANDERSI DEI NAZIONALISMI, L’EUROPA DEVE PUNTARE SULLA

di

THORBJØRN JAGLAND*

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da il manifesto del 12 febbraio 2012

essere titolari di diritti umani. Loro, invece, non ne hanno. Non godono nemmeno dei diritti fondamentali: l’istruzione, la salute, l’alloggio, la sicurezza. Niente. Uno dei programmi di maggiore successo del Consiglio d’Europa è quello delle città interculturali. Ma non basta il progetto, ci vuole l’attuazione. Non lasciamoci fuorviare dalla crisi dell’euro e dal terrore della recessione. Sappiamo bene che può anche andare peggio, se non interveniamo. Sono problemi che con una più ampia visione umana e sociale si possono risolvere. Invece, ci sono troppi stereotipi, distorsioni e pregiudizi a influenzare l’opinione pubblica, soprattutto nei confronti degli emigranti. L’unica soluzione possibile è la coesione sociale. La diversità culturale è una caratteristica storica che non si può rimuovere: dobbiamo imparare a conviverci e cercare di trarne beneficio. In secondo luogo, bisogna rifiutare gli estremismi, la discriminazione, il razzismo, l’intolleranza e l’incitamento all’odio. Infine, ricordarci dei valori fondamentali che ci legano, sanciti dalla Convenzione europea dei diritti umani. Quindi dell’assoluta necessità di rispettare l’identità culturale, religiosa o etnica degli altri senza rinunciare alla propria.

isogna ideare una strategia per la gestione democratica della diversità. Questa è la grande sfida del momento, forse più importante dell’economia, dell’energia e delle minacce militari. Purtroppo, abbiamo trascurato questo problema. E abbiamo fatto male. Sono certo che tutti si rendano conto che negli ultimi tempi discriminazione e intolleranza hanno raggiunto livelli molto preoccupanti. Minoranze come Rom e musulmani sono emarginati e stigmatizzati. L’antisemitismo è in aumento e i partiti xenofobi guadagnano popolarità in diversi paesi europei. Con l’attuale crisi finanziaria, questa pericolosa tendenza è in continuo aumento. Io sono terrorizzato dall’idea di una recrudescenza della politica nazionalista. Se la tolleranza fallisce mentre il nazionalismo riempie le urne, per l’Europa sarà un disastro. Ma c’è il pregiudizio nei confronti della diversità. Drammatici avvenimenti come il massacro di Utoya confermano la paura che abbiamo nei confronti dei gruppi culturali e religiosi diversi. Se continua così è facile prevedere che dai ghetti delle popolazioni migranti, si passerà all’odio parallelo delle due società. Nell’estate del 2010 affidai a un da l’Unità del 31 gennaio 2012 gruppo di insigni politici europei uno studio sulla diversità e Italia è la mia terra, la mia patria, la mia raccomandazioni per la pacifica nazionale quando gioca in un campionato convivenza. La soluzione fu troeuropeo o in un mondiale. L’Italia è la terra dove vata: 17 principi guida e 59 prosono cresciuto, dove ho studiato, dove mi sono inposte di azione sotto forma di namorato la prima volta, dove ho pianto la raccomandazioni strategiche. prima volta. L’Italia sarà la terra dei miei figli, i Ricevetti attestati di consenso quali molto probabilmente non si leveranno mai da tutto il mondo. Serve solo la questo cliché “del figlio dell’immigrato”. volontà di mettere queste stratePer qualcuno della mia città sono un italiano digie in pratica. verso perché mi chiamo Mohamed e non FrancePrendiamo la questione dei sco, Giuseppe, Antonio, Giovanni o Andrea, ma Rom. C’è un solo stato che si sia cosa vuol dire essere o sentirsi italiani? realmente occupato di loro, che Essere italiani vuol dire riconoscersi nei valori di abbia difeso i loro interessi? E i questa terra. Essere italiani vuol dire parlare la profughi? I richiedenti asilo? E lingua di Dante, di Manzoni, di Boccaccio, essere gli emigranti? Sono oltre 15 miitaliani vuol dire emozionarsi nel sentire l’inno lioni gli irregolari. Non è necesd’Italia, essere italiani vuol dire con orgoglio tisario avere le carte in regola per

foto paolo CiaBerta

Senza migranti non ci sarà benessere Facciamoli votare

Tutto inizia con l’istruzione. I giovani sono il nostro futuro, dobbiamo educarli ad accettare e apprezzare la diversità. A volte bastano cose semplici come l’insegnamento delle lingue straniere. Servirebbe un vasto programma di insegnamento delle lingue straniere non solo per i bambini in età scolare. L’Europa ha bisogno del multilinguismo per costruire una nuova società, che veda nella diversità il rispetto di ciascuno a scegliere la propria identità. Le persone vogliono godere della propria ricchezza culturale: essere marocchino e francese, un turco e un tedesco al tempo stesso. Ma bisogna rispettare anche identità e diritti della cultura locale. La tendenza verso la cittadinanza multipla è inarrestabile. Allora perché non fare votare gli emigranti alle elezioni locali, anche al di fuori dell’Unione Europea? Perché non offrire loro la cittadinanza? Ormai

Io, straniero nel mio Paese L’

rare fuori la bandiera, il tricolore, ed esporlo il 17 marzo, essere italiani vuol dire sentirsi da Trieste a Palermo parte integrante di un grande popolo, di una grande nazione, di una grande storia. Essere italiani significa riconoscere in Paolo Borsellino e Giovanni Falcone eroi indimenticati, che con il loro sacrificio hanno lasciato un segno di cosa vuol dire credere in quel principio fondamentale di ogni democrazia chiamato legalità; essere italiano vuol dire difendere la propria patria anche sacrificandosi; essere italiani significa lottare e impegnarsi nella crescita culturale, economica e sociale di questo paese. L’Italia si riconosca nei suoi figli indipendentemente dalla loro matrice biologica. Sono un italiano nel cuore, nell’anima, nei pensieri, nella vita. Un italiano che viene privato della propria identità. Non voglio essere avvantaggiato rispetto a un


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il fiore del partigiano COESIONE SOCIALE

aprile 2012

Delitto perfetto

CHI HA UCCISO IL MODELLO SOCIALE EUROPEO?

da E-il mensile aprile 2012

di

STEFANO SQUARCINA

N

molte persone si integrano rapidamente nel tessuto sociale e dovrebbero potersi considerare cittadini come tutti gli altri. Le religioni sono profondi marcatori di identità. Ma troppo spesso sono usate come una copertura per l’estremismo e l’intolleranza o utilizzate come espedienti per mettere in discussione la necessità di diversità. Come può così l’Europa diventare modello di democrazia e di coesione sociale nel mondo? * laburista norvegese, è il segretario generale del Consiglio d’europa. Questo è il discorso pronunciato ieri a helsinki al meeting del Gruppo arraiolos, costituito dai capi di stato di finlandia, austria, Germania, ungheria, lettonia, portogallo, polonia, slovenia e italia sui fenomeni di intolleranza e razzismo.

mio coetaneo italiano, voglio concorrere ad armi pare nell’università, nello sport e nel mondo lavorativo. Sono un italiano “con il permesso di soggiorno”, senza il quale non potrei avere un futuro. Non è bello, ve lo assicuro, rinunciare a un viaggio con gli amici o con la classe del liceo perché “vanno solo quelli della Unione europea”, fare la fila in questura ogni 2 o 3 anni per rinnovare il permesso di soggiorno con chi è arrivato l’altra settimana e dell’italia non conosce niente. Sono qui dall’inizio della mia vita, non ho attraversato frontiere o dogane, al cous cous preferisco una buona e gustosa pizza margherita. Non sono diverso dai vostri figli. In fondo l’Italia sono anch’io! Mohamed Rmaily

