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Settembre 2012
Anno 3 numero 3
DA MARZABOTTO L’APPELLO DELL’ANPI
Antifascismo, verità e giustizia
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Premonizioni. George Grosz, «Il generale bianco», un’opera realizzata nel 1922 quando il nazismo iniziava a muovere i primi passi
Un compito, il nostro, cento volte più agevole ra un secolo si immaginerà che in questa nostra Assemblea, mentre si «F discuteva sulla nuova Costituzione repub-
blicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri, di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovanetti partigiani. (..) Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse
di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la fede e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili ed oneste il loro sogno di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli» Piero Calamandrei
(da un discorso all’Assemblea Costituente nel 1947)
Dal 14 al 17 giugno scorso si è svolta a Marzabotto la terza Festa Nazionale della nostra Associazione. Pubblichiamo ampi stralci di un articolo di cronaca, in conclusione dell’evento, dall’Unità del 18 giugno
ltre diecimila partecipanti nei quattro giorni di confronti, dibattiti, concerti e spettacoli che hanno prodotto riflessioni su ciò che l’Associazione nazionale partigiani italiani può contribuire a fare per rafforzare i valori costituzionali e di impegno civile del Paese. Tre le principali questioni nazionali affrontate: verità e giustizia per le stragi nazifasciste, una legislazione efficace per contrastare il neofascismo, la riforma costituzionale in esame in Parlamento, il tutto da una prospettiva oltre che nazionale anche europea, favorita dall’impegno e presenza delle sezioni Anpi estere. I primi esiti di queste giornate sono stati presentati alla tavola rotonda conclusiva, con interventi di Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi, Lidia Menapace, partigiana e membro del Comitato nazionale Anpi, Elena Paciotti, Presidente della Fondazione Lelio e Lisli Basso, Carlo Ghezzi, Associazione Bruno Trentin, Marco De Paolis, Procuratore militare di Roma coordinati da Andrea Liparoto, della segreteria nazionale Anpi. A proposito di stragi nazifasciste, Smuraglia ha insistito sulla necessità di ottenere verità e giustizia. «Abbiamo bisogno di verità per troppe cose in questo Paese. Troppo ci è ignoto. Ma oltre alla verità e alla giustizia dobbiamo parlare anche di responsabilità dei vari governi italiani che per decenni hanno favorito il silenzio e l’occultamento per esempio dei fascicoli sulle stragi nazifasciste. Nessun governo italiano ha ancora chiesto scusa ai superstiti e ai familiari delle vittime. È una responsabilità che tutti dobbiamo assumerci. E per ottenere questo serve una memoria viva e soprattutto attiva». Sulla scia di questo impegno sono stati organizzati diversi forum per parlare anche di mafia, criminalità comune e legalità assieme ad Armando Spataro, Nando Dalla Chiesa, Stefano Biagianti e Benedetta Tobagi; discutere di diritti elementari e delle donne, partendo dalle primavere arabe con le protagoniste di quella stagione, tuttora in movimento. E si è parlato molto anche del futuro dell’ANPI, di come promuovere e portare avanti valori e battaglie etiche e d’attualità.
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Antifascisti, di n il fiore del partigiano
“PER UN NUOVO IMPEGNO E UNA NUOVA CULTURA ANTIFASCISTA” TEMA DELLA NOSTRA CAM
Quello che segue è il documento elaborato dall’ANPI nazionale e dall’Istituto Alcide Cervi - presentato il 25 luglio alla “pastasciuttata” che tradizionalmente viene organizzata a Casa Cervi - che sarà la base della campagna che verrà lanciata in settembre per rilanciare l’antifascismo e contrastare il neofascismo.
Democrazia deteriorata
1) Benché in Italia esista un gruppo consistente, diffuso e coerente di veri, sinceri e impegnati antifascisti, non c’è dubbio che il Paese avrebbe bisogno di una forte iniezione di anti- fascismo, capace di diffonderlo fra i cittadini e di farlo penetrare nella cittadella delle istituzioni, come condizione essenziale per il consolidamento della democrazia. Ciò a maggior ragione perché ci troviamo in una fase in cui in tutta Europa spirano venti di conservazione, di populismo e addirittura, in alcuni casi, di autoritarismo: donde la crescita e la diffusione di movimenti dichiaratamente neonazisti. In Italia, quelli che apparivano semplici rigurgiti di nostalgia, si stanno manifestando con rinnovato impegno, con rinnovata ampiezza e con crescente diffusione. Si aprono nuove sedi di movimenti neofascisti, si assumono iniziative, spesso ardite, da parte di Forza Nuova, di “Fiamma Tricolore”, di “Casa Pound”, con un vero e proprio crescendo, e spesso con la protezione e l’incoraggiamento anche da parte di pubblici amministratori. Cresce anche la violenza delle manifestazioni, anche da parte di coloro che – storicamente – risorgono in occasione delle crisi cercando di approfittarne e finiscono sempre per porre in essere vere e proprie spinte verso destra, i cui sbocchi – sempre sotto il profilo storico – sono sempre stati nefasti. Si aggiungono anche i tentativi di collegamento, addirittura a livello europeo, di cui è manifesta dimostrazione il convegno neofascista e neonazista di Milano, con un forte afflusso di esponenti della destra “nera” da tutta Europa. In questa situazione complessiva, la linea di difesa di coloro che credono nei valori della democrazia e dell’antifascismo è ancora troppo debole e spesso incerta tra la
Tra nostalgie e neo-populismi. Militanti del partito greco neo-nazista “Alba dorata” manifestano di fronte al parlamento ateniese
reazione immediata e la riflessione più ampia e il tentativo di coinvolgere nella resistenza e nel contrattacco, molti cittadini e le stesse istituzioni. Colpisce il fatto che l’esposizione di simboli fascisti e le manifestazioni aperte di fascismo e nazismo lascino indifferente tanta parte dei cittadini, che non ne considera la gravità e la pericolosità, e trovino un clima troppo tiepido anche nelle istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto della Costituzione. Istituzioni che, al più, possono prendere in considerazione il problema sotto il profilo dell’ordine pubblico, senza avvedersi che il problema è molto più serio e coinvolge princìpi e tematiche riferibili ai valori costituzionali. Tutto questo trova le sue radici nel fatto che il nostro Paese non ha mai fatto i conti con il proprio passato, non ha mai analizzato e fatto conoscere a fondo il fascismo, ha trascurato non di rado le pagine più belle della nostra storia, come la Liberazione dai tedeschi e dai fascisti, ed infine è stato troppo tiepido di fronte ai continui attacchi di negazionismo e di revisionismo. Si è diffusa la falsa idea di un fascismo “buono” e “mite”, contro la verità e la realtà, a fronte dei tremila morti del primo periodo del fascismo, delle leggi razziali, delle persecuzioni di chi non era fascista e della guerra in cui sono stati mandate al massacro decine di migliaia di giovani e si è rovinato e distrutto il Paese.
Revisionismo e negazionismo favoriscono la sottovalutazione dei fenomeni, producono diseducazione e disinformazione, non aiutano la diffusione di un antifascismo di fondo, che dovrebbe essere il connotato comune di tutte le generazioni. Ancora più grave il fatto che le stesse Istituzioni, mai liberate del tutto dalle incrostazioni fasciste, facciano così poco per trasformarsi in quegli organismi democratici che disegna la Costituzione, con fondamentali disposizioni come l’art. 54 e l’art. 97, ma poi con tutto il quadro dei princìpi che ne costituiscono l’ossatura, il fondamento e la base. Eppure dovrebbe essere chiaro che ogni spazio che si lascia aperto e ogni ostacolo che oggettivamente si frappone allo sviluppo della democrazia, rappresentano un’occasione di crescita dei movimenti fascisti e nazisti; e dunque dev’essere evitata ogni possibile concessione, volontaria o meno, ai nemici della democrazia. Il fatto che un Comune come quello di Roma possa mostrare aperta simpatia verso i movimenti neofascisti, così come il fatto che troppi prefetti e questori restino inerti (oppure si attestino, come si è detto, sull’ordine pubblico) a fronte di manifestazioni che dovrebbero ripugnare alla coscienza civile di tutti, sono rivelatori di una permeabilità assai pericolosa per istituzioni che – per definizione – dovrebbero essere democratiche.
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STRA CAMPAGNA D’AUTUNNO
Ma c’è di più: è una singolare “dimenticanza” quella di un Governo (quello attuale) che, ripartendo i contributi annuali in favore di Associazioni combattentistiche, li assegna (e in misura ridotta) soltanto alle Associazioni d’arma, ma nulla prevede, per il 2012, per le altre Associazioni e in particolare per quelle partigiane, con provvedimenti che sanno di vera e autentica discriminazione.
E c’è dell’altro. Noi siamo convinti che gran parte degli appartenenti alle forze dell’ordine sia rispettosa delle norme costituzionali e dei doveri connessi alla loro funzione; ma non possiamo non constatare che ancora troppi sono gli episodi di violenza ingiustificata e arbitraria, da quelli collettivi (per tutti, l’esempio del G8 di Genova) a quelli individuali (episodi anche recenti, di cui si è diffusamente occupata la stampa, come i pestaggi di cittadini inermi e gli “anomali” trattamenti riservati ad alcuni arrestati). Questo dimostra che è ancora insufficiente il livello di democratizzazione e di formazione all’interno di Corpi che dovrebbero essere sempre e concretamente impegnati nella difesa della democrazia e della convivenza civile, nel profondo rispetto dei diritti del cittadino. Infine, la scuola. Davvero questa scuola è in grado di educare i cittadini alla cultura della legalità, al culto della democrazia, ad una seria e consistente formazione antifascista? È appena il caso di ricordare che perfino nella legge “Scelba (n. 645 del 1952), all’art. 9, si dettava una norma (peraltro mai applicata fino ad oggi) che disponeva che fosse diffusa nelle scuole e fra i giovani la conoscenza di ciò che è stato il fascismo. Se, infine, si passa alle istituzioni più decentrate, il problema è altrettanto evidente; ci sono Regioni che non hanno mai adottato alcun provvedimento a favore della ricerca storica sugli eventi più recenti e della formazione di una cultura democratica; altre hanno adottato provvedimenti del genere, che applicano – peraltro - con criteri discutibili, oppure non li rendono – di fatto – operanti in termini concreti. Generale e diffusa è poi la sottovalutazione dei fenomeni europei, dei pericoli che derivano dalle esperienze populistiche CONTINUA A PAGINA 4 ➔
il fiore del partigiano
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IL COMUNE DI AFFILE ONORA IL BOIA GRAZIANI CON UN SACRARIO PAGATO ANCHE DALLA REGIONE
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La Storia mistificata dai “nipotini nostalgici”
GUERRINO BELLINZANI
iorni fa, l’Unità ha pubblicato una notizia che oserei definire scandalosa: in un paese chiamato Affile, in provincia di Roma, è stato officiato un rito funebre alla memoria di Rodolfo Graziani. L’occasione è stata l’inaugurazione in suo onore di un Sacrario, a 57 anni dalla sua morte. Si tratta di una iniziativa sconcertante, pagata in parte da soldi della Regione Lazio, per “onorare” un criminale di guerra, un gerarca fascista torturatore, massacratore di popoli africani. Un generale che usò il gas per fiaccare la resistenza dei popoli di Libia ed Etiopia, aggrediti dalle truppe fasciste, smaniose di conquistare territori secondo la dottrina imperialista. Alla caduta del fascismo, proseguì la sua brillante carriera alleandosi con i nazisti sotto la guida di Kesselring. La United Nations War Crime Commission lo mise al primo posto nella lista dei criminali di guerra italiani. Fu processato e condannato dal tribunale italiano a 19 anni di galera. Erano gli anni del dopo-guerra, con una larga parte della Magistratura formatasi con il fascismo e con il governo repubblicano alimentato da furori anticomunisti. Gli permisero di usufruire, tra condoni e amnistie, di ridurre a 2 anni la detenzione. Uscito di galera, aderì al Movimento Sociale, diventandone Presidente Onorario. Fin qui cronaca. Due annotazioni: la riduzione della pena è stata così motivata «Graziani nonostante i bandi, le fucilazioni e i rastrellamenti non riuscì ad incidere sul Governo di Mussolini»; ed ancora: l’attuale Sindaco di Affile, Ercole Viri, lo ricorda come un «protagonista dei burrascosi eventi che caratterizzarono quasi mezzo secolo della Storia italiana». Questo è stato Rodolfo Graziani e questi i giudizi su di lui, del tribunale e del Sindaco! È naturale chiedersi come un Comune della Repubblica italiana possa mistificare la realtà storica, trasformando un criminale in un cittadino meritevole di onori, di ricordi encomiabili e a lui erigergli un Sacrario! Inoltre, come può la Regione Lazio (guidata da Renata Polverini) aver deciso di devol-
vere soldi pubblici per perpetuarne il ricordo? Siamo sconcertati di fronte ad atti tanto vergognosi, tendenti a ribaltare la Storia trasformando un criminale in un eroe. Con gente che onora la spietatezza criminale di un gerarca fascista, dedito allo sterminio col gas di popoli inermi ed invasi da forze imperialiste. A fronte di simili misere iniziative operate dal Comune di Affile - in aperta contraddizione con la Costituzione e con la fulgida lotta Partigiana, da cui è nata l’Italia democratica - ci chiediamo se esista una coscienza democratica e civile in grado di riconoscere la vittima dal persecutore. Coloro che tradiscono la Storia, con quale diritto officiano tributi solenni, in veste di pubbliche autorità, a criminali di guerra? L’Italia non merita stravolgimenti morali e politici simili. Una semplice coscienza civile e democratica rifiuta atti così palesemente offensivi. Un qualunque cittadino, consapevole dei valori opposti tra democrazia e dittatura, è mosso da sentimenti di ripulsa nel vedere un criminale di guerra omaggiato da pubbliche autorità. Che impavidamente ricercano e inventano inaccettabili giustificazioni del loro operato. Della viltà fascista conosciamo le gesta e l’intima infame natura a cui l’Italia soccombette per un ventennio pieno di retorica patriottarda, poi smentita clamorosamente dalla totale dipendenza alle truppe naziste sul territorio italiano! Interi capitoli di Storia hanno testimoniato la vocazione liberticida del movimento fascista, eppure, in pieno 2012, esiste un sacerdote che onora un criminale, un Sindaco che autorizza la cerimonia celebrativa e un Presidente di Regione che gli destina fondi pubblici per costruire un sacrario alla sua memoria. Possono essere una combriccola di esaltati degni di colui per il quale hanno predisposto la cerimonia, comunque da additare al pubblico ludibrio, perché codesta non può considerarsi una pietosa ricorrenza, bensì una plateale ed odiosa manifestazione politica in favore di un fascista criminale di guerra!
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Antifascisti, di nuovo
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e autoritarie in atto e di quelli che nascono dai collegamenti che si vanno istituendo tra le organizzazioni, comprese quelle italiane, che si ispirano al neofascismo e al neonazismo.
