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Gennaio 2013
anno 4 numero 9
NON SOLO FILM: QUANDO LA SCENEGGIATURA LA ISPIRA LA STORIA
La partita della morte
L’UMANITÀ IN GIOCO
Il film. Il palleggio di Pelé dà il via all’allenamento per la partita contro i nazisti, in “Fuga per la vittoria” di John Huston. Nel film, ai giocatori alleati andò bene; non così nella realtà
Lo sport non è contornato solo dall’ignoranza del branco di cretini che sbeffeggiano Boateng; esistono anche esperienze di solidarietà attiva, come quella del Sankt Pauli, squadra di Monaco, dichiaratamente antifascista. Nel ricordo di chi contro i nazisti giocò la propria vita, come Oskar Rohr, Bruno Neri o i campioni dello Start di Kiev
A
“Fuga per la vittoria” (Escape to Victory) è un film del 1981 diretto da John Huston. Il film mantiene ancora oggi una notevole popolarità, soprattutto per la presenza di grandi calciatori dell’epoca a fianco degli attori principali, tra cui il celeberrimo Pelé. Film liberamente ispirato alla “partita della morte” tenutasi a Kiev il 9 agosto 1942 tra una selezione mista di calciatori di Dynamo e Lokomotiv e una squadra composta da ufficiali dell’aviazione tedesca Luftwaffe.
perto nel 1923, lo stadio Zenit di Kiev fu rinnovato e ampliato nel 1941 e avrebbe dovuto essere inaugurato il 22 giugno 1941 con un incontro della Dinamo Kiev. Quel giorno la Wehrmacht tedesca iniziò l’Operazione Barbarossa contro l’Unione Sovietica, occupando l’Ucraina e bombardandone la capitale. Molti giocatori, trattenuti nella capitale dal presidente dell’NKVD Lev Varnavskyj, parteciparono alla resistenza partigiana fino alla caduta della città, il 19 settembre 1941, in cui vennero fatti prigionieri seicentomila ucraini, costretti a firmare una dichiarazione di lealtà al regime nazista per poter tornare a Kiev. CONTINUA A PAGINA 12 (CON ALTRI SERVIZI) ➔
Col fascismo non si può restare indifferenti
I
Riportiamo un intervento del nostro Presidente Carlo Smuraglia, scritto in occasione della giornata antifascista tenuta in tutta Italia domenica 18 novembre scorso.
n Italia, quelli che apparivano semplici rigurgiti di nostalgismo fascista, si stanno manifestando con rinnovato impegno, con rinnovata ampiezza e con crescente diffusione. Si aprono nuove sedi di movimenti neofascisti, si assumono iniziative, spesso ardite, da parte di “Forza Nuova”, di “Fiamma
Tricolore”, di “Casa Pound”, con un vero e proprio crescendo e spesso con la protezione e l’incoraggiamento anche da parte di pubblici amministratori. Aumenta la violenza delle manifestazioni, anche da parte di coloro che - storicamente - risorgono in occasione delle crisi cercando di approfittarne e finiscono sempre per porre in essere vere e proprie spinte verso destra, i cui sbocchi sotto il profilo storico - sono sempre stati nefasti. Si aggiungono anche i tentativi di collegamento, addirittura a livello europeo, di cui è
inequivocabile dimostrazione la recente manifestazione dell’Mse a Roma. In questa situazione complessiva, la linea di difesa di coloro che credono nei valori della democrazia e dell’antifascismo è ancora troppo debole e spesso incerta tra la reazione immediata e la riflessione più ampia e il tentativo di coinvolgere nella resistenza e nel contrattacco, molti cittadini e le stesse istituzioni. Colpisce il fatto che l’esposizione di simboli fascisti e le manifestazioni aperte di CONTINUA A PAGINA 2 ➔
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Evoluzione di stampo neo-n il fiore del partigiano
LE FORMAZIONI DI ULTRA-DESTRA DILAGANO IN EUROPA. MA IN ITALIA IL FENOMENO È SOTT
Il 13 dicembre 2011, a Firenze un neofascista simpatizzante di Casa Pound, Gianluca Casseri, spara per strada contro dei senegalesi, uccidendone due. Da questo fatto parte la ricognizione di Saverio Ferrari (da il manifesto del 15 dicembre 2011) che traccia una preoccupante mappa dei focolai neonazisti che stanno attecchendo un po’ in tutta Europa. Oggi la situazione non è certo migliorata.
G
di
SAVERIO FERRARI
ianluca Casseri non sarà il Breivik italiano, ma qualche riflessione su ciò che sta accadendo anche nel nostro Paese è quanto mai doverosa, tanto più considerando la predisposizione, in generale, a derubricare sbrigativamente questi avvenimenti come il frutto della follia. Così è accaduto con la strage del 22 luglio scorso in Norvegia, ben 77 vittime, interpretata come il prodotto delle turbe mentali dell’attentatore, quasi un caso psichiatrico, più che una conseguenza del riaffacciarsi in Europa di correnti razziste e formazioni neonaziste. Anche la scoperta in Germania, solo qualche settimana fa, di una cellula terroristica denominata “Clandestinità nazionalsocialista”, in rapporti con l’Npd, il partito ufficiale dei neonazisti tedeschi, responsabile tra il 2000 e il 2007 di ben dieci delitti a sfondo razziale, in maggior parte piccoli commercianti di origine turca, sembrerebbe non aver scosso più di tanto l’opinione pubblica tedesca. Una storia decisamente in-
Col fascismo non si può restare indifferenti
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fascismo (vedi le vergognose esibizioni durante il funerale di Pino Rauti) e nazismo lascino indifferente tanta parte dei cittadini e trovino un clima troppo tiepido anche nelle istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto della Costituzione. Istituzioni che, al più, possono prendere in considerazione il problema sotto il profilo dell’ordine pubblico, senza avvedersi che il problema è molto più serio e coinvolge princìpi e tematiche riferibili ai valori costituzionali. Tutto questo trova le sue radici nel fatto che il nostro Paese non ha mai fatto seriamente i conti con il proprio passato, non ha mai analizzato e
quietante, valutando quanto emerso nelle indagini, avvenuta con la protezione garantita a questo gruppo omicida da parte delle forze di sicurezza, addirittura con la consegna di passaporti falsi. Ora tocca a noi, qui in Italia, interrogarci su alcuni aspetti del retroterra politico che hanno generato la sparatoria di Firenze, a tutti gli effetti un’azione terroristica.
In settori ampi dell’estrema destra italiana è in corso da tempo un’evoluzione di stampo neonazista non sufficientemente colta nella sua gravità. La tendenza è all’assunzione in forme sempre più esplicite di riferimenti storici, mitologie e simbologie tratte ormai sempre più dalla storia del Terzo Reich e non più semplicemente da quella del ventennio mussoliniano. Non un fatto astratto, ma una nuova identità destinata inevitabilmente a produrre conseguenze nefaste, riversandosi in una società a composizione sempre più multietnica e socialmente complessa. Ci riferiamo alla rivalutazione operata da Forza nuova delle formazioni collaborazioniste dei nazisti negli anni Quaranta nei Balcani. Parliamo della Guardia di ferro rumena e delle Croci frecciate ungheresi. Movimenti ferocemente antisemiti che si macchiarono di pogrom antiebraici e della fattiva e diretta organizzazione della deportazione nei campi di sterminio. Basta un breve accesso al sito nazionale del partitino di Roberto Fiore per ritrovarsi immersi in gadget e magliette con la faccia di Cornelius Codreanu, il fondatore della Guardia di ferro, rintracciare la spilla con l’emblema della divisione delle Waffen-SS belghe o visionare le bandiere dell’organizzazione con il segno runico del “gancio”
Diciamo un forte NO alle provocazioni
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ANPI dice no alle provocazioni neofasciste. Questa in sintesi la presa di posizione dell’ANPI di fronte alle ennesime provocazioni “nere”. Milano «L’ANPI - ha dichiarato il presidente dell’ANPI milanese, Roberto Cenati – esprime la propria indignazione e la propria ferma condanna del grave gesto compiuto nella notte tra venerdì e sabato 5 gennaio ai danni della lapide posta in via Guerzoni, dedicata ai partigiani caduti nella lotta di Liberazione contro il nazifascismo e ai caduti nella difesa della Repubblica spagnola contro il franchismo.
Sesto San Giovanni Nel pomeriggio di sabato 5 gennaio - ricorda Cenati - è stata danneggiata anche la lapide dedicata ai fratelli Giulio e Mario Casiraghi, situata a Sesto San Giovanni, in via Marconi. Non c’è pace per il monumento sestese, già oggetto di un analogo episodio il 9 ottobre 2012. Queste ennesime provocazioni neofasciste, precedute il 2 dicembre 2012 dall’aggressione di un militante di un centro sociale milanese da parte di un gruppo di naziskin, si inseriscono nel rifiorire a Milano e in Provincia di
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o “dente del lupo”, utilizzato nel secondo conflitto mondiale dalla Das Reich e dalla Nederland, due tra le principali divisioni di combattenti SS. Gli esempi da indicare alle nuove generazioni sono criminali di guerra come Leon Degrelle, generale delle Waffen-SS. Mentre avanza il rilancio delle teorie proprie del nazismo, circa la cospirazione dei cir-
fatto conoscere a fondo il fascismo, ha trascurato non di rado le pagine più belle della nostra Storia, come la Liberazione dai tedeschi e dai fascisti, ed infine è stato troppo tiepido di fronte ai continui attacchi di negazionismo e di revisionismo. Si è diffusa la falsa idea di un fascismo “buono” e “mite”, contro la verità e la realtà, a fronte dei tremila morti del primo periodo del fascismo, delle leggi razziali, delle persecuzioni di chi non era fascista e della guerra in cui sono stati mandati al massacro, a decine di migliaia, i giovani e si è rovinato e distrutto il Paese. Revisionismo e negazionismo favoriscono la sottovalutazione dei fenomeni, producono diseducazione e disinformazione, non aiutano la diffusione di un antifascismo di fondo, che dovrebbe essere il connotato comune di tutte le generazioni. Ancora più grave che le stesse istituzioni, mai li-
berate del tutto dalle incrostazioni fasciste, facciano così poco per trasformarsi in quegli organismi democratici che disegna la Costituzione, con fondamentali disposizioni come l’art. 54 e l’art. 97, ma poi con tutto il quadro dei princìpi che ne costituiscono l’ossatura, il fondamento e la base. Che dei Comuni possano mostrare aperta simpatia verso i movimenti neofascisti, così come il fatto che troppi prefetti e questori restino inerti (oppure si attestino, come si è detto, sull’ordine pubblico) a fronte di manifestazioni che dovrebbero ripugnare alla coscienza civile di tutti, sono rivelatori di una permeabilità assai pericolosa per istituzioni che - per definizione - dovrebbero essere democratiche. Ma c’è di più: un governo che ad una interrogazione parlamentare inerente la vicenda Graziani risponde di non essere competente perché si tratta di un fatto locale (!).
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NO È SOTTOVALUTATO
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missime ore, di alcuni esponenti di Militia, tra loro Maurizio Boccacci (già fondatore del Movimento politico occidentale), per istigazione all’odio razziale, etnico e religioso, con il proposito, come recita il mandato di cattura, «di ricorrere alla violenza e di impiegare ordigni esplosivi», non fanno che confermare queste tendenze.
La lapide di Via Guerzoni, a Milano, imbrattata
movimenti neofascisti e neonazisti, con l’apertura di nuove sedi e punti di riferimento.
Lovere L’associazione nazionale Partigiani d’Italia ha denunciato ai carabinieri l’atto vandalico subito alla Malga Lunga, ovvero le scritte nazifasciste comparse su una parete dello storico rifugio partigiano, museo della Resistenza, e sull’auto del gestore Idilio Rossi, nella notte tra il 30 e il 31 dicembre. Svastiche, croci celtiche e la scritta “Dux” hanno offeso il luogo in cui iniziò la cattura di Giorgio Paglia e della 53ᵃ Brigata Garibaldi 13 Martiri di Lovere, il 17 novembre del 1944. coli finanziari e massonici, riciclate nel presente per spiegare la crisi economica. Tornano sui blog del radicalismo di destra italiano espressioni come “plutocrazia” e le vignette di marca nazionalsocialista degli anni Trenta, con i banchieri e i mercanti con il naso adunco in procinto di spartirsi il mondo. Anche gli arresti, avvenuti in queste ulti-
E ancora. Noi siamo convinti che gran parte degli appartenenti alle forze dell’ordine sia rispettosa delle norme costituzionali e dei doveri connessi alla loro funzione; ma non possiamo non constatare che ancora troppi sono gli episodi di violenza ingiustificata e arbitraria, da quelli collettivi (vanno ricordati i casi anche recenti in cui le forze dell’ordine hanno spesso “calcato la mano”, anche se continuo a deprecare l’uso della violenza da parte di alcuni manifestanti) a quelli individuali (episodi anche recenti, di cui si è diffusamente occupata la stampa, come i pestaggi di cittadini inermi, gli “anomali” trattamenti riservati ad alcuni arrestati). Questo dimostra che è ancora insufficiente il livello di democratizzazione e di formazione all’interno di corpi che dovrebbero essere sempre e concretamente impegnati nella difesa della democrazia e della convivenza ci-
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PETIZIONE
ciste. delere”.
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Su quanto sta accadendo va denunciata la responsabilità specifica della destra istituzionale che ha accolto queste formazioni sotto la propria ala. È l’esempio di Casa Pound, gruppo costituitosi sulle teorie e le idee del poeta razzista e antisemita Ezra Pound, nel quale militava il killer di Firenze, Gianluca Casseri, presente secondo alcune testimonianze anche a Milano, non più tardi del giugno scorso, all’inaugurazione della nuova sede a Quarto Oggiaro. Una responsabilità che accomuna il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che ha acquistato a spese del comune (12 milioni di euro) lo stabile da loro occupato, il presidente della provincia di Milano Guido Podestà che aveva loro concesso la sala più prestigiosa di Palazzo Isimbardi per una conferenza, il Pdl e la Lega sempre pronti a legittimare questa associazione in lotta contro “la società multirazziale”. Ieri notte (subito dopo i fatti di Firenze, ndr) da Roma è stata indirizzata a tutti i responsabili locali di Casa Pound la seguente email: «Comunicazione interna urgente e riservata. Fare quadrato ora significa: negare la sua appartenenza al movimento, cancellare ogni traccia, stare zitti e far parlare solo i dirigenti autorizzati». Troppo tardi.
vile, nel profondo rispetto dei diritti del cittadino. Insomma, un quadro insoddisfacente e preoccupante, contro il quale occorre reagire non solo episodicamente, ma in modo coordinato e diffuso, che riguardi i cittadini, le associazioni, i partiti, i movimenti, ma si riferisca anche alle istituzioni. Uno studioso ha scritto di recente un libro con un titolo significativo: “Italia: una nazione senza Stato”, osservando che se si è ormai costruita l’anima (la Nazione) manca, tuttavia, un “corpo” che a quella corrisponda (cioè una Costituzione non solo fatta di intangibili principi ma applicata concretamente e rispettata, governi duraturi, Parlamento che funziona, leggi comprensibili e ispirate a interessi generali, strutture organizzative efficienti e imparziali, burocrazia non arcigna ma fatta per il cittadino, e così via). Noi siamo d’accordo, in linea di prin-
La legge Mancino sia applicata
L
L’onorevole Emanuele Fiano (Pd) ha lanciato una petizione per la piena applicazione della legge Mancino. Ecco il testo.
e notizie di questi giorni che riportano la nascita della sezione italiana di “alba dorata”, il movimento apertamente neonazista greco, e la sua volontà di presentarsi con una lista alle prossime elezioni politiche italiane, destano indignazione e preoccupazione. in Grecia la sua breve vita è già costellata di episodi inaccettabili di violenza, razzismo, linguaggio e simbologie neonaziste. Questo movimento, analogamente ad altri episodi legati ai movimenti di Forza nuova e Casa Pound, entrambe intenzionate a concorrere con proprie liste alle consultazioni nazionali e amministrative, viola già con le affermazioni presenti sul proprio sito e con le proprie dichiarazioni una specifica legge dello Stato, la legge “mancino” che dà forza al principio costituzionale che impedisce la ricostituzione di movimenti fascisti. Sig.ra ministro dell’interno facciamo appello a Lei e alla magistratura, perché questa legge venga rigorosamente applicata, vietando la presentazione di liste delle forze sopracitate e agendo sulla stessa possibilità di una loro presenza organizzata. noi chiediamo che le istituzioni repubblicane non restino indifferenti al riproporsi, sempre più aggressivo e tracotante, di movimenti neofascisti, neonazisti e razzisti nel nostro paese: essi sono un’offesa alla nostra comunità nazionale e alla nostra Costituzione, nata dalla resistenza e un pericolo reale per la convivenza libera e civile. riteniamo che ogni sottovalutazione di questi fenomeni sia grave e colpevole. Forti della nostra memoria, dei nostri valori e della nostra Costituzione, noi non rimarremo mai in silenzio di fronte al ripresentarsi del fascismo nella vita istituzionale di questo paese!
cipio, ma pensiamo che in materia di democrazia e di antifascismo ci sia bisogno di uno slancio salutare e innovativo sia per l’anima che per il corpo; ed a questo vogliamo contribuire con una grande campagna di massa per creare una vera cultura dell’antifascismo e della democrazia, per disperdere ogni vocazione autoritaria e populistica, per ricreare la fiducia reciproca fra cittadini e istituzioni. Di tutto questo parleremo nella Giornata Nazionale del tesseramento all’ANPI. Un momento per noi prezioso e importante per portare ossigeno e forza alla democrazia e all’antifascismo e per confrontarci con i cittadini su temi fondamentali per la stessa convivenza civile, individuando i modi e le vie per uscire da una crisi che non è solo economica, ma anche politica e morale.