Forum Agorà

on è vero, come dice in sostanza il governatore della banca centrale europea Mario Draghi in un intervista al Wall Street Journal del 23 febbraio scorso, che il modello sociale europeo è semplicemente morto. È stato invece “assassinato” dalle politiche europee di austerità e rigore di bilancio che hanno preferito salvare un sistema bancario e finanziario sconnesso dalla realtà industriale e produttiva, invece di puntare sul rilancio della crescita e dell’occupazione per uscire dalla drammatica crisi economica e sociale in cui l’Unione europea si trova. In tre anni e mezzo di crisi, le banche europee hanno incassato 6100 miliardi di euro in aiuti governativi, soldi dei contribuenti; lo dice il presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso. Con la stessa cifra avremmo potuto comprarci per ben diciassette volte tutto il debito pubblico della Grecia o, se vogliamo, i debiti di Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Irlanda e Grecia messi insieme, senza bisogno di riforme antisociali, e ancora ne avanzerebbero. La crisi greca è stata utilizzata per imporre una più generalizzata riforma del modello sociale europeo, per imporre tagli ai sistemi pensionistici pubblici, per riformare il mercato del lavoro, per ridurre al lumicino il finanziamento dello stato sociale, per aprire ulteriormente i sistemi economici a un modello di competitività mondiale sregolata. L’unica prospettiva che l’Unione europea ci propone oggi è quella di condizioni salariali e dei diritti allineate a quelle dei cinesi o dei vietnamiti - non il contrario - complice una globalizzazione dei mercati che spinge verso il basso la redistribuzione della ricchezza. Dobbiamo fare i conti con la nuova realtà economica del mondo, ci spiegano, mentre - guarda caso - dimenticano di spiegarci che questa è il frutto di scelte politiche ed economiche ben precise, ispirate alla nuova teologia dell’austerità. La governance è la nostra nuova Bibbia, i regolamenti europei in materia i nuovi Atti degli Apostoli. Poco importa se l’Unione europea e la zona euro saranno, nel 2012, le uniche regioni del mondo in recessione economica, a dimostrazione delle assurdità delle politiche pro-cicliche di Commissione e Consiglio Ue. Non contenti, lo scorso 2 marzo i lea-

der europei hanno firmato a Bruxelles un nuovo trattato sulla governance rafforzata: con l’imposizione della costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio, mettono fuori legge quella di Keynes e altre importanti teorie di politica economica sulla crescita e l’espansione della produzione industriale. A Bruxelles, è pronto anche un secondo pacchetto d’iniziative legislative sulla governance, da perfezionare entro giugno, che insiste sulla strada dell’austerità. Il modello sociale europeo, caro Draghi, non è morto di morte naturale. L’avete ucciso voi con le vostre politiche: 6100 miliardi di euro per le banche e non una lira per finanziare il rilancio industriale e dell’occupazione in Europa; vorrà ben dire qualcosa tutto ciò, o come al solito non è colpa di nessuno?

Manifestazioni a Parigi. “Siamo tutti canaglie, feccia” dice la nonna. “Non siamo dei kleenex” dice la ragazza. Così capita di sentirsi considerati nell’Europa odierna


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La memoria vola nel vento

PLACIDO RIZZOTTO, PARTIGIANO E SINDACALISTA CON SETE DI GIUSTIZIA

Placido Rizzotto avrà funerali di Stato. Dopo che i resti del sindacalista ucciso dalla mafia nel 1948 sono stati riconosciuti dall’esame del dna, in molti si erano appellati al Governo perché riconoscesse il valore civico e storico della sua figura. Riportiamo in questa pagina due interventi ripresi da l’Unità del 14 marzo 2012.

come portata dal vento. C’è stato un tempo in cui i poeti (io mi ricordo del grande Ignazio Buttitta) raccoglievano la memoria nei loro cappelli, e ce la rendevano sotto forma di canti che ci facevano rabbrividire nelle piazze in inverno, con voce roca cantava Ciccio Busacca: «Santo era e non aveva l’ali, in cielo saliva senza corde e scale…», è il santo era laico, e magari socialista, si chiamava Salvatore Carnevale e «come Cristo è morto ammazzato». Hanno incominciato nel 1893 i contadini a di PASQUALE SCIMECA* occupare le terre, e nelle colonne infinite, assieme alle mule, agli aratri e alle zappe, asè stato un tempo in cui la memoria sieme alle fanfare e alle grida strozzate, dei popoli era fatta di carne, nervi e sventolavano al vento delle trazzere le banossa. C’è stato un tempo in cui la diere rosse e gli stendardi dei santi, di Maria memoria camminava su gambe. Un tempo e di San Giuseppe. E già allora hanno iniin cui si nutriva di parole, era accompagnata ziato ad ammazzarli, chi dirigeva le lotte, chi dai gesti, suonava e aleggiava nelle piazze gridava più forte degli altri. Poi c’è stata la prima guerra, quella del 15-18, e anche lì li ammazzavano i conLA VOCE DELLA CAMERA DEL LAVORO DI PALERMO tadini sepolti nelle trincee, con i cannoni gli sparavano, sia i nemici austriaci, ma anche gli amici ital segretario della Camera del lavoro di palermo, maurizio Calà, ha 45 liani. anni, si è avvicinato all’impegno sociale negli anni ottanta, da stuPoi c’è stato il fascidente, quando l’antimafia era per i ragazzi della città il biglietto di insmo, quell’inverno gresso nell’età adulta. del nostro scontenCosa significa per lei la figura di placido rizzotto? to durato vent’anni. «Per i gruppi dirigenti del sindacato del Mezzogiorno la mafia è stata la Pagliacci e buffoni grande discriminante, dal 1945 a oggi, perché in Sicilia la Liberazione orrendamente agè continuata nella lotta alla mafia. Placido Rizzotto è un esempio, inghindati, burattini e quietante, di questa doppia lotta. Non solo lui, perché sono più di 50 i burattinai vestiti di sindacalisti della Cgil uccisi per mano mafiosa. Nel caso di Rizzotto c’è nero che come corvi una condizione atipica». pascolavano nelle una condizione atipica? praterie di un popolo «Carlo Alberto Dalla Chiesa trovò i responsabili, il che non è stato per reso imbelle dalla Portella delle Ginestre. La politica era invischiata, gli americani erano fame e dalla miseria. sbarcati in Sicilia anche con l’aiuto della mafia. E con la mafia si cerE un’altra volta la cava di fermare le forze della sinistra, perciò non era facile stare dalguerra, con massacri l’altra parte come fece il capitano Dalla Chiesa. In questa storia ci sono indicibili, deportadue pezzi di Stato: c’è il sindacalista che ne rappresenta l’aspetto civile e c’è Dalla Chiesa, il militare». zioni e sterminio. Chiediamo i funerali di stato Placido Rizzotto da «Ci uniamo a voi. dalla Chiesa, falcone e Borsellino, volevano tenere Corleone fu manviva la memoria per formare le nuove generazioni e classi dirigenti. dato, anche lui, a hanno avuto ragione. e stiamo parlando di Corleone, il luogo che per combattere. Era gioeccellenza simboleggia nel mondo la mafia. i funerali di stato per plavane Placido, sapeva cido rizzotto significano rendere giustizia ai siciliani. a combattere la appena leggere e mafia siamo stati innanzitutto noi, questo non sempre è stato racconscrivere, e quando tato nelle varie piovre. si dice che la mafia non dimentica, in questo nel ‘43 ci fu l’armisticaso abbiamo vinto noi, abbiamo resistito per far affermare la giustizio, al posto di torzia». la Cgil chiede anche la riapertura delle indagini «sì, non basta la narsene a casa, riverità storica. Ci vuole anche la verità giudiziaria, lo stato deve ricomase lassù, sui monnoscere in modo ufficiale la storia». ti della Carnia, a Jolanda Bufalini combattere, questa