Occorre reagire
2. Insomma, un quadro davvero insoddisfacente e per alcuni versi addirittura preoccupante, contro il quale occorre reagire non solo episodicamente, ma in modo coordinato e diffuso, che riguardi i cittadini, le associazioni, i partiti, i movimenti, ma si riferisca anche alle istituzioni. Occorre, cioè, delineare un programma non solo di difesa democratica, ma anche di sviluppo dell’antifascismo e della cultura dei valori e dei princìpi costituzionali. Un programma – politico e culturale - che riguardi tutti, senza esclusioni e senza eccezioni, e che sia fortemente impegnato e partecipato. Un programma che sia fondato su questi essenziali elementi: a) A fronte delle manifestazioni di neofascismo, per le quali la contrapposizione violenta non serve e talvolta è addirittura dannosa, occorrono prese di posizione delle associazioni e delle istituzioni, dichiarazioni di non gradimento da parte di pubbliche autorità, elettive e non, interventi degli organi preposti all’ordine pubblico, soprattutto sotto il profilo della non compatibilità di tali manifestazioni con i princìpi costituzionali visti nel loro complesso (non è solo la dodicesima disposizione transitoria a mostrare una linea antifascista, ma è l’intero complesso dei princìpi e delle disposizioni normative ad assumere tale carattere). Occorrono, quando sia ritenuto opportuno, presìdi delle forze democratiche, ovviamente pacifici, ma idonei a dimostrare e a contrapporre una forte presenza antifascista; b) Le associazioni democratiche e antifasciste devono assumere in posizione centrale nei loro programmi di lavoro, la formazione dei propri iscritti e anche quella dei cittadini, per una compiuta conoscenza di ciò che è stato il fascismo e di ciò che rappresentano certi simboli di morte e di guerra, e per una corretta informazione anche sul contributo dei fascisti alla persecuzione degli ebrei, degli antifascisti, dei partigiani e perfino delle popolazioni civili, soprattutto negli anni dal ‘43 al ‘45, quando i fascisti non furono da meno i tutti i casi in cui si scatenò la barbarie nazista;
Voglia di vita e di futuro. Il 25 aprile milanese di quest’anno. Una delle bande musicali che hanno dato ritmo e colore al corteo (foto roCCo ornAghi)
c) Le stesse Associazioni devono impegnarsi a fondo per contribuire a creare una cultura della legalità e della cittadinanza, un culto della convivenza civile, della tolleranza e della coesione, contro ogni forma di discriminazione e dei fondamenti e dei contenuti della Carta Costituzionale; d) Regioni e Comuni devono considerare, nei loro programmi di attività, il contributo della ricerca storica per la conoscenza del fascismo e della Resistenza, il rispetto delle festività più significative sul piano dei valori (come il 25 aprile e il 2 giugno) e scendere in campo in prima persona contro ogni tentativo di negare o svalorizzare i significati ad esse collegati, garantendo la più ampia partecipazione dei cittadini e contrastando, in ogni forma, tutte le manifestazioni contrarie allo spirito che pervade la Costituzione italiana; e) Le istituzioni centrali devono fare quanto occorre per rendere il “corpo” dello Stato il più possibile democratico e vicino alle esigenze ed alle attese dei cittadini, e per garantirne l’impermeabilità rispetto ad ogni intrusione da parte di chi non si richiama ai valori costituzionali; devono altresì procedere alla formazione, al loro interno, del personale perché si ispiri alle regole dettate dalla Costituzione, non lasciando alcuno spazio all’autoritarismo, al sopruso, alla corruzione, al burocraticismo esasperato, alla mancanza di rispetto per i diritti dei cittadini;
f) Il Governo, nel suo complesso, e in particolare i Ministeri dell’istruzione e della coesione sociale, debbono adottare misure adeguate perché si insegni nelle scuole non solo la nostra storia più recente e le sue pagine migliori (dal Risorgimento alla Resistenza) ma la stessa concezione della democrazia, Debbono altresì essere adottate misure adeguate per la formazione del cittadino alla convivenza civile ed ai valori di fondo del nostro sistema democratico; favorendo, al tempo stesso, l’integrazione e la coesione sociale e fornendo agli stranieri che si inseriscono stabilmente sul nostro territorio, gli strumenti necessari per l’acquisizione di un vero senso di appartenenza; g) Alla Magistratura si richiede di essere attenta ai fenomeni più volte descritti ed al loro significato, e di essere pronta a intervenire contro ogni eccesso, tenendo presente che vi sono alcune leggi (come la cosiddetta legge Scelba) ormai di difficile applicazione ed altre invece (come la legge n. 205 del 1993, cosiddetta “Mancino”), che offrono potenzialità di intervento veramente notevoli anche a fronte di manifestazioni apertamente fasciste (potenzialità esattamente colte dalla stessa Corte di Cassazione con due sentenze che meritano di essere ricordate, fra le altre per la loro esplicita chiarezza nell’individuare lo stretto collegamento tra fascismo e razzismo: la sentenza n. 12026/2007 del 10 luglio 2007 e la sentenza 235/09 del 4 marzo 2009). Certo, non è solo con la repressione che si
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STRA CAMPAGNA D’AUTUNNO contrastano i fenomeni più volte ricordati; tuttavia – quando ne ricorrono i presupposti – le leggi vanno applicate e fatte rispettare con convinzione, se non altro perché anche questo costituisce un significativo segnale dell’indirizzo a cui lo Stato intende attenersi; d’altro lato, l’esistenza di un procedimento penale può fungere anche come deterrente e come occasione, per le Associazioni che svolgono un’attività antifascista, per sollevare apertamente il problema e far conoscere la realtà, insomma in qualche modo creare fra i cittadini quell’interesse e quella “cultura” antifascista di cui più volte abbiamo parlato, superando ogni forma di agnosticismo, ed ogni tipo di sottovalutazione.
Vera cultura democratica
3. Si apre, dunque, una grande battaglia, che richiede un impegno diffuso, da parte di tutti i cittadini e delle Istituzioni. Uno studioso ha scritto di recente un libro con un titolo significativo: “Italia: una nazione senza Stato”, osservando che se si è ormai costruita l’anima (la Nazione) manca, tuttavia, un “corpo” che a quella corrisponda (cioè una Costituzione non solo bella ma applicata concretamente e rispettata, Governi duraturi, Parlamento che funziona, leggi comprensibili e ispirate a interessi generali, strutture organizzative efficienti e imparziali, burocrazia non arcigna ma fatta per il cittadino, e così via). Noi siamo d’accordo, in linea di principio, ma pensiamo che in materia di democrazia e di antifascismo ci sia bisogno di uno slancio salutare e innovativo sia per l’anima che per il corpo; ed a questo vogliamo contribuire con una grande campagna di massa per creare una vera cultura dell’antifascismo e della democrazia, per disperdere ogni vocazione autoritaria e populistica, per ricreare la fiducia reciproca fra cittadini e istituzioni. Una Repubblica, dunque, in cui non ci sia più spazio per un passato tragico e doloroso che mai più deve poter tornare in nessuna forma, in questo Paese. Per quanto riguarda le Associazioni firmatarie del presente documento, deve essere chiaro che esse intendono collocarsi in prima linea, nel quadro dell’impegno e della campagna di informazione e formazione, e dunque politica e culturale, con tutte le forze e gli strumenti di cui le rispettive organizzazioni dispongono, facendo in modo che la questione dell’antifascismo e della democrazia diventi veramente una questione nazionale e si avvii verso sbocchi ampiamente e concretamente positivi per l’intera collettività.
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LA DESTRA XENOFOBA TRAE ALIMENTO DALLA CRISI ECONOMICA E DI RAPPRESENTANZA SOCIALE
L’Europa del populismo
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da il manifesto del 22 giugno 2012
GUIDO CALDIRON
lla stregua di altrettanti segnali di pericolo seminati lungo il percorso della democrazia europea, i movimenti populisti, xenofobi e di estrema destra sono emersi nell’arco degli ultimi vent’anni evidenziando la trasformazione delle forme della rappresentanza politica, ma anche la profonda crisi sociale che attraversava l’Europa. Prima dello scoppio della bolla finanziaria internazionale e della fase drammatica attraversata ora dalla zona euro, c’erano state l’avvio del processo di deindustrializzazione, le rapide trasformazioni produttive e l’avvento della globalizzazione: tutte tappe di un cambio d’epoca che ha lasciato dietro di sé molte vittime e che ha innescato anche una vera e propria crisi di senso nella società europea, di cui le derive identitarie e xenofobe non hanno rappresentato che la punta più estrema e visibile di difficoltà e timori molto più profondi. Ma se già nella prima metà degli anni Novanta una nuova estrema destra si candidava a interpretare umori, preoccupazioni e identità sociali frutto del cambiamento in corso, cosa potrà accadere ora, di fronte alla crisi economica più grave dai tempi del crollo delle Borse del 1929? Uno scenario è già visibile, l’altro si va delineando ogni giorno di più dinanzi ai nostri occhi. In questi vent’anni le nuove destre - perché malgrado l’esempio greco del partito neonazista Chryssi Avghi, Alba dorata - la tendenza dominante non è segnata dal riemergere di gruppi o partiti “nostalgici”, quanto piuttosto dallo sviluppo di forze nuove o dall’evoluzione in senso innovativo di vecchie formazioni radicali - hanno acquisito spazio e talvolta perfino credibilita,̀ hanno dapprima svolto un ruolo “antisistema” nei confronti dei partiti e degli equilibri politici tradizionali, per finire poi talvolta col partecipare addirittura ad esperienze di governo dirette o indirette. Il populismo di destra ha finito così per dettare almeno in parte l’agenda politica generale su temi quali l’immigrazione e la sicurezza, le politiche urbane e quelle dell’accoglienza. Il fenomeno che era stato all’inizio descritto come emergenziale e passeggero ha finito per mettere radici e i “partiti della protesta” sono talvolta entrati nella stanza dei bottoni o hanno, in ogni caso, finito per condizionare le scelte di chi vi aveva fatto ingresso. Se questo è lo scenario del recente passato e questo il processo di progressiva “normalizzazione” cui si è assistito, il quesito cui ci si deve confrontare oggi riguarda inevitabil-
mente il futuro. Un futuro reso sempre più prossimo dai tempi della crisi che rischiano di far precipitare nello spazio di poche settimane, se non di pochi giorni, equilibri e costruzioni politiche in apparenza stabili e consolidati. La bancarotta finanziaria che minaccia l’Europa, e che già oggi lascia intravedere il rischio di una sorta di quotidiana bancarotta sociale, può offrire molte chance a movimenti e partiti politici che definiscono da sempre il proprio profilo all’insegna della crisi: una crisi da cui uscire restaurando gerarchie sociali definite in base alla cultura, alla lingua, alla religione, o grazie all’avvento di una palingenesi che rinnovi la società fin dalle sue fondamenta identitarie, o, ancora, all’idea che dalla crisi si possa scegliere a tavolino chi si salverà e chi no. Mai come ora l’ipotesi di un’uscita da destra dalla crisi è stata possibile, o perlomeno è apparsa credibile a milioni e milioni di europei che hanno scelto di farsi rappresentare da questo tipo di forze populiste. Mai come ora la mappa politica dell’Europa è apparsa dominata dalla medesima soluzione cromatica e dall’esistenza, pur tra mille differenze e contraddizioni talvolta insanabili al proprio interno, di un fenomeno che affonda nelle stesse radici: paura, incertezza, rancore, talvolta vero e proprio odio. Come ha segnalato Beá trice Giblin introducendo un recente numero della rivista Heŕ odote dedicato alle nuove destre europee, oltre alle specificità nazionali e ai diversi accenti ideologici che caratterizzano le formazioni populiste e radicali di questo tipo, si possono infatti individuare alcune comuni tematiche di fondo verso cui si cerca di indirizzare il malessere dei cittadini: «L’immigrazione musulmana, la globalizzazione, a cui vengono associati la deindustrializzazione e la crescita della disoccupazione, le politiche dell’Unione europea, accusata di essere responsabile dell’abbandono della sovranità nazionale sulla moneta e della crisi finanziaria del Vecchio Continente degli ultimi due anni». Una proposta politica che evidentemente si indirizza soprattutto verso i settori più deboli della societa,̀ specie il mondo del lavoro dipendente e degli operai, che hanno già pagato un prezzo altissimo alla ristrutturazione produttiva degli ultimi anni e che guardano al futuro con crescente incertezza. Non è un caso che la nuova destra raccolga oggi un po’ in tutta Europa la maggioranza del voto operaio e che i suoi leader, come aveva annunciato già all’inizio degli anni Novanta il filosofo Alain Bihr, nel suo libro Pour en finir avec le Front national, «sognino di ricomporre sotto le loro bandiere un movimento operaio ormai privo di punti di riferimento e di consapevolezza di sé»
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Questa lapide è un libro di Storia
INZAGO CELEBRA LA RICORRENZA DEL MARTIRIO DEL PROFESSOR DI VONA
Milano, 7 luglio 1944
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Grazie a tutti
Si è concluso il restauro della lapide in onore al Prof. Quintino Di Vona. Il progetto si è realizzato grazie al vostro aiuto, alla vostra sensibilità, alla volontà di non dimenticare. A nome della Sezione ANPI di Inzago, un sincero ringraziamento.
Commemorazione domenica 9 settembre
Rita Catanzariti Presidente ANPI di Inzago
L’ANPI e il Comune di Inzago, nel 68° anniversario della morte del Professor Quintino Di Vona, organizzano la cerimonia di commemorazione
Prof. Di Vona
Programma Ore 21:00 Cinema Teatro Giglio Inzago Proiezione del film “Cesare deve Morire”
PER NON DIMENTICARE
Centro Culturale “F. De Andrè” Mostra Fotografica “Mi vedi fragile?”
Domenica 9 settembre 2011
a cura di ”Segnavia Padri Somaschi” dal 20/09 al 05/10
Ore 10,30 - Dalla sede dell’ANPI, in via Piola 10, partenza del corteo per il Cimitero, con accompagnamento della Banda S.ta Cecilia di Inzago.
Venerdì 28 settembre 2012 Auditorium “F. De Andre’” via Piola “Perché parlare di Inclusione Sociale” Ore 21:00
Ore 11,00 - In Piazza Maggiore: posa delle corone sulla lapide e discorsi commemorativi del Sindaco di Inzago, Benigno Calvi, e del Presidente dell’ANPI provinciale, Roberto Cenati.
Saluti dell’Amministrazione Comunale Intervento esponente dell’ANPI Dott. Juri Aparo Psicologo del carcere di Opera. Dott. Carlo Alberto Caiani “Padri Somaschi”
Appuntamenti
La nostra Sezione organizza tre serate sul tema dell’inclusione sociale (vedi locandina qui a lato). Si sta preparando, inoltre, per sabato 6 ottobre una gita a Gattatico, alla casa-museo dei fratelli Cervi, e a Reggio Emilia, con visita alla Sala del Tricolore. Si raccolgono adesioni in sede, in Via Piola 10 (Centro De André),il martedì, dalle 15 alle 17 e il sabato, dalle 10 alle 11,30, o contattando Antonio al 348 5924043.
orrei che questa mia prima lettera non fosse smarrita perché potrebbe essere considerata come il mio testamento morale e potrebbe essere la prima e l’ultima lettera che ti scrivo, proprio come il canto del Cigno. Ti scrivo come posso e come il mio povero animo detta e significa. Se con uno specillo tu aprissi gli eremi più profondi del mio cuore, questo mio cuore, che ha tanto sofferto e ha conosciuto tutte le tempeste della vita, non vi troveresti ombra di vanità e di superbia. “Io sono quello che sono”. Io non ho fatto male ad alcuno. Ho avuto ed ho una grande fede: quella di ogni nobile cuore. Intendi il termine nobile come virtuoso.
Giovedì 20 settembre 2012
Venerdì 05 ottobre 2012 Auditorium “F. De Andre’” via Piola Ore 21:00 “Storie di vita” introduce Don Virginio Colmegna
Testimonianze “Dentro e fuori dalla società” Don Virginio Colmegna Sig.ra Ennia Campi
foto @ luciano cavallaro
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Sig.ra Rita Sala Coop. Granellino di Senapa Dott. Valerio Pedroni “Padri Somaschi” Nel corso della serata saranno trasmessi dei video sull’Inclusione sociale realizzate dalle coop sociali Arcobaleno, Granellino di Senapa, Padri Somaschi SEZIONE di INZAGO
con il patrocinio del
Padri
Somaschi Comune di Inzago
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La Coop sei tu ma non se lo ricorda più
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BOTTA E RISPOSTA SU COMPORTAMENTI E VALORI ETICI
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olti di noi fanno la spesa alla Coop; in buona parte ne siamo anche soci. Oltre che per il servizio che ci viene offerto, la scelta del socio Coop è motivata anche da una spinta “affettiva” per un marchio che è simbolo di valori appartenenti alla storia del movimento operaio, del sindacalismo sociale, dello schieramento progressista. Per questo ci risultano difficili da condividere alcuni comportamenti, assunti dalla sua dirigenza commerciale, soprattutto in questi ultimi anni. In particolare troviamo inaccettabile il mancato rispetto di festività “laiche” fon-
La lettera dell’ANPI di Cassano Cassano d’Adda 18 Aprile 2012
Spett. Presidente COOP Lombardia Spett. Direttore negozio di Cassano d’Adda p.c. Comitato soci COOP Cassano d’Adda ANPI provinciale Milano
Cara COOP, abbiamo saputo che nelle giornate del 25 Aprile e del 2 Giugno, che corrispondono alla Pasqua ed al Natale della nostra Repubblica nata dalla Resistenza antifascista quindi da festeggiare in famiglia e nelle piazze, i tuoi dirigenti invece hanno deciso di tenerti aperta e così di far lavorare i tuoi dipendenti. La qualcosa ci provoca meraviglia ed un senso di amaro stupore: com’è possibile che anche la nostra COOP (nella nostra associazione siamo quasi tutti, se non tutti, soci COOP) si appiattisca sull’onda dell’apertura perpetua per cercare di battere la concorrenza? per aumentare le vendite di qualche etto di prosciutto o qualche litro di latte? per non essere considerati poco “moderni” rispetto alla EsseLunga o al Pellicano? Non ci possiamo credere che queste siano le motivazioni che hanno portato la vostra dirigenza a prendere questa decisione, che ci permettiamo di censurare e di criticare aspramente. La rincorsa alla dilatazione continua dei tempi di offerta di prodotti e merci è un modello ideale per quelle imprese commerciali sensibili solo al totem del mercato e del profitto, che vorrebbero trasformarci tutti in buoni consumatori; questo siamo sicuri (siamo sicuri???) non è nelle fìnalità della COOP, alla quale preme che i suoi clienti siano soprattutto buoni cittadini, educati alla partecipazione ed alla sensibilità sociale, al consumerismo e non al consumismo, anzi:
damentali, quali quella del 25 aprile e del 2 giugno. Quest’anno il negozio Coop che serve la nostra Zona ha deciso di rimanere aperto anche in queste due date. Nonostante le proteste di singoli soci e associazioni, quale l’ANPI di Cassano d’Adda. Anche il Comitato dei Soci Coop si è espresso contro l’apertura. Riportiamo il carteggio scambiato con la Direzione della Coop. Da notare che la Coop non si è “scomodata” a rispondere all’ANPI di Cassano, ma lo ha fatto solo (dopo diverso tempo), dalla sede centrale lombarda, via e-mail ai singoli gli si erano rivolti in qualità di soci.