Carlo Smuraglia
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il fiore del partigiano
La penosa “provocazione” che Forlì non merita
ABORTITA L’OSCENA IDEA D’INTITOLARE L’AEROPORTO LOCALE A MUSSOLINI
È
da l’Unità del 19 ottobre 2012
stata già liquidata (dalla stessa Confindustria) come un penoso tentativo di marketing turistico l’idea di intitolare a Benito Mussolini l’aeroporto del Ronco di Forlì. L’autore della proposta, il direttore della locale Unione industriale, si è giustificato dicendo che era solo “una provocazione” pubblicitaria a favore della sua città. Allora sarà bene ricordare cosa avvenne fra Forlì e il suo campo di aviazione proprio nelle ultime settimane del nazifascismo. Perché qualcuno si rinfreschi la memoria e si risparmi certe “provocazioni”. Agosto 1944: le truppe alleate e il Corpo di Liberazione nazionale, liberate Toscana e Marche, stanno marciando verso la Linea Gotica spostata a nord. Predappio sarà liberata da Alleati e partigiani il 28 ottobre, data fatidica. Forlì il 9 novembre. Ma agosto e settembre sono mesi di inaudita crudeltà, di repressione feroce, senza tregua, fino all’ultimo. Il letterato Gian Raniero Paulucci de Calboli Ginnasi, una delle più antiche famiglie romagnole, ha ripetutamente ospitato militari sbandati, prigionieri, partigiani. Arrestato dai fascisti del Battaglione IX Settembre nel luglio 1944 e, di nuovo, poco tempo dopo, torturato, non parla. Subisce un processo-farsa. Lo fucilano i fascisti a Terra del Sole il 14 agosto. Ha scritto alla moglie Pellegrina Rosselli Del Turco una lettera, pubblicata da Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, nella famosa raccolta di Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi), in cui ha parole di affetto e di perdono cristiano per tutti. Purtroppo Pellegrina non la riceverà mai. Incarcerata per aver soccorso alcuni ebrei, sarà fucilata il 4 settembre ai bordi dell’aeroporto del Ronco. Il nipote Cosimo viene deportato in Germania. La madre di lei, colta sulla strada del carcere da un bombardamento aereo, vi trova la morte. Sull’Appennino, grazie ad una spiata, viene sorpresa la banda partigiana di Silvio Corbari. Questi, ferito gravemente, è trascinato via così dai fascisti, insieme ad Arturo Spazzoli, agonizzante (lo finiranno durante il trasporto a valle) e ad Adriano Casadei. Iris Versari, compagna di Corbari, ferita, preferisce spararsi alla testa piuttosto che venire catturata viva. Corbari, in stato di incoscienza, e Casadei sono impiccati a Castrocaro il 18 agosto. I loro corpi inanimati e quelli della Versari
Silvio Corbari con la sua leggendaria “banda” (sopra) ed impiccato ad un lampione in Piazza Saffi
e di Spazzoli subiscono l’onta di una lunga esposizione, appesi ai lampioni, nella grande piazza di Forlì. Tonino Spazzoli, il fratello di Arturo, sottoposto a torture indicibili, viene accompagnato sotto il cadavere appeso di Arturo. «Domani, se non parli, toccherà a te». Non parlerà. Lo uccidono due giorni più tardi al suo paese, Coccolia, fra Forlì e Ravenna. Ha fondato col socialista Torquato Nanni l’Unione Italiana del Lavoro e con altri il Fronte
della Gioventù romagnolo. Parallelamente, a poche decine di chilometri di distanza, un albergatore di Bellaria, Enzo Giorgetti, e il brigadiere dei carabinieri, Osman Carugno (entrambi oggi nel Giardino dei Giusti di Gerusalemme), stanno portando a termine, fra mille paure e peripezie, il salvataggio di una quarantina di ebrei di origine slava che, fuggiti dal campo di Asolo, si sono rifugiati sulla riviera riminese dodici mesi prima, il 13 settembre 1943. Una storia incredibile raccontata dal giornalista Emilio Drudi, per anni al Messaggero, originario della zona, in un libro bello, serrato, avvincente: Un cammino lungo un anno (Giuntina). Nello stesso volume, a pag. 77, Drudi si sofferma anche sulla strage dell’aeroporto di Forlì: 42 civili, di cui almeno 20 ebrei, massacrati fra il 5 e il 27 settembre senza una motivazione, senza che si potesse nemmeno prendere a pretesto una ritorsione o una rappresaglia. Praticamente finiti con un colpo alla nuca, sull’orlo delle buche create dalle bombe alleate. Quegli ebrei, tedeschi, austriaci e polacchi, erano stati salvati a Urbino, ma qui non hanno avuto scampo. A questo feroce epilogo dell’occupazione nazifascista all’aeroporto di Forlì lo stesso Drudi sta dedicando altre ricerche. Per non dimenticare. Perché Benito Mussolini non possa entrare ufficialmente nel marketing turistico aeroportuale. Vittorio Emiliani
“
“
Noi anziani, ormai stiamo per chiudere la nostra giornata, stiamo per avviarci verso la notte che non conoscerà più albe: ebbene io vorrei avviarmi con animo sereno verso questa notte e mi potrò avviare con animo sereno se saprò che i nostri giovani accoglieranno il patrimonio politico e morale della Resistenza, dell’antifascismo, se non permetteranno che sia disperso e lo custodiranno per tramandarlo alle altre generazioni.
Sandro Pertini
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Quel bus di Trapani che ricorda Rosa Parks
ANCORA OGGI, NEL 2013 GIOVEREBBE UN GIRO AL MUSEO PER I DIRITTI CIVILI DI MEMPHIS
A
di
da l’Unità del 6 gennaio 2013
SANTO DELLA VOLPE
utobus per soli immigrati e per soli “neri”: la proposta è di Andrea Vassallo, presidente di commissione al Comune di Trapani che ha pensato di risolvere con questa “brillante” idea di inciviltà, il problema della linea pubblica che collega Salinagrande alla città. Perché in quella zona tra le Saline e la zona industriale, c’è il Centro di accoglienza che ospita gli immigrati che spesso escono per andare in città, prendendo l’autobus, essendo cittadini del mondo. Non hanno nessuna colpa se non quella di essere, agli occhi magari del consigliere comunale Andrea Vassallo, un po’ “diversi” e, a suo dire, rumorosi. Così dice d’aver sentito da alcuni trapanesi che lo stesso consigliere Vassallo ha definito «abituali viaggiatori indigeni della tratta» con un linguaggio che lascia piuttosto perplessi, ma che indica la volontà di separare nettamente gli “indigeni” trapanesi, dagli “ospiti” visti come intrusi, rei, secondo questa segnalazione consegnata agli annali, di «comportamenti poco civili» che spesso «creano ed alimentano all’interno del bus un clima di tensione tale da lasciar presagire, prima o poi, il verificarsi di episodi spiacevoli». Un bel modo per dire che per prevenire il gesto di qualche “indigeno” nervoso, è meglio separare le persone, invece che lavorare per cercare una convivenza civile tra le persone, che poi tanto diverse non sono. Si chiama soluzione dei conflitti e nasce da una idea vecchia come il mondo, o almeno come il cristianesimo: creare livelli comuni di incontro, di lavoro e solidarietà, evitando la segregazione e quelle barriere economico-razziali che inducono solo allo scontro tra persone. Un’idea che è stata ben rappresentata e sintetizzata anche nella nostra Costituzione. Se avrà tempo, il consigliere Andrea Vassallo potrà un giorno andare al Museo per i diritti Civili di Memphis, in quel Lorraine Motel dove fu ucciso Martin Luther King (oppure vedere co-
modamente da casa il film La lunga strada verso casa del 1990 con Whoopi Goldberg): a Memphis troverà a metà del percorso di quello straordinario Museo, un autobus delle linee urbane di Montgomery, capitale dell’Alabama, vecchio di almeno 60 anni. Provi a salirci e sedersi, magari vicino ad una statua di una donna seduta e sentirà una voce che gli intimerà di andare in fondo all’autobus perché sono saliti dei viaggiatori bianchi, ai quali, allora, erano riservati quei posti, vicino all’ingresso. Perché in Alabama, come in molti stati del Sud degli Stati Uniti, negli autobus c’erano posti seduti riservati ai bianchi e posti in piedi per i neri, in fondo ai bus. Potrebbe fornire una idea al consigliere Vassallo, per la soluzione del suo problema, a Trapani: solo che lì eravamo nel 1955 ed il 1° gennaio di quell’anno, la signora Rosa Parks, rappresentata da quella statua nel bus del Museo, non si volle alzare. Disse un no che la portò in carcere, arrestata per condotta impropria e aver violato le norme cittadine. Succederà la stessa cosa se un immigrato a Trapani vorrà salire su un bus per soli “indigeni” trapanesi?
Da quel 1955, Rosa Parks è conosciuta in tutti gli Usa come “The woman who didn’t stand up / la donna che non si alzò” e per solidarietà con lei, il 2 gennaio 1955, cominciò a Montgomery il boicottaggio dei mezzi pubblici, guidato da Martin Luther King, che durò per 381 giorni, fino a quando la Corte Su-
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prema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la legge che aveva legalizzato la segregazione sugli autobus. Il consigliere Vassallo di Trapani vuole forse seguire le orme del Ku Klux Klan e aggiungere alla tensione degli immigrati, che spesso sono solo umiliati e sfruttati nei lavori in nero nei campi, anche la tensione derivata da una ulteriore “punizione”, facendo sua la parte dei segregazionisti dell’Alabama di 58 anni fa? Forse farebbe bene a ricordarsi che ora siamo nel 2013, non più nel 1955, che il presidente degli Stati Uniti si chiama Barack Obama e che, guarda caso, è una persona di colore, segno di quanti passi in avanti hanno fatto le battaglie per i diritti civili. Negli Usa, mentre a Trapani si corre il rischio con quegli autobus per immigrati neri, di tornare indietro di 60 anni. Ma nella storia il gioco dell’oca non si ripete mai uguale ed i punti di partenza sono sempre diversi: Martin Luther King descrisse l’episodio di Rosa Parks, come «l’espressione individuale di una bramosia infinita di dignità umana e libertà», aggiungendo che Rosa era rimasta seduta in quel posto in nome «dei soprusi accumulati giorno dopo giorno» e della «sconfinata aspirazione delle generazioni future». I giovani appunto: ci pensi il consigliere Vassallo, la strada dell’integrazione porta al superamento delle divisioni, quella della segregazione insegna solo violenza e scontro. Contro le persone. Ed anche contro la Storia.
L’autobus al Museo per i Diritti Civili di Memphis e, in alto, Rosa Parks
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Gli antifascisti cassanesi hanno una nuova casa
APERTA A CASSANO D’ADDA LA NUOVA SEDE DELLE SEZIONI ANPI E ANPAC
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el pomeriggio di sabato 1 dicembre, in via Veneto 24 a Cassano, nei locali dell’ex-LAM (laboratorio di analisi cliniche), abbiamo tagliato il nastro tricolore e aperta la nuova sede delle sezioni cassanesi dell’ANPI e dell’ANPC. La partecipazione degli associati, delle autorità e dei rappresentanti delle associazioni (ANA, ACLI, ARCI, Carabinieri in congedo e altre) è stata numerosa e qualificata. Dopo gli interventi del presidente ANPI provinciale Roberto Cenati, dell’amica Bianchi dell’ANPC, del sindaco Roberto Maviglia e dell’assessore Arianna Moreschi, il coro ANPI “Note di libertà” diretto dal maestro Piero Zacchetti ha intonato una trilogia di canti partigiani, molto apprezzata dal pubblico presente. Un semplice brindisi ha concluso la manifestazione ed ha aperto una feconda possibilità di uno stabile punto di riferimento per tutti gli antifascisti cassanesi e non solo. I prossimi appuntamenti sono già in calendario per le iniziative della settimana attorno alla Giornata della Memoria, 27 gennaio 1945-2013, (celebra la data della liberazione del campo di concentramento nazista di Auschwitz). Per le scuole è in allestimento la mostra “Appunti di viaggio”: 19 tavole e cartellone sugli IMI (gli internati militari italiani, deportati e costretti ai lavori forzati in Germania) e sulla figura di Silvio Villa. Da lunedì 21 gennaio a martedì 29 verrà presentata alle classi di 4ᵃ e 5ᵃ della Scuola primaria di Cassano, Groppello e Cascine S. Pietro e alle classi di 1ᵃ e 2ᵃ della Scuola media A. Manzoni.
Le rose di Ravensbrück Storia di deportate italiane
attraverso le immagini e le voci narranti di donne che riproducono scritti, testimonianze e fotografie di deportate italiane, si ripercorrono le tappe della deportazione dal momento dell’ingresso in lager al giorno della Liberazione, ricomponendo in un affresco corale i tratti specifici della deportazione femminile. L’impostazione storica ed originale del dvd, lo rende consultabile anche come ipertesto.
La nuova sede. Autorità e semplici cittadini, giovani, anziani e bambini hanno partecipato alla cerimonia d’apertura
Giovedì 24 e venerdì 25, sempre alle Scuole medie di Cassano, per gli alunni delle clas-si terze verrà proposta la visione del film di Louis Malle “Arrivederci ragazzi”.
Sabato 26, presso il Liceo G. Bruno verrà proiettato il dvd “Le rose di Ravensbrück - Storia di deportate italiane”, con la partecipazione di Giovanna Massariello, della Fondazione Memoria e ANED, coautrice dell’opera. Infine, domenica 27 alle 17, presso l’Auditorium della Biblioteca in Via Verdi verrà proposto lo spettacolo teatrale “Frammenti di una donna” a cura di ARCI Colpo d’Elfo e Matè Teatro (ingresso gratuito).
Giancarlo Villa Presidente ANPI di Cassano d’Adda
Frammenti di una donna
in scena una donna. Sola con i suoi ricordi, che si dipanano frammentati a ricostruire il filo della memoria: l’evacuazione dal ghetto ungherese di Kisvarda, la deportazione ad auschwitz, le piccole astuzie per fuggire alle selezioni, la lotta per la sopravvivenza a fianco delle sorelle, fino alla fuga durante una “marcia della morte”, e infine la libertà. il lavoro liberamente ispirato alla vicenda della sopravvissuta isabella Katz Leitner vuole far luce sul dramma della deportazione femminile: la femminilità rubata e l’annientamento del corpo, la maternità usurpata, la sessualità perversa delle SS, la solidarietà tra sorelle, il caparbio attaccamento alla vita.
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Le immagini e i suoni della Memoria
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A INZAGO UN CICLO DI INIZIATIVE CON MOSTRA INTERATTIVA, FILM E CONCERTO
A
nche quest’anno, in prossimità del Giorno della Memoria, ad Inzago il Comune, l’Assessorato alla Cultura, l’Assessorato alla Pubblica Istruzione e la locale Sezione dell’ANPI organizzano una serie di iniziative rivolte alla cittadinanza e in particolare ai ragazzi delle scuole. Il programma degli eventi (che si svolgeranno tutti presso il Centro De André di Via Piola), dal titolo “La responsabilità della memoria”, prevede: dal 21 al 27 gennaio la mostra di pittura di Giuseppe Caruso “L’Olocausto” il 22, 23, 24 gennaio “Le aquile non volano a stormi” incontro dell’artista Giuseppe Caruso coi ragazzi delle scuole venerdì 25 gennaio proiezioni cinematografiche, alle 9.30 “La vita è bella” di Roberto Benigni, alle 14.00 “Train de vie - un treno per vivere” di Radu Mihăileanu domenica 27 gennaio un Concerto per il Giorno della Me-
moria dell’Orchestra giovanile Crescendo (nella foto sopra) venerdì 8 febbraio alle 21.00, nel Giorno del Ricordo, proiezione del documentario “Esodo: la memoria negata” di Nicolò Buongiorno. Interverrà Silvio Ziliotto, dell’Ufficio Politiche Internazionali delle ACLI di Milano, Monza e Brianza.
Le aquile non volano a stormi
da lunedì 22 a domenica 27 gennaio inzago celebra il Giorno della memoria con le esposizioni di Giuseppe Caruso “L’Olocausto” e Le aquile non volano a stormi, mostra interattiva dedicata ai personaggi dei primi del ‘900, la guerra e l’olocausto. La mostra – allestita presso il Centro de andré – prevede un percorso classico e uno interattivo. il percorso classico è caratterizzato dall’esposizione di 10 quadri raffiguranti personaggi dei primi anni del ‘900 dipinti in chiave espressionista, aspri ed ironici, 10 quadri raffiguranti scene e personaggi con tematiche riguardanti la guerra, l’olocausto (foto sotto), le gerarchie e le differenze di classe. il percorso interattivo, invece, prevede l’incontro con il curatore della mostra Giuseppe Caruso e la proiezione di alcuni spezzoni del film sulla prima guerra mondiale “Pack up your troubles (Compagno B)” del 1932, regia di marshall e mcCarey con Stan Laurel e oliver Hardy. Saranno anche letti e commentati alcuni testi del filosofo manlio Sgalambro e ascoltate le musiche “I dieci stratagemmi” e “Il vuoto” di Franco Battiato.
Auguri a tutti per un anno
Ai disoccupati, alle donne, ai malati, ai migranti... Un verso per ogni mese per ricordare anche coloro che spesso sono dimenticati: gli invisibili, i precari, i lavoratori in nero. Sperando che nel 2013 batteremo i grandi mali e l’indifferenza
da l’Unità del 20 dicembre 2012 GENNAIO Buon Anno. Che ti desti il gioioso borbottio del caffè che sgorga dalla gola d’acciaio, e non più il monotono sferragliare del tram e il timido sole che intravedi dal foro della tua casa, di cartone. Auguri a chi ha perso la tripla A. FEBBRAIO Che il carnevale restituisca, al bisestile lasciato da poco, la maschera pesante dell’esodato. Del precario. Lo specchio rifrange, di nuovo, il volto severo e orgoglioso che solo il lavoro sa modellare. Auguri a... tempo determinato. MARZO Chiusi anche gli Ospedali Psichiatrici
Giudiziari, da questo momento solo case della Salute: dei grandi ospedali si facciano teatri e atelier! E scuole pubbliche, come scrigni, con studenti e insegnanti, a custodire il tesoro comune dello Stato laico. Auguri alle matricole. APRILE Un 25 aprile lungo assai, che ci liberi da cariche e discariche. La libertà è un giardino che va curato, ogni giorno. Che disastro i giardinieri distratti. Auguri a chi pianta alberi. MAGGIO Si fermi il racconto:«... il casco, la cintura, i guanti, il pennello. Tinteggiava mura, e trasportava mattoni: il trabattello ha ceduto». E il cantiere di vita si è tinto di rosso. Di nero. Auguri a chi non chiude un occhio. GIUGNO Basta! Fermiamo la mano che troppe volte ha reciso vite e violentato sangue di femmina. Basta! Per sempre. Auguri a chi è ancora in ospedale e a chi verrà dimesso. Presto. LUGLIO E il barcone, di notte, e dentro - come in un mercato - mille voci e suoni. Occhi madidi di speranze. E noi tutti, lì, con la bandiera dell’accoglienza. A svolgere il tappeto rosso: sono ospiti d’onore. Auguri a chi lavora al 118. AGOSTO Tutti al mare. In montagna. Ai laghi: un Decreto legge ha abolito la solitudine. E, per l’intero mese, chiusi i cimiteri. Aperte le
celle. E in giro soltanto auto elettriche. Auguri a chi fa il massimo con la pensione al minimo. SETTEMBRE Il coro non ritma più il lungo elenco di suicidi e morti, tra le sbarre. La battitura, scema. E nelle piazze si leva un canto collettivo. Auguri a chi ha interrotto lo sciopero della fame. OTTOBRE E il cielo terso fa da mantello alla tenda costruita da mille mani, fuori la fabbrica, presidiata per mesi. Allora il tuo reparto era buio e muto, ora si sente odor di fatica. Il Nobel a Franco Basaglia e Vincenzo Consolo. Auguri a chi fa il turno di notte. NOVEMBRE Intanto, altrove, ma non lontano, l’acqua si incanala. Non c’è più fango. E in copertina, sui nuovi testi di storia, il volto dei dimenticati. In cornice. Dorata. Auguri perché non si incominci più a fare i conti il 15. DICEMBRE Con la Pace e il Lavoro a km zero e l’Annuario che alla voce fame segna zero. Evviva lo zero. Nei manuali medici, collocati ormai - in appendice, insieme al tifo petecchiale, alla tisi e al vaiolo anche la Sla, l’Alzheimer e il cancro. Tiro fuori lo spumante. Buon Anno. Emilio Lupo Segretario di Psichiatria Democratica
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Rodengo Saiano, l’eccidio a guerra già finita
BELLINZAGO LOMBARDO: L A VISITA NELLA FRANCIACORTA E IL CONCORSO PER I RA
Per la Festa della Liberazione, la Sezione ANPI di Bellinzago Lombardo aveva promosso un concorso riservato alla Scuola Secondaria, articolato in varie tipologie di elaborati da produrre. Nel numero precedente sono stati pubblicati i lavori che hanno ricevuto il primo premio, ora pubblichiamo gli altri. Qui sopra, il logo per la sezione ANPI proposto da Alessia Cavicchioli (2ᵃ E), vincitore del Premio Idea.