C’

Le istituzioni erano conniventi Dalla Chiesa le riscattò

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volta, l’unica guerra giusta che sia mai stata combattuta, la guerra Partigiana. E su quelle montagne, così lontane, fredde e distanti, Placido Rizzotto è diventato Partigiano, è diventato Uomo. Lì ha imparato che vuol dire giustizia, che prezzi tremendi richiede la libertà, lì ha imparato a non piegare la schiena, a battersi per chi è debole, per chi non ha la forza per difendersi dai soprusi, dalle violenze, dalle ingiustizie. E quando è tornato a Corleone poteva mai piegarsi alle minacce, all’arroganza, alla protervia dei mafiosi? Li disprezzava, Placido, i mafiosi del suo paese, non ne aveva paura. Li guardava negli occhi e sputava per terra. E i contadini, spronati dal suo esempio, facevano altrettanto. Si organizzavano e volevano occupare le terre per rivendicare un diritto che per secoli gli era stato negato. Oggi che le terre sono quasi tutte incolte e nessuno più le vuol lavorare, ci viene da ridere al pensiero, ma allora possedere un pezzo di terra faceva la differenza tra la vita e la morte. Se avevi un pezzo di terra potevi coltivarlo e dar da mangiare ai tuoi figli, altrimenti morivi di fame. Per questo la mafia, con l’accordo dei nobili proprietari terrieri, decise che quel 10 marzo del 1948 Placido Rizzotto doveva morire. E siccome avevano cervelli fini i mafiosi, decisero che non bastava ammazzarlo, di Placido doveva perdersi persino il ricordo. Non doveva rimanere niente di lui, neanche le ossa. L’ammazzarono (quella carogna di Luciano Liggio e dei suoi accoliti) e ne buttarono il corpo nella “ciacca” di Rocca Busambra. Ma la memoria vola nel vento e cammina sulle gambe, e si nutre del sangue che bagna le pietre, e aleggia nei poemi e nei racconti dei sopravvissuti. E ora, quelle quattro ossa che non ne hanno mai voluto sapere di scomparire, sono tornate e ci accusano tutti. Noi, con la nostra abitudine a dimenticare; la mafia con la sua pretesa di impunità; lo Stato, spesso, troppo spesso colluso o ignavo. Sono lì che aspettano una tomba, sono lì che ci ammoniscono, sono qui che ci spronano e ci aiutano, spero, a essere migliori. *regista del film “Placido Rizzotto”


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TROPPE RETICENZE E DISTORSIONI SUI FATTI ACCLARATI DI GENOVA

Quello che il film “Diaz” non dice

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da il manifesto del 11 aprile 2012

VITTORIO AGNOLETTO*

n grande battage pubblicitario annuncia da mesi l’uscita del film “Diaz. Don’t clean up this blood”. Molti critici e giornalisti hanno convalidato quanto più volte ripetuto sia dal produttore che dal regista: «I fatti narrati in questo film sono tratti dagli atti processuali e dalle sentenze della Corte di appello di Genova»; come dire: quello che si vede nel film è la verità oggi accertata. Non c’è dubbio che le lunghe sequenze che mostrano le gravissime violenze agite dalla polizia alla Diaz e le torture praticate a Bolzaneto rendono visibile per la prima volta quanto è avvenuto nella scuola e nella caserma; su questo ha ragione Angelo Mastrandrea (il manifesto 7 aprile). Questo è senza dubbio un merito che di per sé può motivare la visione del film. Il rischio dell’oblio è forte e non c’è dubbio che i nostri governanti siano impegnati, da quasi undici anni, a cancellare dalla memoria collettiva quei fatti. Chiunque uscirà dalla proiezione si sentirà fortemente coinvolto e indignato dalla ferocia delle violenze istituzionali alle quali avrà assistito. È l’efficacia del film, un pugno nello stomaco che non si dimentica. Ma tale riconoscimento non può esimerci dall’esercitare, anche in questo caso, un’analisi critica, tanto più rigorosa quanto più il film tende a essere presentato come aderente alla verità storica e processuale. Ecco quindi le mie principali critiche. Il film «sorvola sui nomi di chi allora quell’operazione condusse e giustificò» scrive su il Corriere della sera del 13 febbraio Giuseppina Manin dopo aver visto il film al festival di Berlino. E racconta che il produttore Domenico Procacci rispose: «In un primo tempo la sceneggiatura prevedeva l’elenco completo dei ragazzi e dei responsabili del massacro. Poi però la parte offesa ci ha chiesto di non citare i loro nomi. E a quel punto abbiamo deciso di togliere anche gli altri.» Il rispetto per le vittime avrebbe spinto gli autori a non citare i nomi dei carnefici! Non si capisce quale sia la connessione. Eppure quei nomi sono scritti proprio negli atti giudiziari ai quali il film fa riferimento: si ritrovano nella lista dei condannati. Sono personaggi importanti, di potere, condannati in appello per gravi reati e che oggi ricoprono ruoli di primissimo piano nelle forze dell’ordine. Nemmeno nelle poche righe che precedono i titoli di coda compaiono i loro nomi e nemmeno si spiega che costoro sono stati tutti promossi. Guardando il film mi è tornato in mente quanto scrive Luis Mario Borri, uno dei sopravvissuti alla dittatura argentina, quando commenta le ricostruzioni di quella tragedia storica: «Da tempo alcuni puntano ossessivamente i riflettori sulla verità con il subdolo proposito di cacciare nella penombra la giustizia». Mi domando qual è il motivo di tanta cautela e mi chiedo se

sia in relazione con la scelta pubblicizzata dal produttore di inviare, ancora prima di cominciare le riprese del film, una copia della sceneggiatura all’attuale capo della polizia Antonio Manganelli. Manganelli, all’epoca vicecapo della polizia, è colui che, stando a quanto affermato dall’ex questore Colucci, in una telefonata intercettata durante l’inchiesta, avrebbe detto: «Dobbiamo dargli una bella botta a ‘sto magistrato», riferendosi al pm Zucca. Difficile capire che titolo avesse Manganelli per leggere in anteprima la sceneggiatura. La responsabilità di quanto è accaduto nella notte della Diaz sembra venir scaricata sul personaggio giunto da Roma, che poi sarebbe Arnaldo La Barbera, deceduto da tempo per malattia. È esattamente una delle tesi sostenute a suo tempo dagli imputati. Nulla emerge dal film sulla figura dell’allora capo della polizia, oggi potentissimo capo dei servizi segreti, Gianni De Gennaro. Il Pubblico Ministero del processo Diaz, Enrico Zucca, in un’intervista rilasciata ad Altreconomia dopo aver assistito al film, ricorda i filmati d’archivio con «la presenza dei funzionari che comandavano l’operazione, un direttorio spesso riunito sul campo che decide nelle svolte cruciali. Quel gruppo… scompare invece dal film». Uno dei dirigenti di polizia, la controfigura di Michelangelo Fournier, il funzionario che aveva il comando operativo del suo reparto durante l’assalto alla Diaz, viene persino dipinto come una persona logorata da dubbi amletici al punto di scusarsi con le vittime. Resta da capire quali siano in questo caso le fonti documentali. Non si dice una parola invece sui due infermieri che per aver denunciato le torture di Bolzaneto hanno dovuto abbandonare l’amministrazione penitenziaria, sul poliziotto che per aver collaborato coi giudici si è trovato le quattro ruote dell’auto tagliate, sul vice capo vicario della polizia Andreassi che, per aver scelto di non partecipare all’operazione della Diaz, ha avuto la carriera stroncata. Tutti fatti, questi, ampiamente documentati. Non una parola è detta sul ruolo dei politici coinvolti nei fatti di Genova: nulla su Fini, niente su Scajola. Un solo passaggio di repertorio, alla fine, su Berlusconi. Viene taciuta persino la visita che Roberto Castelli, allora ministro della Giustizia, fece alla caserma di Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. La politica sembra non aver avuto alcuna responsabilità. Enrico Zucca nell’intervista citata, dopo aver ricordato la forte rimozione attuata dalla politica e dalle istituzioni sulle responsabilità, afferma: «Il film cautamente si adegua e non solo, in alcuni passi ricostruttivi sceglie la versione degli imputati (n.d.a. i poliziotti) rispetto a quella contrastante delle vittime. Se vogliamo l’unico messaggio netto che ha dato è che i black bloc erano – anche – alla Diaz». Non è un fatto di poco rilievo. La destra ha costruito tutta la sua campagna di criminalizzazione del