questo è il percorso che i soci COOP sono abituati a richiedere alla COOP stessa. Proprio perché pensiamo che la nostra COOP è differente... Quindi, cara COOP, chiedi ai tuoi dirigenti di cambiare il loro programma ed il 25 Aprile ed il 2 Giugno resta con noi a festeggiare la Liberazione d’Italia e la Repubblica; alla spesa, se non ci abbiamo già pensato, ci pensiamo un altro giorno. Un caro saluto dal Direttivo della sezione “B.Colognesi” ANPI di Cassano d’Adda
I Soci di Cassano comunicano
Cassano d’Adda 22 Aprile 2012
Per opportuna conoscenza comunico che il COMITATO SOCI COOP, nell’assemblea ordinaria del 17/04 u.s., ha elaborato un ordine del giorno che ha fatto pervenire IMMEDIATAMENTE al Presidente di Coop Lombardia Guido Galardi, deplorando che si sia presa una tale decisione e chiedendo la revoca dell’apertura del 25 aprile per rispetto dei valori sociali che da sempre ci contraddistinguono. Noi siamo diversi !! Cordialmente Virginia Nisoli
La risposta della Coop
Coop Lombardia ha tenuto aperti i propri punti vendita il 25 aprile. A molti sembrerà una contraddizione rispetto al vissuto e ai principi che la nostra Cooperativa tutela e difende, ma proprio su questo aspetto vogliamo invitarvi a riflettere. Difesa della democrazia, partecipazione, tutela del bene comune: i principi sanciti nella nostra Costituzione e festeggiati nel giorno della Liberazione, sono l’asse portante del nostro Statuto e del nostro Codice Etico e ci fanno
La coerenza non è più una virtù. Una vecchia campagna della Coop a sostegno del protocollo di Kyoto
da guida nelle nostre azioni e nel nostro operato 365 giorni all’anno. Abbiamo sempre scelto di ricordare e celebrare la festa della Liberazione coinvolgendo i territori e le comunità, reali protagoniste della storia della resistenza, organizzando tante stimolanti iniziative culturali. Anche quest’anno, i nostri Comitati Soci hanno preparato incontri con l’ANPI, passeggiate sui sentieri partigiani, concerti di musica classica in ricordo della resistenza, manifestazioni sportive. Citiamo solo una delle tante iniziative, che si rinnova ormai da anni: grazie anche al contributo della cooperativa molti studenti di scuola superiore di Novate Milanese possono partecipare ad “Un treno per Auschwitz” e rendersi così conto personalmente di cosa ha rappresentato il nazifascismo. Nei punti vendita aperti i soci e clienti sono stati omaggiati di piccoli tricolore, simbolo della Repubblica, un gesto semplice, lontano dai proclami, che per noi ha un significato particolare, autentico. Le ragioni che hanno spinto a tenere aperti i negozi sono di diversa natura e rispondono a diverse esigenze: in primis alla nuova legislazione in materia di liberalizzazione economica, poi al cambiamento nelle abitudini di acquisto dei nostri soci e consumatori, ai quali siamo chiamati a garantire un servizio efficiente e di elevato standard qualitativo e, infine, ad accordi con altre realtà commerciali che derivano dalla nostra presenza all’interno dei centri commerciali. In questi casi non possiamo scegliere in totale autonomia se restare aperti o chiusi, ove possibile, come all’Ipercoop Le Torri di Baggio, abbiamo optato per la chiusura. I lavoratori dei punti vendita aperti sono stati coinvolti esclusivamente su base volontaria, in questo modo abbiamo rispettato le diverse esigenze e sensibilità espresse da ciascuno. Ci siamo uniti a loro nel festeggiare il Primo Maggio, giorno in cui siamo stati “chiusi per festa”, a differenza di altri operatori del settore.
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il fiore del partigiano
“Fazil” e le altre storie che colorano il 25 aprile
BELLINZAGO PUNTA SUI GIOVANI: PREMIATI GLI STUDENTI DELLE SECONDARIE. ALL
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La Sezione ANPI di Bellinzago Lombardo, in occasione della Festa della Liberazione, aveva promosso un concorso riservato alla Scuola Secondaria, articolato in varie tipologie di elaborati da produrre. Pubblichiamo in queste pagine la cronaca della premiazione e i lavori premiati.
rande è stata la partecipazione degli studenti al bando di concorso riservato agli alunni della Scuola Secondaria di I grado di Bellinzago Lombardo come iniziativa per l’anniversario della Resistenza e della Liberazione. Hanno profuso impegno e intelligenza nella svolgimento dei temi richiesti dal concorso 46 ragazzi per le prime, 26 per le seconde e 23 per le terze, per un totale di 95. La cronaca di quel 25 Aprile La scuola è aperta e i ragazzi cominciano a entrare: è il 25 Aprile ed è anche il giorno della premiazione del Concorso ANPI. C’è animazione nell’atrio: si chiacchera, alcuni guardano la mostra del 25 Aprile. Arrivano il Sindaco e il Dirigente Scolastico: foto di gruppo, ci sono ben tre fotografi. Ecco, si sale alla spicciolata in aula magna e si prende posto; qualcuno prende le caramelle dal piatto sulla scrivania. C’è attesa: comincia la premiazione. Il presidente ANPI Antonio ringrazia la scuola tutta per la numerosa partecipazione: i ragazzi che hanno lavorato, i docenti che hanno assistito gli studenti, il dirigente scolastico e il Sindaco per il patrocinio. Il concorso si ripeterà anche in futuro, grazie ai fondi raccolti dai soci ANPI. Segue il Sindaco Emanuele, che legge nell’iniziativa un passaggio ideale dei valori della Liberazione alla nuova generazione. Anche il Dirigente Scolastico, una volta si diceva Preside, Marco (chiamiamo tutti gli adulti per una volta solo con il nome) è contento della risposta degli studenti al concorso, con tanti iscritti e grande impegno. Poi comincia Giorgio che riassume il bando: il disegno del Logo per i ragazzi di prima e seconda, i quattro temi per le terze; l’obbiettivo è di giungere in fretta a comunicare i premi. C’è una novità: delle 3 borse di studio, una di quelle per le classi prime e seconde non viene assegnata. È suddivisa in tre premi: uno per il Logo e altri due alle classi terze.E finalmente Antonella annuncia i vincitori. E allora è la festa dei ragazzi: sono loro che
Qui a sinistra: il logo ideato da Edoardo Tajè, (1ᵃ E) vincitore del concorso per disegni. Sopra: foto-ricordo con i vincitori. Da sinistra, Giorgio, Antonella, Alessia, Giulia, il Preside, Antonio, il Sindaco, Riccardo, Luca
IL PRIMO PREMIO Elaborato per le classi terze Tema: Nei media si parla spesso di diritti, dimenticando che questi sono sempre controbilanciati dai doveri. Inventa una storia che evidenzi questa necessità.
applaudono i premiati a lungo e con gioia. È il momento di Alessia Cavicchioli, poi di Edoardo Tajè vincitore del Logo... non c’è... forse è ammalato. Poi cominciano le terze, i grandi, quelli che quest’anno lasciano la scuola. Ecco Luca Mandelli, terzo premio, Giulia Passoni il secondo e poi Riccardo Crippa il vincitore assoluto. Si alzano e si avvicinano alla scrivania per ricevere il premio: tanti flash e foto per ognuno di loro, strette di mano con Antonio, il Presidente. È il loro momento, sono loro i vincitori. Segue la lettura degli scritti premiati: con sicurezza i ragazzi affrontano il pubblico senza alcuna incertezza. “Grandi” questi ragazzi che non si scompongono... è proprio una generazione diversa. E alla fine foto dei premiati con Emanuele, Marco, Giorgio e Antonella. E ora liberi tutti e buon 25 Aprile, Festa della Liberazione e della Resistenza. Giorgio Cervino ANPI di Bellinzago Lombardo
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a famiglia Hamit, di origini turche, vive nella periferia di Milano, in un quartiere dove c’è molta violenza e diffuso uso di droga tra i giovani. Si è trasferita lì dalla Turchia da poco più di due anni. La famiglia è composta da papà, mamma, e due ragazzi: uno frequenta la 2ª media e l’altra fa la 4ª superiore. La loro situazione è abbastanza tranquilla, in Italia si trovano bene e sono in buoni rapporti con la maggior parte delle famiglie che vivono nello stesse quartiere, quasi tutte straniere, tra le quali molte sono originarie dell’Europa dell’est o dell’America Latina. Ultimamente però nel quartiere c’è un po’ di tensione tra le famiglie locali e quelle immigrate, che vengono spesso accusate di rubare quel poco lavoro che c’è e di tutti i piccoli furti della zona. Il 25 Aprile, aiutati dalla parrocchia, gli immigrati organizzano una grande manifestazione in paese per far conoscere a tutti i loro diritti. Alla manifestazione partecipa anche la famiglia Hamit al completo. Fra cori, canti e balli gli immigrati portano parecchi striscioni dove
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RIE. ALLA FESTA NAZIONALE L’INCONTRO TRA LE GENERAZIONI
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A Marzabotto coi nostri giovani l’antifascismo continua il cammino
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al 14 al 17 giugno si è tenuta la festa nazionale dell’ANPI a Marzabotto. Giovani e meno giovani, iscritti alla sezione bellinzaghese, si sono trovati sabato 16 giugno per una giornata insieme nel piccolo ma tanto importante paese. Dopo un viaggio iniziato molto presto la mattina, il gruppo viene svegliato dai giovani iscritti che, dopo aver superato col pullman il confine dell’Emilia Romagna, cominciano ad intonare canti partigiani. La prima tappa del viaggio è stata il museo etrusco che si trova a pochi chilometri dal centro di Marzabotto, visita obbligata per chi si trova da quelle parti, in quanto si possono osservare i resti di uno degli unici centri abitati etruschi. Quasi ora di pranzo, orario giusto per percorrere gli ultimi chilometri che mancano all’arrivo alla festa nazionale dell’ANPI; moltissimi i momenti di aggregazione e gli stand informativi dei circoli di tutta Italia. Noi giovani abbiamo così avuto modo di incontrare gli iscritti delle altre città, avendo la possibilità di dibattere le nostre opinioni sull’ANPI: dall’importanza della trasmissione della memoria partigiana, al neofascismo che cambia struttura ma resta ancora un problema. Dopo aver pranzato tutti insieme nelle strutture autogestite dai vari circoli nazionali, ci siamo avviati verso San Martino: luogo di straordinaria memoria storica dove avvenne un eccidio di partigiani e civili. Una lunga camminata, sotto al sole, per ricordare quei giovani che in quel territorio combatterono i fascisti per avere oggi un’Italia libera e democratica.
sono scritti i loro diritti: diritto al lavoro, diritto all’educazione, diritto ad avere una casa, diritto alla libertà e all’uguaglianza, anche in un paese straniero. Durante la manifestazione Fazil, il figlio maschio della famiglia Hamit, viene visto da un gruppetto di ragazzi che frequentano la stessa scuola e che spesso prendono di mira gli immigrati con episodi di razzismo e bullismo. Nei giorni successivi Fazil diventa il bersaglio dei loro “scherzi” e dei loro insulti.I genitori sono molto preoccupati soprattutto per i loro figli che anch’essi stanno vivendo un periodo molto difficile soprattutto per quanto riguarda la scuola, così una sera, i due adulti decidono di parlare con i figli in merito a quello che sta succedendo e, dopo una lunga chiacchierata vengono a sapere che Fazil è vittima di alcuni atti di bullismo a scuola, infatti alcuni ragazzi continuano a infastidirlo dicendogli che la sua famiglia e tutta la sua comunità straniera sono un peso per il Paese e che tutte le loro richieste di diritti rendono insopportabili questi immigrati. Saputi questi fatti, la famiglia decide di denunciare tutto alla scuola, che però non prende seri provvedimenti decidendo solo di convocare i ragazzi, i quali negano tutto davanti al preside. Così Fazil continua ad essere la vittima dei bulli che, aspettandolo fuori da scuola, lo picchiano e gli rubano i vestiti, la merenda e quelle poche
Il gruppo dell’ANPI di Bellinzago a San Martino
Una guida partigiana ci ha raccontato svariati episodi accaduti in quelle montagne, tra cui alcuni dettagli dell’eccidio che hanno fatto emozionare moltissimo i presenti. Tutto il discorso della guida era incentrato sull’importanza della memoria storica e dell’aspetto fondamentale di tramandare ciò che avvenne in quegli anni nella valle dove si trova Marzabotto. Lasciato San Martino ci siamo avviati verso il sacrario dei caduti durante la seconda guerra mondiale, nella zona intorno alla cittadina. All’interno della struttura era presente una signora, ex partigiana, che più volte ha incitato i giovani del circolo a continuare sulla strada intrapresa. L’emozione suscitata dalle parole della partigiana ci ha accompagnato durante tutto il viaggio di ritorno. Verso le 22 il pullman arrivava a Bellinzago; un momento per salutarci tutti, ed ognuno ha preso la sua direzione con una memoria partigiana ancora più forte nel cuore. I giovani dell’ANPI di Bellinzago
monete che ha in tasca. Senza dire niente ai genitori per non preoccuparli, lui continua ad andare avanti in questo modo. I prepotenti, d’altra parte, continuano a ribadire che le pressanti richieste di diritti da parte di immigrati stanno diffondendo un profondo sentimento razzista nei confronti di questa gente; dicono anche a Fazil, in poche parole, che se ne deve andare! Quello che dicono, alla fine, non è poi così del tutto strano perché in Italia, ma, soprattutto a Milano, sta davvero succedendo questo e molte famiglie immigrate stanno vivendo con molta paura. Fazil, appunto è “perseguitato” dai bulli, ma lui, debole, solo e indifeso, non riesce a difendersi né con le sue forze né denunciando tutto ai genitori e a causa di questi soprusi vive un periodo difficile e infelice. In particolare, un giorno all’oratorio, Fazil viene preso e picchiato, ma la cosa che lo fa arrivare al culmine dell’esasperazione è il fatto che dopo aver provveduto al male fisico, i ragazzi colpiscono anche l’anima del ragazzo con una serie di offese pesanti. Essi gli dicono una volta per tutte che non lo vogliono vedere più in giro, all’oratorio o ai giardinetti, perché secondo loro Fazil e i suoi amici immigrati non hanno il diritto di frequentare questi posti. Fazil, offeso profondamente, decide di fare quello che non aveva mai fatto prima, e racconta loro tutto quello che loro non sanno di lui e della sua famiglia scaricando in questo modo
tutta la tua rabbia che si è tenuto dentro per moltissimo tempo. Comincia dicendo che ogni persona, in qualunque parte del mondo sia, deve avere i suoi diritti. Ma soprattutto per la prima volta parla dei doveri, cosa che anche gli adulti non avevano mai fatto prima. Racconta ai ragazzi dei tanti doveri che lui e la sua famiglia hanno nei confronti del paese che li ospita: il dovere di lavorare per mantenersi, accettando anche i lavori più umili, quelli che i genitori di questi piccoli delinquenti non farebbero mai; il dovere di rispettare le leggi italiane, il dovere di rispettare la religione e la cultura, il dovere del rispetto verso tutte le persone e verso tutte le loro idee. Racconta che la sua famiglia ha soprattutto dei doveri e questi vengono rispettati sempre e che i suoi genitori fanno molta fatica e tanti sacrifici, per esempio suo padre è un operaio e lavora giorno e notte perché i soldi non bastano, in questo caso non c’è il diritto allo svago o quello al riposo! La storia raccontata dal ragazzo alla fine fa capire al gruppo che solo rispettando diritti e doveri può esserci serenità in un paese o in una comunità e che questo è l’unico modo per accettare le differenze fra le persone. Dopo questo episodio Fazil non viene più perseguitato e, anche se non diventerà loro amico, è comunque rispettato. Riccardo Crippa, 3ª F
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il fiore del partigiano
La Resistenza di Franja che curava ogni partigiano
LA SEZIONE DI INZAGO IN VISITA IN SLOVENIA AD UN PARTICOLARE OSPEDALE PARTIGIANO, ALLE
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nche quest’anno la sezione ANPI di Inzago ha organizzato, come ormai consuetudine, la visita ad un luogo della memoria. Il viaggio si è svolto nei giorni 25-26-27 dello scorso maggio, la nostra destinazione è stata l’ospedale partigiano Franja situato nel comune di Cerkno, in Slovenia. Questo ospedale si trova tra le montagne, in una stretta gola chiusa tra pareti rocciose e ben nascosto dalla vegetazione. Fu costruito in questo luogo strategico perché le 14 baracche, che costituivano questo presidio sanitario, risultavano ben occultate anche a eventuali incursioni aeree nemiche. Ciò che possiamo vedere oggi è stato ricostruito dopo un’alluvione che nel 2007 causò la quasi totale distruzione dell’ospedale. Il governo sloveno, in collaborazione con i cittadini del luogo e le associazioni partigiane delle nazioni limitrofe, ha voluto ricostruire questo monumento, affinché l’ospedale Franja rimanesse un simbolo dell’unione internazionale e della Resistenza, ma soprat-
tutto un prezioso monumento all’umanità, nobiltà d’animo e alla solidarietà. Come altre nazioni che aspiravano alla libertà, anche gli sloveni si erano organiz-