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Rodengo Saiano. Il racconto di Eligio Corsini al gruppo ANPI di Bellinzago davanti alla lapide che ricorda l’eccidio del 27 aprile ‘45
l gruppo ANPI di Bellinzago Lombardo, in visita il 9 dicembre scorso all’abbazia benedettina di Rodengo Saiano (BS) si sofferma davanti alla lapide che ricorda l’eccidio nazifascista del 27 aprile del ‘45. Il signor Eligio Corsini, presidente dell’ANPI di Rodengo, rievoca le tristi vicende di quei giorni. L’abitato di Rodengo ospitava un raggruppamento militare tedesco di oltre 400 uomini e un reparto di reclute delle SS italiane, denominate Gruppo di Pronto Intervento, forte di 200 uomini, sotto il comando di Louis Thaler, di origine altoatesina (Brunico). Tra il 25 e il 27 aprile, questi reparti italo-tedeschi si resero responsabili della cattura, tortura e fucilazione di 12 persone accusate di attività partigiana e antifascista. L’ordine di giustiziare i prigionieri, guidati dal segretario comunale dott. Giovanni Battista Vighenzi, fu impartito dal maggiore delle SS Louis Thaler, nonostante fosse a conoscenza che la guerra era già finita e che le Brigate partigiane erano in procinto di occupare il paese di Rodengo Saiano. Più che un gesto militare fu, quindi, un’azione gratuita di crudeltà e di vendetta, nel più totale disprezzo della vita umana. Il 28 aprile le colonne partigiane catturarono Thaler e dopo un processo sommario lo giustiziarono il 2 maggio a villa Fenaroli, in località Corneto di Ome, sullo stesso luogo dove erano state rinvenute alcune delle sue vittime e che era stata la sede del comando militare delle SS. Il corpo di Thaler fu esposto al pubblico disprezzo e fu poi tumulato all’esterno del cimitero, da dove poi fu riesumato e por-
tato nel cimitero di Brunico, su richiesta della moglie. Caddero vittime della furia delle SS le giovani vite di Giovanni Battista Vighenzi, Giuseppe Malvezzi, Luigi Mario Andreis, Giuseppe Carovello, Giovanni Ceretti, Pietro Giovanni Falappi, Angelo Franchini, Gaetano Mirino, Carlo Lumini, Giovanni Luigi Pezzotti, Enea Olivo e Gastone Tiego. Qui di seguito si riportano alcuni stralci della lettera che il comandante partigiano Gianbattista Vighenzi scrisse alla moglie poco prima di essere fucilato: “… Liana amatissima, mia gioia, mia vita, c’è una grande sete nel mio cuore in questo momento e una grande serenità. Non ti vedrò più Liana, mi hanno preso, mi fucileranno. Scrivo queste parole sereno d’animo e col cuore spezzato nel medesimo tempo per il dolore che proverai... Pino è stato pure preso e fucilato prima di me. Prega per noi due amici uniti anche nella morte. È morto con dignità e mi ha salutato con uno sguardo che era tutta la sua vita. ... La mia ultima parola sarà il tuo nome... Tu parlerai alla mamma, la consolerai, povera vecchia, povera mamma... Consolatevi, la vita ha di queste improvvise rotture... Addio, debbo salutarti, cara e tanto amata: non m’importa di perdere la vita, perché ho vissuto il tuo amore prezioso... Muoio contento per essermi sacrificato per un’idea di libertà che ho sempre tanto auspicato. Metto la mia firma e sulla fede i miei ultimi baci. Tuo per sempre Giovanni”. Rossana Fontana ANPI di Bellinzago Lombardo
IL SECONDO PREMIO Elaborato per le classi terze
Tema: Le ultime vicende di cronaca vedono spesso gli immigrati oggetto di violente aggressioni. Siamo tutti esseri umani uguali, ma troppo spesso c’è prevaricazione verso il più debole. Cosa ne pensi? GLI IMMIGRATI
Io penso agli immigrati, che viaggiano per cambiare vita. Perché vengon maltrattati? Basta, facciamola finita! Io penso alle leggi di uguaglianza, obbligatorie per tutta la cittadinanza. Per quale motivo sono state inventate, se non vengon rispettate? Io penso a tutti coloro, che per vivere bene darebbero l’oro. Perché non dare una possibilità anche a loro? La prossima volta accogliamoli con un coro, invece che con un rifiuto sonoro.
Giulia Passoni, 3ª F
IL TERZO PREMIO Elaborato per le classi terze
Tema: Le ultime vicende di cronaca vedono spesso gli immigrati oggetto di violente aggressioni. Siamo tutti esseri umani uguali, ma troppo spesso c’è prevaricazione verso il più debole. Cosa ne pensi?
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uardando i telegiornali si sentono spesso notizie che riportano fatti violenti o di emarginazione che coinvolgono extracomunitari. Se ci si guarda attorno con più attenzione e si prova a riflettere un po’ meno superficial-
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PER I RAGAZZI DELLE MEDIE
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il fiore del partigiano mente ci si accorge che tanta gente disperata fugge dal proprio paese, lasciando famiglia e affetti, per cercare una vita migliore. Affrontano viaggi terribili e pericolosi, spesso addirittura muoiono e tutto con la speranza di trovare fortuna. Poi arrivano in un paese straniero e devono imparare una lingua diversa; devono cercare una casa e un lavoro e a volte non hanno nemmeno il permesso di soggiorno. Noi italiani, che siamo nel nostro Paese, li guardiamo con diffidenza, forse un po’ dall’alto in basso e non sempre ci rendiamo conto della loro disperazione. Molte gente li sfrutta, con lavori poco pagati, per guadagnare di più e anche la criminalità li usa per scopi illegali. Credo che, se una persona è disperata, possa anche comportarsi in maniera sbagliata e a volte capita di sentire notizie riguardanti azioni illegali compiute da extracomunitari; però ci dobbiamo ricordare che i disonesti ci sono dovunque e non hanno nazionalità. Secondo me è incredibile e assurdo che ci siano discriminazioni tra noi e gli immigrati, perché siamo uguali, anche se ci vediamo diversi. Siamo uguali perché desideriamo tutti una vita serena, senza ingiustizie con una famiglia e degli amici. Siamo magari diversi nelle usanze e nell’aspetto esteriore, ma questo potrebbe essere un modo per ampliare la propria cultura. Troppo spesso però ci sono delle persone che approfittano dei più deboli senza rispettare i loro diritti, usandoli per scopi illeciti e dimenticando la giustizia che c’è nel rispetto dell’altro. Abbiamo visto in passato, come certe idee e comportamenti abbiano portato le persone a compiere azioni disumane, uccidendo innocenti; un esempio di ciò sono le guerre in cui muoiono, senza magari nemmeno voler combattere, anche cittadini che non c’entrano niente con quello che sta accadendo. La seconda guerra mondiale è stato un passo molto brutto della storia perché ha visto la morte di milioni di esseri umani, tra cui tante donne, bambini e anziani, che avevano la sola “colpa” di essere ebrei. Quando sono stato al campo di concentramento di Trieste ho provato una grande pena per tutte le persone che hanno subito quelle atrocità, ma anche rabbia, perché c’era chi soffriva e moriva lì dentro mentre altri non speravano altro; però devo confessare che ho provato anche un po’ di sollievo perché non ci sono stato io al loro posto. Continuo a pensare che le guerre non portino mai niente di buono e che la discriminazione sia la causa di molte tensioni che ci sono adesso; spero che si possa diventare più disponibili e migliori e che si possa imparare ad avere più rispetto degli altri. Che bel mondo sarebbe!!! Luca Mandelli, 3ª F
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AD AFFILE IL FASCISTA GRAZIANI CELEBRATO CON I SOLDI DELLA REGIONE LAZIO
Quel mausoleo alla crudeltà che non fa indignare l’Italia
«M di
dal Corriere della sera del 30 settembre 2012
GIAN ANTONIO STELLA
ai dormito tanto tranquillamente», scrisse Rodolfo Graziani in risposta a chi gli chiedeva se non avesse gli incubi dopo le mattanze che aveva ordinato, come quella di tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos, fatti assassinare e sgozzare dalle truppe islamiche in divisa italiana. Dormono tranquilli anche quelli che hanno speso soldi pubblici per erigere in Ciociaria un sacrario a quel macellaio? Se è così non conoscono la storia. Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc, ma non sia riuscita a sollevare un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a
Affile. Il “Sacrario” della discordia. Monumento di pessimo gusto, anche sotto il profilo estetico
rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.
Francesco Storace è arrivato a dettare all’Ansa una notizia intitolata «Non infangare Graziani» e a sostenere che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla Rsi». Falso. Il dizionario biografico Treccani spiega che il 2 maggio 1950 il maresciallo fu condannato a 19 anni di carcere e fu grazie ad una serie di condoni che ne scontò, vergognosamente, molti di meno. È vero però che anche quella sentenza centrata sul «collaborazionismo militare col tedesco», era figlia di una cultura che ruotava purtroppo intorno al nostro ombelico (il fascismo, il Duce, Salò...) senza curarsi dei nostri misfatti in Africa. Una cultura che spinse addirittura Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (un errore ulteriore che ci pesa addosso) a negare all’Etiopia l’estradizione di Graziani richiesta per l’uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi consentì a Giulio Andreotti di incontrare l’anziano ufficiale, in nome della Ciociaria, senza porsi troppi problemi morali. Allora, però, nella scia di decenni di esaltazione del “buon colono italiano” non erano ancora nitidi i contorni dei crimini di guerra. Gli approfondimenti storici che avrebbero inchiodato il viceré d’Etiopia mussoliniano al suo ruolo di spietato carnefice non erano ancora stati messi a fuoco. Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la “nostra” storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto “casalinghe”.
Per non dire dell’indecoroso sito web del Comune di Affile, dove si legge che l’uomo fu una «figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione» del periodo fra le due guerre e un «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose». Che «compì grandiosi lavori pubblici che ancor oggi testimoniano la volontà civilizzante dell’Italia». Che «seppe indiCONTINUA A PAGINA 11 ➔
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La resistenza armata in Martesana
PRIMA PUNTATA - LE CONDIZIONI IN CUI SI FORMARONO I PRIMI NUCLEI, CON LE LOR
C
ol contributo del prof. Giorgio Perego, ripercorriamo la storia della Resistenza nella nostra Zona. Dopo i primi due capitoli, l’appuntamento è con i prossimi numeri della nostra rivista. di
GIORGIO PEREGO
I - L’inizio di una lotta durissima
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la dissoluzione dell’esercito italiano, anche nei principali Comuni della Martesana cominciarono a formarsi i primi nuclei della resistenza armata: militari sbandati che fortunosamente erano riusciti a tornare a casa, ai quali si aggiunsero via via gli antifascisti locali (operai, studenti, professionisti). Le riunioni clandestine si tenevano presso cascinotti, cascine, cortili e osterie. Ad esempio a Cavenago avvenivano presso il cascinotto di Mario Fumagalli, la trattoria di Mario Uberti e l’osteria “Isola Vittoria”; a Cambiago presso la corte “del prestinée”; a Vimercate presso la località “montagnetta” e il cascinotto di Carlo Vimercati; a Trezzo d’Adda presso il cascinotto di Antonio Perego; a Caponago presso il cascinotto di Giacomo Radaelli; a Gorgonzola presso la corte Chiosi, le cascine Riva Ronchetta e Nuova e presso il cascinotto di Luigi Fossati; a Cernusco sul Naviglio presso la cascina Fornace; a Brugherio presso le cascine Modesta, Baraggia, Sant’Ambrogio, Moia, Increa e Pobbia. I gruppi partigiani d’ispirazione cattolica si riunivano solitamente presso gli Oratori, gli Istituti religiosi o presso l’abitazione di sacerdoti antifascisti, quali ad esempio don Secondo Marelli a Cernusco sul Naviglio e don Luigi Carcano a Vimodrone. Mentre l’Italia veniva occupata dalle divisioni tedesche e il fascismo rinasceva con la Repubblica Sociale Italiana (RSI), i gruppi partigiani si moltiplicavano e si rafforzavano. Iniziava, così, un periodo di lotta durissima, nel quale l’aspetto più drammatico era la lotta armata fra gli italiani, fra resistenti e coloro che avevano accettato di collaborare con il governo fascista di Salò. La lotta si sviluppava in una lunga serie di violenze, di atrocità e di sofferenze. I particolari caratteri della guerra partigiana erano il colpo di mano, il sabotaggio, lo scontro rapido, che esigevano grande agilità dei raggruppamenti. Sulla montagna operavano le brigate (composte al massimo di trecento uomini), che si raccoglievano poi in divisioni. Nella pianura e nelle città operavano le SAP (Squadre di Azione Patriottica) e i GAP (Gruppi di Azione Patriottica). Le SAP agivano soprattutto per fare propaganda antifascista (affissione di manifestini, volantinaggi, scritte murali, comizi volanti), per procurarsi armi, per com-
Carl venn ribal Erco
piere sabotaggi alle strutture produttive e alle infrastrutture, per tendere imboscate alle autocolonne nemiche. I GAP erano gruppi di ardimentosi, composti ognuno di tre-quattro uomini che vivevano isolati in una clandestinità assoluta. Eliminavano capi fascisti e ufficiali tedeschi e sabotavano i gangli vitali della macchina da guerra hitleriana.
I primi gruppi partigiani della Martesana, nell’autunno-inverno del 1943-44, si limitarono all’organizzazione e a interventi di propaganda e recupero armi. Un po’ ovunque nei principali centri della nostra Zona vi furono notturne scritte murali e affissioni di manifestini (prevalentemente nei pressi dei negozi e delle chiese), diffusione di stampa clandestina, recupero di armi e munizioni in depositi abbandonati dai soldati italiani all’indomani dell’8 settembre. A Brugherio, ad esempio, un gruppo di giovani che era riuscito a impadronirsi di numerose armi abbandonate dai soldati (custodite nello scantinato delle scuole Sciviero) veniva individuato: Norge Pirola ed Egisto Beretta venivano arrestati, seviziati e incarcerati; Nando Mandelli, Osvaldo Manperti, Ermenegildo Garanzini, Aldo Meani e Giuseppe Radaelli si rifugiavano sul Monte San Martino, in Valcuvia, con il gruppo partigiano “Cinque giornate di Milano”, al comando del colonnello Carlo Croce. Altri giovani del paese si diedero alla macchia. A Cologno Monzese, i partigiani, con incursioni a piccoli gruppi, si recavano allo scalo ferroviario di Segrate per svaligiare i carri merci diretti in Germania. La rappresaglia nei loro confronti scattò in seguito alla delazione di una spia. La mattina del 5 gennaio 1944 tutte le strade di Cologno furono presidiate da fascisti armati. Alcuni giovani vennero arrestati; Edoardo Sartori, che non aveva sentito l’intimazione dell’«alt!», venne falciato da una raffica di mitra, e una donna, Carolina Mosca, che si stava recando dal panettiere, fu incidentalmente colpita da un proiettile vagante. A Vimercate, alcuni giovani ex militari, muniti di una macchina per scrivere, cominciarono a redigere manifestini che affiggevano di notte, e a recuperare armi per difendersi dalle ronde fasciste che, inferocite, cercavano i responsabili di quelle affissioni. Il gruppo era costituito da Carlo Levati, Aldo Motta, Pierino Colombo, Luigi Ronchi, Emilio Cereda, Renato Pellegatta, Mario ed Erminio Carzaniga. All’inizio del 1944, il gruppo venne potenziato con l’inserimento di Iginio Rota “Acciaio”, uomo d’azione che faceva parte della rete organizzativa del PCI. Così ha raccontato Carlo Levati, unico sopravvissuto di quel gruppo: «Dopo l’8 settembre del 1943 ho fatto il partigiano. Io e alcuni amici di Vimercate, guidati da Iginio Rota, riuscimmo a gettare le basi del primo distaccamento della 103ᵃ brigata Garibaldi. La mia prima azione di partigiano fu un recupero di armi
La meglio gioventù di Vimercate. In piedi da sinistra: Emilio Diligenti, Aldo Diligenti, Carlo Levati, Luigi Ronchi, Aldo Motta, Emilio Cereda; seduti: Pierino Colombo, Iginio Rota, Renato Pellegatta
con una botte del pozzo nero dei contadini. Da Vimercate partimmo per recuperare queste armi dirigendoci a Sant’Albino, vicino a Monza. Eravamo un gruppo di undici persone e riuscimmo a recuperare un bel po’ di armi. Di notte affiggevamo volantini davanti ai negozi dei fornai, vicino alle chiese, in tutti i punti dei paesi dove la gente poteva leggerli il mattino presto. In quei volantini si informava che noi partigiani ci eravamo organizzati per condurre una lotta armata contro l’invasore tedesco e contro il nuovo fascismo della Repubblica Sociale di Salò».