movimento sostenendo la contiguità tra Genoa Social Forum e Black Bloc. Su argomenti di simile importanza non sono ammesse licenze da romanzo, specie se si afferma di fare un film basandosi sulle inchieste giudiziarie. Il racconto è completamente decontestualizzato; non viene mai spiegato perché 300.000 persone quel luglio 2001 si siano recate a Genova. Cosa può capirne un giovane che oggi ha vent’anni? Per non parlare di chi lo vedrà tra qualche anno. C’è stata un forte repressione, ma perché? Cosa volevano quelle persone massacrate di botte? Mistero. Gli autori replicano che il loro obiettivo non era raccontare la storia del movimento. Ma sarebbe stato sufficiente inserire qualche spezzone tratto da filmati di repertorio, ad esempio dall’intervento di Susan George in apertura del Forum il 16 luglio 2001, per dare un’idea delle nostre ragioni. Immagini facilmente recuperabili tra la documentazione video alla quale la produzione del film ha avuto pieno e illimitato accesso. Se non si spiegano le ragioni del movimento diventa impossibile spiegare le ragioni della repressione. Infatti. Inutile anche cercare di capire che cosa sia stato il Genoa Social Forum. Non se ne parla, anzi sono inserite alcune scene dove viene rappresentata una riunione del GSF piena di zombie totalmente inconsapevoli della realtà che li circonda. Eppure è stata una delle esperienze più interessanti di organizzazione dei movimenti negli ultimi decenni. La ricostruzione di quella riunione è semplicemente un’invenzione. Viene da domandarsi: perché, dopo non averne spiegate le ragioni, si ritiene di dover squalificare il GSF? In sintesi: lo spettatore resta sconvolto dalle violenze commesse dalla polizia, ma legittimato a pensare di trovarsi di fronte ad episodi isolati, appartenenti al passato e dovuti all’azione di alcune “mele marce”. Non ad azioni progettate e gestite da chi ancora oggi è ai vertici delle nostre istituzioni di sicurezza; e tutto ciò sta nella carte processuali, non nella fantasia di qualche estremista. Certo se racconti le responsabilità, le documenti e fai nomi, se racconti tutti i tentativi, illegali, che sono stati fatti per impedire lo svolgimento dei processi, rischi la censura dei grandi media e un’ostilità politica generalizzata come avvenuto per il libro “L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova” che ho scritto insieme a Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime della Diaz.. Se invece si sceglie di non toccare i punti più delicati e impegnativi, allora non si può affermare di raccontare nel film quanto emerso dalle verità processuali. La verità è tale se, oltre a non raccontare falsità, la si racconta tutta, senza scegliere quale parte di verità raccontare e quale tacere. Per questo concordo con Guadagnucci: un film così si poteva fare nel 2002, non nel 2012, ad inchieste concluse.

*all’epoca, portavoce del Genoa Social forum


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L’EREDITÀ POLITICA DEL PRESIDENTE EMERITO È IL PATRIMONIO DELLA DEMOCRAZIA

Scalfaro, tre volte Padre della Patria 30 gennaio 2012

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di

DOMENICO GALLO*

desso che è stata consegnata all’eternità, risplende la bellezza dell’avventura umana di Oscar Luigi Scalfaro, un uomo a cui spetta di diritto il riconoscimento di Padre della Patria. Molti grandi uomini hanno dato il loro contributo nell’assemblea costituente per definire i caratteri universali di quel progetto di democrazia che si è incarnato nella Costituzione ed ha definito il volto ed i caratteri della Patria repubblicana. Scalfaro, giovanissimo magistrato, proiettato nel ruolo di costituente ha respirato, assieme a Calamandrei, Dossetti, Basso, La Pira, Togliatti, Bozzi, Terracini, quell’aria di libertà, di pulizia morale, di risorgimento civile che spirava dalle montagne dove la resistenza aveva testimoniato la fede nell’avvento di un mondo nuovo, liberato per sempre dalle tirannie e dal ricatto della violenza e del terrore. A differenza di altri, Scalfaro non ha mai perduto la fede nei valori repubblicani che i padri costituenti hanno donato al popolo italiano ed il destino gli ha dato la possibilità e l’opportunità di difenderli come un leone. Scalfaro è stato Padre della Patria in quanto ha contribuito ad edificare quella Costituzione che ha dato sostanza e contenuto di Patria alla comunità politica degli italiani. Dopo aver contribuito al parto della Costitu-

“Una costituzione viva. Vivissima” Il lIbro

in queste pagine edite da Cittadella editrice, in libreria dopo poche settimane dalla sua scomparsa, oscar luigi scalfaro ripercorre con lucidità le tappe che hanno portato all’elaborazione del testo della Carta Costituzionale, riflettendo sul clima che ha caratterizzato i lavori, e ci introduce gradualmente nella sua comprensione.

zione, Scalfaro ha svolto un ruolo fondamentale, in due occasioni, per impedire che il patrimonio della democrazia, così faticosamente conquistato, venisse disperso dalle tempeste di vento nero che hanno attraversato l’Italia. La prima è stata quando, da Presidente della Repubblica, nel 1994/1995, affrontò la crisi conseguente alla caduta del primo governo Berlusconi, che, sebbene dimissionario, in quanto sfiduciato dalle Camere, non aveva alcuna intenzione di abbandonare il potere e pretendeva di punire, mediante lo scioglimento anticipato, il parlamento che gli aveva tolto la fiducia, impedendo che potesse succedergli ogni altro governo. Scalfaro difese in modo fermissimo ed intransigente le prerogative del Parlamento ed avvertì la necessità di un riequilibrio della competizione politica, chiedendo che si ristabilisse la “par condicio” prima di affidarsi nuovamente alle urne. Per questo fu accusato di golpismo da Berlusconi e fu oggetto di una campagna durissima di ingiurie, minacce e pressioni di

IL RICORDO DI ENRICO ROSSI, PRESIDENTE REGIONE TOSCANA

Mi disse: “I sondaggi non servono”