zati e uniti nella lotta contro il fascismo e il nazismo. Una particolarità della Resistenza slovena furono gli ospedali segreti, situati nelle foreste, nei burroni con pareti
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il fiore del partigiano
ANO, ALLE GROTTE DI POSTUMIA E ALLA CAPITALE LUBIANA
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DIRITTI UMANI
La ragione dei cancellati sloveni
S
di
Il gruppo dei nostri turisti in tre tappe del percorso: la visita guidata di Lubiana, qui sopra; all’ospedale partigiano Franja, a sinistra; all’ingresso delle grotte di Postumia, sotto. (foto di frAnCeSCo “CeCk” brAmbillA)
a strapiombo, nelle grotte sotterranee. Dopo la capitolazione dell’Italia, nell’autunno 1943, si decise di costruire questo ospedale per curare ed assistere i partigiani feriti nelle azioni di rappresaglia condotte su queste montagne. La guida che ci ha accompagnato nella visita ci ha spiegato che gli abitanti della zona collaborarono attivamente per trasportare i feriti fino alle baracche, pas-
sando dal torrente per non lasciare tracce che potevano condurre il nemico all’ospedale stesso. Oltre agli sloveni, tra i feriti figuravano partigiani di varie nazionalità. Sulla lapide a ricordo di coloro che qui furono curati figurano anche i nomi di alcuni italiani. Da ricordare che, già durante la guerra, l’ospedale prese il nome dalla Dottoressa Franja Bojc Bidovec, che lo diresse più a lungo. In tutti noi la visita a questo luogo ha suscitato grande interesse ed emozione. Una stretta e scoscesa stradina, scavata nella roccia sul fianco della montagna, ci ha portati fino in fondo alla stretta gola dove c’erano le baracche; mentre la percorrevamo riflettevamo su come l’altruismo e la solidarietà umana, durante la guerra, riuscivano a superare grandi difficoltà anche di tipo ambientale. Oltre a questa significativa e centrale meta, il nostro viaggio ci ha portato a visitare la capitale della Slovenia, Lubiana. Città gradevole e molto ordinata, con un bel centro storico e diversi monumenti di notevole pregio. Abbiamo inoltre visitato le grotte di Postumia, che sono fra le più belle d’Europa, uno spettacolo naturalistico di rara bellezza. Sulla via del ritorno, dopo tre giorni intensi ed interessanti, vissuti in armonia ed allegria tra tutti i partecipanti, c’era già la voglia e l’entusiasmo di pensare ad altre iniziative che tengano viva la memoria storica e i valori in cui crediamo. Wilma Fumagalli e Antonio Brambilla ANPI di Inzago
da il manifesto del 29 giugno 2012 pubblichiamo un estratto
ROBERTO PIGNONI
torica sentenza della Corte europea: la Slovenia ha violato i diritti umani di quelle migliaia di cittadini che nel ‘92 cancellò dai registri del nuovo Stato migliaia di persone considerate “jugoslave”. Dopo il ricorso presentato esattamente sei anni prima, il 26 giugno 2006, da un gruppo di “cancellati”, la Corte ha ritenuto lo stato sloveno colpevole di alcune gravissime violazioni dei diritti umani, riferite all’art.8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), all’art.13 (diritto a un rimedio legale effettivo) e all’art.14 (divieto di discriminazione) della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Pur rigettando, inspiegabilmente, alcune posizioni particolari, la Corte ha accolto in pieno le argomentazioni dei ricorrenti, un campione assai ridotto, ma significativo, delle decine di migliaia di cittadini che furono illegalmente privati della “residenza permanente” il 26 febbraio ‘92, così perdendo ogni diritto civile, politico, economico e sociale. Un’operazione di pulizia etnica in guanti bianchi, portata a termine con un colpo di mouse davanti ai terminali dei computer del Ministero degli Interni sloveno, e passata per anni inosservata nonostante gli effetti devastanti su migliaia di famiglie (l’ultima stima governativa ammette la “cancellazione” di 25.671 persone). La decisione della Corte, assunta dalla Grande Camera e perciò irrevocabile, è notevole anche perché applica la cosiddetta “procedura pilota”, imponendo al governo sloveno di predisporre, entro un anno, uno schema di risarcimento per tutti i “cancellati”. Al di là delle implicazioni economiche “da panico” per i media di Lubiana, il dato politico è di enorme rilevanza: la “cancellazione” è ufficialmente riconosciuta come un crimine contro i diritti umani. La sentenza seppellisce una volta per tutte il mito della success story slovena, di una secessione incruenta, condotta nel pieno rispetto dei principi democratici. Vent’anni fa, a Lubiana, fu fissato un paradigma che prefigura nella forma più estrema e crudele il processo di spoliazione progressiva dei diritti che minaccia la società europea. Perché dai “cancellati” abbiamo imparato che Kafka è un autore neorealista: si limita a fotografare la realtà - con 80 anni d’anticipo.
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Le “marocchinate” di Esperia
QUANDO I RICORDI PERSONALI INCONTRANO LA MEMORIA STORICA
Terribili le violenze subite da molte donne ciociare
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CARLO SIMONE
gni guerra porta con sé devastazioni, immani ingiustizie e lutti. Spesso, troppo spesso, a pagare il prezzo più alto sono le popolazioni che ne rimangono coinvolte. Le più colpite sono le figure più deboli, in particolare le donne. Anche il secondo conflitto mondiale vide tremendi episodi di cui le donne furono le vittime principali. Una terribile catena di violenze fu registrata nel ‘44 durante i mesi della risalita dell’offensiva alleata per la liberazione del meridione d’Italia, a partire dalla Sicilia, fino al centro-Italia (dalla Ciociaria alla Toscana), ad opera delle truppe marocchine inquadrate nelle forze francesi. Moltissime donne (si stima almeno 60.000) furono vittime di stupri di gruppo. Per queste donne, nell’immediato dopoguerra fu promulgata una legge che riconoscesse la terribile sorte da loro subita durante il conflitto. Alcuni di questi fatti, in seguito, mi furono raccontati da persone del posto, durante la mia permanenza per motivi di lavoro nei luoghi in cui più si scatenò la bestialità di queste violenze. L’acquedotto degli Aurunci Nel mese di agosto del 1956 la società per cui lavoravo mi inviò nel basso-Lazio, in qualità di capo-cantiere, per dirigere i lavori di rilievi topografici e studio per la realizzazione dell’acquedotto “degli Aurunci”. Il lotto assegnato alla mia società si dipartiva dal Monte d’Oro, una montagna che sovrasta il paese di Esperia, e si sarebbe diramato verso Coreno Ausonio e verso Vallemaio. A tracciato definito, la prassi obbligava ad eseguire una ricognizione per studiare il modo di attacco delle operazioni, da farsi insieme al direttore dei lavori dell’ente appaltante. Nel nostro caso questa figura era rappresentata dall’ingegner Notarianni, zio di Pietro Ingrao. La zona dei Monti Aurunci era stata tragicamente sottoposta a cruente azioni di guerra. Esperia dista pochi chilometri da Cassino, nota per la grande battaglia che vide la distruzione dell’abbazia dei frati Benedettini. Quel monastero, fino alla sua completa distruzione, aveva custodito se-
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Bestialità. Un accampamento di “goumiers”, la fanteria marocchina autrice di molti stupri durante la seconda guerra mondiale. Nella pagina a fronte e nelle seguenti, immagini tratte dal film “La ciociara”
CHI ERANO I “GOUMIERS” MAROCCHINI
Berberi, agili e spietati combattenti di montagna
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coli di storia italiana. A disdoro degli autori di tale azione si rende necessario fare il nome di chi l’autorizzò: l’eroico generale Alexander, comandante in capo delle operazioni. Durante la mia ricognizione con l’ingegner Notarianni eravamo accompagnati da Colella, un mio operaio che fungeva da guida, in quanto conosceva perfettamente la zona. Seguendo il percorso, giungemmo in località Spigno Saturnia Superiore. Qui Colella proruppe in un pianto lacerante e
L’acquedotto e la Storia. La zona della Ciociaria, luogo di lavoro per Carlo Simone, conserva ancora molte tracce di terribili eventi di guerra
irrefrenabile. L’ingegner Notarianni ed io ci guardammo e, in animo di consolarlo, glie ne chiedemmo il motivo.
arocchinate è il termine usato per indicare lo stupro di massa attuato dai goumiers francesi ai danni di molte persone di ambo i sessi e di tutte le età dopo la battaglia di monte Cassino. il corpo di spedizione francese era composto da circa 130 mila unità per lo più marocchini, algerini, tunisini e senegalesi. i goumiers erano marocchini di razza berbera, nativi delle montagne dell’Atlante, che costituivano le truppe coloniali irregolari francesi appartenenti ai goums marocains, un reparto delle dimensioni approssimative di una divisione ma meno rigidamente organizzato, che formavano il cosiddetto C.e.f. (Corps expeditionnaire francais) insieme ad altre quattro divisioni: la Prima divisione della francia libera. la Seconda divisione marocchina di fanteria (dim - division infanterie marocaine, 13.895 uomini, di cui 6.578 europei e 7.317 indigeni); la terza divisione Algerina di fanteria (diA - division in fanterie Algerienne, con i suoi 16.840 uomini, tra i quali 6.354 bianchi e 6.835 indigeni); la Quarta divisione di montagna marocchina (dmm - division marocaine de montagne, 19.252 uomini, di cui 6545 europei e 12.707 indigeni); Questi uomini selvaggi in bourms (mantello di lana con cappuccio) e turbante, avvolti in sporchi barracani, erano denominati “goumiers”, perché non erano organizzati in divisioni regolari, ma in “goums”, ossia gruppi composti da una settantina di uomini, molto spesso legati tra loro da vincoli di parentela. infatti “goum” (il cui plurale è appunto “goums”), deriva dalla traslitterazione fonetica francese del termine arabo “qum” che indica, appunto, una banda o uno squadrone. la caratteristica di queste truppe coloniali era l’eccellente addestramento nei combattimenti montani, dove riuscivano a muoversi in silenzio e con agilità. Vivere e battersi in montagna era qualcosa di naturale per questi soldati nati e vissuti su impervie montagne, e un terreno che altri avrebbero considerato un ostacolo era per questi nordafricani un alleato. i goums erano al comando del generale francese Augustin guillaume.
Primavera del 1944 Da molto tempo le truppe alleate erano ferme di fronte a Cassino; da qui dovevano aprirsi un varco per dirigersi verso Roma. Il fiume Rapido era risultato impossibile da guadare, a causa dell’estrema difesa che i tedeschi opponevano, favoriti dalle linee difensive poste sul Monte Cairo, che dall’alto dominavano la valle di Cassino. Il santuario di Montecassino era posizionato molto al di sotto della linea difensiva tedesca. Il generale Clark aveva avuto notizia che l’abbazia era presidiata dai soldati tedeschi; per questo decise di bombardarla con gli aerei. La distruzione del monastero, però, non bastò ad aprire un varco per la presa di Cassino, per cui gli americani decisero di aggirare il fronte di pianura mediante l’impiego di truppe formate da soldati abili a muoversi in montagna. A questo scopo furono scelti i “goumiers”, soldati marocchini (e algerini), che godevano fama di abili e feroci combattenti. Questa truppa era al comando di ufficiali francesi, al cui vertice supremo era il generale Juin. I soldati marocchini non erano di facile gestione, tant’è vero che gli ufficiali francesi avevano su di loro potere di vita o di morte. A loro volta, le truppe marocchine avevano il diritto di saccheggio su città e paesi conquistati; questo comprendeva anche il di-
ritto di violenza sulle persone, principalmente donne, ma non solo: uomini e perfino bambini potevano essere oggetto di stupro. Quando i reparti marocchini risultarono pronti, furono portati nella zona di Marànola. Da qui iniziarono i guai per le popolazioni che vivevano tra i monti Aurunci, infoltite dalle famiglie sfollate per sfuggire i pesanti bombardamenti delle città. Per costoro fu come cadere dalla padella alla brace, perché i goumiers fecero un vero macello. Da Marànola le truppe marocchine iniziarono a salire. Quando raggiunsero il pianoro di Spigno Saturnia Superiore trovarono un accampamento di crocerossine al seguito dell’esercito americano. Qui si consumò il prologo di quello che sarebbe avCONTINUA A PAGINA 14 ➔
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➔ SEGUE DA PAGINA 13 venuto in seguito durante la marcia verso Roma. Il racconto di Colella Quando su quel pianoro giungemmo nelle vicinanze di un casolare, come dicevo, Colella scoppiò a piangere in modo quasi scomposto, irrefrenabile. Per calmarlo ci volle molto tempo. Alla fine, quando fu un po’ più calmo, iniziò il racconto con il manifestare l’odio verso i soldati marocchini. «Quando le truppe alleate giunsero alla roccaforte di Cassino, la mia famiglia decise di trasferirsi da Esperia in questa località dove stiamo ora, in questo casolare che ci lasciò in proprietà mio nonno. La mia famiglia, composta da papà, mamma, due sorelle ed io, trascorreva una vita tranquilla, malgrado lo scoppio di bombe di tutti i tipi, anche quelle sganciate dagli aerei. Ci sentivamo quasi sicuri. Mio padre quella mattina si era recato ad Esperia; mia madre, mia sorella ed io eravamo in casa, intenti a preparare la prima colazione, quando la porta d’ingresso si aprì violentemente. Ci spaventammo moltissimo. Nella specchio della porta si profilò la sagoma di un soldato marocchino: era l’avanscoperta di una pattuglia composta da una ventina di militari. Alla vista di mia madre e di mia sorella, il marocchino invitò i commilitoni ad entrare. Decisero subito il da farsi: abusare delle due donne… Per far questo, uno di loro mi teneva fermo con il fucile puntato; a mia mamma e mia sorella con la forza fu ingiunto di spogliarsi vicino al letto dove dormivamo noi.» Tutti quei “prodi” abusarono dell’una e dell’altra donna. Durante il racconto, Colella continuava a dire che si sentiva ancora un vigliacco perché, per paura di essere ammazzato, non aveva avuto il coraggio di correre alla difesa delle due donne, che urlavano dal dolore fisico e morale. La sorella era ancora vergine. Lo rincuorammo dicendogli che, nella situazione in cui si trovava, altro non avrebbe potuto fare. Le “marocchinate” di Esperia Da Esperia il tracciato dell’acquedotto scendeva verso Ausonia, bellissima località abbarbicata su un cucuzzolo. Questo ridente paese, fin dai tempi degli antichi romani era famoso per la bellezza delle sue donne; parecchi pittori le cercavano per immortalarle nei loro quadri. Oltre che per questa dote, erano ricercate anche come balie, data la loro prosperità lattifera. Anche qui le truppe marocchine scatenarono i loro istinti bestiali, stuprando le donne, vecchie e giovani, che incontrarono lungo il loro percorso. Da Ausonia i marocchini risalirono verso Esperia. Anche questo è un bellissimo CONTINUA A PAGINA 16 ➔
La ciociara e
SUL CASO DELLE DONNE ITALIANE STUPRATE DURANTE LA SECO
Riprendiamo e pubblichiamo un articolo dello storico Giovanni De Luna (insegna Storia contemporanea all’Università di Torino) tratto da www.lastampa.it del 25 novembre 2002
V di
GIOVANNI DE LUNA
ennero a combattere in Italia da tutti gli angoli del mondo: americani, francesi, inglesi, tedeschi, neozelandesi, indiani, polacchi, senegalesi, marocchini, algerini, tunisini, nepalesi, ecc... Per quasi due anni, dal luglio del 1943 al maggio 1945, subimmo una durissima legge del contrappasso: il fascismo che aveva inseguito i suoi deliri imperiali in terre lontane, portò la guerra sull’uscio delle nostre case, in un turbinio di stragi naziste (15 mila vittime civili), bombardamenti (65 mila vittime civili), rappresaglie, battaglie campali. Invasori, liberatori, occupanti, comunque si chiamassero, le truppe straniere guardarono all’Italia come a un paese vinto. E si comportarono di conseguenza. Si materializzò così l’incubo delle violenze e degli stupri, l’altra faccia della “guerra al femminile”. Anni fa, un bel libro curato da Anna Bravo, (“Donne e uomini nelle guerre mondiali”, Laterza, 1991) ospitava un saggio di Ernesto Galli della Loggia che utilizzava quell’espressione per indicare nella seconda guerra mondiale una straordinaria occasione di protagonismo per le donne, chiamate a interpretare ruoli inediti (per esempio sul lavoro), a svolgere compiti difficili, con il peso sulle spalle della salvezza dei propri uomini e della sopravvivenza delle proprie famiglie. Il lato oscuro di questa visibilità fu l’ondata di violenza di cui furono vittime. Lo spiega bene un libro più recente (“Donne guerra e politica”, a cura di D.Gagliani, E. Guerra, L. Mariani e F.Tarozzi, Clueb, 2001): gli stupri diventano per gli eserciti vittoriosi l’occasione per l’esercizio di un potere anche simbolicamente straripante, in grado di espropriare gli sconfitti non solo della loro dimensione pubblica (il loro Stato, il loro territorio nazionale) ma
anche di quella privata, penetrando nelle loro case, squarciandone gli interni domestici, spezzandone i legami di cittadinanza insieme a quelli familiari e parentali.