II - I protagonisti dell’organizzazione dei gruppi partigiani
Nell’opera di organizzazione dei gruppi partigiani della Martesana, un ruolo di primo piano l’ebbero Eugenio Mascetti e Carlo Merlini per le brigate Garibaldi, Mario Pirola e Felice Frigerio per le brigate del Popolo, Alfredo Rurale e, dal gennaio 1945, Vittorio Galeone “Ivo” per le brigate Matteotti. Eugenio Mascetti, operaio di Sesto San Giovanni, così ha testimoniato: «Nel marzo del 1944 dovetti abbandonare il posto di lavoro alla Breda perché ricercato; così mi trasferii a Cavenago Brianza dove esisteva un gruppo di compagni attivi e preparati, tra i quali ricordo particolarmente Cereda (Marin), Erba e Felice. Qui restai in attesa di ordini del partito che, nel mese di aprile, mi affidò il compito di organizzare e inquadrare i gruppi militari della Zona. I primi contatti li ebbi proprio a Cavenago, col gruppo già esistente, dando vita al primo gruppo SAP della Brianza. In seguito allacciai i contatti coi paesi vicini: Cernusco sul Naviglio, Brugherio, Concorezzo, Caponago, Cambiago, Vimercate, Trezzo e Monza. Riuscivo a dare consistenza, organizzazione ed armi a diversi gruppi SAP»
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Carlo Merlini “Bruno”, dopo l’8 settembre 1943, venne mandato dal PCI a organizzare i partigiani garibaldini di Gorgonzola e circondario. Operaio alla Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, Merlini abitava a Milano in viale Monza 102, un caseggiato popolare dove abitavano comunisti come Aldo Lambrocchi (commissario politico del 2° battaglione della brigata Garibaldi di Spagna, caduto sul fronte dell’Ebro nel settembre del 1938), Ravazzoli (già segretario della federazione comunista milanese), Giulio Abbiati. Al- l’indomani dell’8 settembre, Merlini si rivolse proprio a quest’ultimo per avere indicazioni su come raggiungere le formazioni partigiane di montagna; l’Abbiati gli propose, invece, di recarsi a Gorgonzola a organizzare squadre di sappisti. Così lo mise in contatto con il responsabile del PCI dell’Est milanese che, a sua volta, gli fece conoscere Giuseppe Meroni di Sant’Agata di Cassina de’ Pecchi. Merlini organizzò la squadra sappista di Gorgonzola e tenne collegamenti soprattutto con i distaccamenti di Brugherio, Inzago, Cassano d’Adda. Mario Pirola, di Cernusco sul Naviglio, fu tra i primi cattolici della Martesana a organizzare gruppi partigiani. Commissario politico della 26ᵃ brigata del Popolo, allacciò contatti con molti giovani democristiani della nostra Zona, da Gorgonzola a Vimercate a Milano, dove le riunioni avvenivano nello studio dell’architetto democristiano Ugo Zanchetta. Valido collaboratore di Mario Pirola era il concittadino Felice Frigerio, responsabile militare della 26ᵃ brigata. Soprattutto a Pirola e a Frigerio era affidato il trasporto da Milano a Cernusco di volantini e manifesti, che poi venivano fatti pervenire agli altri gruppi partigiani della Martesana. Mario Pirola fu poi sindaco di Cernusco sul Naviglio dal 1946 al 1953. Vittorio Galeone “Ivo”. L’11ᵃ brigata Matteotti (che operava in alcuni comuni della Martesana), dopo essere stata coordinata da Erasmo Tosi “Dino” e dal cernuschese Alfredo Rurale, ricevette nuovo impulso, dal gennaio 1945, con l’arrivo di Vittorio Galeone. Galeone, nato in provincia di Lecce, era stato gappista, a Torino, con Giovanni Pesce; poi era entrato a far parte della 77ᵃ brigata garibaldina “Titala”, nel Canavese. In seguito, preso contatto con i vertici del Comando delle brigate Matteotti, fu inviato a Milano per ridare consistenza ad alcune brigate che erano state pesantemente colpite. Giunto nel capoluogo lombardo a fine dicembre 1944, riorganizzò e intensificò l’attività dell’11ᵃ brigata. Oltre al cernuschese Alfredo Rurale, valida collaboratrice di Vittorio Galeone nel lavoro organizzativo fu Ester Ticozzi di Brugherio (casa Ticozzi era diventata un centro di raccolta della brigata), la quale teneva i collegamenti anche con Milano. Da segnalare anche per l’apporto dato alla formazione dei primi gruppi partigiani e al loro comando, le figure dei garibaldini trezzesi Giuseppe Carcassola e Alfredo Cortiana e del vapriese Mario Bornaghi “Francesco”, comandante del VI distaccamento della 103ᵃ brigata “Vincenzo Gabellini”. 1 - ConTinua
Il ricordo lasciato da Graziani in Etiopia: una lunga serie di stragi efferate
Quel mausoleo alla crudeltà
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rizzare ogni suo agire al bene per la Patria attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato». «Inflessibile rigore morale»? «Rodolfo Graziani tornò dall’Etiopia con centinaia di casse rubate e rapinate in giro per le chiese etiopi», racconta Del Boca. «Grazie a lui il più grande serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope è in Italia». Certo, non fu il solo ad avere questo disprezzo per quella antichissima Chiesa cristiana fondata da San Frumenzio intorno al 350 d.C. Basti ricordare le parole, che i cattolici rileggono con imbarazzo, con cui il cardinale di Milano Ildefonso Schuster inaugurò il 26 febbraio 1937 il corso di mistica fascista una settimana dopo la spaventosa ecatombe di Addis Abeba: «Le legioni italiane rivendicano l’Etiopia alla civiltà e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica». Fu lui, l’«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti. E fu ancora lui a scatenare nel ‘37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente». I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il
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caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano». Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda, che secondo gli studiosi Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik autori de La repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito. Lui, il macellaio, quei problemi non li aveva: «Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente». Di più, se ne vantò telegrafando al generale Alessandro Pirzio Biroli: «Preti e monaci adesso filano che è una bellezza». C’è chi dirà che eseguiva degli ordini. Che fu Mussolini il 27 ottobre 1935 a dirgli di usare il gas. Leggiamo come Hailé Selassié raccontò gli effetti di quei gas: si trattava di «strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini». Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull’iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell’imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un’interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l’assenza d’una reazione da parte dell’Italia. Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant’Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.
Gian Antonio Stella
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Oskar, il go inseguito d
“OSSI” ROHR FU IL PRIMO PROFESSIONISTA DE
La partita della morte ➔ SEGUE DA PAGINA 1
Sullo sfondo della città occupata dai nazisti si staglia una storia talmente iconica da essere divenuta leggenda e distorta in più versioni: dalla propaganda sovietica, da sceneggiatori cinematografici e autori teatrali, dal passaparola e, magari, dagli stessi protagonisti sopravvissuti. La versione più affidabile e meglio documentata è quella di Andy Dougan, autore nel 2001 del libro Dynamo: Defending the Honour of Kiev. I nazisti organizzarono un campionato di calcio cittadino a fini propagandistici per rafforzare il proprio controllo sulla popolazione: Iosif Kordik, un imprenditore che era riuscito a farsi riconoscere lo status privilegiato di Volksdeutsche millantando cittadinanza austriaca, era riuscito ad assumere nella sua fabbrica di pane diversi ex giocatori della Dinamo e del Lokomotiv, creando una vera e propria squadra con le migliori stelle del calcio di Kiev (nella foto in alto). Organizzatore e capitano carismatico della squadra era il portiere Mykola Trusevič e nell’FC Start – questo il nome della formazione – figurava anche l’ala Makar Hončarenko, che nel 1992 raccontò a una radio la sua storia, narrando di aver conservato la propria divisa e i propri scarpini all’arrivo dei nazisti: nazismo o comunismo, era sicuro che avrebbe avuto l’occasione per giocare a calcio. La Start partecipò al campionato infilando, grazie al valore dei suoi giocatori e nonostante la forma precaria dovuta alle ristrettezze della guerra, una lista ininterrotta di successi: ben presto diventò un talismano della città, ispirando la resistenza al regime nazista. Il destino del FC Start si scontrò contro il Flakelf, una squadra militare della Wehrmacht mandata a Kiev con lo scopo di piegarla. Il Flakelf perse 5-1 la partita del 6 agosto 1942, nei giorni in cui Stalin spronava l’Unione Sovietica a non fare nemmeno un passo indietro. Tre giorni dopo la rivincita, ammantata nella leggenda, fu vinta di nuovo dalla Start per 5-3, nonostante le intimidazioni ricevute dai nazisti e il rifiuto di fare il saluto nazista prima dell’incontro. Il risultato, secondo quanto racconta Dougan, scatenò la repressione: i giocatori vennero arrestati nel giro di pochi giorni con l’accusa di far parte dell’NKVD (il Ministero dell’Interno Sovietico), da cui effettivamente dipendeva la Dinamo. Mykola Korotkich, a differenza dei suoi compagni, non era un dipendente del ministero dell’Interno sovietico solo nominalmente: riserva della Dinamo negli anni ’30, era anche un ufficiale in servizio dell’NKVD. A lui furono riservate le torture più atroci della Gestapo, venti giorni ai quali non sopravvisse. Gli altri giocatori furono deportati nel campo di concentramento di Syrec. Tre di loro furono fucilati, sempre secondo quanto racconta Dougan, la mattina del 24 febbraio 1943. Tra di loro c’era il portiere Trusevič, morto nella sua divisa da gioco nera e rossa, unico indumento caldo in suo possesso. Damiano Benzoni eastjournal.net
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da Alias - il manifesto del 14 aprile 2012
LORENZO LONGHI
a sua è una di quelle storie che, a tratti, assume i connotati della leggenda, vuoi perché le informazioni al riguardo sono frammentarie, vuoi perché in fondo per entrare nel mito serve anche qualcosa che sia più verosimile che vero. Proprio per questo, allora, la vicenda di Oskar Rohr è una di quelle che merita di essere raccontate: una storia, quella del primo professionista del calcio tedesco, fatta di fughe, combattimenti in campo e in trincea, galera, cittadinanze negate e caterve di gol. Il tutto in bilico fra due nazioni, Germania e Francia, nel periodo più buio del Novecento, quello del nazismo e della Seconda guerra mondiale. Oskar “Ossi” Rohr è morto nel 1988: se fosse ancora vivo, tra pochi giorni avrebbe compiuto cento anni. Neckarau è un sobborgo di Mannheim, città che aveva già dato i natali a Constanze Weber, la moglie di Mozart, e a Sepp Herberger, che entrerà nell’immaginario collettivo calcistico dopo il ritiro di Rohr quando, come ct della Germania Ovest, vincerà il Mondiale del 1954 nella celeberrima finale del “Miracolo di Berna”. Oskar nacque in quella cittadina, nel Sud Ovest della Germania, il 24 aprile 1912. Velocissimo e piuttosto minuto (non superava il metro e settanta), a 16 anni faceva già parte della formazione titolare del Vfr Mannheim, il club di casa che lo aveva messo in squadra dopo avergli visto fare faville con i ragazzini del Victoria 1912. Logico che fosse così: i genitori, famiglia tutto sommato benestante in quel periodo, per il natale del suo decimo compleanno gli avevano regalato un completo da gioco, quel gioco che ai tempi cominciava a spopolare in tutta Europa, il fussball come si chiamava da quelle parti. È forte, Ossi, più di tutti e, anche se in Germania non esiste ancora il professionismo, a chiamarlo nel 1930 è niente meno che il Bayern Monaco. Non era ancora, il club bavarese, la potenza che è oggi, ma stava gettando le basi per diventarlo. Non aveva ancora vinto un titolo il Bayern (quelli erano finiti sino a quel punto a Norimberga, Lipsia, Berlino con Union92, Viktoria e Hertha; Kiel, Furth, Friburgo e Karlsruhe), ma il suo momento stava per arrivare.
Rohr regalò al Bayern Monaco il primo scudetto nel 1932, quindi emigrò in Francia facendo arrabbiare Hitler. Si arruolò nella Legione Straniera, conobbe la prigione e il lager e finì a combattere sul fronte russo
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goleador o dai nazisti
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NISTA DEL CALCIO TEDESCO. UN PICCOLO CAMPIONE CHE SOPRAVVISSE AI LAGER
Piccolo bomber. La formazione del Bayern campione nel 1932. Sotto il titolo, il rigore segnato da Oskar Rohr nella finale del campionato tedesco di quell’anno e, in basso, “Ossi” in una figurina degli anni trenta
ANCHE ALCUNI NOTI SPORTIVI COMBATTERONO DA PARTIGIANI
Neri, Vallone, Martini: gli atleti che fecero la Resistenza
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Arrivò nel 1932, e il ventenne Rohr fu il protagonista assoluto della finale con l’Eintracht Francoforte: la partita finì 2-0, Ossi segnò la rete del vantaggio su rigore (a raddoppiare fu Franz Krumm) e il Bayern divenne per la prima volta campione della Repubblica di Weimar. Fu “la madre di tutti i trionfi”, per i bavaresi, e il giovane Rohr ne fu il padre. Venne chiamato in nazionale (il suo concittadino Herberger era allora il vice del ct Otto Nerz, altro nativo di Mannheim), dove giocò 4 partite andando a segno 5 volte, segnando anche un gol contro l’ltalia a Bologna (nel gennaio 1933, vinsero 3-1 gli azzurri) e una doppietta contro la Francia due mesi dopo a Berlino. Ma l’inquieto Oskar non reggeva il clima politico di quella Germania e, soprattutto, aveva capito che quelli come lui avrebbero potuto vivere di calcio, guadagnare con il pallone. Riparò in Svizzera per giocare - e vincere una coppa di lega - nel Grasshoppers, ma di professionismo neanche a parlarne da quelle parti, così ecco nel 1934 il passaggio clandestino di frontiera. Ossi entra in Alsazia e si offre al Racing Club di Strasburgo. In Francia si può vivere di calcio, anche se magari non si è del tutto regolari: Rohr è famoso, è un bomber di fama internazionale, firma un contratto e riceve anche una Citroën. Oggi li chiamerebbero benefit. In patria, però, cominciano a prenderlo di mira. Per Der Fussball diventa “il gladiatore che vende se stesso all’estero”, un mercenario, a loro dire, per niente amato dalla Ger-
da sport.sky.it del 25 aprile 2012
chierarsi, per un campione dello sport, non è conveniente adesso; figuratevi allora. anche in chi, tra i miti dello sport, ha o avrebbe qualcosa da dire spesso prevale la scelta del quieto vivere. e così, anche sul finire della Seconda Guerra mondiale, era piuttosto raro imbattersi in sportivi di fama che avessero deciso di andare sui monti: in tanti hanno aspettato che il lavoro sporco lo facessero altri. anche per questo il ricordo di alcuni protagonisti dello sport, ma soprattutto di calcio e ciclismo, popolarissimi già allora, che parteciparono alla resistenza va perpetuato. Quelli come Alfredo Martini, che combatté col gruppo del comandante aligi, Gino Bartali che “trasportò per la Toscana e l’ umbria documenti e fotografie essenziali per falsificare lasciapassare da consegnare agli ebrei nascosti” (citazione dal libro La bicicletta nella resistenza), l’ex calciatore di Vicenza, Fiorentina e Spezia Armando Frigo, conosciuto nella Brigata Stella come “Spivak”, l’aretino Andrea
mania di Hitler. Poi è vero che, a Strasburgo, Oskar diventa ben presto un idolo: quella è la sua nuova casa, lì lo difendono e lui ripaga società e tifosi con 117 reti in cinque anni. Non vincerà alcun titolo di squadra, pur essendo capocannoniere della Ligue 1 nel 1937, ma an-
Guffanti, il portiere della Sarzanese Miro Luperi, Michele Moretti commissario politico della Brigata Luigi Chierici ed ex giocatore di esperia e Chiasso. Poi Vittorio Staccione (Staccione i), 19 presenze nel Torino anni ‘20, che morì a mauthausen, e Raf Vallone, che con il Toro vinse la Coppa italia nel 1936 e, nelle Langhe, fu nella resistenza con davide Lajolo, il partigiano “ulisse”. Poi c’è Bruno Neri. nella foto d’antan che accompagna questo articolo, è l’unico dei calciatori a non salutare a braccio teso i gerarchi fascisti nel giorno dell’inaugurazione dello stadio di Firenze. era il 1931, neri era un giocatore della Fiorentina. Vestì anche le maglie di Lucchese, Torino e della nazionale, prima di entrare in una delle formazioni combattenti del Cln sino a diventare vicecomandante del Battaglione ravenna: divenne il partigiano Berni. morì sull’appennino, in uno scontro coi nazisti, il 10 luglio 1944. Su di lui sono stati scritti libri e prodotti spettacoli teatrali. e poi c’è quella foto...