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da l’Unità del 30 gennaio 2012

o incontrato il presidente Scalfaro due volte, da sindaco. E mi piace ricordarlo così. Scalfaro venne a Pontedera il 22 maggio 1995 a celebrare il 40° anniversario dell’elezione del nostro concittadino Giovanni Gronchi alla mas- sima carica dello Stato. Rimase così contento della visita e dell’accoglienza nella cittadina “rossa” di cui ero sindaco che pensò di ricambiare l’ospitaltà invitandomi al Quirinale. Era l’ottobre 1995. Era in carica il governo Dini, che aveva sostituito Berlusconi. Si era aperto il cantiere per la costruzione dell`Ulivo e la vittoria di Prodi del 1996. Scalfaro ricevette me e il vicesindaco del Partito Popolare con grande cordialità. Ci disse che a Pontedera aveva visto un popolo nuovo che superava le vecchie contrapposizioni politiche, si poteva unire intorno alla Costituzione, alla sua difesa e applicazione. Poi ci espresse le sue opinioni sui sondaggi che allora iniziavano

ad ammorbare la politica. Ci raccontò che all’aeroporto aveva incontrato Berlusconi, che gli aveva fatto vedere un sondaggio da cui risultava tutto l’amore che il popolo nutriva nei confronti di Silvio. «Ma io - ci disse - non mi feci turbare. Replicai che anch’io avevo un sondaggio che però non collimava affatto con il suo. Naturalmente non avevo nessun sondaggio. Perché un vero politico non ha bisogno di sondaggi: è sufficiente avere buone orecchie e un buon naso per sapere cosa pensa la gente. I sondaggi - concluse - non servono». Queste parole mi tornano spesso alla mente ogni volta che vedo un sondaggio. Penso che i sondaggi condizionano troppo la politica, la riducono a marketing d`impresa per ottenere il massimo successo personale. In questo modo la politica rinuncia alle idealità, ai valori, ai riferimenti sociali e culturali. È bene invece dare retta a Scalfaro: meno sondaggi, più rapporti con il popolo, più ideali e proposte concrete. Enrico Rossi

ogni tipo, con esclusione soltanto dell’aggressione fisica e della defenestrazione. Però il cancro del berlusconismo fu estirpato dalla testa delle istituzioni e le elezioni del 1996 diedero la possibilità alle forze democratiche di mantenere aperti gli spazi della democrazia, soffocata dai tentacoli del partitoazienda. Ma di fronte alla ignavia dei leaders del Centro-sinistra e di Rifondazione neanche Scalfaro poteva farci nulla. Così nel 2001 Berlusconi riuscì ad impadronirsi del Governo ed a portare avanti il suo progetto di fare la pelle alla Costituzione. Fino al punto che il 16 novembre del 2005 una maggioranza parlamentare, dominata da Forza Italia e dalla Lega, decretò la morte della Costituzione, introducendo un nuovo ordinamento che trasformava la repubblica democratica in un Sultanato. Nel silenzio della politica e degli sventurati partiti del centro sinistra, Scalfaro si ribellò. Non poteva accettare che il frutto dei sogni e delle passioni che avevano guidato la mano dei Costituenti, che avevano deposto i sovrani ed avevano consegnato al popolo italiano una promessa perenne di libertà e di giustizia, venisse spazzato via dal vento nero di Arcore. Fu a capo del comitato “salviamo la Costituzione” che chiamò a raccolta migliaia di persone. Persone che professavano diverse fedi, che appartenevano a diversi ceti sociali ed esprimevano diversi orientamenti politici, ma tutti si mobilitarono ed accorsero per esercitare l’estrema possibilità di salvare la Repubblica costituzionale costruita in Italia come alternativa storica al fascismo. Il referendum del giugno del 2006 cancellò l’ignobile riforma e salvò la Costituzione. Dopo averla fatta nascere, la sorte ha assegnato a Scalfaro il compito di salvare, quaranta anni dopo quella creatura preziosa, la democrazia costituzionale, per la quale la migliore gioventù europea aveva dato la vita, testimoniando nella resistenza il valore della dignità umana. Scalfaro ha portato a termine la sua missione con onore e coraggio indomabile. A noi è rimasto il compito di fare tesoro della sua testimonianza e di trasmetterla alle generazioni future. *magistrato presso il tribunale di roma


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RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA

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Risprofondati nell’incubo sotto il tallone di ferro Jack london - Il tallone di ferro - newton Compton editori - € 4,90

olti, almeno quelli di una certa età, avranno letto in gioventù “Zanna Bianca” o “Il richiamo della foresta” di Jack London (pseudonimo di John Griffith Chaney). Pochi sanno che Jack London fu un ardente socialista, sia pure con molte contraddizioni di pensiero, le quali, peraltro, agevoleranno la diffusione delle opere dello scrittore (che ebbe grande fortuna, per esempio, sia nei paesi del blocco socialista che nell’Italia fascista). In effetti si possono cogliere nel suo pensiero, composto da un intreccio di marxismo e evoluzionismo Spenceriano con un forte individualismo tratto dalla lettura di Nietzsche, forti spunti anticapitalistici insieme a parole razziste e scioviniste inaccettabili. Già la vita di London fu un romanzo forse ancora più avvincente di quelli scritti: nacque nel 1876 a San Francisco, da un astrologo ambulante che lo abbandonò prima della nascita e da una cultrice di musica e spiritismo che rimasta sola si sposò con John London quando Jack aveva pochi mesi. Crebbe privo dell’affetto dei genitori, accudito da una nutrice nera e dalla sorellastra più grande. La sua vita fu un susseguirsi di avventure e mestieri più disparati: fu marinaio nella caccia alla foca in Giappone, vagabondo in giro per gli Stati Uniti, cercatore d’oro in Alaska da cui tornò con un bottino di ben 4 dollari e mezzo (esperienza da cui nacquero i due capolavori citati all’inizio), pugile, giornalista a Londra nei bassifondi della città (da cui nacque l’opera “Il popolo dell’abisso”), reporter della guerra Russo-Giapponese del 1905, viaggiatore in nave lungo il Pacifico (fino in Australia). Morì nel 1916, forse suicida, dopo una vita segnata anche dall’alcolismo e, negli ultimi anni, dalla dipendenza dalla morfina. Nel 1908 uscì “The iron heel” (“Il tallone di ferro”) - oggetto della nostra analisi - che London definì un «omaggio a Marx» e che ebbe

l’apprezzamento, tra gli altri, di Trotskij. Il romanzo ha per protagonista Ernest Everhard, che una leggenda vuole abbia ispirato il nome di battesimo di Ernesto Che Guevara. Scritto sotto la delusione del fallimento della rivoluzione russa del 1905, il testo anticipa in modo sorprendente l’evoluzione del capitalismo in oligopolio militarizzato che tutto controlla e da cui è difficile fuggire: particolarmente interessanti le pagine in cui i piccoli produttori vengono soppiantati dalle grandi corporations che impongono la loro legge e quelle in cui si dimostra l’asservimento al potere economico della stampa americana. Il libro si basa sulla finzione del ritrovamento, dopo trecento anni di tirannide oligarchica, di un manoscritto in cui la moglie del protagonista racconta le vicende del romanzo. Nell’introduzione London con un giudizio retrospettivo dichiara una cosa sorprendentemente attuale: il disfacimento del capitalismo ha generato un mostro chiamato oligopolio. La trama inizia con l’incontro della futura moglie di Ernest Everhard, Avis, con il protagonista: Avis è la figlia di un professore di università che tiene ogni tanto delle riunioni filosofiche a cui partecipano vescovi, professori, scienzati. Notando Everhard in un comizio socialista, il padre di Avis lo invita a una di queste riunioni e da qui si dipana tutta la vicenda. Due i momenti forti e toccanti. Il primo quando al vescovo che partecipa a queste riunioni vengono aperti gli occhi circa la sostanziale passività della Chiesa rispetto alle sofferenze sociali e il suo porsi a sostegno delle classi dominanti: quando il vescovo ne prende coscienza, dichiara di voler ospitare in casa i poveri della città e che la Chiesa ha tradito l’insegnamento di Cristo. Conseguenza di tutto questo: il povero vescovo viene dichiarato pazzo e internato in manicomio. Il secondo è una specie di inchiesta svolta dalla futura moglie di Ernest su un operaio che ha subìto un

per la conoscenza e la discussione

denis avey con rob Broomby - Auschwitz. Ero il numero 220543 - newton Compton, 2011, € 9,90 Il libro non è quello che ci si aspetta dal titolo, ma racconta comunque una storia eccezionale. Il sottotitolo “Sono entrato ad Auschwitz di mia volontà” sembra una trovata pubblicitaria e lascia credere che il protagonista abbia scambiato la sua divisa di soldato con quella di un prigioniero ebreo e abbia poi vissuto nel campo fino alla salvezza. Mentre il signor Avey ha trascorso solo due notti ad Auschwitz, senza viverci nel vero senso della parola. Detto questo, il libro non nega al lettore emozioni e colpi di scena, e non delude. È una fortuna che dopo più di sessant’anni Avey abbia avuto la forza di raccontarla.