Tra il 1943 e il 1945 sulle donne italiane si scatenarono violenze di tutti i tipi e su tutti i fronti: sulla “linea gotica”, i tedeschi infierirono soprattutto nei dintorni di Marzabotto, quasi a voler reiterare la strage in altre forme (Dianella Gagliani, “La guerra totale e civile: il contesto, la violenza e il nodo della politica”); sull’Appennino ligure-piemontese, nel 1944, in sei mesi, si registrarono 262 casi di stupro ad opera dei “mongoli” (i disertori dell’Asia sovietica arruolati nell’esercito tedesco). Ma niente può eguagliare l’orrore che investì le “marocchinate”: è una brutta parola, ma allora la usavano tutti e si capiva subito di cosa si parlava. Nel 1960, Vittorio De Sica ne immortalò le sofferenze in un film che valse l’Oscar a Sofia Loren. La ciociara era tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Paradossalmente, mentre il cinema e la letteratura trovarono subito i modi per raccontare le scene che si svolsero allora nelle terre in cui, a combattere i tedeschi, arrivarono le truppe delle colonie francesi (non solo marocchini, ma anche tunisini, algerini, ecc...), gli storici furono come bloccati, lasciando praticamente sguarnita di studi e ricerche quella pagina dolorosa della nostra storia. A rompere questo inquietante silenzio è ora un libro appena uscito in Francia e di prossima pubblicazione anche nella sua traduzione italiana: Jean-Christophe Notin, “La campagne d’Italie. Les victoires oubliées de la France, 1943-1945”, Perrin, 2002. In realtà, come si capisce immediatamente dal titolo, a Notin preme soprattutto indicare nella campagna d’Italia, «l’occasione per la Francia di provare agli Alleati, ma anche a se stessa, che continuava a essere una grande nazione». Grazie al loro impegno a Cassino, nei furibondi combattimenti che si accesero sulla “linea Gustav”, i francesi riuscirono a riconquistare la stima degli angloamericani, facendo dimenticare l’ignavia della capitolazione del giugno del 1940, il collaborazionismo di Vichy, le ambiguità di Giraud e delle truppe rimaste nell’Africa del Nord. E alla fine vennero premiati: il trattato di pace del 1947 sancì una rettifica delle frontiere alpine con l’Italia che assegnò alla Francia uno spicchio di territorio pari a 709
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E LA SECONDA GUERRA MONDIALE PERMANGONO LETTURE DIFFERENTI
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chilometri quadrati. Pochi, ma come sottolinea Notin, anche l’unico ingrandimento territoriale conquistato in guerra dalla Francia in tutto il Novecento! I 130 mila francesi furono schierati sul fianco sinistro della V Armata americana e subito scaraventati al fronte, nella fornace ardente di Cassino. E furono proprio i soldati agli ordini del generale Juin i primi a sfondare, il 13 maggio 1944, i capisaldi della linea Gustav. Poi, «la furia francese» (nel libro viene usato proprio questo termine) rotolò lungo la valle del Liri, sconvolse il frusinate, proseguì verso Nord, verso Roma, verso la Toscana e lì si fermò. Nell’agosto del 1944, dopo lo sbarco alleato sulle coste della Provenza, le truppe di Juin furono richiamate in patria. Alle loro spalle lasciarono ben 7485 caduti, ma anche una scia di lagrime.
Per Notin i “marocchini” non si arruolarono per patriottismo ma per altre ragioni: la prospettiva di un salario sicuro, la possibilità di acquistare prestigio guerriero, la fedeltà ai loro clan. Non erano solo “marocchini”, ma provenivano da tutte le popolazioni più povere del Maghreb, gente di montagna, analfabeti nei cui confronti gli ufficiali francesi dovevano essere di volta in volta padri, saggi consiglieri spirituali, capi tribù. Le loro figure intabarrate nei mantelli marrone (burnous), i pugnali alla cintura, le voci di sgozzamenti notturni, di orecchie e nasi mozzati ai nemici, alimentavano una fama da incubo ancestrale. Se dobbiamo credere a Notin, andavano all’attacco salmodiando la Chahada, («La Allah illah Allah! Mohammed Rassoul Allah!»), catturavano i tedeschi per rivenderli (500-600 franchi per un soldato semplice, il triplo per un ufficiale superiore) ai militari americani desiderosi di costruirsi una reputazione guerriera senza rischiare. La prima notizia di un loro stupro è dell’11 dicembre 1943; si tratta di 4 casi che coinvolgevano - secondo fonti americane - i soldati della 573ᵃ compagnia comandata da un sottotenente francese «che sembrava incapace di controllarli». Notin annota: «sono i primi echi di comportamenti reali, o più spesso immaginari, di cui saranno accusati i marocchini». Tanto immaginari però non dovevano essere se, già nel marzo 1944, De Gaulle, durante la sua prima visita al fronte italiano, parla di rimpatriare i goums (o goumiers, come venivano chiamati) in Marocco e impegnarli solo per compiti di ordine pubblico. In quello stesso mese gli ufficiali francesi chiesero insistentemente di rafforzare il contin-
gente di prostitute al seguito delle truppe nordafricane: occorreva ingaggiare 300 marocchine e 150 algerine; ne arrivarono solo 171, marocchine. Dopo lo sfondamento della linea Gustav, la “furia francese” travolse soprattutto il paesino di Esperia, che aveva come unica colpa quella di essere stato sede del quartier generale della 71° divisione tedesca. Tra il 15 e il 17 maggio oltre 600 donne furono violentate; identica sorte subirono anche numerosi uomini e lo stesso parroco del paese. Il 17 maggio, i soldati americani che passavano da Spigno sentirono le urla disperate delle donne violentate: al sergente Mc Cormick che chiedeva cosa fare, il sottotenente Buzick rispose: «credo che stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa». Ma gli alleati erano sinceramente scandalizzati: un rapporto inglese parlava di donne e ragazze, adolescenti e fanciulli stuprati per strada, di prigionieri sodomizzati, di ufficiali evirati. Pio XII sollecitò (il 18 giugno) De Gaulle in questo senso, ricevendone una risposta accorata accompagnata da un’ira profonda che si riversò sul generale Guillaume, capo dei “marocchini”. Si mosse la magistratura militare francese: fino al 1945 furono avviati 160 procedimenti giudiziari che riguardavano 360 individui; ci furono condanne a morte e ai lavori forzati. A queste cifre sicure occorre aggiungere il numero, sconosciuto, di quanti furono colti sul fatto e fucilati immediatamente (15 “marocchini” solo il 26 giugno). Si tratta comunque di alcune centinaia di casi. Le fonti italiane danno cifre molto diverse. Una ricerca in merito (Vania Chiurlotto, “Donne come noi. Marocchinate, 1944-Bosniache”, in DWF, n.17, 1993) parla di 60 mila donne stuprate. Un numero enorme, spaventoso. Fu proprio a Esperia che nacquero le prime voci sulla “carta bianca”. Come premio per aver sfondato la linea Gustav, gli ufficiali francesi avrebbero concesso 24 ore in cui tutto era permesso. Notin smentisce con forza. Resta il fatto che la disposizione dei francesi nei nostri confronti non era delle migliori: nessuno aveva dimenticato la pugnalata alle spalle del 10 giugno 1940, il bombardamento di Blois senza necessità militari, i mitragliamenti delle colonne di rifugiati a sud della Loira. Però, pur ammettendo una certa riluttanza delle autorità francesi nel punire le violenze, la disparità con le cifre di parte italiana resta enorme. I nostri dati si fondano sulle 60 mila richieste di indennizzo presentate dalle donne italiane. I francesi pagarono da un
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minimo di 30 mila a un massimo di 150 mila fino al 1 agosto 1947. Da quel momento a pagare fu lo Stato italiano, stornando i fondi dai 30 miliardi dovuti alla Francia per le riparazioni di guerra. Molti problemi nacquero dal fatto che le donne, oltre all’indennizzo, chiesero anche la pensione come vittime civili di guerra e che per legge i due benefici non erano cumulabili. Ne scaturì un groviglio di questioni burocratiche, ritardi, lamentele. A organizzare le proteste furono soprattutto le comuniste dell’Udi. Nel 1951 un’affollatissima assemblea di donne in un cinema di Pontecorvo affrontò la questione delle marocchinate, provocando un infuocato dibattito parlamentare. Il Pci, in piena guerra fredda, si fece paladino del nostro onore nazionale; nel 1966, in un clima politico radicalmente diverso, toccò al monarchico Alfredo Covelli risollevare la questione dei 60 mila stupri. Nel 1993 su quegli eventi è tornato Tahar Ben Jelloun, (Gloria Chianese, “Rappresaglie naziste, saccheggi e violenze alleate nel Sud”, in Italia contemporanea, n.202, 1996). Ma, indipendentemente dalle ragioni dell’«uso pubblico della storia», in tutta quella vicenda restano interrogativi pesanti e angosciosi. Ammettere di essere stata stuprata è per una donna un’esperienza devastante. Eppure furono in 60 mila a farlo. La spiegazione di Notin è raggelante. Su quegli stupri furono messe in giro molte “voci” interessate: dalle autorità francesi in Marocco che volevano sollecitare un rapido rientro delle truppe a casa; dalla Santa Sede che ingigantiva le dimensioni del pericolo islamico; dai tedeschi per spaventare le popolazioni e per nascondere i propri massacri. Per il resto, la colpa fu in parte della rilassatezza dei costumi delle donne italiane, in parte delle abitudini tribali dei marocchini. Per parte nostra, solo una constatazione. Nei paesi colpiti spesso furono i sindaci a raccogliere le richieste di indennizzo e, nell’interesse della comunità, si arrivò a dichiarare la violenza anche quando non era stata subita. Il fatto è che la miseria travolse anche il pudore e le 60 mila “marocchinate” furono costrette a scegliere lo scandalo e la vergogna di uno stupro “falso” per ottenere i soldi “veri” che servivano alle loro famiglie e alla loro comunità.
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il fiore del partigiano “Attenti alle bombefarfalla!” Nei dintorni di Cassino, un avviso di ciò che la guerra aveva lasciato alle popolazioni
➔ SEGUE DA PAGINA 14 paese, diviso in due posizioni: Esperia Alta ed Esperia Bassa. Si trova sulla direttrice Spigno-Pontecorvo-Roma. I tedeschi, sfruttando la posizione favorevole, in quella località avevano dislocato un reparto operativo ben armato, arroccato nell’ospedale sito su un crinale di Esperia Superiore. Le notizie degli stupri erano note e, per vendicare le nefandezze dei soldati marocchini, i tedeschi escogitarono un piano, per quando quei malvagi sarebbero giunti a loro tiro. Finsero di arrendersi e, quando questi furono a distanza ravvicinata, li mitragliarono, provocando forti perdite tra i marocchini. La risposta fu feroce. Quando i soldati tedeschi si arresero davvero, in spregio alle leggi internazionali, anziché far prigionieri, i goumiers marocchini sgozzarono tutti i tedeschi. Purtroppo la tragedia di Esperia era solo all’inizio. Quando la truppa marocchina dilagò sia in Esperia Alta che in quella Bassa, la città venne messa a ferro e fuoco e applicò il diritto di conquista, su cose e persone. La conquista più ambita era costituita dalle donne. Quando i marocchini le avvistavano, le catturavano e, senza fare distinzione di età, le stupravano. Spesso la violenza non era inflitta da un solo soldato, ma dall’intera squadra. Questi non erano più persone umane, ma bestiali selvaggi. Mi raccontò il mio autista che ad Esperia Inferiore si verificarono due clamorosi casi di sodomizzazione: sul parroco (che morì in seguito alle brutalità subite) e perfino su un asino. Percorrendo la strada Esperia-PontecorvoLénola, fino a Fondi, di questi fatti se ne verificarono moltissimi. Tanto da costringere il Governo italiano, dopo la guerra, a promulgare una legge speciale per indennizzare quelle povere donne. Le “bombe intelligenti” di Venafro Questi fatti preoccuparono molto il Comando americano, capeggiato dal generale Clark, che, essendo riuscito con l’impiego di queste truppe a sfondare a Cassino, doveva loro una ricompensa per l’ormai prossima conquista di Roma, distante pochi chilometri. Clark aveva la necessità di riorganizzare il suo esercito (la 5ª Armata) e temeva quello che avrebbe potuto essere il comportamento dei soldati marocchini qualora fossero entrati in Roma, capitale mondiale della cristianità, visto quello che avevano tenuto fino a quel momento in Ciociaria. Per ovviare a tale ignominia, con l’assenso del Governo americano, decise di fermare l’esercito marocchino. Con la scusa di riorganizzare la divisione nordafricana, la spostarono da Fondi nella piana di Venafro, posto ad ovest di Cassino, sulla direttrice per Campobasso. Quando il concentramento di questi soldati fu terminato, l’aviazione americana, fingendo un errore
di rotta, li bombardò dall’alto, uccidendone quasi cinquemila. Così salvarono Roma. I soldati marocchini furono seppelliti nel cimitero alla porta ovest di Venafro, al cui ingresso fu posta un’enorme targa sulla quale furono celebrate le gloriose gesta di uomini che, oltre alla sconfitta dei tedeschi, avevano sulla coscienza il male inferto alla popolazione civile di tutta la Ciociaria. La condotta Coreno-Vallemaio Il territorio tra Coreno e Vallemaio è di grande bellezza, come la zona che gli sta dirimpetto tra Spigno ed Esperia. Quando i topografi ci consegnarono la mappa della condotta Coreno-Vallemaio, come di consueto con l’ingegner Notarianni decidemmo di porci allo studio per il posizionamento dei cantieri. Questo ci costringeva di procedere a piedi lungo il tracciato montagnoso. Partimmo la mattina presto, data la notevole lunghezza del tratto, portando con noi la colazione al sacco. Allo scoccare del mezzogiorno ci fermammo a consumare l’agognato pasto, scegliendo l’appoggio di una lastra di roccia calcarea. Tutt’attorno vi erano resti di soldati, deceduti durante i combattimenti nella guerra tra truppe alleate e tedesche. Sulla lastra da noi scelta per il bivacco troneggiava un elmetto tedesco, sul quale si evidenziava un foro di proiettile. Per far posto al nostro ristoro, decisi di spostare l’elmetto. Nel far ciò, sotto quel copricapo apparve un teschio. Quella visione ci tolse l’appetito; decidemmo di proseguire nella nostra ricognizione. Dopo due ore di cammino giungemmo nei pressi del paese di Vallemaio. Assetati, ci dirigemmo verso una casetta; lì ci incolse una sorpresa quando apparve una bellissima ragazza. Appena ci vide, fuggì, gridando, verso il bosco. Con l’ingegnere ci guardammo spaventati, perché stava accorrendo gente. Ma quando vi fummo a contatto, scoprimmo che la loro preoccupazione era quella di rincuorarci, spiegandoci il motivo del comportamento della ragazza: anche lei era stata stuprata e quando vedeva facce nuove la sua mente
tornava al momento della violenza. Ci assicurarono che, quando la ragazza ci avrebbe rivisto in seguito, si sarebbe comportata diversamente. Così fu. Quando arrivammo con i lavori di scavo a posa della condotta, ci accolse con tranquillità. Lo scoppio di Monte d’Oro Il lavoro per l’acquedotto procedeva. Avevamo intrapreso la consuetudine di raccogliere i residuati degli ordigni bellici che trovavamo inesplosi durante gli scavi e farli brillare in una grotta. Una mattina, mentre mi preparavo per recarmi in ufficio, sentii un boato provenire dal Monte d’Oro. Quando fui in ufficio, mi raggiunse un operaio che faceva parte della squadra impegnata nello scavo per la posa della tubazione. Trafelato mi raccontò quello che era avvenuto. La mattina, come di consuetudine, gli operai della sua squadra si erano recati sul posto di lavoro e, in attesa d’iniziare, avevano acceso un fuoco per riscaldarsi dal freddo invernale. Quando infine tutta la squadra si distribuiva alle proprie postazioni di lavoro, un operaio restò per qualche minuto ancora. Gli fu fatale. Il terreno sotto il falò fu squarciato dall’improvvisa esplosione di una bomba di mortaio, celata lì sotto, che lo colpì con le sue schegge ad una gamba. Lo sfortunato operaio sanguinava abbondantemente. Mi attivai per procedere ai soccorsi, e avendo a disposizione un mezzo particolare, l’Unimoc (un autocarro fuoristrada), lo inviai per portare a valle il ferito. Ma la difficoltà del tragitto di montagna non permise la rapidità necessaria e l’operaio, giunto dissanguato a valle, morì. Pur abituato agli incidenti di cantiere, rimasi molto colpito dall’episodio, che mi rimase impresso. Questa che ho descritto, è stata una triste storia, che ancora oggi mi tormenta con i suoi lati oscuri. I “democratici” vennero dall’America per difenderci dal nazifascismo, ma soprattutto per imporre ai popoli europei l’affermazione del loro sistema economico. Furono chiamati “liberatori”, anche se, per far ciò, usarono soldati di tutte le razze e nazioni. Di questi aspetti, purtroppo la nostra stampa si è voluta dimenticare in fretta. Forse per imposizione, chissà, di “amici” che ancora oggi definiamo “democratici”. Carlo Simone
Presidente onorario ANPI d’Inzago
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LA FOLLIA POPULISTA DEL REGIME FASCISTA CAUSA DI PENURIE PER LA POPOLAZIONE
Miseria nera e stabile
R
LUCIANO GORLA
icordo che quando da bambino, facendo colazione, tentavo di esagerare con lo zucchero, sentivo ripetermi: «Mescola, mescola bene, perché lo zucchero è tutto sul fondo della tazza». Un invito che, sono pronto a scommetterlo, non sono stato di certo il solo a ricevere. Un invito che nel dialetto suonava così: «Rúga, rúga bén, che al sücur l’è tüt in funt a la tasa». Poteva poi capitare che gli adulti, e le nonne in particolare, commentassero a volte alcune scene domestiche affermando che le giovani generazioni, crescendo nell’abbondanza, imparavano a stento la moderazione: una regola di vita sempre valida. Poteva capitare, in tali frangenti, di udire anche delle privazioni che gli adulti avevano patito durante la guerra, quando per l’appunto lo zucchero ed i prodotti alimentari in genere erano scarsi e razionati. Allora la Seconda Guerra Mondiale era finita da poco più di un decennio e in loro il ricordo delle difficoltà affrontate, anche in campo alimentare, era ancora vivissimo. Poi, crescendo, ho avuto modo di udire più volte raccontare delle famose tessere annonarie che, per l’appunto, durante la guerra regolarono gli acquisti alimentari, e non soltanto, delle famiglie. Quello fu un altro negativo tassello della storia italiana, determinato dalla politica fascista.