L. L.
cora oggi è lui il miglior marcatore nella storia dello Strasburgo. Nel 1939 scoppia la guerra, il 19 giugno del 1940 la Wermacht occupa l’Alsazia-Lorena e Oskar, che aveva già CONTINUA A PAGINA 14 ➔
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➔ SEGUE DA PAGINA 13 previsto tutto, era già fuggito a Sete, non lontano da Montpellier, zona ancora non occupata. Per il Reich è un disertore e viene dichiarato “Persona non grata”, uno dei motivi per i quali sceglie di arruolarsi nella Legione Straniera. Proprio così: dalle battaglie in campo a quelle reali. Non è chiaro per quanto tempo abbia servito la Legione, ma a certificarne la sua presenza nel 1940 fu Football il periodico francese che fu l’antenato dell’odierno France Football. E sull’antinazismo di Rohr, a tutti gli effetti, non vi sono dubbi. Così come non vi sono dubbi sulla sua cattura, avvenuta nel novembre del 1942 a Marsiglia da parte della polizia francese: “propaganda anti-patriottica o comunista” l’accusa, tre mesi di galera la sentenza da scontarsi proprio nella “sua” Strasburgo, lui che già si era visto negare la cittadinanza francese pochi mesi prima. Dopo la prigionia, Ossi finì nelle mani della Gestapo che lo internò nel campo di concentramento di Karlsruhe-Kieslau, per il più drammatico dei ritorni in Germania. Vi rimase due mesi. Lì, però, Rohr in qualche modo si “comprò” la libertà facendosi spedire, come soldato del Reich, sul fronte russo. Per le sue idee politiche, un destino beffardo. Ferito di guerra, Ossi dovette ringraziare la fama ottenuta con il calcio per il suo riscatto dalla trincea. Prima della fine della guerra, il ritorno in Germania gli venne garantito da un pilota dell’aviazione tedesca, che lo aveva riconosciuto proprio grazie ai suoi trascorsi nel Bayern, quelli che lo avevano fatto diventare una leggenda del fussball. E lì, nella Germania non più afflitta dal Reich, l’ormai trentatreenne Rohr tornò a giocare nel suo primo club, il Vfr, quindi ad Augsburg e Pirmasens, prima di tornare a casa e chiudere la carriera nel 1949 nel Waldhof Mannheim e proseguire la sua esistenza, questa volta più tranquilla, come impiegato in un ente pubblico, l’ufficio giudiziario della sua città natale. Della sua storia resta un’intervista del 1950 a un giornale tedesco, riportata anche da Sport Est di Strasburgo, nella quale sono tante le contraddizioni rispetto alla vicenda nota al pubblico. Ma era, appunto, il 1950, troppo presto per dare fondo alle verità di una vita tutt’altro che banale. Ma resta anche, e soprattutto, il nipote Gernot a raccontarla. Come è stata descritta in queste righe. Gernot Rohr, peraltro, è un nome che i calciofili conoscono: ex calciatore di Waldhof Mannheim, Kickers Offenbach e Bordeaux (oltre 300 presenze con i girondini), ha allenato a Salisburgo, Ajaccio e Nantes prima di avventurarsi, nel 2010 a 57 anni, in Africa come commissario tecnico del Gabon, con il quale tre mesi fa ha raggiunto i quarti di finale della Coppa d’Africa, venendo eliminato senza mai una sconfitta, ma solamente ai calci di rigore contro il Mali. Meglio di lui, con la nazionale gabonese, non aveva mai fatto nessuno. Buon sangue calcistico, del resto, non mente.. Lorenzo Longhi
LA SQUADRA “ALTERNATIVA” DI AMBURGO FA PROSELITI
Che Guevara e gol antifascisti, il Sankt Pauli sbarca in Catalogna da il manifesto del 5 gennaio 2013
di
NATXO PARRA ARNAIZ*
a
mburgo, Germania. Fine settimana. La palla percorre un verde intenso nel centro di uno stadio macchiato di marrone e bianco. e rosso. Cori che rintronano, assordanti. onde di tessuti che fluttuano, ancheggiando al ritmo di Hells Bells degli aC/dC. Gol che imperversano sulle note dei Blur, Song 2. e il Che presente, siempre. anche l’antifaschistische aktion, in tutti gli angoli degli spalti. Sulle bandiere, sulle sciarpe, nel cuore. È il Sankt Pauli. Catalogna, il sud. immagini proiettate in diretta su un telo bianco. in un ateneo popolare, rivestito di rosso e nero. Pareti che trasudano storia, di movimenti popolari, di movimento operaio. un luogo di intensità, impegno, militanza. Ci sono anche il tempo libero e lo svago. antifascismo e gol celebrati a ritmo di ska. un gruppo di persone che fanno il tifo, sciarpa in mano. È il Sankt Pauli FanClub Catalunya. e il legame? doppio. Sportivo e politico. due mondi che alcuni, in modo formale, solo formale, pretendono separare. il tempo libero e la gestione. il divertimento e la serietà. rifeudalizzazione dello spazio pubblico, nelle parole di Habermas. e nonostante questo, alcuni si ostinano a mostrare l’altra faccia, l’altro rovescio della realtà. Il pallone e la Politica devono sempre essere estranei lo sport e la Politica? Quella con P maiuscola, non la real Politik, non il mero scontro elettorale. Fu questa la radice, la causa per cui un gruppo catalano decise di costituire, a più di 1500 chilometri di distanza, un fan club di una squadra tedesca di serie B. non certo i successi sportivi. È dignità cosciente. non è semplice svago per sfuggire all’apatia. È la visione del calcio come una attività umana relazionale, iscritta nella vita sociale, radicata nella comunità. e, insieme a questo, la stessa definizione della squadra, il FC Sankt Pauli, nei suoi statuti, come antifascista, antirazzista e antisessista. un esempio, forse unico, nella pratica professionale. Questa è la causa dell’ammirazione, dell’unione tra due realtà territoriali: la concezione concreta dello sport. non significa la sua politicizzazione, ma la sua nozione come spazio che non è isolato dal contesto sociale in cui si iscrive. il capitalismo, nella sua continuità storica, ha cooptato la totalità delle sfere
della vita, imponendosi anche in maniera inesorabile al tempo libero, sotto la sua idea di business. il calcio e i suoi partecipanti si creano come oggetti di consumo di massa all’interno di una industria che, cercando la massimizzazione dei suoi profitti, finisce per occupare i consigli di amministrazione delle diverse squadre. L’uniformizzazione si impone e si intravede in tutto il territorio, solo distinta dal colore delle magliette. e in questo manto di sabbia, in bianco e nero, emergono esperienze che raccolgono la memoria del passato e la visione di un futuro diverso. La dignità di un’altra idea, di un’opzione differente. una alternativa all’unicità imposta dalle élite e diffusa dai mezzi di comunicazione di massa. una aspettativa materializzata nel quartiere portuale e rosso di Sankt Pauli, ad amburgo, con spigoli che convergono nella realtà sociale.
Un modello di ribellione Viene raffigurata da un esempio di empowerment del tifo, che adotta la bandiera pirata, la quale finisce per diventare quella ufficiosa. È un modello di ribellione, di traslazione dall’asset alle persone. La squadra con il maggior numero di tifosi. Quella in cui le tifose, perdendo una fonte di finanziamento, riuscirono a far ritirare dallo stadio una pubblicità di una rivista destinata al genere maschile. È la realizzazione di un’opzione contraria alla sottomissione e al patriarcato. La prima squadra che proibisce ufficialmente nel suo stadio qualsiasi simbologia fascista. Pirati che lottano per la trasformazione e la presa di coscienza sociale. È la forza della comunità. Quella per cui il tifo la riuscì a salvare dalla bancarotta attraverso la creazione e la vendita di magliette, e mediante una campagna capeggiata dai bar del quartiere: per ogni birra consumata, mezzo euro di salvezza. una squadra in cui le principali vittorie sono le campagne per stabilire distributori di acqua potabile nelle scuole di diversi paesi latinoamericani. Solidarietà, sport come cooperazione, non come rivalità. il legame fra il nord e il sud. amburgo e la Catalogna. una boccata di aria fresca nell’oppressione. il rifiuto del calcio come business. una visione opposta dello sport e del tempo libero. Cooperazione e solidarietà. Posizionamento. manifestazione di alternative sociali sugli spalti. resistenza. È il Sankt Pauli. * avvocato, membro del FanClub St. Pauli Catalunya
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Auschwitz
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SOPRAVVISSUTO AL LAGER (COL N° 182727), CI ERA TORNATO PIÙ VOLTE PER RACCONTARLO
fino alla liberazione da il manifesto del 6 ottobre 2012
Shlomo Venezia, nato il 29 dicembre 1923 a Salonicco, in Grecia, fu uno dei sopravvissuti al campo di Auschwitz e Birkenau. Autore del libro SonderKommando 182727, tradotto in 24 lingue, è morto a Roma all’età di 88 anni, il 30 settembre. Per tutta la vita non ha mai smesso di testimoniare la sua storia e la sua vita nei campi di concentramento nazisti. Questo è il racconto ai ragazzi di una scuola romana, in visita ad Auschwitz, dei suoi ultimi giorni di prigionia.
E
di
SHLOMO VENEZIA
ra il 17 gennaio del ‘45, quando vedo un gruppo immenso, saranno state almeno diecimila persone, e uno mi dice in tedesco che stanno evacuando il campo. Il tedesco ci ha detto di non uscire dalla baracca e il nostro pensiero era che se rimanevamo nella baracca ci avrebbero preso, eravamo rimasti in pochissimi, e ci avrebbero ucciso. Allora quando il tedesco si è allontanato siamo usciti dalla baracca e ci siamo mischiati insieme a quelli che stavano uscendo dal campo e da lì siamo arrivati qui ad Auschwitz. Erano già pronti per evacuare anche loro il campo e infatti la mattina dopo verso le cinque ci siamo riuniti tutti assieme e abbiamo cominciato a fare la famosa marcia della morte. Marcia della morte per quale motivo? Perché le persone che non avevano la forza di seguire il gruppo rimanevano indietro e non c’era verso di aiutarli, cascavano per terra, un colpo alla nuca e li buttavano come le bestie ai lati della strada. Si dormiva dentro alle aie dei contadini e sempre con le sentinelle attorno, e così abbiamo fatto dodici o quattordici giorni, non ricordo con precisione, a piedi, poi con quei carri aperti dove portano il carbone. C’erano già i russi e gli americani a bombardare le linee ferroviarie e allora di nuovo ci facevano scendere e cam-
minare. Una sera ci hanno messi da un contadino, in un campo grande, come gli animali, ma faceva freddo e immaginate a gennaio con quella robettina che avevamo addosso. Anzi, noi avevamo delle cose un po’ migliori perché le trovavamo in mezzo alla roba di quelle persone che poi venivano uccise, però eri sempre nel freddo. E allora quello che era stanco morto si addormentava per terra ed un altro vicino a lui, sopra di lui e si facevano delle cataste di persone per tenersi un po’ più caldi. Quello che stava sotto la mattina era già morto, moriva ancora prima di mettersi là.
La mattina ci siamo svegliati e abbiamo cominciato a camminare e pensavamo che ad un certo momento ci avrebbero lasciati soli – «andate dove volete» – perché non ci potevano più uccidere, avevano paura di lasciare i segni dei morti dei civili, non potevano più ammazzare come facevano prima. Tutti camminavano sui binari del treno, tutti quanti camminavamo con la testa bassa e guardavamo se trovavamo qualche cosa, qualsiasi cosa; io ho trovato un pezzettino così, lungo, l’ho pulito era sporco, duro, era un pezzetto di osso però faceva bene anche quello, cercare di masticare, rosicchiare in qualche maniera. Siamo andati avanti. Poi ci mettono su delle chiatte, sul Danubio, stavamo già fuori dalla Polonia e per la prima volta ci hanno dato un pasto caldo, un po’ di brodaglia. Ad un certo momento attraversiamo un ponte quando vedo la scritta «Linz», e allora ho capito che stavamo in Austria. Da Linz ancora la marcia della morte che non finiva più, e ci hanno portato nel campo di Mauthausen. Avevamo paura di scendere perché anche lì c’erano le docce, il crematorio, e avevamo paura di andare a fare la doccia. Quando, arrivata la sera, hanno chiuso le porte e non si poteva più entrare, abbiamo fatto la nottata fuori e la mattina siamo stati costretti ad entrare dentro. E difatti ci hanno fatto la stessa cosa che ci avevano fatto a Birkenau, la rasatura completa del corpo, e invece del numero tatuato ci
Shlomo Venezia durante una delle sue visite al campo di concentramento di Auschwitz
hanno dato una piastrina di metallo con un piccolo filo di ferro da mettere al braccio. Il mio numero è 115554. E mentre stavamo là, nudo e bagnato com’eri, dovevi salire sopra all’aperto in questo vialone con la neve fuori. Ci hanno portati in una baracca che sta alla fine del campo e in questa baracca non c’era niente, vuota. L’unica cosa che c’era di buono è che tutti i vetri erano sani, per terra c’era linoleum, e lì abbiamo dormito come le sardine messi di fianco perché non c’era posto per tutti, e così è passata la notte. Poi sono stato mandato in un altro posto che si chiama Merche, era una ditta privata, ti facevano lavorare dentro alle montagne per fare tunnel. Io scavavo, dentro, con questi martelli pneumatici, e lì stavamo discretamente, stavamo caldi, dove c’è terra è sempre caldo in profondità. Ci portavano da mangiare, era pochissimo ma c’era tutti i giorni e questo ci consolava. Dopo un po’ di tempo, ci hanno spostato da questo campo e ci hanno portato all’ultimo, sempre in Austria. Anche qui facevo dei tunnel ma la differenza era che questa montagna era tutta di roccia e dove c’è roccia c’è sempre acqua e si entrava dentro e mettevamo anche la dinamite per far esplodere la roccia e poi c’erano dei piccoli binari con le famose vagonette piccole; scaricare quel peso, quasi non era niente in confronto al passato di BirkeCONTINUA A PAGINA 17 ➔
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Un male senza banalità
il fiore del partigiano
SOLO IN TEMPI RECENTI IL PENSIERO EUROPEO HA ASSUNTO LA SHOAH NELLA SUA
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di
da il manifesto del 27 gennaio 2012
GIANPASQUALE SANTOMASSIMO
er quanto strano possa sembrarci oggi, è relativamente recente la centralità della memoria dello sterminio del popolo ebraico nella coscienza occidentale. Non che non si sapesse cosa era accaduto: ne parlavano i nostri libri di scuola, ma era presentata solo come una grande tragedia fra gli innumerevoli lutti della seconda guerra mondiale. È stato necessario molto tempo perché si elaborassero in tutte le loro implicazioni l’enormità, la specificità e l’unicità del fenomeno: e anche da parte delle vittime è spesso dovuto passare il tempo necessario perché si potesse trovare la forza di raccontare ciò che appariva indicibile. Commemorazione da un lato, istituzionalizzata nella giornata della memoria del 27 gennaio, e ricerca e riflessione dall’altro sembrano procedere spesso su binari paralleli che raramente si incontrano. Una felice eccezione è stata rappresentata quest’anno in Italia dal convegno fiorentino su Shoah, modernità e male politico che ha teso a fare il punto su acquisizioni e dibattiti più recenti della storiografia internazionale come della riflessione filosofica e sociologica sulla Shoah. Le prime caratteristiche che emergono dal complesso dei lavori sono senza dubbio quelle dell’ampliamento e dell’approfondimento della tematica. Ampliamento geografico, in primo luogo: l’apertura degli archivi sovietici consente di includere in maniera documentata territori come quelli della Bielorussia e in parte dell’Ucraina, a pieno titolo inseriti nella fabbrica dello sterminio, come anche del collaborazionismo e delle complicità che ovunque accompagnarono il fenomeno. Viene confermata la partecipazione diretta allo sterminio della Wehrmacht e della polizia, a lungo negata o sottaciuta nell’autorappresentazione tedesca (Browning). Cadono molti luoghi comuni, fortunati e tenaci, come quelli formulati da Hanna Arendt su Eichmann ne La banalità del male: il vertice dello sterminio non era costituito da
grigi burocrati, che si limitavano ad eseguire ordini, ma era formato da personale molto qualificato e competente. Non era la feccia della società, come ci piacerebbe credere, ma una élite di rango anche accademico: antropologi, giuristi, studiosi di scienze sociali, architetti, persone in ogni caso convinte di perseguire una missione che volevano portare fino in fondo (Collotti). Più che opportunismo, era adesione ideologica, che trovava il suo fondamento in un antisemitismo di massa che nel corso della guerra si poneva l’obiettivo di effettuare una trasfusione di sangue nel corpo dell’Europa, cambiando radicalmente la natura del continente. Antigiudaismo di massa Contestualizzare la Shoah è tema arduo ma inevitabile, per non farne celebrazione dai toni quasi religiosi e catartici, e include anche inevitabilmente un elemento di comparazione, largamente usata e forse anche abusata in maniera cervellotica negli ultimi vent’anni. Anche chi, fondatamente, teorizza l’unicità e al tempo stesso l’incomparabilità del fenomeno deve aver preliminarmente compiuto una comparazione che giustifichi il suo convincimento. Le domande di fondo di una contestualizzazione sono quelle riassunte da Browning in questi termini: «Perché gli ebrei? Perché i tedeschi? Perché nel XX secolo?». Alla prima domanda forse è più facile rispondere oggi, perché sono stati ampiamente ripercorsi i sentieri di un antisemitismo e di un antigiudaismo profondamente radicati nell’Europa cristiana (Battini), di intensità diversa nelle singole fasi di questo percorso, e in grado di riaccendersi nei momenti di crisi, in cui la ricerca di un capro espiatorio dei mali della società ritrovava il suo archetipo ideale. Meno banale e ricca di implicazioni nuove è la domanda: perché i tedeschi? Oggi può sembrarci una domanda scontata, avendo alle spalle una lunga elaborazione, che è stata anche in parte riflessione autocritica della parte migliore della società tedesca, sulla formazione storica del “carattere tede-
sco” (Burgio). Ma probabilmente un osservatore della fine dell’Ottocento, chiamato a pronosticare il paese che avrebbe avuto più problemi con la questione ebraica nel secolo successivo, avrebbe indicato nella Francia dell’affaire Dreyfus il luogo più critico, mentre in Germania l’integrazione ebraica appariva in via di definitivo compimento. L’intensità e la rapidità dell’affermazione di un antisemitismo di massa tra le due guerre sono tra i fenomeni più sconvolgenti dell’Europa fra le due guerre, premessa necessaria in Germania della costruzione sociale dello sterminio. Quello che oggi appare indubbio è il coinvolgimento amplissimo e rapido della “società civile” tedesca e delle sue istituzioni portanti. Già nel 1935 sulle toghe nere dei giudici viene applicata un’aquila che regge fra gli artigli una svastica e una spada, e il ritratto di Hitler incombe nelle aule dei tribunali (Schminck-Gustavus). Una adesione così vasta da rendere problematica e sterile la “denazificazione” del secondo dopoguerra. Per la penuria dei giudici, fu istituito il principio per cui ogni giudice non iscritto al partito nazista doveva farsi affiancare da un magistrato compromesso. I risultati furono generalmente assolutori, e anche le condanne vennero in breve annullate da provvedimenti di grazia. «Non possiamo buttare via l’acqua sporca, finché non abbiamo acqua pulita», è la frase molto significativa attribuita al cancelliere Adenauer: un problema che era indubbiamente serio (e non ignoto, peraltro, anche a noi italiani, ove si pensi che il primo presidente effettivo della Corte Costituzionale – dopo la presidenza onorifica e inaugurale di Enrico De Nicola – fu Gaetano Azzariti, che era stato anche l’ultimo presidente del Tribunale della Razza). Né le cose sembrano essere andate molto meglio nella Rdt, al di là della propaganda ufficiale, dove una rapida conversione al nuovo partito unico garantiva spesso assoluzione e continuità di carriera. Il secolo della razza Ma il problema tedesco ha molte altre dimensioni, e contribuisce a porre nuovi in-
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LLA SUA PORTATA STORICA terrogativi proprio l’ultima domanda, quella relativa alla periodizzazione. Non mancano certamente i residui di una retorica sul “secolo assassino” e l’agitarsi del fantasma indistinto del “totalitarismo” onnicomprensivo, la più fortunata tra le molte approssimazioni banalizzanti di Hanna Arendt. È molto stimolante l’emergere di una periodizzazione che pone a cavallo tra Otto e Novecento il processo unificato di un racial century (1850-1945). Quel “secolo della razza” che si dipanò in strettissimo collegamento con imperialismo e colonialismo e che produsse rituali e abituali atrocità, e nel quale per la prima volta l’elemento razziale divenne non accessorio ma fondante di espansione e dominio. Da questo punto di vista, assumono un valore prima ignorato gli stermini coloniali a sfondo razziale compiuti nell’Africa Sud-occidentale tedesca, pratica nella quale, come sappiamo, i tedeschi non furono isolati nel novero delle potenze coloniali. La logica coloniale, come quella imperialistica, è uno dei termini di inquadramento possibili, ma quello che emerge come il vero tratto comune e indispensabile di tutti gli stermini rimasti nella memoria di quello che potremmo definire “secolo lungo”, è soprattutto l’elemento della guerra, incubatrice indispensabile per la costruzione sociale e culturale dei genocidi. Vale per turchi e armeni, come per giapponesi e cinesi, e per tutte le popolazioni decimate nelle guerre coloniali. E da questo punto di vista, va ricordato che tutta l’espansione ad Est fu concepita dalla Germania come guerra di sterminio (Bartov), che i venti milioni di russi uccisi furono dal punto di vista quantitativo l’apice di questa pratica, e che l’estirpazione del popolo ebraico era parte di un progetto di ristrutturazione razziale dell’Europa, e soprattutto di quella orientale, sbocco prestabilito dello spazio vitale che la Germania riservava a sé. Theodor Adorno, a caldo, paragonò il trauma di Auschwitz per l’umanità del XX secolo a quello che era stato il terremoto di Lisbona del 1755 per Voltaire e gli illuministi. Ma in realtà la portata dell’interrogazione prodotta dallo sterminio era molto più ampia di quella che aveva potuto coinvolgere credenti o deisti come i philosophes, perché andava oltre i termini della fede e investiva l’umanità nel suo complesso (Neuman). Da allora la coscienza occidentale non ha smesso di chiedersi come è stato possibile, e, anche, se può essere ancora possibile (Seppilli). Colpisce che in molte relazioni, e soprattutto in quella di Zygmunt Bauman, venga richiamato l’episodio recente di Abu Ghraib nella guerra irachena degli Stati Uniti. Non certo per effettuare una comparazione impossibile o istituire un parallelismo privo di senso. Ma per osservare, come in un esperimento di laboratorio, che in clima di guerra dei tipici ordinary men, ragazze e ragazzi della porta accanto, possano trasformarsi, se dotati di potere illimitato e convinti di portare a termine una missione, in qualcosa che loro stessi avrebbero ritenuto impensabile nella loro vita normale.