infortunio sul lavoro e poi è stato licenziato da una delle più grandi fabbriche della città: tramite una serie di interviste (all’operaio e ai suoi compagni, al suo avvocato, al principale azionista dell’azienda, al giornalista) emerge un quadro in cui tutte queste figure concorrono a un sistema di potere perfetto, in cui gli interessi del povero operaio sono umiliati e offesi (la conclusione del tribunale è che l’incidente è «colpa sua») e in cui la corruzione della stampa piegata agli interessi degli editori è evidente. Colpisce l’attualità delle cose denunciate dal libro: vuol dire forse che i rapporti di forza tra le classi sono tornati quelli di un secolo fa? La seconda parte del romanzo è una narrazione ispirata dalle grandi lotte e dai grandi scioperi falliti nei primi anni del secolo scorso negli Stati Uniti e di come il potere economico e politico li ha schiacciati. I mezzi usati dal potere, qui sono tutti squadernati: repressione violenta, falsificazione di dati elettorali, creazione di sindacati compiacenti, divisione dei lavoratori (creando settori privilegiati mentre verso altri c’è il pugno di ferro). Il pregio del libro è proprio in questo carattere visionario, dato che all’epoca tutti questi sviluppi erano in nuce e si dispiegheranno compiutamente solo nei decenni successivi. Nell’ultima parte il volume narra un’immaginaria rivolta nella città di Chicago, provocata ad arte dal potere per scatenare la repressione, usando l’infiltrazione di agenti dell’FBI nei sindacati. Ernest Everhard diventa addirittura un “contro infiltrato” nella polizia che fa il doppio gioco a favore della rivoluzione, in un intreccio di spie e contro-spie dove è difficile orientarsi. Il libro si chiude sulla grande repressione di questa rivolta che darà il via a secoli di dominio del tallone di ferro del capitalismo: speriamo che non sia questo il nostro destino.

Pietro Tagliabue

mario avagliano, marco palmieri Voci dal lager - Diari e lettere di deportati politici italiani 1943-1945 Giulio einaudi editore Per lungo tempo la memoria della deportazione italiana è rimasta in una zona d’ombra, soprattutto quella che ha riguardato i deportati politici e i prigionieri nelle carceri del Reich. Voci dal lager raccoglie le loro lettere, ufficiali e clandestine, e i biglietti lanciati dalle tradotte ferroviarie, con un’appendice dedicata ai lavoratori coatti. L’obiettivo è duplice: recuperare fonti inedite che altrimenti rischierebbero di andare perdute, e soprattutto colmare quel vuoto di conoscenza che ha interessato un periodo importante della nostra storia.


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aprile 2012

il fiore del partigiano

La politica delle madri

IN TUTTI I PAESI DELL’AMERICA LATINA LE EX-DITTATURE SONO SOTTOPROCESSO

Le Madri di Plaza de Mayo hanno vinto per i tanti loro “Figli”

dal sito dell’UDI di Reggio Calabria

«C di

FRANCA FORTUNATO

i chiamavano le pazze, e qualcuno pensava che fosse un’offesa. Certo, ci mettevano dentro i giovedì, e noi ritornavamo. Ci dicevano, eccole lì, le pazze. Le arrestiamo e loro ritornano. Ma noi sapevamo di essere pazze d’amore, pazze dal desiderio di ritrovare i nostri figli… E poi, perché no? Un po’ di pazzia è importante per lottare». Sono parole di Hebe de Bonafini, presidente delle Madri argentine di Plaza de Mayo, che dopo il golpe del 24 marzo 1976, ebbero il coraggio di sfidare la dittatura e conquistare la piazza, decise a ritrovare i figli scomparsi. Caduta la dittatura, le Madri continuarono a chiedere giustizia ed oggi possiamo dire che hanno vinto definitivamente. L’ultima condanna ai criminali argentini è di questi giorni. Alfredo Astiz, “l’angelo della morte”, che uccise anche la fondatrice delle madri, Azucena Villaflor, con altri undici torturatori dell’Esma (l’Auschwitz della dittatura argentina), è stato condannato all’ergastolo e altri 4 torturatori a 18, 20 e 25 anni di carcere. Madri coraggiose, che hanno saputo, con l’azione, tenere accesa la speranza, quando il futuro era buio, non solo in Argentina ma in tutta l’America latina, dove governavano dittatori con il beneplacito della Cia. Oggi, dopo più di 30 anni, tutto quello per cui le Madri hanno lottato è diventato coscienza collettiva. Il Cile di Pinochet, l’Argentina di Videla, l’Uraguay di Alvarez, il Brasile di Garrastazu Medici, appartengono ormai al passato. In Cile sette ex alti ufficiali dell’esercito saranno processati per il sequestro di tre uruguaiani, scomparsi subito dopo il golpe del 1973 che portò al potere Pinochet. In Uraguay la Camera ha approvato una legge che dichiara i delitti commessi durante la dittatura militare del ‘73 – ‘85 crimini di lesa umanità e pertanto imprescrittibili, abolendo di fatto la legge sull’impunità. In Brasile il Senato federale ha finalmente approvato la creazione di una Commissione per la verità, che dovrà investigare sui crimini e abusi, violazioni dei diritti umani, durante

Sopra, le Madri di Plaza de Majo in manifestazione. A sinistra, l’ex-dittatore cileno Pinochet “ingabbiato” dalla malattia esibita per poter sfuggire alla giustizia internazionale. Dall’Inghilterra, dove era in cura, riuscirà a tornare a Santiago solo dopo più di 500 giorni. Qui, per evitare altre grane, si farà dichiarare “demente”

la dittatura militare del ‘64 – ‘85. In Guatemala l’ex dittatore Mejia, al potere dal 1983 al gennaio ‘86, è stato accusato, insieme ad altri militari, di crimini di guerra e genocidio. Le Madri hanno vinto, sono loro che hanno scavato sulla pietra per anni, giorno dopo giorno, senza violenza, senza disperazione, e alla fine le loro idee sono divenute coscienza collettiva. Questo vuol dire che “nessuno perde quando vincono le donne”, come titola Via Dogana, l’ultimo numero della rivista di pratica politica delle donne della Libreria di Milano. «La storia – scrive Rebecca Solnit – non è un esercito, non si muove in linea retta, ma piuttosto come un granchio spaventato, o un rivolo di acqua che gocciola sulla pietra, consumandola», il che vuol dire – come ci insegnano le Madri – che non sempre le conseguenze di un’azione sono immediatamente valutabili. «Quello che a volte non riesce a milioni di persone, può riuscire a una decina di donne», loro erano in 14 e, da quel lontano 1976, hanno cambiato l’Argentina e reso possibile, nel presente, l’elezione a presidente di una donna, Cristina Kirchner. «Siamo figli delle Madri di Plaza de Mayo» disse il presidente Kirchner nel suo inter-