nomiche. La conquista coloniale, sulle orme delle imprese di Roma antica, fu senza dubbio un’aspirazione di Mussolini e le conseguenti disposizioni votate a Ginevra - benché ininfluenti - servirono alla demagogica propaganda fascista per instillare negli italiani l’orgoglio autarchico e un sentimento di sfida verso quelle Nazioni che volevano togliere all’Italia l’ossigeno e negargli l’Impero. Furono studiati ed introdotti, un po’ in tutti i settori, dei surrogati delle materie prime d’importazione; prodotti autarchici realizzati con l’impiego dei materiali più disparati. Inoltre il rilancio della “battaglia del grano” (già introdotta nel 1925) avrebbe dovuto consentire all’Italia, attraverso la semina dì frumento in tutte le aree possibili, di evitare anche gli acquisti di grano all’estero. Cominciarono a circolare i nomi curiosi d’alcuni prodotti nazionali, quali: il gassogeno (carburante), il lanital e l’italrayon (fibre per filati). Alcuni nomi furono pure coniati, in chiave burlesca, dalla fantasia popolare: come il dialettale “cartalam” che definiva i surrogati del pellame e del cuoio per la fabbricazione di scarpe e borse. Con l’entrata in guerra dell’Italia, al fianco della Germania nazista, l’economia nazionale fu totalmente orientata alla produzione bellica, alla quale fu ovviamente destinata la maggioranza delle risorse; mentre le principali industrie furono riconvertite a tale scopo.
Dalla Storia si apprende che le ristrettezze economiche per l’Italia iniziarono a farsi sentire ancora prima della Seconda Guerra Mondiale, e cioè con la guerra d’Etiopia, iniziata nell’autunno del 1935 con una spedizione contro l’Impero del negus Hailé Selassié. La Società delle Nazioni dichiarò l’Italia Stato aggressore e fece scattare le sanzioni eco-
L’impoverimento generale, anche in campo alimentare, fu dunque repentino, con ricadute diverse nelle città e nelle campagne. Il Governo fascista introdusse delle disposizioni per il controllo della produzione e la vendita dei generi alimentari. Furono censiti in tutti i comuni le bestie da carne. Durante la mietitura, il grano trebbiato doveva essere
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Folla in coda per il pane. Ognuno con la propria carta annonaria (in alto)
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rigorosamente quantificato e denunciato alle competenti Autorità agrarie locali. Alcuni prodotti d’importazione di largo consumo, quali il caffè, scomparvero completamente e furono sostituiti da surrogati. Le insegne di molti negozi, specie le drogherie, recavano la scritta “Prodotti Coloniali”, ma dalle colonie italiane dell’Africa Orientale, notoriamente terre povere, arrivava ben poco. Furono infine introdotte le tessere annonarie per il razionamento alla popolazione dei generi alimentari, quali: pane, zucchero, grassi di maiale, burro, olio, ma anche sapone da bucato e generi di vestiario. Si ebbe pure l’insorgere della “borsa nera”, con la vendita di prodotti introvabili a prezzi esorbitanti. I ricordi di quel periodo difficile, raccontati dagli anziani, dicono pure di soprusi ed angherie; come quelle subite dalle massaie che alcune volte, all’uscita dai negozi alimentari, dovevano mostrare il contenuto delle borse della spesa ad arroganti militanti fascisti che si arrogavano le funzioni di controllori annonari. Ma si sono anche udite storie di grande solidarietà tra la popolazione, nei cortili, nei caseggiati e nelle cascine, nonostante che le ristrettezze economiche ed alimentari attanagliassero un po’ tutti. Il fascismo, con la sua politica belligerante, produsse, dunque, anche questo: «miseria negra e stabil», come dicevano gli anziani che nell’immediato dopo guerra, mentre la Nazione sì stava lentamente riprendendo, rimproveravano ai ragazzini di essere degli sciuponi mai contenti - dei “trazuni” - nel dialetto locale. Allora, naturalmente, i ragazzini faticavano a capire le privazioni e le sofferenze che gli adulti avevano sperimentato e soprattutto il valore pedagogico di quelle osservazioni. Ma oggi, ripensandoli, si comprende quanto avessero ragione e quanta saggezza si trovasse in loro. Si resta pure colpiti dalla grande forza morale che in quei drammatici frangenti essi seppero mettere in campo; di come, nel loro piccolo, seppero lottare per tenere alte la dignità, la condivisione, per resistere ai soprusi e per guardare al futuro con incrollabile fiducia.
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La Costituzione, come se non ci fosse
L’ELEZIONE DI UN’ASSEMBLEA COSTITUENTE È ILLEGITTIMA E GROTTESCA
L’ di
da il manifesto del 7 luglio 2012
MASSIMO VILLONE*
assemblea costituente è l’ultimo sasso lanciato nello stagno della politica. È stata proposta il 7 giugno scorso – a firma di Pera, già Presidente del Senato, e di altri senatori del centrodestra – con l’As (atto senato) 3348. Ha ricevuto attenzioni, alcune ovvie, altre meno. Cade un velo. Non più aggiornare, modernizzare: formule che negli anni hanno accompagnato il dibattito, leggendo la riforma come modifica anche sostanziale, ma alla fine rispettosa delle architetture fondamentali della Carta. Invece, la proposta vuole «la riscrittura del testo costituzionale», come dice la relazione. Mentre gli artt. 5 e 6 richiamano esplicitamente una «nuova Costituzione» e il «passaggio a un diverso ordinamento costituzionale». «Diverso», non semplicemente rivisto o modificato; «ordinamento», e non innovazione mirata e parziale. Sono concetti volti a una riformulazione integrale, o comunque a una modifica radicale dei fondamenti. Il messaggio è chiaro. I proponenti intendono cambiare l’intera Carta; o almeno riscrivere – in tutto o in parte – i principi che più la caratterizzano: eguaglianza, diritti, limiti al mercato, partecipazione democratica, rappresentanza politica. Possiamo pensare, in specie, a quelle norme che la stessa Corte costituzionale ha indicato come sottratte alla revisione (sent. 1146/1988). La proposta non avanza alcuna indicazione, pur sommaria, sui contenuti della riforma. E dunque non pone alcun limite ai poteri dell’Assemblea. In astratto, si potrebbe superare anche l’art. 139, e ripristinare la monarchia. In realtà, si configura un potere costituente in senso stretto, e non un potere di revisione, costituito. Qui vediamo il problema. Può un potere costituito, e dunque derivato e geneticamente limitato, attribuire ad altri un potere costituente, geneticamente illimitato? Ovviamente no. Può un parlamento – cui non è consentito di stravolgere la Costituzione – attribuire ad un’altra assemblea il potere di stravolgerla? Ovviamente no. Si potrebbe forse dar vita a una «assemblea
per la revisione costituzionale» come procedimento speciale modificativo dell’art. 138, ma non a una costituente assimilabile a quella che ha scritto la Costituzione vigente. Istituire una assemblea denominata «costituente» non apre di per sé una vera fase costituente, che è concetto sostanziale prima che formale: un tempo in cui si stabiliscono le regole fondamentali in modo originario, senza la soggezione a norme preesistenti ed eteroimposte, e con il solo limite della effettività. È per questo che le Costituzioni nascono nei grandi rivolgimenti storici, in specie nelle guerre e nel sangue, e non nei meschini contorcimenti di un ceto politico
slatore istituito in attuazione dell’As 3348, sia ancora alla riforma scritta da quest’ultimo legislatore. Né il referendum necessario – ma senza previsione di soglia minima di votanti – sulla «nuova costituzione» (art. 5) cambia alcunché. Già oggi il voto popolare non sanerebbe il vizio di una revisione che fosse incostituzionale. Quali rimedi? Anzitutto, la manifesta incostituzionalità della legge istitutiva dell’assemblea ci dice che il Presidente della Repubblica potrebbe rifiutare la promulgazione. Come potrebbe rifiutarla per la nuova carta eventualmente approvata (art. 5, comma 2), se sovvertisse i fondamenti di quella vigente. Inoltre, avanzando eccezione di incostituzionalità avverso una legge conforme al nuovo testo costituzionale, ma in contrasto con la Costituzione attuale illegittimamente riscritta, si potrebbe arrivare in via incidentale alla Corte e far valere la incostituzionalità del testo nuovo, laddove ciò fosse ancora nei poteri della Corte. Naturalmente, se gli scenari ipotizzati dovessero mai realizzarsi, ci troveremmo comunque in una gravissima crisi politica e istituzionale, dall’esito rischioso e incerto. Un prezzo altissimo, imposto da un ceto politico senza qualità che da più di vent’anni contrabbanda come debolezza della Costituzione l’incapacità di governare con efilluStrAzione di AltAn ficacia il cambiamento, e persino di svolgere il proprio ruolo in disarmo. Una finzione di assemblea co- con dignità e onore. stituente non cambia quel che si può, o non I proponenti dell’As 3348 giustificano l’inisi può, fare. ziativa anche con «la lunga e fallimentare storia dei tentativi parlamentari» di riforma. L’As 3348 configura una legge di revisione Dimenticano che proprio la loro riforma non costituzionalmente illegittima (che la Corte fallì in Parlamento, ma nel referendum del costituzionale ritiene assoggettabile al suo 2006. Fallimento o vittoria? La politica colsindacato: sent. 1146/1988 cit.). Vuole in- pevolmente non volle e non vuole tener fatti attribuire all’assemblea c.d. costituente conto di quel voto. Si vorrebbe invece che il un potere illimitato che la Costituzione oggi Parlamento in assoluto meno rappresentanon consente. E sarebbe anche incostituzio- tivo della storia repubblicana riscrivesse la nale la nuova carta eventualmente appro- Carta da cima a fondo. Confidiamo che il povata laddove toccasse parti immodificabili di polo sovrano – migliore e più saggio dei suoi quella attualmente in vigore. Questo perché governanti – sia ancora pronto a difendere la qualifica di «nuova Costituzione» che l’As la sua Costituzione. 3348 conferisce al nuovo testo non potrebbe cambiare la natura giuridica del testo mede*professore ordinario simo, pur sempre fondato nell’art. 138 Cost. di Diritto costituzionale Norma dalla quale vengono limiti sia al lenell’Università degli Studi di Napoli gislatore che approva l’As 3348, sia al legi“Federico II”
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Parole tossiche di ieri e di oggi
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TECNICHE DI CONSENSO: LE MOLTE ANALOGIE TRA LA RETORICA BERLUSCONIANA E LA LINGUA DEL VENTENNIO FASCISTA
SUSANNE KOLB
e parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico», annotava Viktor Klemperer nel suo Taccuino di un filologo del 1947 (riedito nel 2008 dalla Giuntina) in cui indagava, come pochi hanno saputo fare, la natura delle distorsioni operate dal nazismo sulla lingua. Perché è proprio attraverso lo stillicidio, la somministrazione omeopatica, ma reiterata e continua di certe formule - la repetitio ossessiva, una costante retorica dei linguaggi totalitari di cui si servono però anche la propaganda politica e la pubblicità - che determinate parole, espressioni e immagini si annidano nella mente delle persone, divenendo parte delle loro consuetudini linguistiche. Del resto, sia Hitler sia Mussolini conoscevano a fondo La psychologie des foules di Gustave le Bon (1895), dalle cui pagine attinsero a piene mani per creare attorno a loro l’ampio consenso popolare. Da allora le intuizioni di Le Bon (per esempio: «Il vero manipolatore comincia col sedurre, e colui che è sedotto, folla o donna, non ha più che un’opinione, quella del seduttore, e una volontà, la sua») sono state approfondite sia dalla psicologia sia nell’ambito delle strategie della comunicazione e della pubblicità. Proprio queste ultime rappresentano oggi la chiave per entrare nella mente, nelle idee e nelle parole della gente. Poiché la storia ciclicamente riemerge, e con essa anche le idee, i concetti, le parole. E pure quelle che credevamo scomparse, sradicate, definitivamente estinte possono rinascere ammantate di modernità e nascoste dentro le pieghe del linguaggio contemporaneo della pubblicità, della propaganda politica e della comunicazione. Ciò avviene anche perché il mondo politico, e con esso gran parte della popolazione, non ha memoria storica, non ricorda che certe espres-
sioni erano già in uso nel passato, non ricorda il loro valore e i loro echi. Un fenomeno che i politologi chiamano criptomnesia. Nella campagna elettorale 2006 il centrosinistra iniziò a parlare di listone e il centrodestra di partito unico, entrambi termini legati all’epoca fascista e connotabili assai negativamente se esiste la necessaria vigilanza linguistica. Anche Berlusconi, alla fine del 2009, lanciò il partito dell’amore incurante o forse dimentico della presenza di un suo illustre precedente.