Auschwitz, fino alla liberazione
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nau, però la cosa brutta era che quando entravi là dentro uscivi fuori che eri zuppo dalla testa ai piedi. Quando rientravi nella baracca non c’era possibilità di farti asciugare il vestito, levartelo da dosso era impossibile perché come te lo levavi spariva subito, perché quello che te lo rubava il giorno dopo lo commerciava con un pezzo di pane. Sono stato fortunato anche in questo posto, che dopo una decina di giorni di questo massacro gli americani hanno cominciato a bombardare là vicino, bombardando una stanzioncina. E allora i tedeschi ci hanno preso a noi per lavorare in questo posto per ripulire il tutto, e difatti ci portavano con il treno e prima di entrare in stazione si fermava perché era tutto bombardato e scendevamo. Come siamo spuntati fuori abbiamo visto un pezzetto di terreno coltivato a colza. Sapete che cos’è la colza? È una piantina che fa dei fiorellini gialli e con questa colza si fa l’olio, non lo sapevo neanche però pur di mettere qualcosa in bocca abbiamo tagliato l’erba e tutti i giorni si vedeva che a questo campetto spariva un pezzo, allora lì dopo si metteva il tedesco con il fucile e si avvicinava e ti veniva una botta sulla spalla e allora non si poteva fare più niente. Fino a che non è arrivata la fine. Quattro giorni prima della Liberazione non sapevamo niente, vedevamo questi camion militari, ma non si vedeva se erano tedeschi in ritirata o gli americani. Difatti all’appello, quattro giorni prima, il comandante del campo chiama a tutti questi interpreti che c’erano là – eravamo più di venticinque nazionalità di tutti i colori, greci, italiani, tedeschi, cecoslovacchi – e il comandante diceva che tutti dovevamo entrare dentro la galleria perché «stanno arrivando i loro nemici, e loro, i tedeschi, daranno battaglia per la nostra incolumità». Poi ha raccolto tutti i suoi militari e al loro posto sono venuti altri soldati della Wehrmacht e hanno preso posto nelle garitte in attesa degli americani, però le SS sono sparite. Noi aspettavamo sempre il momento giusto che arrivassero gli americani e invece di arrivare dopo sei sette ore sono arrivati dopo quattro giorni. E noi là dentro non sapevamo cosa fare, senza mangiare, abbiamo rastrellato tutta la cucina, le patate. E non era rimasto più niente. Questo arrivo degli americani è successo come nel film di Benigni quando un bambino vede entrare quel carro armato e lì so’ arrivati due carri armati
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degli americani e fatalità vuole che sul primo carro armato c’erano tutti italoamericani, e parlavano siciliano, e pensavano che potevamo capire quello che dicevano; il secondo era di greci americani e quelli parlavano il greco, e io parlavo il greco come l’italiano, e ci dissero di stare tranquilli perché loro volevano dare la caccia ai tedeschi, e questa è stata la nostra consolazione. Però il giorno dopo sono arrivati dei camion con dei viveri, il che è stato un grandissimo sbaglio perché le persone non erano più abituate a mangiare, queste scatolette di carne di maiale oppure altre cose, e c’erano dei ragazzi che non ce la facevano più e come vedevano un qualcosa neanche masticavano, ingoiavano tutto quello che vedevano e non potevano neanche andare di corpo, e si gonfiavano come neanche potete immaginare ed era una mattanza di questi pochi prigionieri che si erano salvati, ma poi sono morti nel giro di pochi giorni. Quando si lavorava nella miniera di carbone, c’è un carbone che si chiama cardifo è come una specie di legno, e dentro c’era un qualcosa di morbido, e la gente lo mangiava, e dopo non potevano più andare di corpo. E voi siete tutti maggiorenni e vi posso dire che queste persone che avevano mangiato questo era tutto bruciato dentro e non c’era nulla da fare. Poi c’era di tutto, c’era il tifo petecchiale e gli americani hanno fatto una pulizia generale, hanno costruito un altro campo con delle tende americane e dentro c’erano anche i lettini per dormire e si faceva la doccia, completamente nudi, loro poi ti davano della roba, e dopo una spruzzata di Ddt, eravamo tutti impolverati, e poi venivi subito visitato così, se eri malato o meno. C’avevano questo qua per fare i raggi x e purtroppo a me hanno scoperto che io stavo male e mi hanno mandato all’ospedaletto e difatti quando so’ arrivato lì dentro a vedere quei lettini con le lenzuola bianche dava pure fastidio a vedere una cosa così pulita. Sono stato circa un mese e poi chi voleva andare doveva dire dove voleva andare. e allora io volevo andare in Italia. Mi hanno portato al Forlanini e lì sono stato tredici mesi, e dopo sono andato a finire a Merano che era più adatto per l’aria e ho fatto quasi sei anni di ospedale. Adesso sto in vita per raccontare ciò che è accaduto e che abbiamo sofferto tutti noi. Molti dicono, «come avete fatto?». Si vede che qualcuno ci spinge ancora ad insistere e tiriamo avanti finché si può… Io vi ringrazio. Shlomo Venezia
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Rosa rosae
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LA BELLEZZA DI OGNI DIALOGO CHE AVVIENE LIBERO, COME UN DONO SENZA PRETESA
O di
da Left del 27 ottobre 2012 la rubrica “La lettera mancante”
FRANCESCA MERLONI
ggi il tema arriva di sorpresa dallo scambio avvenuto nei giorni scorsi con chi ha avuto la grazia di leggere queste righe e poi, di getto, scrivermi. Intanto ringrazio davvero, di cuore. Poi colgo la bellezza di ogni dialogo che avviene libero, come un dono senza pretesa. È ciò che cambia e che conta. Quello che vale e che resta. Quello per cui si vive, veramente. Per cui si scrive. Quello che si attende, senza certezza. E senza ammettere che lo si attende. Dal segreto delle rose di Eliot per la moglie, da quel “giardino di rose che è nostro ed è nostro soltanto” arrivano dedicati e perduti i petali di Dino Campana, le sue rose sgranate per Sibilla: «In un momento sono sfiorite le rose/ i petali caduti/ perché io non potevo/ dimenticare le rose/ le cercavamo insieme/ abbiamo trovato delle rose/ erano le sue rose erano le mie rose/ questo viaggio chiamavamo amore/ col nostro sangue e con le nostre lacrime facevamo le rose/ che brillavano un momento al sole del mattino/ le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi/ le rose che non erano le nostre rose/ le mie rose le sue rose…/ p.s. e così dimenticammo le rose». E così dimentichiamo le rose. Le sfacciate, le segrete, le preziose sorelle. Ma se l’amore è per l’amante e a lui torna soprattutto, se unicamente
nell’attimo d’amore quello che vediamo e non si vede penetra l’essenza, allora è una parola sola la chiave d’accesso ad un mondo. Così Eduard Morike nella versione poetica di Cristina Campo: «Come rapì d’inverno le rose che d’Anacreonte/cingevano il capo al simposio,/ dov’egli la lira toccava,/ a lui stillò l’Afrogeneia l’essenza squisita alle chiome,/ e in ogni canto ora è fusa fragranza soave di rose./ Ma solo se intoni un “amante” le note del vecchio sereno,/ inonda gli atrii e le sale l’antico, regale profumo». E per ogni poeta, per ogni polso ferito che tocca le cose dall’altro lato, ogni rosa ha avuto un nome e io voglio proLa rosa nunciarli: era Sibilla per Dino, l’eterna rosa che non canto, Valerie per Thomas Stearn che è peso e fragranza, Eliot, Lidia per Fernando Pesquella del profondo giardino nella notte scura soa: quella di qualunque giardino e di qualunque sera, «Coronatemi di rose, coronala rosa che risorge da cenere di neve temi davvero/ di rose/rose che per arte d’alchimia, svaniscono/ sul capo morenla rosa dei persiani e di Ariosto, dovi/ prestissimo!/ coronatemi lei che sempre è sola, di rose/ e di foglie brevi./ E che sempre è la rosa delle rose, basta». il contemplato fiore nuovo, Sembra lei, sembra Marinella l’ardente e cieca rosa che non canto, di Fabrizio De André, lei che la rosa irraggiungibile. come tutte le più belle cose dura Jorge Luis Borges solo un giorno. O una notte. “La rosa” (a Judith Machado) Quella profumata delle rose irliberamente tradotta raggiungibili.
LE PASSIONI POLITICHE E PERSONALI DI NILDE IOTTI INTRECCIATE IN UN MONOLOGO
E Leonilde canta sussurrando “Bella ciao”
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da l’Unità del 20 aprile 2012
a storia è avvincente, niente da dire. D’altra parte quante donne possono vantare una vita come la sua? Nessuna. A soli 26 anni fu eletta parlamentare, contribuì a far nascere la nostra Costituzione, essendo parte della “Commissione dei 75”, fu la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera e la compagna “scomoda” di Palmiro Togliatti. Eh sì, Nilde Iotti fu una donna tenace e determinata, intelligente e coraggiosa. A lei è dedicato il libro di Sergio Claudio Perroni, Leonilde. Storia di una donna normale (Bompiani 2010) al quale si è ispirato Roberto Andò per la regia del suo spettacolo - Leonilde, appunto. Ad indossare i panni di Leonilde - «sembra un nome di battaglia!» le dice un partigiano - è un’attrice che ama le sfide e si cala nel personaggio lasciandosi accerchiare solo dai pochi oggetti che hanno fatto parte della sua vita e, sullo sfondo, dalle sedie sospese che alludono al Parlamento. Lei è Michela Cescon e affida alla sua voce il
Michela Cescon in “Leonilde” di Sergio Claudio Perroni, regia di Roberto Andò
compito di narrarci una storia che ci riguarda da vicino. O meglio “la Storia”, ovvero il fascismo, la seconda guerra mondiale, la Resistenza, la Costituzione italiana, i diritti delle donne. Pubblico e privato si intrecciano in questa narrazione fatta di parole dette a bassa voce, di suoni e di canzoni emozionanti come solo Bella ciao può essere... Ma è soprattutto l’aspetto più intimo di Nilde Iotti a venire a
galla: l’infanzia in una famiglia cattolica, i suoi anni di formazione all’università, la maturazione delle idee, la relazione con Togliatti (era un uomo sposato...), tanto osteggiata dal partito, il loro amore vissuto clandestinamente con la valigia sempre pronta, e poi Marisa, la bambina avuta in affidamento. Troppo per l’Italia bigotta di allora. Ma di fronte alle difficoltà lei ha sempre combattuto, lottato. Fu dopo la morte di Togliatti che riuscì ad emergere e ad ottenere quel riconoscimento che, nonostante tutto, tardava ad arrivare. Certo, realtà e finzione qui si fondono e probabilmente certe frasi in cui Leonilde rivendica ciò che ha fatto e realizzato nel corso della sua vita la vera Nilde lotti non le avrebbe mai pronunciate, ma lo spettacolo regala squarci di vita di una donna che merita di essere ricordata e forse - nonostante la regia di Andò non abbastanza convincente può essere lo spunto di riflessione per quel vuoto politico che non abbiamo saputo colmare dopo la dipartita delle nostre madri e dei nostri padri costituenti. Francesca De Sanctis
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La lezione di Rita tra scienza e impegno civile
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LO SGUARDO AL FUTURO DELLA PREMIO NOBEL SPAZIAVA DALLO STUDIO ALLA SOCIETÀ
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di
PIETRO GRECO
da l’Unità del 6 gennaio 2013
uardare sempre al futuro. E non chiudersi mai nella torre d’avorio, ma impegnarsi nella società, con un progetto politico preciso. Nel corso della sua lunga vita Rita Levi Montalcini ha regalato a noi tutti, ma soprattutto ai giovani ricercatori, molti insegnamenti. Ma sono questi i due - lo sguardo rivolto al domani e l’impegno civile, sociale e politico per costruire un futuro desiderabile - che, a una settimana dalla sua scomparsa, conviene ricordare. Dove il verbo convenire non indica un imperativo del politically correct, dettato dalla commozione per la sua morte, che pure c’è. Ma indica proprio un guadagno, per noi tutti e, in particolare, per i giovani ricercatori. Rita Levi Montalcini è stata una scienziata che ha vissuto costantemente fuori dalla torre d’avorio, sia pure con quella elegante leggerezza che era frutto di un carattere umile e di un’educazione rigorosa. Si è impegnata non solo per la ricerca, per i giovani, per le donne, per i giovani e le donne dei Paesi in via di sviluppo, per la diffusione della cultura scientifica. Ma anche in battaglie politiche durissime, senza tentennamenti, anche quando è stata fatta oggetto di vergognose campagne di dileggio. Questo suo vivere costantemente fuori dalla torre d’avorio, entro cui pure avrebbe potuto comodamente rifugiarsi, non l’ha distolta dalla sua attività di ricerca.
La scienziata non è stata distratta dalla politica. Al contrario, la sua attività di ricerca è stata rafforzata dal suo impegno civile e sociale. In ciò, Rita Levi Montalcini non rappresenta affatto un’eccezione. Anzi, è quasi una regola: tutti i grandi scienziati hanno avuto (e hanno) uno straordinario impegno nella società. Per questo il suo esempio rappresenta un autentico insegnamento per i giovani ricercatori. Non rinchiudetevi nei laboratori. Portate fuori le vostre ca-
pacità. Ne guadagnerà la società. E ne guadagnerà la scienza. Gli esempi che corroborano queste affermazioni, in apparenza ardite, davvero non mancano. Tra i più significativi ci sono quelli di tre fra i più grandi uomini di scienza di ogni tempo: Albert Einstein, Galileo Galilei e Charles Darwin.
Il grande fisico tedesco ha sempre rifiutato di vivere nella torre d’avorio, anche quando a partire dal 1919, anno della conferma empirica della sua teoria della relatività generale, divenne uno degli uomini più famosi del pianeta. Addirittura l’icona della scienza e il personaggio più rappresentativo del XX secolo. Ebbene in quei medesimi mesi Einstein era impegnato non solo nella ricerca di una teoria fisica ancora più generale, ma anche in un progetto politico piuttosto ambizioso: affermare la pace nel mondo. Proponendosi come un vero e proprio pacifista militante. Un attivo propagandista del disarmo. Guardato con sospetto dai servizi segreti di ogni parte del mondo: nella Germania che diverrà nazista, nell’America democratica che lo accoglierà, nell’Unione Sovietica comunista. E assurto a bandiera dei movimenti per la pace di tutto il mondo. Tuttora il testo scritto nel 1955 con Bertrand Russell intriso di un umanesimo senza confini è considerato il manifesto per il disarmo nucleare, capace di influenzare il pensiero e le azioni anche di uomini di governo al più alto livello, come ha riconosciuto Michail Gorbaciov.