vento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quel presidente che, insieme alle Madri e a tutto il popolo, si oppose alle politiche del Fondo Monetario, che portò l’Argentina al collasso con la crisi economica del 2001 – 2002. È così che le Madri rivendicano i valori rivoluzionari e di giustizia sociale dei propri figli. Figli delle Madri sono Brasile, Bolivia, Cile, Uraguay, Venezuela, Equador che, da laboratorio preferito del neoliberismo alla fine degli anni ‘70, divennero nel 2004 scenario di straordinari movimenti contro la privatizzazione dell’acqua, del gas naturale, delle terre, per la giustizia, la democrazia, la riforma agraria e i diritti dei popoli indigeni. Le questioni sollevate dalle Madri, dai popoli del Sudamerica e dal movimento per la pace, che irruppe nel mondo per prevenire la guerra in Iraq, sono oggi patrimonio comune, beni comuni, riconosciuti e riconoscibili nel movimento degli indignados, che hanno già di fatto dato vita a un nuovo ordine simbolico mondiale, di origine femminile, che pone al primo posto la qualità della vita, non il denaro e il mercato. http://udireggiocalabria.wordpress.com/201 1/11/03/rivoluzionarie/


il fiore del partigiano

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La Mercedes del Che

aprile 2012

UNA CAMPAGNA PUBBLICITARIA FA RIAFFIORARE INTERROGATIVI SUGLI ANNI ‘70

da il manifesto del 5 febbraio 2012

SEBASTIÀN LACUNZA

G

di

BUENOS AIRES li specialisti di marketing della Mercedes Benz hanno scelto una scommessa rischiosa per l’incontro sulle nuove tecnologie svoltosi a Las Vegas a gennaio. Il presidente della compagnia tedesca, Dieter Zetsche, ha usato il famoso ritratto del Che Guevara immortalato da Alberto Korda, ritoccando la stella rossa sul basco con il logo a tre punte della marca automobilistica. Zetsche ha commesso un doppio sacrilegio con la sua innovativa promozione di un programma chiamato “Car Together” e diretto a fomentare l’uso dell’auto condiviso a partire dalle reti sociali. L’azzardo ha provocato le reazioni di quanti hanno amato il Che per la sua vita, ma anche nell’esilio anti-castrista e nella destra repubblicana statunitense che non avrebbero mai creduto di vedere l’icona dei loro incubi promuovendo l’icona dei loro sogni consumisti. Questa trovata pubblicitaria obbliga tuttavia a farsi una domanda meno futile. Che ne sarebbe stato di Ernesto Guevara Lynch de la Serna se avesse rinviato i suoi impulsi rivoluzionari, non avesse intrapreso il suo famoso viaggio in motocicletta e avesse lavorato come operaio nella fabbrica della Mercedes Benz nell’Argentina degli anni ‘70? Forse avrebbe avuto la stessa sorte degli almeno 14 operai della compagnia tedesca desaparecidos per mano della dittatura militare e degli altri che furono costretti all’esilio o furono arrestati, torturati e alla fine liberati. Questo implica un’altra domanda spinosa, quella delle responsabilità civili e padronali nel massacro perpetrato dalla dittatura argentina fra il ‘76 e l’83, che si lasciò dietro 30 mila desaparecidos. La giustizia argentina finalmente ha cominciato a fare il suo lavoro, ha pronunciato finora decine di condanne e giudicato centinaia di militari, poliziotti, agenti dei servizi e perfino qualche prete, ma non ha toccato quasi nessun imprenditore o manager che in quel tempo potrebbe avere avuto un ruolo nella delazione ai militari dei lavoratori “scomodi”. I sindacati della compagnie automobilistiche erano allora i più attivi e politicizzati fin dagli anni ‘60. Nello stabilimento della Mercedes Benz, nella località di González Catán, popoloso sobborgo di Buenos Aires, emerse una commissione sindacale di sinistra che si opponeva al Sindicato de Mecánicos y Afines del Transporte Automotor capeggiato dal peronista di destra José Rodríguez fino alla sua morte, nel 2009. Nel 1975, l’anno prima del golpe e quando c’era ancora un governo peronista di destra, i lavoratori

La casa tedesca usa la famosa immagine di Guevara. Con un piccolo ritocco: sul suo basco al posto della stella compare il logo a tre punte della compagnia. Scelta azzardata perché in Argentina c'è chi ricorda che, durante la dittatura militare del '76-'83, molti delegati sindacali e lavoratori “scomodi” del suo stabilimento di Buenos Aires furono “desaparecidos” della Mercedes Benz riuscirono a resistere ai licenziamenti grazie a un mese di scioperi e al blocco degli ingressi della fabbrica. A loro volta i Montoneros, la guerriglia peronista di sinistra, sequestrarono un manager tedesco della Mercedes e per la sua liberazione l’impresa dovette pagare un riscatto di milioni di dollari e pubblicare sulla stampa internazionale inserzioni in cui chiedeva scusa per «la sua politica contraria ai lavoratori», secondo la ricostruzione della giornalista della radio tedesca Gabriela Weber, autore di una documentata inchiesta da cui fu tratto un documentario intitolato “Non ci sono miracoli”. Nel marzo del ‘76 arrivò il golpe guidato dal generale Jorge Rafael Videla e a partire da allora aumentò la repressione fino a toccare il limite del genocidio che colpì dissidenti, militanti sociali e guerriglieri. Anche così, all’inizio del ‘77, la commissione interna della compagnia tedesca continuava a funzionare, però dopo un negoziato su aumenti salariali e condizioni di lavoro, cominciarono le desapareciones. Fatto degno di attenzione, la Mercedes Benz avrebbe continuato a pagare i salari dei suoi operai desaparecidos per altri dieci anni, come scrisse la Weber. Le vedove di alcuni di quei delegati desaparecidos, come Esteban Reimer e Hugo Ventura, hanno il sospetto che i loro compagni fossero stati consegnati ai militari dalla compagnia. Ma c’è un altro elemento che complica ancor

di più il ruolo del vertice direttivo della fabbrica. Oltre agli almeno 14 lavoratori della Mercedes Benz che figurano fra i desaparecidos e agli altri costretti a partire per l’esilio, le squadracce della dittatura andarono a cercarne tre dentro la fabbrica stessa. Uno di loro, Héctor Ratto, ha raccontato che il 12 agosto ‘77, quando stava per essere arrestato, il direttore della compagna, Juan Rolando Tasselkraut, diede agli agenti l’indirizzo di un altro lavoratore, che quella stessa notte fu fatto sparire. Ratto resto più di due anni rinchiuso in una caserma dell’esercito a Campo de Mayo, dove fu torturato e dove si suppone che sparirono gli altri lavoratori. Tasselkraut, che con il tempo sarebbe tornato a dirigere la filiale argentina della Mercedes, ha liquidato come una “stupidaggine” la versione che lo incrimina. E Pablo Llonto, avvocato di Ratto, ci ha detto che la causa giudiziaria avviata nel 2002, è quasi paralizzata in una tribunale di San Martín, altro sobborgo di Buenos Aires. Llonto ha ricordato che ancor prima delle denuncia di Gabriela Weber, la Mercedes avviò una investigazione interna che escluse ogni responsabilità dei suoi manager pur dovendo riconoscere che i delegati sindacali furono “desaparecidos”. L’iniziativa giudiziaria chiama in causa i dirigenti dell’impresa, l’ex-ministro del lavoro peronista Carlos Ruckauf e vuole chiarire il ruolo avuto dal capo del sindacato, José Rodríguez. Contemporaneamente si è aperto un giudizio anche a San Franciso, negli Stati uniti, grazie a una legge che permette di chiamare in causa imprese che abbiano sedi in quel paese e che abbiano commesso violazioni dei diritti umani in qualsiasi posto del mondo. Ma anche quel giudizio si sta trascinando. Per quanto emblematico, il caso della Mercedes Benz non è l’unico. Gli organismi per i diritti umani hanno messo agli atti che nella fabbrica della Ford furono torturati dei sindacalisti e poi trasferiti in campi di conccentramento, dopo di che l’impresa Usa li licenziò per «essersi assentati dal luogo di lavoro senza autorizzazione». Una volta recuperata la democrazia, la Ford pagò gli stipendi arretrati... Però da poco è arrivata una notizia che fa ben sperare. Con una decisione inedita, un tribunale di Salta, nord dell’Argentina, ha chiamato a rispondere il proprietario di una impresa di trasporto di passeggeri - la Veloz del Norte - , Marcos Levín, quale responsabile del sequestro di 12 lavoratori dell’impresa, fra autisti e hostess, durante la dittatura. Molti di loro, presi nel gennaio del ‘77, lo stesso mese dei loro compagni della Mercedes Benz, furono torturati ma non “desaparecidos”, per cui, una volta recuperata la libertà, hanno potuto portare testimonianze che inchiodano l’imprenditore Levín