La realtà riscritta È evidente che non siamo più ai tempi della rigida censura sulla stampa e sulla radio operata dal Minculpop e delle sue veline (a proposito di velina, colpisce l’evoluzione semantica della parola: da atto censorio, con cui il Minculpop impartiva le sue indicazioni ai giornali, è diventata sinonimo di soubrette, essendo il denominatore comune la distrazione di massa). Tuttavia, nell’ultimo quindicennio abbiamo dovuto assistere a veri e propri atti di censura dall’alto o a bizzarre forme di “autocensura preventiva” che un certo giornalismo si infliggeva pur di compiacere o non entrare in conflitto con i rispettivi politici potenti. Notizie importanti venivano sottaciute o solo accennate, se non perfino presentate sotto un’altra luce fino a fabbricare talvolta dei falsi. Cito un esempio molto noto che ben illustra il modo di procedere: il 26 febbraio 2010 il Tg1 ha riferito della assoluzione in Cassazione dell’avvocato inglese Mills nel processo che lo vedeva imputato e condannato per corruzione nel 1° e 2° grado di giudizio (Mills corrotto da Berlusconi, all’epoca non giudicabile per la carica istituzionale che ricopriva). In verità, la Corte di Cassazione ha dichiarato l’estinzione
elAborAzione d’immAgine trAttA dAl Sito www.gAdlerner.it
«L
di
da il manifesto del 13 luglio 2012
del reato perché caduto in prescrizione. Quindi le persone implicate sono state sì riconosciute colpevoli da tutte e tre le istanze giudiziarie, ma la condanna è nulla esclusivamente per decorrenza dei termini. Siamo di fronte a una grave manipolazione, una riscrittura della realtà che intende suggerire l’innocenza delle persone coinvolte dove invece innocenza non vi è. Il trattamento a cui è stata sottoposta la notizia fa sì che due nozioni come “assoluzione” e “prescrizione”, ben distinte nella terminologia giuridica, si confondano fino a sovrapporsi nel già incerto orizzonte linguistico dell’opinione pubblica. Famiglia e libertà Una delle strategie comunicative più efficaci è quella di fare appello a valori ben radicati nel tessuto sociale attraverso l’evocazione di formule e immagini del passato. Parole dal sapore e dal suono familiare - per non dire archetipici - come famiglia, religione, amor patrio, libertà, Nazione che fanno scattare il meccanismo sociale del “conformismo”. Tali concetti, gli endoxa aristotelici, sono facilmente attivabili nella memoria collettiva. Nella retorica berlusconiana, ad esempio, una delle parole chiave è “libertà”: «Questa libertà si manifesta in molte forme, come libertà di CONTINUA A PAGINA 20 ➔
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➔ SEGUE DA PAGINA 7 pensiero, di opinione, di associazione, ma anche come libertà contro l’oppressione dello Stato, contro l’oppressione fiscale, contro l’oppressione burocratica, la libertà di essere giudicati da giudici che non siano parziali, la concreta libertà economica che ha a sua volta un valore civile e spirituale, come la libertà religiosa, o politica» (Convegno dei giovani del PPE, Bilbao, 25 febbraio 2001). Una libertà declinata in tanti modi che alla fine o si diluisce e perde la sua forza o si contrappone alla nozione di Stato e rischia di assumere il significato di “libertà dalle regole e dagli obblighi dei cittadini”. Insieme a “libertà” un’altra parola chiave del recente quindicennio politico è “famiglia”, che in un paese cattolico come l’Italia ha un suo forte peso specifico: nel 2007 i partiti di governo, insieme con ambienti vicini alla chiesa, promossero il family day - non giornata della famiglia, ma un ben più intrigante e moderno family day (sulla falsariga di tax day, election day, security day...). La manifestazione era stata indetta in difesa dei valori della tradizionale famiglia cattolica per ribadire la contrarietà alle coppie di fatto, a quelle omosessuali, alla fecondazione assistita e, in ultima ratio, alla concezione laica dello Stato sancita dalla costituzione italiana. (Da notare che l’Italia, contrariamente ad altri paesi europei, di recente non ha varato alcuna misura importante a sostegno delle famiglie). Sia il linguaggio della Lega, sia quello di Forza Italia prima e del Popolo della Libertà poi, è stato dominato dalle consuetudini retoriche dei due leader carismatici, Bossi e Berlusconi, che, al fine di conquistare il massimo consenso, miravano a interagire direttamente con l’elettorato in modo da generare un processo di identificazione, definito da Giuseppe Antonelli “paradigma di rispecchiamento”. Nei discorsi pubblici e nei talk show i politici si rivolgono a un presunto “cittadino medio” parlando una lingua semplificata, il gentese, dal registro spesso informale e dal tono colloquiale, con una sintassi semplice e un lessico in apparenza chiaro e univoco. Maestri di “ars retorica” Il “paradigma del rispecchiamento” si contrappone al “paradigma della superiorità”, tipico dei politici della prima Repubblica, noti per il loro ermetico politichese; mentre i politici di oggi sono per lo più economisti o tecnici, quelli di allora possedevano una formazione umanistico-giuridica e la loro retorica complessa e fumosa - che era anche sfoggio di cultura - marcava una netta distanza rispetto agli elettori, era destinata solo ai loro pari e alle élite del paese. Basti pensare al maestro di questa ars retorica, Aldo Moro, con le sue convergenze parallele e gli equilibri bilanciati. Craxi fu l’ultimo rappresentante di questa categoria, ma anche l’anello di congiunzione con la seconda Repubblica perché negli anni ‘80 fu lui, insieme a Pannella, a inaugurare la politica-spettacolo di ispirazione statunitense poi raffinata da Berlusconi. In questa ottica si
spiega l’uso consapevole della battuta e della barzelletta in cui si è distinto Berlusconi e che ha permesso da un lato, di accattivarsi le simpatie del pubblico, dall’altro di esprimere opinioni altrimenti indicibili - il principio del “dire e non dire” - e di adottare un registro colloquiale che spesso scivolava nell’offensivo e nell’osceno. Nei talk show molti politici privilegiano il discorso di tipo persuasivo ed emotivo a scapito della funzione cognitivo-informativa come se fossero costantemente in campagna elettorale. Sempre più spesso rinunciano a un linguaggio che possa ancora qualificarsi come “politico” mescolando temi di interesse pubblico con questioni personali sfruttando il mezzo televisivo come palcoscenico e il pubblico come specchio del proprio narcisismo. Il pubblico, a sua volta, viene ridotto alla funzione di consumatore. Risultato: realtà e finzione si sovrappongono. Non a caso, fin dai suoi esordi in politica, Berlusconi faceva largo uso dei videomessaggi alla Nazione a reti (quasi) unificate, una comunicazione sapientemente preparata, inserita in una cornice sempre suggestiva, una comunicazione unilaterale e monodirezionale perché priva di ogni possibilità di dialogo o contraddittorio con i giornalisti, o costruita grazie al sostegno di giornalisti compiacenti, “amici”. Il mito dell’uomo nuovo Tornando più indietro con la memoria, colpiscono le analogie tra la retorica berlusconiana e quella del ventennio fascista. Ad esempio, il tentativo di Berlusconi di cavalcare l’onda ormai lunga della disaffezione ai partiti definendo la propria creatura inizialmente un movimento ha un precedente storico: «Insomma, un ‘movimento’, ma non un partito. Movimento sanamente italiano, rivoluzionario (...) fortemente innovatore» (Mussolini, voce fascismo, Enciclopedia Italiana). In seguito il movimento degli inizi subirà diverse trasformazioni approdando pure alla Casa delle Libertà. Da sottolineare l’immagine della casa - o in un altro discorso Berlusconi paragonava l’elettorato a un condominio - entrambi termini centrali nella vita quotidiana degli italiani. Strettamente collegato all’idea del movimento era il concetto dell’uomo nuovo e l’opposizione nuovo-vecchio per suggerire la necessità di una rottura e di un cambiamento radicale in cui gli italiani potessero riporre aspettative e speranze. Sentiamo prima Berlusconi - «Ciò che vogliamo offrire agli italiani è una forza politica fatta di uomini totalmente nuovi» (Il discorso della ‘discesa in campo’, 26/1/1994) - e poi Mussolini - «Creeremo l’italiano nuovo, un italiano che non rassomiglierà a quello di ieri» (Discorso del 30/10/1926, Reggio Emilia). La stessa scelta del primo nome Forza Italia forte richiamo alla passione sportiva nazionale - era un modo per colpire l’immaginario collettivo degli italiani. Come colore ufficiale fu scelto l’azzurro, il colore dell’Italia e delle
squadre nazionali, poi fu perfino creato l’inno di Forza Italia, e già nella scelta della parola “inno” cogliamo l’associazione alla Patria. Si tratta quindi di un sistema ben congegnato di simboli che ruotano tutti intorno ai concetti di “Nazione”, “identità nazionale”,”Patria”, benché richiamati in accezioni vaghe. Uno dei motivi principali addotti da Berlusconi per giustificare la discesa in campo fu la volontà di salvare l’Italia dal pericolo comunista. Sentiamolo: «C’era nell’aria una grande paura, un grande timore, si pensava
Attraverso la somministrazione omeopatica, ma reiterata, di certe formule linguistiche, concetti, parole e immagini finiscono per annidarsi nella mente delle persone fino a diventare consuetudini che il futuro dell’Italia potesse essere un futuro illiberale e soffocante se i comunisti di prima e di dopo fossero andati al governo» (1° Congresso nazionale di Forza Italia, Milano, 16/4/1998). Agitare lo spettro comunista serviva a fare leva sulle paure ancestrali della borghesia e ergersi a baluardo di libertà, anche contrapponendosi frontalmente alle Istituzioni, in particolare alla Magistratura, forse l’organismo avvertito come maggiore antagonista. Attacchi inauditi e inaccettabili per una democrazia occidentale: «Questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto
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il fiore del partigiano della razza umana» (La Repubblica, 5/9/2003) e «Serve un chiarimento sulla Costituzione. Rifletteremo e vedremo se dovremo arrivare a quella riforme della Carta Costituzionale che sono necessarie, perché è una legge fatta molti anni fa, sotto l’influenza di una fine della dittatura con la presenza al tavolo di forze ideologizzate, che hanno guardato alla Costituzione russa come a un modello da cui prendere molte indicazioni»(La Repubblica, 7/2/2009). Mussolini dixit: «Di che male abbiamo sofferto noi? Di un prepotere del Parlamento. Quale il rimedio? Ridurre il prepotere del Parlamento» (Discorso del 28/10/1925, Anniversario Marcia su Roma). La violenza degli attributi ascritti alle Istituzioni democratiche è tale da minare profondamente la fiducia dei cittadini nello Stato. Per sferrare le sue aggressioni verbali Berlusconi sovente si è armato della metafora, che non è solo figura retorica di abbellimento, ma - come ci hanno insegnato Lakoff e Johnson - svolge un’importante funzione cognitiva perché ci aiuta a concettualizzare esperienze nuove e nozioni astratte. La metafora può assumere una forte valenza ideologica dato che tende a mettere in luce un preciso aspetto dell’immagine celandone altri. Per questa ragione il linguaggio metaforico gioca un ruolo determinante in politica come in pubblicità. Pressione e oppressione Un esempio lampante è la metafora pressione fiscale, entrata in italiano in tempi non sospetti come calco dell’inglese tax relief coniato dai conservatori americani. Questa metafora, da una parte, fa sentire tutto il peso fisico delle tasse, dall’altra nasconde quanto il pagamento delle imposte sia un obbligo del cittadino e necessario per il buon funzionamento di uno stato sociale, ormai chiamato solo welfare. Da lì all’oppressione fiscale il passo è breve. «Noi siamo l’Italia umile e tenace, operosa e positiva, che è la maggioranza del Paese, che non accetta l’oppressione fiscale, l’oppressione burocratica, l’oppressione giudiziaria ...» (Berlusconi, piazza San Giovanni a Roma, 2/12/2006). Di grande suggestività anche le numerose metafore mutuate dal linguaggio religioso che costituiscono un ulteriore tassello della narrazione berlusconiana. Gustavo Zagrebelsky, nel saggio Sulla lingua del tempo presente, ha magistralmente illustrato la retorica imperniata sull’espressione scendere in politica. Si scende dall’alto verso il basso, da una sfera superiore a una sfera inferiore per offrirsi come salvatore e redentore: l’imprenditore che si sacrifica sull’altare della Patria. Ma questi esempi sono solo la punta dell’iceberg, gli interventi deliberati sulla lingua e dunque sui processi mentali sono stati innumerevoli in questi anni e hanno lasciato il segno nel nostro vocabolario interiore. Non ci aveva del resto già avvertiti Primo Levi nel maggio del 1974 che «ogni tempo ha il suo fascismo»? «Se ne notano - scriveva l’autore di Se questo è un uomo - i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando e distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola...».
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IL COMMENTO
Non possono esistere diritti e dirittucci
C
di
da l’Unità del 6 luglio 2012
ILDA CURTI*
i sono argomentazioni, usate anche da alcuni esponenti del nostro Partito nella discussione sui diritti civili e il matrimonio tra persone dello stesso sesso, che pur sforzandomi faccio fatica a capire. Iniziano con una premessa: non si vuole discriminare, il Pd è un partito progressista che riconosce i diritti (e ci mancherebbe, direi). Tutti sono uguali MA è indispensabile promuovere una «piattaforma di diritti differenziati», così dice - su l’Unità di giovedì - l’onorevole Lucà. Le variazioni sul tema sono molteplici. Chi ha una situazione difforme rispetto ad un diritto naturale non può rientrare con pienezza tra chi gode di diritti civili uguali per tutti. Ha bisogno di una piattaforma di dirittucci: concessi perché siamo buoni. Parliamo di quei diritti civili che, all’atto del loro godimento, non limitano la libertà di nessuno. La cornice è lo Stato di diritto, laico per antonomasia: la laicità comprende le differenze, le rispetta e le tutela. Si incardina su alcuni principi fondamentali: tra questi quello dell’uguaglianza e quello della libertà. Non può esistere l’una senza l’altra. Consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso non impedisce ad altri di godere dello stesso diritto. Si può tranquillamente credere nella sacralità del matrimonio, ci si può sposare tra eterosessuali, davanti all’altare o vestiti di bianco. Il matrimonio civile è un contratto tra due persone davanti alla Comunità civile: gli articoli del Codice che lo regolano implicano diritti e doveri tra le due parti. Si parla di coniugi, al plurale. Al di là della propria convinzione etica, sono quelli che regolano la famiglia come patto di mutua solidarietà e responsabilità tra due persone. Faccio fatica ad escludere Daniele, Andrea, Massimo o Roberta e i loro compagni/e da questo perimetro. Introdurre un generico riconoscimento delle coppie di fatto, siano DICO o PACS, appanna di un velo di ipocrisia la questione: le coppie eterosessuali un’opzione ce l’hanno, possono sposarsi civilmente. Sono le coppie omosessuali che sono private della libertà di scelta. Le argomentazioni che vengono por-
(foto
trAttA dA
“www.elle.it”)
tate dai fautori dei dirittucci contengono dei forti elementi di ambiguità. Come ci fosse un non detto: la propria sensibilità etica deve permeare le scelte del legislatore. Deve valere per tutti in quanto si suppone maggioritaria. Però non si può essere un po’ laici , come non si può essere un po’ incinta , un po’ antirazzisti. Se si è laici e si crede nei principi di libertà e di uguaglianza bisogna ammettere che le proprie convinzioni personali o collettive rappresentano, comunque, una parte del tutto. Pretendere non venga limitata la propria libertà garantendo di non limitare quella degli altri. Lo sforzo della politica, in particolare la nostra, è di rappresentare il tutto tenendo conto delle parti. Accettando l’evoluzione sociale e il cambiamento in società sempre più complesse e plurali che non possono essere, usando una sineddoche, ridotte ad una parte sola. Ad un modello che vuole dirittucci per cittadinucci, io credo si debba opporne uno che vuole diritti per tutti. Nell’uguaglianza e nella libertà. Allargando il perimetro dei diritti per concorrere a quella democrazia inclusiva di cui parlava Bobbio. In quanto a me sono eterosessuale, donna, nei comportamenti appartenente alla maggioranza. Ma non riesco a sentirmi libera ed eguale se non lo sono tutti. *Assessore all’urbanistica Comune di torino
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il fiore del partigiano
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RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
«Amate la Resistenza» lettere ai nuovi partigiani a cura di S. faure, A. liparoto, g Papi Io sono l‘ultimo. Lettere di partigiani italiani - einaudi - € 18,00
«G
da l’unità del 15 maggio 2012
uai a far naufragare la Resistenza nelle parole encomiastiche. Basterà dire che un tempo lontano c’erano dei giovani. E poi iniziare a raccontarla da quel punto. Ritrovo con commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi. Se potessero parlare direbbero: non vogliamo essere celebrati, ma amati» non usa mezze parole Nello Quartieri, 91 anni, ventenne comandante di Brigata durante la Guerra di Liberazione. Se la Resistenza deve continuare ad essere una risorsa per il futuro va fatta scendere dai palchi della retorica per circolare nelle coscienze e nei cuori in tutta la sua vitalità civile e umana. La Resistenza va amata. Una appassionata raccomandazione questa che attraversa tutte le 128 testimonianze contenute nel volume “Io sono l’ultimo - lettere di partigiani italiani” Le testimonianze. Un progetto nato nel 2010, quando Giacomo Papi, giornalista, innamoratosi delle parole di una partigiana, Anita Malavasi “Laila”, venne a bussare alle porte dell’ANPI per chiederci di collaborare ad una raccolta di racconti degli ultimi protagonisti viventi della Resistenza: un messaggio corale alle ragazze e ai ragazzi di oggi. E i nostri partigiani hanno colto immediatamente l’importanza e la necessità di “darsi”, ancora una volta, forse l’ultima. Un antico senso di responsabilità mai sopito. Ci sono pervenuti centinaia di racconti, scritti a mano in molti casi, con la forza e l’autenti-
cità di una testimonianza di ciò che è stato fino in fondo vita, scelte, coraggio, dovere. Ne è uscito un volume che ha il profilo di una vera e propria “piazza delle radici” dove dare appuntamento ai giovani, per incoraggiarli, e offrire un sentiero. Emo Ghirelli, 88 anni, 144ª Brigata Garibaldi Antonio Gramsci, si rivolge direttamente al nipote: «Con noi collaborava il popolo migliore. Tante donne hanno contribuito alla lotta di Liberazione e senza il loro contributo la lotta sarebbe stata molto più dura. È stata dura, abbiamo dovuto combattere contro un nemico che la guerra la faceva di mestiere ed era armato di mezzi potenti, mentre noi avevamo in dotazione armi leggere. Spero che tu, Gabriele, non abbia mai più bisogno di fare i sacrifici che abbiamo dovuto sopportare noi. Che tu possa vivere sempre in pace, mai più guerre. Questo messaggio vorrei che possa giungere nelle mani di tutti i pronipoti del mondo, perché capiscano che impegnandosi per costruire la pace si possono evitare le guerre». Storie dure, di sangue e dolore che non hanno minimamente scalfito la consapevolezza di un dovere che andava compiuto senza tentennamenti. Didala Ghilarducci era una ragazza di 23 anni. Nel settembre ‘43 aveva dovuto abbandonare la sua casa di Viareggio, pochi giorni dopo la nascita del figlio, perché i fascisti cercavano suo marito “Chittò”, partigiano. Alla fine dell’agosto del 1944 lo troveranno e massacreranno. Didala è scomparsa qualche settimana fa, dopo aver tirato su un figlio da sola e speso tutti i suoi giorni
per la conoscenza e la discussione
donatella Alfonso - Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945 - ed.de ferrari, € 16,00 La Resistenza attraversa le vite di migliaia e migliaia di donne, ragazze e bambine, nell’Italia occupata, tra l’8 settembre del ‘43 e la Liberazione. La attraversa, la segna e la trasforma, anche più di quanto loro stesse non abbiano voluto ammettere e ricordare, sul filo dei decenni. La storia si è facilmente dimenticata di loro e loro stesse, in gran parte, hanno scelto il silenzio; magari cominciando a raccontarsi solo 50 anni dopo. In Liguria, dove peraltro il ruolo delle donne nella lotta partigiana è stato fondamentale, è accaduto forse più che altrove. È tempo di ridare loro voce, tra memoria e futuro. Nel libro, testimonianze di prima mano, ma anche il doveroso ricordo di chi ha combattuto quella guerra silenziosa, taciuta, che è stata la Resistenza delle donne, il loro modo di dare una spallata fortissima al fascismo.