Quanto ad ambizione non era da meno quello che si propose Galileo Galilei tra la fine del 1610 e l’inizio del 1611, all’indomani della pubblicazione del Sidereus Nuncius che, in pochi mesi, lo aveva reso l’uomo probabilmente più famoso d’Europa, e appena dopo essere riuscito a costruirsi una comoda “torre d’avorio”, facendosi nominare “primario filosofo e matematico” del granduca di Toscana, Cosimo II. Non esitò, Galileo, a uscire fuori da quella comoda e ben remunerata torre per portare a termine un progetto che, giustamente, Lu-
Rita Levi Montalcini (anSa)
dovico Geymonat ha definito “ardito”: convertire la Chiesa alla visione copernicana del mondo e, più in generale, sgombrare il campo dagli ostacoli che ponevano in rotta di collisione la fede con la “nuova scienza”. Il mondo cattolico con la modernità. Galileo si è battuto per oltre trent’anni nel tentativo di portare a termine il suo “ardito progetto”. Senza successo. Ma creando le premesse per un riconoscimento sempre più universale dell’autonomia della scienza. Forse ancora più eclatante è la vicenda di Charles Darwin, come hanno di recente dimostrato due dei suoi più informati biografi, Adrian Desmond e James Moore, in un libro, La sacra causa di Darwin, da poco pubblicato in italiano presso l’editore Raffaello Cortina. Il naturalista inglese, nato il 12 febbraio 1809, lo stesso giorno in cui è venuto al mondo Abraham Lincoln, era un antischiavista convinto. Appartenente a una famiglia che aveva fatto della lotta alla schiavitù il proprio faro. Sia il nonno paterno, Erasmus Darwin, medico e poeta, sia il nonno materno, Josiah Wedgwood, esponente della nuova ed emergente classe degli industriali manifatturieri, erano infatti antischiavisti militanti. Ebbene, la sua “sacra causa”, la lotta alla schiavitù, non solo non ha ostacolato la ricerca scientifica di Darwin, ma anzi è stata la leva che ha spinto l’inglese a cercare la cause dell’origine (comune) delle specie e a formulare la teoria dell’evoluzione biologica che taglia alla base ogni concetto di razza e di gerarchia tra le razze. Eccolo, dunque, il messaggio di Rita. Giovani ricercatori, non illudetevi di poter costruire le vostre carriere nel chiuso dei laboratori. Ma uscite fuori e costruite il vostro futuro. E il futuro di noi tutti.
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La memoria ritrovata
LA GERMANIA RICONOSCE LO STERMINIO NEGATO PER ANNI
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A Berlino un monumento per l’Olocausto di rom e sinti
Angela Merkel alla stretta di mano tra il sopravvissuto sinti Reinhard Florian (a destra) e lo scultore israeliano Dani Karavan, autore del memoriale (FoTo reuTerS). In alto: l’ingresso all’area (joHn maCdouGaLL/aFP/GeTTy imaGeS) e la deposizione di omaggi floreali da parte delle comunità (CLemenS BiLan)
da l’Unità del 20 ottobre 2012
ciascuno il suo memoriale. In quel suggestivo “paesaggio della memoria” che caratterizza il centro storico dell’odierna Berlino, precisamente nell’area nevralgica dove si levano la sede del Reichstag e la Porta di Brandeburgo, gli altari del ricordo collettivo si susseguono uno dopo l’altro. C’è quello dell’Armata Rossa con i carri armati sovietici che per primi violarono la capitale del Reich nella primavera del 1945. Ci sono qua e là frammenti del Muro che per tre decenni è stato l’emblema indiscusso della guerra fredda. C’è l’immenso cimitero di steli grigie, disposto da Peter Eiseman per onorare il ricordo dei milioni di ebrei vittime della Shoah. Più nascosto tra i cespugli e gli alberi del Tiergarten, il grande parco cittadino un tempo riserva di caccia della casa reale, si trova il monumento in onore degli omosessuali perseguitati dal nazismo. Dallo scorso mercoledì la mappa berlinese del ricordo storico si è arricchita ulteriormente. Ci sono voluti oltre vent’anni di discussioni, po-
lemiche a tratti roventi, promesse non mantenute e rinvii inspiegabili, ma finalmente anche gli zingari hanno in Germania un loro monumento che ricorda le deportazioni e i massacri patiti durante gli anni del Terzo Reich. «Lo dobbiamo ai morti e lo dobbiamo ai vivi» ha dichiarato la cancelliera Angela Merkel nel discorso ufficiale durante l’inaugurazione. Una volta tanto i discorsi non sono stati né rituali né vacuamente retorici. «Lo sterminio di quel popolo ha lasciato tracce profonde e ferite an-
cora più profonde» ha affermato la cancelliera invitando a considerare il nuovo memoriale come un monito contro ogni forma di discriminazione etnica e razziale. E rivolgendosi ai rappresentanti delle comunità di sinti e rom presenti all’inaugurazione, Merkel non ha nascosto i pregiudizi e i problemi di convivenza che tuttora si riscontrano nella società tedesca, evidenziando come sia «compito tedesco ed europeo sostenervi nell’esercizio dei vostri diritti». Un discorso tutto sommato coraggioso,
Risarcimento agli ex-deportati, il governo Monti dice no N
essun risarcimento per i deportati nei lager nazisti. a volerlo non è il governo tedesco, ma la Presidenza del Consiglio dei ministri. Che ha chiesto alla Corte di Cassazione di non accogliere il ricorso presentato a Torino da 173 persone, o loro eredi, trascinate a forza nei campi di lavoro e di sterminio in Germania fra il 1943 e il 1945, durante la seconda guerra mondiale. i ricorrenti chiedono di essere indennizzati, tra gli altri, anche dalla repubblica federale tedesca. L’italia, fra l’altro, ha chiesto alla Cassazione di non rispettare una sua precedente pronuncia con la quale aveva sancito che la Germania, pur essendo uno Stato so-
vrano, «non ha il diritto di essere riconosciuta immune dalla giurisdizione civile del giudice italiano»: viene infatti citata, a questo proposito, una decisione della Corte internazionale di Giustizia dell’aja del 3 febbraio 2012. i giudici avevano accolto il ricorso di Berlino contro l’italia e bloccato le indennità per le vittime dei crimini nazisti. Secondo quel verdetto l’italia «ha mancato di riconoscere l’immunità riconosciuta, dal diritto internazionale, a un altro stato sovrano come la Germania». La Corte dell’aja aveva accolto tutti i punti di ricorso presentati dallo stato tedesco che accusava l’italia e il suo sistema giudiziario di «venire meno ai suoi obblighi di rispetto nei
confronti dell’immunità di uno stato sovrano come la Germania in virtù del diritto internazionale». Per i ricorrenti però la stessa Corte, in composizione diversa, il 12 luglio successivo, si era dichiarata incompetente a decidere sulla questione, che resta quindi, a loro giudizio, di pertinenza della magistratura italiana. «La Corte di Cassazione aveva acceso una luce, il Governo la spegne – riflette l’avvocato Luca Procacci, legale dei 173 ex deportati. – L’italia vuole che la Cassazione sconfessi il giudizio della Cassazione in forza di una pronuncia della Corte dell’aja. Significa che la certezza del diritto è minata da interessi sovranazionali».
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il fiore del partigiano anche se qualcuno ha fatto osservare come sia stato proprio il governo di Frau Merkel non più tardi di due anni orsono ad espellere – nonostante le blande proteste del Consiglio d’Europa e nella più assoluta indifferenza dell’opinione pubblica – oltre diecimila rom kosovari, rifugiatisi alla fine degli anni Novanta nel territorio della Bundesrepublik. Quello dei rom e dei sinti è stato un destino davvero disgraziato. La loro persecuzione da parte dei nazisti iniziò fin da subito e fu portata avanti con una sistematicità e una violenza del tutto analoghe a quelle impiegate contro gli ebrei. Considerati una “razza inferiore”, degenerazione di quella ariana, geneticamente predisposti al nomadismo, all’asocialità e alla delinquenza, gli zingari furono deportati in massa nei campi di concentramento, badando anche a tenerli isolati dagli altri prigionieri: per questo ad Auschwitz fu istituito un apposito Zigeunerlager, ovvero un “campo per gli zingari”. Per risolvere la “questione zingara” il nazismo dapprima approvò una serie di leggi e provvedimenti fortemente persecutori, quindi avviò la pratica della sterilizzazione coatta (una sorta di sterminio dilazionato nel tempo), per passare, infine, nel 1942 alla “soluzione finale”, ovvero il trasferimento obbligatorio di tutti gli zingari ad Auschwitz in vista del definitivo annientamento. Ne morirono almeno 500mila, ma gli storici calcolano che probabilmente furono molti di più: data la loro natura nomade è difficile stabilire con precisione quanti zingari risiedessero nel territorio della Germania e delle zone occupate dai nazisti. Anche dopo la fine della guerra i patimenti non sono cessati. Per decenni nel Dopoguerra il loro sterminio è stato negato o minimizzato. Nei processi contro i criminali nazisti – a partire da quello di Norimberga – mai nessuno decise di sentire testimonianze di rom e sinti. E nonostante la Convenzione di Bonn – imposta dagli Alleati alla Germania nel 1945 – prescrivesse il pagamento di indennizzi a quanti erano stati perseguitati per motivi razziali, nel caso dei rom e dei sinti tutte le istanze di risarcimento furono eluse dalla magistratura tedesca. La ferita del “genocidio negato” ha bruciato troppo a lungo, come ha denunciato pochi giorni fa Romani Rose, presidente del Consiglio centrale dei popoli sinti e rom in Germania. Si dovette attendere fino al 1982 perché un’autorità politica tedesca, il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt, riconoscesse le loro ragioni e chiedesse ufficialmente scusa a nome del popolo tedesco. E quindici anni dopo fu il presidente federale Roman Herzog a sottolineare l’analogia tra ebrei e nomadi per quanto riguarda le pratiche di sterminio del Terzo Reich. Il memoriale che ricorda la loro tragedia sorge ora nel cuore di Berlino e mette una pezza su una parabola fatta di tormenti e dimenticanze. L’artista israeliano Dani Karavan lo ha realizzato dandogli la forma di una vasca circolare dal fondale nero, con un triangolo vuoto nel centro da cui ogni giorno emerge una stele con un fiore sulla sommità. A chi lo guarda trasmette la sensazione di sprofondamento nell’abisso, quella sensazione che si provava all’ingresso dei lager, come rievocato dai versi del poeta italiano di etnia rom Santino Spinelli incisi sul bordo della vasca. Gherardo Ugolini
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IL COMMENTO
Sant’Anna di Stazzema non è in Europa
L
di
da l’Unità del 6 ottobre 2012
MONI OVADIA*
a sentenza di archiviazione per gli imputati della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema è un atto di ingiustizia perpetrato contro le vittime innocenti trucidate dai carnefici delle SS, contro i sopravvissuti e i loro discendenti e rappresenta anche uno strappo brutale inferto alla carne della memoria europea. Il danno principale, tuttavia, lo riceve paradossalmente la credibilità di quei giudici. Il loro giudizio pone un interrogativo serio sul carattere del loro retroterra culturale.
loro parere prove “fabbricate”. Inoltre hanno addotto, a titolo di attenuante, il fatto che lo scopo principale di quella azione era di natura bellica con l’obiettivo di contrasto ai partigiani e che essere nelle SS non è di per sé una prova di colpevolezza. Giusto. Ma una pesantissima aggravante sì! Nelle SS si entrava volontari, giurando cieca e assoluta ubbidienza a Hitler, con l’ordine di perpetrare genocidi e crimini di ogni sorta per la gloria del Reich.
I giudici di Stoccarda sostengono di essersi scrupolosamente attenuti alla legge. Come dire: Dura lex sed lex, ma hanno ignorato il: summum ius summa iniuria, ovvero l’eccesso di “giustizia” si trasforma nel massimo di ingiustizia. Quei magistrati si sono anche assunti la responsabilità di avere costituito un precedente che farà la gioia dei negazionisti di ogni risma e fornirà sostegno all’impunità di genocidi e massacratori di ogni luogo e di ogni tempo, per non dire dei sedicenti esportatori di democrazia con le bombe e le stragi senza numero di civili innocenti. Non è improprio dunque sostenere, se questa sentenza è Il monumento alle vittime della strage di Sant’Anna legittima, che le azioni militari conCerchiamo di capire perché. Un tribu- tro i partigiani dessero piena giustifinale militare italiano dopo anni di lun- cazione alle SS di trucidare donne, ghe e dolorose indagini ha emesso una vecchi e bambini e, di passo in passo, sentenza di colpevolezza e una conse- far passare l’idea che i partigiani non guente condanna sulla base delle nu- fossero combattenti per la libertà e la merose deposizioni di testimoni ocu- giustizia che si opponevano alla più lari, ma anche sulla base di confessioni criminale forza di occupazione della di colpevolezza rese agli inquirenti e Storia ma banditi, come recitava il alla stampa da alcuni esecutori di cartello che era messo loro al collo quell’eccidio. I magistrati di Stoc- prima di essere impiccati agli alberi o carda, indagando con puntiglio e me- ai lampioni. ticolosità, hanno deciso per l’as- I revisionisti di casa nostra e i loro soluzione degli imputati per insuffi- complici mediatici possono davvero ricienza di prove, di fatto dichiarando tenersi soddisfatti. che le prove di colpevolezza riconosciute dai magistrati italiani sono a *Regista e scrittore
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il fiore del partigiano
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
Sangue non solo tedesco per le truppe dello sterminio
N
Christopher Hale I carnefici stranieri di Hitler - Garzanti - 656 pagine, € 35,00
da il manifesto - 10 novembre 2012
on si tratta di una storia delle SS, come tante altre. I carnefici stranieri di Hitler. L’Europa complice delle SS di Christopher Hale, studioso inglese già autore anni fa di un approfondito lavoro sulle spedizioni naziste in Tibet alla ricerca delle origini della razza ariana (La crociata di Himmler, Garzanti), cerca infatti di fornire una risposta a una serie di domande, tutt’altro che secondarie, nell’ambito della ricostruzione storica e ideologica del Terzo Reich, come del collaborazionismo. Ovvero i motivi per cui nel corso del secondo conflitto mondiale i nazisti, sotto la guida di Heinrich Himmler, riuscirono a reclutare centinaia di migliaia di soldati non tedeschi nelle fila delle Waffen-SS, al punto da farne la parte preponderante. Una palese contraddizione per chi progettava un nuovo impero germanico basato sulla purezza del sangue ariano e aveva scatenato la guerra avendo in animo la schiavizzazione dei «subumani» slavi e l’«annientamento» dei nemici razziali, a partire dai «giudei bolscevichi». A tale scopo, infatti, erano state istituite e addestrate le Waffen-SS: vere truppe d’assalto scelte di questo progetto di imperialismo razziale. Per la gran parte degli storici fu niente più che una scelta di convenienza dettata dalla necessità di disporre di armate sempre più numerose da contrapporre agli eserciti avversari. La spiegazione di Hale è ben diversa. Himmler, pervaso dalla sua sconfinata ambizione di trasformare le SS nel pilastro essenziale dell’impero tedesco, puntò all’inizio ad acquisire per le sue truppe solo «il meglio del meglio» dei popoli germanici. Non si pose il problema dei numeri. Solo il corso della guerra lo portò a un ripensamento radicale. Il punto di svolta Christopher Hale lo colloca dopo il giugno 1941, quando a seguito dell’invasione dell’Urss, gli antropologi tedeschi dell’Istituto Kaiser Wilhelm, guidati da Wolfgang Abel, esaminando i soldati prigionieri (più di due milioni di soldati sovietici perirono nei campi di concentramento) giunsero alla conclusione che «il sangue germanico era penetrato profondamente a Est attraverso il Baltico e l’Ucraina» e che «alcuni popoli dell’Est potessero avere abbastanza sangue germanico da qualificarsi come futuri cittadini del Reich». Come sosteneva lo psicologo Ludwig Ferdinand Clauss (assai apprezzato in Italia da Julius Evola) le razze potevano essere «malleabili». Attraverso «la volontà», secondo Himmler, si potevano anche ridisegnare e ricollocare nella vasta comunità germanica. Il primo passo era l’accettazione di «uccidere e farsi uccidere» per il progetto di una «nuova Europa» delle SS. Da qui, a partire dall’estate del 1942, l’autorizzazione a reclutare unità non tedesche. I primi furono gli estoni. Seguirono i lettoni. Nel 1943 furono assoldati 15mila musulmani bosniaci, per finire
nell’estate 1944 con oltre il cinquanta per cento dei soldati di Himmler nati fuori dai confini tedeschi. Tutte le divisioni si ritrovarono ad avere in forza degli stranieri e ben venticinque su trentotto furono composte in prevalenza da non tedeschi provenienti non solo dal Nord Europa o da Francia, Italia, Olanda e Belgio. Tra gli altri, indiani, arabi, albanesi, croati, ossezi, tagiki, uzbechi, bosniaci, ucraini, azeri e mongoli buddhisti. Questa interpretazione della storia delle Waffen-SS confligge non solo con altre letture già ricordate, ma soprattutto con l’ipotesi avanzata da Daniel Goldhagen ne I volonterosi carnefici di Hitler (pubblicato nel 1996), secondo la quale «l’antisemitismo sterminatorio» tedesco sarebbe stato il motore dell’Olocausto. Un crimine tutto tedesco. Per Hale una tesi dai «piedi d’argilla» contraddetta dall’omicidio di massa degli ebrei e di altri nemici, in Croazia, in Romania, nel Baltico, in Bielorussia, in Ucraina e in molte altre regioni dell’Europa orientale, perpetrato da milizie locali, dagli Einsatzgruppen (le “Unità operative” adibite appositamente all’eliminazione degli ebrei) e dalle Waffen-SS, entro cui operavano non solo tedeschi ma lettoni, lituani, ucraini e altri slavi al servizio del Terzo Reich. A milioni le persone che persero la vita non solo nei campi nazisti. Uno sterminio di uomini, donne e bambini, considerato parte essenziale dell’annientamento del «bolscevismo giudaico». «Non bisognava essere tedeschi» per diventare dei genocidi, queste le conclusioni di Christopher Hale. Molti artefici dell’Olocausto non provenivano dalla Germania, «erano stati allevati in paesi non meno antisemiti» e nell’Europa orientale «ebbero un ruolo diretto nell’omicidio di massa». Fu un crimine europeo. Le unità italiane In questa monumentale ricostruzione un lungo capitolo è dedicato anche alle SS italiane, i cui battaglioni furono inizialmente istituiti nell’ottobre 1943 come unità paramilitari di polizia (“Waffen Milz-Milizia armata”), da impegnarsi «contro i banditi, i paracadutisti e più in generale contro i comunisti». Tormentata e tortuosa fu la loro vicenda: divisi al seguito di più divisioni tedesche, parte di loro si ritrovò addirittura a combattere nell’estate 1944 alla difesa di Budapest. La loro denominazione cambiò più volte e paradossalmente solo nell’aprile 1945 nacque a tutti gli effetti la divisione delle SS italiane, autorizzata a indossare le mostrine nere
e argentate con le rune. Giusto in tempo per arrendersi ignominiosamente, la maggior parte di loro, ai partigiani. Le SS italiane collaborarono con i tedeschi nel dare la caccia agli ebrei. Un mito, secondo Hale, il fatto che gli italiani fossero stati «relegati in secondo piano». Il loro ruolo fu senza ombra di dubbio di «agenti attivi dell’Olocausto». La riabilitazione L’ombra lunga di questa storia arriva fino a oggi. In alcuni paesi, come in Lettonia, si celebrano ancora le gesta dei volontari nella legione SS costituita da Himmler, ovvero di coloro che assassinarono, insieme all’occupante tedesco, almeno 70mila ebrei. La riabilitazione dei carnefici, sostiene Christopher Hale, passa oggi anche attraverso la richiesta all’Unione europea di «mettere sullo stesso piano i regimi totalitari». Il riferimento è alla cosiddetta Dichiarazione di Praga formulata nel 2008 da studiosi e politici per lo più cechi (primo firmatario Václav Havel) e bulgari. L’obiettivo è quello di demolire la specificità dell’Olocausto. I crimini dei sovietici, equiparati alla Soluzione finale, aprirebbero la strada alla riconsacrazione di coloro che combatterono contro l’Urss, trasformando in eroi nazionali i collaboratori del genocidio. Purtroppo i timori di Christopher Hale si sono tramutati in realtà. Nell’aprile 2009 una risoluzione votata dal Parlamento europeo proprio questo ha fatto: accomunare insieme nazismo e regimi comunisti, istituendo il 23 agosto come giornata di commemorazione di tutte «le vittime di tutti i regimi totalitari». A votarla un ampio schieramento trasversale, dai deputati del Partito popolare europeo all’Alleanza dei democratici, ai Verdi. Tra loro il Partito democratico, l’Italia dei valori, i radicali. Saverio Ferrari Carlo Greppi - L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager - donzelli editore, pp. 286, € 18,00 Tra il 1943 e il 1945 più di trentamila persone – uomini, donne, vecchi e bambini – affollano le stazioni dell’Italia centro-settentrionale e partono verso l’ignoto, stipate su treni merci e carri bestiame. L’appassionante studio di Carlo Greppi ricostruisce proprio questa fase essenziale nell’esperienza dei deportati e nella memoria dei salvati, il viaggio verso il lager, e lo fa ripercorrendo le vicende di decine di comunità viaggianti, attraverso le voci di centoventi sopravvissuti. Lo scorrere angosciato del tempo nei vagoni piombati, dove i nazisti sono solo figure sfocate, riempie le narrazioni dei testimoni e accompagna il racconto dei comportamenti dei fascisti, della forza pubblica, dei ferrovieri e della popolazione civile. È il ricordo dell’umanità che si incrina, il canto del cigno della normalità. Una geografia della sofferenza che ha molto da dire al nostro presente.