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aprile 2012

il fiore del partigiano

L’uso della tortura negli anni di piombo

PRATICHE ILLEGALI USATE DALLO STATO OGGI SONO “RIVENDICATE”

da la Repubblica del 16 febbraio 2012

dei torturatori, un sottufficiale dei carabinieri, ha voluto raccontare la verità. L’elenco di brigatisti e affiliati di altri gruppi armati sottoposti a torture è fitto: va dal nappista Alberto Buonoconto, Napoli 1975 (si di ADRIANO SOFRI sarebbe impiccato nel 1981) a Enrico Triaca, prima vista, la notizia è che negli anni Roma 1978, a Petrella e Di Rocco (ucciso poi ‘70 e ‘80 ci fu un ricorso non episodico in carcere a Trani da brigatisti), Roma 1982, a torture di polizia nei confronti di mi- ai cinque autori del sequestro Dozier, Palitanti della “lotta armata” – e non solo. È dova 1982… In tutte queste circostanze opequello che riemerge da libri (Nicola Rao, ravano (è il verbo giusto: noi siamo come i Colpo al cuore), programmi televisivi (Chi chirurghi, dirà Ciocia, «una volta cominciato l’ha visto), articoli (come l’intervista del Cor- dobbiamo andare fino in fondo») due squariere a Nicola Ciocia, già “professor De Tor- dre chiamate grottescamente “I cinque delmentis”, questore in pensione). Non è una l’Ave Maria” e “I vendicatori della notte”. notizia se non per chi sia stato del tutto di- Ha riferito Salvatore Genova, già capo dei stratto da simili inquietanti argomenti. Nei Nocs, inquisito coi suoi per le torture padoprimi anni ‘80 le denunce per torture rac- vane al tempo di Dozier e stralciato grazie alcolte da avvocati, da Amnesty e riferite in l’immunità parlamentare, infine pensionato: Parlamento furono dozzine. «Succedeva esattamente quello che i terroA volte la cosa “scappava di mano”, come risti hanno raccontato: li legavano con gli nella questura di Palermo, 1985. Oscar Luigi occhi bendati, com’era scritto persino su un Scalfaro, che era allora ministro dell’Interno, ordine di servizio, e poi erano costretti a bere dichiarò: «Un cittadino è entrato vivo in una abbondanti dosi di acqua e sale». stanza di polizia e ne è uscito morto». Era un Quel modo di tortura – accompagnato da segiovane mafioso, fu picchiato e torturato col vizie molteplici, aghi sotto le unghie, ustioni metodo della “cassetta”: un tubo spinto in ai genitali, percosse metodiche, esecuzioni gola e riempito di acqua salata. Gli sfondò la simulate; ed efferatezze sessuali nei contrachea, il cadavere fu portato su una spiag- fronti di militanti donne – non si chiamava gia per simularne l’annegamento in mare. ancora waterboarding, e non era un genere Alla notte di tortura parteciparono o assi- di importazione. Lo si usava già coi briganti stettero decine di agenti e funzionari. Ave- ottocenteschi. Fu una specialità algerina vano molte attenuanti: era stato appena negli anni ‘50. Addirittura, quando Rao assassinato un valoroso funzionario di poli- chiede a Ciocia se davvero gli ufficiali della zia, Beppe Montana, “Serpico”. All’indomani Cia che assistettero agli interrogatori per Dodella denuncia di Scalfaro, e delle destitu- zier fossero rimasti stupefatti per quello che zioni da lui decise, la mafia assassinò il com- vedevano, lui risponde: «Non sono stati gli missario Ninni Cassarà e l’agente Roberto americani a insegnarci certe cose. Siamo i Antiochia. Una sequenza terribile, ma le at- migliori… Lì, nell’attività di polizia ci vuole tenuanti si addicono poco al ricorso alla tor- stomaco. E gli altri Paesi lo stomaco non ce tura, il cui ripudio è per definizione incon- l’hanno come ce l’abbiamo noi italiani. dizionato. Repubblica sta ricostruendo la Siamo i migliori. I migliori!». tremenda vicissitudine di Giuseppe Gulotta, Costui accetta di parlare con Rao, che non ne “reo confesso” nel 1976 dell’assassinio ad Al- rivela ancora il nome. Solo quel soprancamo di due carabinieri, condannato all’er- nome, “professor De Tormentis”. Il 23 marzo gastolo e detenuto per 22 anni: finché uno 1982 Leonardo Sciascia prese la parola nel dibattito alla Camera sulle torture ai brigatisti del sequestro Dozier, replicando PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA all’allora ministro ZONA DELLA MARTESANA dell’Interno VirRedazione: presso la sede della Sezione Quintino Di Vona di Inzago (MI) ginio Rognoni. in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) «Ieri sera ho In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi ascoltato con Direttore responsabile: Rocco Ornaghi molta attenzione Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) il discorso del miSi raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf) nistro e ne ho

A

il fiore del partigiano

tratto il senso di una ammonizione, di una messa in guardia: badate che state convergendo oggettivamente sulle posizioni dei terroristi! Personalmente di questa accusa ne ho abbastanza! In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l’accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!». Successe allora che i giornalisti Vittorio Buffa e Luca Villoresi, che avevano riferito delle torture sull’Espresso e su Repubblica con ricchezza di dettagli, furono arrestati per essersi rifiutati di rivelare le loro fonti e liberati solo dopo che due coraggiosi funzionari di polizia dichiararono, a proprie spese, di aver passato loro le notizie. Certo Sciascia avrebbe meritato di conoscere la conclusione attuale della storia, che tocca quello che gli stava più a cuore, compreso il Manzoni della Colonna infame che citava il trattato duecentesco De tormentis. Da lì il prestigioso poliziotto Umberto Improta aveva ricavato il nomignolo per il suo subordinato. Il nome vero era da tempo noto agli esperti, a cominciare dalle vittime: appartiene a un poliziotto andato in pensione nel 2004 col grado di questore, dopo una carriera piena di successi contro malavita e terrorismo. Poi ha fatto l’avvocato, è stato commissario della Fiamma Nazionale a Napoli. Ora, alla vigilia degli ottant’anni e con la sua dose di malanni, dà interviste che un giorno rivendicano, un giorno smentiscono. Si definisce però «da sempre fascista mussoliniano». Ecco qual è la notizia. Che quando lo Stato italiano e il suo Comitato interministeriale per la sicurezza decisero di sciogliere la lingua ai terroristi, ne incaricarono un signore che aveva già dato prova del proprio talento. Non è lui il problema: vive in pace la sua pensione, e promette di portarsi per quietanza nella tomba i suoi segreti di Pulcinella. Non importa che usassero il nome di tortura: non si fa così nelle ragioni di Stato, e del resto la Repubblica Italiana si guarda dal riconoscere l’esistenza di un reato di tortura. È superfluo, dicono. Bastava assicurare spalle coperte. La difesa della democrazia si affidò a un efficiente fascista mussoliniano. Siamo il paese di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, i migliori.


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