nell’ANPI a far amare la Resistenza. Scrive nel suo racconto: «A volte mi viene da pensare che ho pagato, come tanti, un prezzo altissimo per questa Italia nuova. La sera rivedo i volti dei ragazzi di un tempo che oggi non ci sono più e penso che se fino a oggi ho continuato a impegnarmi per la libertà e i diritti è per rimanere fedele a loro e a quegli ideali che ci facevano sentire dalla parte giusta e ci facevano superare la paura. Allora mi sembra di sentire la mano di Chittò sulla spalla e mi viene da piangere di dolcezza». Le donne. Erano tante e avevano un ruolo difficile e decisivo. Spesso nemmeno i familiari sapevano dell’impegno delle loro figlie, mogli, sorelle. Le chiamavano staffette. Una figura non sempre adeguatamente valorizzata in sede storiografica. Ivonne Trebbi, 84 anni, 4ª Brigata Garibaldi Venturoli: «Mi portarono a Bologna, nella famosa caserma Magarotti, poi nel carcere di S. Giovanni in Monte, dove incontrai altre partigiane che mi accolsero con molto affetto. Sempre più spesso ero interrogata e picchiata. Volevano informazioni e nomi per distruggere l’organizzazione clandestina. Mi portavano con loro durante i rastrellamenti nella speranza che io denunciassi qualche partigiano. Ma io sentivo che non avrei mai parlato. Mi aiutò a resistere l’odio per la guerra». Ma ne valeva la pena, nessuno dei 128 ha dubbi. Lo ripetono continuamente. Perché ci credevano. Perché «le cose possono cambiare». (Giovanna Marturano, 100 anni). Parola di partigiana. Del futuro. Andrea Liparoto
riccardo mandelli - Al casinò con Mussolini. Gioco d’azzardo, massoneria ed esoterismo intorno all’ombra di Matteotti - lindau editore Il libro è il punto di arrivo di una vasta e avvincente ricerca sull’industria dell’azzardo e sugli ambienti finanziari, politici e culturali da cui questa traeva linfa nei primi decenni del secolo scorso.La documentazione restituita dagli archivi fornisce risultati sorprendenti, talvolta sconcertanti. Scelto un osservatorio privilegiato come Sanremo, la traccia si lascia seguire negli intrighi spionistici della prima guerra mondiale, nell’oscura gestazione del fascismo e nell’ambiguo atteggiamento del regime verso le forze che controllavano su scala internazionale il business della roulette. Prima di essere rapito e ucciso, Giacomo Matteotti stava indagando sugli ultimi decreti legge di Mussolini, sulle concessioni petrolifere e la liberalizzazione del gioco d’azzardo.
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Eppure fu tortura
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LA CASSAZIONE CONDANNA I FATTI DELLA DIAZ, MA MANCA “IL REATO” DA PUNIRE
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da il manifesto del 6 luglio 2012
EZIO MENZIONE*
a Cassazione chiude il capitolo Diaz confermando che quella notte fra il 21 e 22 luglio 2001, a Genova, a G8 ormai concluso, l’irruzione nella scuola fu deliberatamente programmata per giungere ad un bel numero di arresti di dimostranti, indipendentemente dal fatto che nessuno di loro avesse commesso delitti, ma solo per “riscattare” l’immagine del loro corpo. La mattanza che ne seguì, il sangue e la violenza, furono un di più forse all’inizio non intenzionale, ma alla fin fine necessario per giustificare l’irruzione. Intenzionali furono sicuramente i falsi posti in essere per “coprire” le violenze perpetrate nei confronti di giovani inermi, non certo black block: le bottiglie molotov portate da fuori dalla polizia stessa, picconi e sbarre di un attiguo cantiere, una presunta aggressione all’arma bianca contro un singolo poliziotto. Tutto inventato per giustificare l’irruzione e il macello. Tutto firmato e controfirmato dai funzionari, come i verbali di arresto (non uno, ma ben 93!) basati su quelle false prove costruite dalla polizia stessa. Così la Cassa-
O
zione ha deciso: in linea con quanto aveva deciso la Corte d’Appello di Genova con una sentenza che, dunque, non era affatto figlia di una teoria del complotto contro i bravi servitori dello Stato, come essi dicevano, ma era invece una ricostruzione solida, provata e inattaccabile. Lontana mille miglia dalla sentenza di primo grado, tutta attenuazioni e dubbi, pur di salvare i gradi intermedi della polizia che diressero l’operazione e addossare ogni responsabilità ad una squadretta di semplici poliziotti esaltati. Nemmeno le attenuanti generiche meritano questi funzionari che mai hanno riconosciuto le proprie responsabilità, con un comportamento processuale ben oltre i limiti della decenza; soggetti che avrebbero dovuto tenere,
proprio per il loro status, comportamenti che dovrebbero essere ancor più specchiati di quelli dei semplici cittadini. Molti funzionari di polizia che all’epoca erano quadri intermedi ed ora ne sono ai vertici dovranno lasciare il servizio perché le condanne confermate implicano per legge la interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Compreso quel potente Gratteri in odore di assurgere al vertice della polizia stessa e che ora dovrà rimanere al palo. La legge con questa sentenza realizza ciò che i governi in 11 anni non avevano inteso fare: rimuovere, invece che promuovere, funzionari indegni, falsari e infedeli al loro stesso compito: non possono continuare ad agire come rappresentanti dello Stato. Abbiamo un unico rimpianto: se in Italia vi fosse il reato di tortura, imprescrittibile, anche il comportamento materiale di questi poliziotti sarebbe stato duramente sancito, mentre, nonostante la bestialità, è andato prescritto. La Cassazione, comunque, ha fatto giustizia di uno Stato che non ha mai inteso nemmeno chiedere scusa o fare un gesto di pentimento e riconciliazione nei confronti delle vittime di quella notte atroce, quando ogni diritto dei suoi cittadini fu sospeso e calpestato. *Avvocato del genoa legal forum
Vogliamo le scuse dello Stato
da il manifesto del 6 luglio 2012 ra il presidente Napolitano deve chiedere scusa a nome di tutte le istituzioni alle vittime della Diaz, di Bolzaneto, a tutti i cittadini italiani; deve chiedere scusa per le violenze commesse da rappresentanti dello Stato, per il vergognoso silenzio mantenuto per undici anni dalle istituzioni, per aver promosso coloro che erano stati condannati per fatti gravissimi. Napolitano lo deve fare anche per il rispetto verso il pubblico ministero Enrico Zucca, verso quei cinque giudici che emettendo la sentenza hanno certamente “semplicemente” compiuto il loro dovere, ma un dovere reso difficilissimo dai ricatti di ogni genere che sono scattati in queste settimane. «Se confermate le condanne decapitate le istituzioni di sicurezza del nostro Paese», si sono sentiti ripetere incessantemente da chi con forza ha lavorato perché la ragione di Stato prevalesse sul diritto. Con la loro decisione i giudici hanno liberato le istituzioni da chi le occupava indegnamente, con la complicità dell’insieme del mondo politico. Ed è bene non dimenticarsi delle responsabilità politiche, sia di chi in quelle ore si trovava immotivatamente nella caserma centrale dei carabinieri, sia di chi ha tentato in ogni modo di coprire i reati, sia di chi ha reso impossibile la formazione di una commissione d’inchiesta. Ed è bene ricordare che le responsabilità non sono tutte solo del centrodestra. La sentenza di oggi è stata possibile perché per ora in questo Paese vi è ancora, seppure limitata e ferita, l’autonomia dei diversi poteri, a cominciare dall’indipendenza della magistratura dal potere politico. Oggi comprendiamo meglio quali rischi abbiamo corso recentemente, rischi mai del tutto superati, con il tentativo di modificare l’ordine costituzionale. Tutti i condannati devono ora lasciare il loro posto; è vero, il numero uno, quello che allora era il capo della polizia, Gianni De Gennaro, non
è stato condannato. Non era imputato in questo processo: ma sono stati condannati tutti i suoi più stetti collaboratori, coloro che da lui prendevano ordini e che a lui rispondevano. La sua responsabilità sia sul piano etico che professionale è fuori discussione. Deve immediatamente essere rimosso dall’incarico di sottosegretario con delega ai servizi segreti. Non possiamo però dimenticare che la stragrande maggioranza degli autori delle violenze alla Diaz non sono stati individuati: avevano il volto coperto dal fazzoletto e dal casco. Alcune centinaia di poliziotti hanno agito contemporaneamente al di fuori e contro la legge. Questo è un enorme segno di allarme; va rilanciata la campagna per l’inserimento sulle divise dei codici di riconoscimento, vanno ridiscusse le modalità di formazione, va modificato il reclutamento dei poliziotti che oggi avviene soprattutto tra chi ha svolto anni di servizio militare in scenari di guerra: non è un caso che poi si pensi di gestire l’ordine pubblico come in guerra. È necessario tornare alle origini della lotta condotta negli anni ‘70 e ‘80 per un sindacato democratico nella polizia. Oggi, per una volta, il diritto, la legalità hanno vinto contro la ragione di stato. Questa sentenza parla anche a noi, a coloro che in questi anni si sono battuti per ottenere verità e giustizia, a coloro che, anche a sinistra, hanno preferito voltare la testa dall’altra parte pensando che fosse possibile continuare nelle proprie attività sociali e politiche rimuovendo quanto avvenuto in quelle giornate. Ora abbiamo il dovere di riprendere insieme, perché questa era la nostra forza principale, il filo interrotto allora. Insieme a coloro che a Genova non c’erano, anche per ragione anagrafica, ma che oggi stanno sperimentando sulla propria pelle proprio le conseguenze di quel sistema che noi a Genova, undici anni fa, volevamo completamente cambiare. Vittorio Agnoletto *all’epoca, portavoce del genoa Social forum
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Settembre 2012
il fiore del partigiano
La Malga Lunga, sui sentieri della memoria
LA ROCCAFORTE PARTIGIANA TRASFORMATA IN MUSEO DELLA RESISTENZA
S di
LUIGI GATTI
ono molti i luoghi sulle montagne e nelle valli bergamasche in cui si sono svolti fatti che hanno animato la Resistenza antifascista e la guerra di Liberazione contro l’occupante tedesco. In ricordo di quegli avvenimenti e per testimoniare i luoghi di quei fatti, l’ANPI di Bergamo ha costituito un museo nella Malga Lunga. L’edificio adibito a rifugio è stato dato dal Comune di Sovere in comodato d’uso all’ANPI della provincia di Bergamo. La Malga Lunga, posta a 1200 m d’altitudine, fu per la sua posizione geografica, fra la Val Seriana e la Val Cavallina, un luogo strategico per la 53ª Brigata Garibaldi. Il 17 novembre del ‘44 ci fu un aspro scontro fra il gruppo partigiano comandato da Giorgio Paglia e i repubblichini della Tagliamento dislocati nella caserma di Costa Volpino. A seguito di una delazione, la Malga Lunga venne circondata; dopo una strenua lotta, finite le munizioni, Paglia e i suoi si arresero. Mentre i partigiani liberavano incolume il fascista tenuto prigioniero, contravvenendo agli accordi stipulati i militi della Tagliamento finivano a pugnalate Starich e Tormenta, i due partigiani feriti. Inutile fu il tentativo di liberare Paglia e i suoi, un’azione in tal senso fu condotta infruttuosamente da un gruppo di partigiani. Portati nella caserma di Costa Volpino, i 6 della Malga furono fucilati il 21 novembre. Il comandante Giorgio Paglia avrebbe potuto salvarsi, in quanto figlio di un decorato con medaglia d’oro al valor militare (nella guerra d’Eritrea), invece fu il primo ad offrirsi al fuoco fascista, perorando la causa dei suoi compagni.
Terrazzo imbandierato. Dalla Malga Lunga si gode la vista sul Lago d’Iseo
antifasciste espatriò in Francia. Ritornato in Italia seguito da operai dell’ILVA, da reduci della Russia e da combattenti della guerra di Spagna, diede inizio alla lotta partigiana sulle montagne bergamasche. Alla Brigata Garibaldi si unì la formazione badogliana comandata dal tenente Locardi, che con il tenente Cesare Bettini si scontrarono più volte sulle montagne bergamasche contro le formazioni fasciste e gli occupanti tedeschi.
Cesare Bettini, ufficiale dell’esercito italiano, comandante di un battaglione mitraglieri, rifiutò di obbedire ai tedeschi e si unì alla Resistenza. Energico comandante partigiano, era di Cassano d’Adda; a seguito della fucilazione dei 13 partigiani a Lovere e alla La 53ª brigata Garibaldi si costituì ed cattura e messa a morte del fratello, sfuggì operò nel bergamasco dopo l’8 settembre del alla cattura e si unì alle formazioni azzurre ‘43. A comandarla vi fu Giovanni Brasi, ope- nella repubblica dell’Ossola sotto il diretto raio della Franchi e Gregorini; per le sue idee comando del mitico Cino Moscatelli. Bettini, ritornato a Cassano d’Adda, svolse un’attiva azione educativa e politica anPERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA tifascista nel suo ZONA DELLA MARTESANA comune, dove fu Redazione: presso la sede della Sezione Quintino Di Vona di Inzago (MI) indimenticabile in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) insegnante e viIn attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi cesindaco. Molti Direttore responsabile: Rocco Ornaghi suoi alunni ancoStampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) ra si ricordano Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf) dell’integerrima
il fiore del partigiano
persona e dell’intransigente antifascista. I fatti avvenuti presso la Malga Lunga non furono i soli ad animare la lotta antifascista sulle montagne della provincia di Bergamo. I vari percorsi che partono da Sovere, Lovere, Bossico sono costellati da luoghi significativi della lotta partigiana.
Museo e ritrovo con bella vista
la malga lunga, gestita a turno dalle varie sezioni AnPi della zona, è aperta regolarmente da maggio a settembre e la si può raggiungere a piedi da Sovere, gandino, endine e ranzanico. È raggiungibile anche in auto partendo da gandino lungo una tortuosa strada asfaltata fino alla località Valpiana, quindi si raggiunge il rifugio a piedi in circa 20 minuti. Alla malga si può anche arrivare in macchina, previo permesso comunale. oltre al museo, la presenza dell’AnPi anima con iniziative, feste e canzoni la vita della baita; si può inoltre pranzare con piatti tipici della zona. dalla malga, tempo atmosferico permettendo, si gode una magnifica vista sul lago d’iseo. Per ulteriori informazioni si può telefonare al comune di Sovere al numero 035981107 e visitare il sito www.malgalunga.it.