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il fiore del partigiano
Caccia all’ebreo La storia oscura
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Gennaio 2013
Lia Levi La notte dell’oblio - edizioni e/o - 192 pagine, € 18,00
da l’Unità del 30 settembre 2012
a caccia all’ebreo era cominciata di colpo in un’alba di pioggia, e prima del tramonto il vecchio quartiere ebraico era ridotto a uno scheletro spogliato della sua carne. Sembrava la piazza del paese dopo il mercato quando per terra restano solo cassette sventrate e cartacce svolazzanti. Anche quelli che si erano potuti salvare svolazzavano qua e là impazziti in cerca di un rifugio» racconta La notte dell’oblìo, il nuovo romanzo di Lia Levi. Tra quanti, all’indomani del rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, graziati lì per lì dalla sorte, cercano un riparo, c’è la famiglia Vivanti, composta da Giacomo, proprietario di un negozio in ghetto, la moglie Elsa, un nome che è un omaggio a Elsa Morante, e le bambine Milena e Dora, due nomi che ci riportano con la mente a Kafka. Scampati ai tedeschi, accolti nella canonica di un prete amico di famiglia, don Gioacchino, i Vivanti soccomberanno alla delazione di un italiano: Giacomo verrà arrestato nei mesi successivi, in una delle sue visite a Roma per ritirare i guadagni del negozio ancora aperto e gestito dal commesso Italo Fanelli. Morto Giacomo nel lager, a guerra finita Elsa scoprirà che il commesso si è impadronito dell’esercizio, ma deciderà di non denunciarlo convinta di regalare così un po’ di tranquillità alle figlie; però il destino non ubbidirà al silenzio e un’altra, anche più terribile, verità su quanto è successo tra proprietario e commesso presenterà il suo conto… Il giornale Shalom. Lia Levi, fondatrice del giornale di cultura ebraica Shalom, è autrice, oltre che di romanzi, come questo, per adulti, di molti fortunati libri per ragazzi. Racconta che il germoglio della Notte dell’oblìo è una vicenda vera: «È una storia che mi è stata raccontata in ambito familiare. Ero rimasta scandalizzata: perché la donna non ha denunciato quell’uomo? chiedevo. E la risposta era “ha due figlie e vuole che alessandro dal Lago - Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà - Cortina ed., pp. 220, € 13,50 Quali sono i criteri con cui la crudeltà, ampiamente mostrata dai media vecchi e nuovi, è occasione di sdegno o di intervento “umanitario”? La risposta è che lo sdegno dipende da un complesso di circostanze, tra cui gli interessi materiali in gioco e la fondamentale indifferenza delle opinioni pubbliche occidentali. Come si è determinata questa strana mescolanza di insensibilità e moralismo? Riprendendo il tema della crudeltà nel mondo classico e moderno, come si manifesta soprattutto nella letteratura e nella cultura di massa, il saggio analizza la complessità dello “sguardo” come ottica culturale: non è la crudeltà a essere finita ma il nostro sguardo culturale a non vederla più. È così che dalla fine della guerra fredda l’Occidente combatte guerre in mezzo mondo senza che la sua vita quotidiana sia alterata.
siano serene”», spiega. «Il tarlo narrativo lavorava, ma fare di una storia vera una narrazione cosa significa? Che non puoi appigliarti al tuo giudizio indignato, devi cercare di capire tutti i personaggi». E il più incomprensibile, agli occhi di Lia Levi, chi era, il delatore? «Quello era un idiota». La madre? «Sì, lei. In ogni famiglia ebraica convivono due spinte: a dover dire, ai figli, ma anche a tacere per dare una visione più felice della vita. Ma dobbiamo accettare che non ci sia giustizia? È stata lei il mistero che ho dovuto scalare». E alla fine il mistero si è sciolto? «Non fino in fondo. Sennò non avrei scritto il libro», replica. È a romanzo pubblicato che - con un movimento a ritroso - «storie e storie», a decine, le vengono confidate, da chi ha vissuto vicende analoghe. Perché La notte dell’oblìo è un romanzo che con bella levità, e affollato com’è lo stile di Lia Levi di un corteggio di personaggi resi vivi anche con una sola pennellata, affronta un tema pesante come il piombo: il silenzio che nell’Italia del dopoguerra calò sulle persecuzioni e lo sterminio degli ebrei. Nel soggiorno della casa trasteverina, sul tavolo di cristallo, ci sono due libri, accanto ai regali dei piccoli delle elementari: una delle attività che Lia Levi svolge con tenacia è quella degli incontri nelle scuole, e qui testimonianza ne sono il piattino dipinto a fiorellini e l’imprevedibile bellissimo palazzo di cartone che riproduce il condominio del Segreto della casa sul cortile. Dei due libri uno è un romanzo, La storia di Elsa Morante, l’altro un saggio, Caino a Roma dello storico Amedeo Osti Guerrazzi. Nel 1974 Morante così descriveva i «giudii» che nel 1945, scampati ai campi, giravano per Roma: «Presto essi impararono che nessuno voleva ascoltare i loro racconti… Difatti i racconti dei giudii non somigliavano a quelli dei capitani di nave, o di Ulisse l’eroe di ritorno alla sua reggia. Erano figure spettrali come i numeri negativi, al di sotto di ogni veduta naturale, e impossibili perfino alla comune simpatia. La gente voleva rimuoverli dalle proprie giornate come dalle famiglie normali si rimuove la presenza dei pazzi, o dei morti». Osti Guerrazzi, a propria volta, carte processuali alla mano (i processi prima dell’amnistia di Togliatti, guardasigilli nel 1947), indaga tra i fascisti, le bande criminali, ma anche i singoli cittadini, che avevano consegnato quei «giudii» ai tedeschi dopo il 16 ottobre ’43, come succede al Giacomo Vivanti del romanzo. La tariffa era 5.000 lire per ogni maschio, 3.000 per una donna, 1.000 per un bambino, ma si poteva guadagnare di più impadronendosi di case, negozi, arredi, gioielli. Ed eccoci in questo buco nero, in questo silenzio. Lia Levi calcola che la rimozione sul versante italiano della
Shoah, da noi, sia durata fino al 1958, anno in cui dopo l’iniziale rifiuto dell’editor Natalia Ginzburg, Einaudi pubblica Se questo è un uomo di Primo Levi. Il silenzio ha due facce: i «salvati» non raccontano la propria vicenda (non c’è chi li ascolti…), e insieme accollando tutto ai soli tedeschi, ed enfatizzando l’Italia della Resistenza, si stempera l’apporto degli italiani allo sterminio. Ora, questo problema del silenzio si è posto in tutti i paesi interessati dalla Shoah. In Anni di piombo di Margarethe von Trotta le due sorelle nate nel dopoguerra, Juliane e Marianne, scoprono quasi adolescenti gli orrori del nazismo, guardando dei filmati girati nei lager, e da quella visione escono sconvolte. «Ma la Germania ovest ha fatto i conti subito con la sua realtà, visto che già nel 1952, nonostante la miseria di quegli anni, cominciava a onorare i doveri di riparazione. Nella redazione di Shalom eravamo abituati a vedere arrivare giornalisti tedeschi nati dopo la guerra che, piangendo, ci dicevano di avere visto quei documentari nelle scuole e si chiedevano come avevano fatto i loro genitori a essere complici del nazismo». I tedeschi dell’Est invece si auto assolsero, assimilandosi all’Urss. Lo shock del processo Eichmann. In Israele quello dell’impossibilità di raccontare, per i reduci dai campi, è un tema sconvolgente sul quale tra i primi ha scritto Amos Oz: «Il processo Eichmann fu uno shock perché, chiamati a testimoniare, finalmente i reduci narrarono le loro storie» ricorda Lia Levi. Eccoci all’Italia: «Noi abbiamo saltato due generazioni. Fino agli anni Novanta in Italia non c’era un solo libro per ragazzi che affrontasse il tema. In senso politico è opinione prevalente che a smuovere le acque sia stata la caduta del Muro, con la fine dei due blocchi e l’apertura degli archivi. Personalmente so che mi sentivo figlia di un male minore e solo nel ’94 ho avuto la spinta a pubblicare il mio primo libro (che racconta gli anni di guerra trascorsi in un convento cattolico, ndr). Perché il Savoia aveva negato ci fossero state le leggi razziali del ’38…». Tra fine guerra e l’inizio dell’agnizione c’è quel quindicennio in cui i neofascisti non nascondevano l’antisemitismo, anzi, compivano a Roma spedizioni in ghetto. Lì, però, trovavano cittadini ormai decisi a difendersi con le armi. È un dopoguerra che visto da qui appare come una palude, con i quadri dell’amministrazione pubblica - piccoli grandi responsabili di tanti mali e sevizie - trascorsi identici dal fascismo alla Repubblica. Perciò, dice Lia Levi, il Giorno della Memoria, istituito nel 2001, è tutt’altro che un appuntamento retorico. Di memoria ne abbiamo insufficiente: «Una società non può dirsi democratica se non ha fatto i conti con se stessa e il proprio passato - osserva -. Dicono che gli ebrei hanno la mania di raccontare. Ma non è vero, raccontano su richiesta. Tant’è che quando nessuno voleva ascoltare, stavano zitti. Il fatto è che la Shoah è, per il mondo, una ferita aperta, una ferita che non si è mai richiusa». Maria Serena Palieri
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Ogni giorno per la memoria
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
Settimia Spizzichino
S di
da Left del 20 ottobre 2012
ADRIANO PROSPERI
essantanove anni fa, il 16 ottobre cadeva di sabato: alle 5.30 di quel giorno del 1943, festivo per gli ebrei, cominciò la razzia nel vecchio Ghetto di Roma e in altre zone della città. Ne catturarono 1.022. Li deportarono ad Auschwitz in 18 vagoni piombati. Alla fine della guerra ne tornarono solo quindici, una donna e quattordici uomini. Dei più di duecento bambini catturati non ne sopravvisse nessuno. La donna sopravvissuta, Settimia Spizzichino, passò il resto della vita a raccontare quello che aveva vissuto: non solo scrivendo e pubblicando le sue memorie, ma cogliendo tutte le occasioni possibili per parlarne. Chi scrive la incontrò per la prima volta sul tram, un giorno di molti anni fa: il tram passava vicino alla Sinagoga di Roma e all’improvviso questa donna cominciò a raccontare a tutti i presenti quello che aveva vissuto. Era il suo modo di giustificare davanti ai morti il fatto di essere rimasta in vita. Adesso quei ricordi sono affidati a tutti noi, con l’obbligo di trasmetterli alle nuove generazioni. Un dovere che incombe a tutti, non un atto burocratico da compiere ritualmente in un “giorno della memoria” che ne presuppone altri 364 di dimenticanza. Di recente nella Roma di Alemanno mani ignote hanno trafugato la targa in memoria di Settimia. Altri piccoli episodi recenti parlano di un’Italia dove l’incultura più triviale apre la strada al ritorno delle ombre più cupe del nostro passato. Pochi giorni fa un imprenditore romagnolo ha proposto di intitolare a Mussolini l’aeroporto di Rimini, per dargli “visibilità”. E che dire di quel ritratto di Mussolini che pendeva dalle pareti dell’ufficio del preside di un Istituto tecnico marchigiano? La scuola pubblica, per quanto immiserita e pe-
Il 16 ottobre del 1943 furono catturati e deportati ad Auschwitz 1.022 ebrei. A fine guerra tornarono in quindici. Quattordici uomini e una donna, Settimia Spizzichino
nalizzata in mille modi anche dall’attuale governo “tecnico”, non merita queste vergogne. Oggi vorremmo ricordare questa data con la proposta di un classico da rileggere e con la segnalazione di un’opera da poco pubblicata. Il classico è il piccolo, bellissimo libro di Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943 (Einaudi 2005). L’altra opera è il Decimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico di Arnaldo Momigliano (1908-1987), due volumi delle Edizioni di Storia e Letteratura a cura di Riccardo Di Donato; è la conclusione di una serie di volumi nei quali è stata raccolta gran parte dell’opera di questo grande storico, esule a causa delle leggi razziali di Mussolini mentre i suoi genitori morivano ad Auschwitz. Di questo volume raccomandiamo almeno i “pensieri sull’ebraismo”, un testo inedito del 1979, che può essere di aiuto per capire che cosa significasse essere ebreo per l’uomo che aveva dedicato la sua vita di studioso ai rapporti tra greci e romani, ebrei e cristiani nel Mediterraneo del mondo antico. Scriveva Momigliano: «Essere nato ebreo significa, più precisamente che mai nel 1979, sentire la propria vita minacciata dall’antisemitismo». Ma implica anche qualcosa che va al di là delle minacce altrui, l’«essere costretto a chiedersi quale sia il significato di essere ebreo». Qui Momigliano parlava come “ebreo che non crede” e che vive in una società fatta in prevalenza di “cristiani che non credono”. Osservava che possedere una propria tradizione religiosa è importante: permette di «riflettere sull’universo» partendo da qualcosa che si possiede - un linguaggio, un punto di partenza utile «per chi vive sapendo di dover morire e vivendo vuole anche rendersi conto della vita altrui comprese le piante e gli animali, e tutto ciò che una volta si chiamava la bellezza del creato». Ma c’è ancora qualcosa che dà uno speciale valore alla tradizione dell’ebraismo, che permette di considerarlo addirittura «una possi-
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PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA ZONA DELLA MARTESANA
Redazione: presso la sede della Sezione Quintino Di Vona di Inzago (MI) in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Direttore responsabile: Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)
bile alternativa alla società cristiana». L’ebraismo «non separa radicalmente il sacerdote dal laico, non concede allo Stato diritti proprii, non è in vista di salvazione ultraterrena, ma di godimento di vita terrena». E basterebbe il fatto «che richiede meno fede, ma più studio, della tradizione cristiana» a renderlo degno di considerazione.
Revisione pronto cassa ilioni di persone senza difese nella morsa di due fazioni senza pietà, i partigiani e i fascisti. Nella «m fase conclusiva del secondo conflitto mondiale, tanti italiani si trovarono scaraventati dentro l’inferno della guerra civile. E scoprirono che non esisteva differenza fra le parti che si scannavano. I partigiani e i fascisti si muovevano nello stesso modo... Questa gara tra barbari ha reso disumana la tragedia iniziata nel 1940 con il nostro ingresso in guerra.» Questa l’autointroduzione di Giampaolo Pansa al suo ultimo libro “La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti”. C’è un’inesattezza, nel titolo. Quella guerra non era sporca, ma limpidissima. Le ragioni dei contendenti infatti erano chiarissime: di qua quelli che stavano con i nazisti di Hitler, di cui è inutile ricordare le macabre avventure in tutta europa, di là quelli che volevano liberare l’italia da questi mostri. mio nonno aveva il cognome ebraico, ma non gliene è laicamente mai fregato nulla di certe assunzioni d’identità. niente sinagoghe né sabati dedicati a dio. il salame smise di mangiarlo in tarda età solo perché glielo vietò il dottore (ma lo mangiava di nascosto, complice il nipote, io). Però si dovette nascondere insieme ai suoi tre figli, sennò finiva in una ciminiera di auschwitz. Solo per un cognome, per il suono di tre sillabe. altri due di Segni (dizione esatta) sono sepolti alle Fosse ardeatine, sempre per via di tre sillabe. C’è stata gente che ha dato la vita a vent’anni perché nessun uomo, donna, bambino fosse mai più ammazzato per come suonava il suo cognome. C’è stato invece chi difendeva quelli che pigliavano la gente coi cognomi che suonavano in un certo modo e li portava, per quello, a morire. Gara tra barbari un cazzo. La barbarie aveva connotati distinguibilissimi: portava la camicia nera o una svastica sulla manica. Sì, certo, ci sono stati casi, tra i partigiani, di processi sommari e violenze evitabili. ma erano casi. Lo sterminio su scala industriale, le stragi pianificate come marzabotto o Sant’anna di Stazzema le hanno fatte gli altri, quelli contro cui i partigiani combattevano. Le ragioni contano. mettere tutti nello stesso paniere fa un po’ schifo. Pansa, una volta abbiamo scherzato per telefono sul tuo revisionismo, eri simpatico. Stavolta non ci riesco proprio e per uno che fa il mio mestiere è una sconfitta. amico mio, stai facendo soldi sputando su chi scacciò i mostri lasciandoci la pelle. Per dirlo con un aforisma: ma vaffanculo, va’!
Stefano Disegni
disegnatore satirico e autore televisivo