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settembre 2013
anno 4 numero 11
Non si tocchi la Costituzione
LETTERA AI DEPUTATI
Caro Deputato, pervenuto alla Camera dei Deputati, il disegno di legge Costituzionale recante il titolo “Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali”, che il Senato ha approvato, l’11 luglio, dopo un esame rapidissimo effettuato con procedura d’urgenza. La stessa procedura d’urgenza è imposta anche alla Camera, essendo già previsto che il d.d.l. costituzionale debba essere esaminato dall’aula entro la fine del mese di luglio. Tanta fretta non è sintomo di efficienza e non è giustificata dalla materia trattata, che ha per oggetto l’instaurazione di una procedura straordinaria per la revisione costituzionale, in deroga all’art. 138 Cost., allo scopo di agevolare una revisione profonda della Costituzione che investe i titoli I, II, III e V della Parte seconda, ma può estendersi anche alle garanzie giurisdizionali e costituzionali (titolo IV e VI) ed alla prima Parte. CONTINUA A PAGINA 6 ➔
BELLA E POSSIBILE
C’è chi la vuole cambiare a immagine e somiglianza dei propri privati interessi. Eppure la nostra Costituzione ha solo bisogno di essere realizzata. Quello che manca è la volontà politica di farlo: tocca a tutti noi ricrearla ARTICOLI DA PAGINA 2 A PAGINA 7 ➔
illustrazione di marilena nardi
È
A luglio partiva la corsa parlamentare per la cosiddetta “riforma costituzionale”. Dopo la lettera che i rappresentanti dei Comitati Dossetti hanno inviato ai senatori, un’altra lettera, con identico invito, è stata inviata ai deputati dall’“Associazione per la Democrazia Costituzionale”, dall’“Associazione nazionale Giuristi Democratici”, da “Articolo 21 liberi di...” e dagli stessi “Comitati Dossetti per la Costituzione”. Questo il testo, condiviso dall’ANPI.
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C’è bisogno di “manutenzione” e non di tradimento il fiore del partigiano
IL PARERE DI UN AUTOREVOLE MAGISTRATO, GIUDICE PRESSO LA C
La nostra bella Costituzione frutto della sapienza dell’antifascismo DOMENICO GALLO
I
di
da Patria indipendente del luglio 2013
l Presidente della Repubblica, in un discorso commemorativo di Gerardo Chiaromonte, l’8 aprile del 2013, ha espresso un forte apprezzamento per quella scelta inedita di solidarietà nazionale che portò il PCI di Berlinguer ad una politica di collaborazione di governo con la Democrazia Cristiana, in un momento di grave crisi della Repubblica. Qualcuno ha inteso trasferire quell’apprezzamento per le coraggiose scelte di Berlinguer e Moro alla politica di larghe intese (fra PD e PDL) che il Presidente Napolitano, ancor prima di essere rieletto, ha propugnato nei fatti, attraverso l’espediente del comitato dei “saggi”, istituito il 30 marzo scorso, con il compito di predisporre una base programmatica per un governo di larghe intese. Sennonché considerare le larghe intese odierne come qualcosa di simile al compromesso storico è un vero e proprio falso ed un assurdo costituzionale: nel 1976, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana erano i titolari delle principali culture politiche che avevano originato la Costituzione e sviluppavano la loro azione politica all’interno dell’arco costituzionale. La Costituzione dava legittimazione politica a quell’operazione e non c’era nulla di innaturale nel fatto che due partiti, avversari per anni, in un momento di grave crisi, trovassero una unità di intenti nell’interesse superiore della salvezza della Repubblica, insidiata da fenomeni eversivi. Nel 2013 l’alleanza avviene fra una forza politica che si trova, se non altro per le tradizioni politiche da cui ha avuto origine, all’interno del quadro costituzionale ed una forza politica che, per la sua stessa struttura, oltre che per le ideologie fasciste di cui è
portatrice una parte del suo corpo sociale, vede nella Costituzione il suo principale nemico e l’ostacolo da abbattere per realizzare i suoi obiettivi politici; fra un soggetto politico che ha sbandierato la legalità come suo valore fondante ed un soggetto politico che ha fatto dell’impunità del suo capo e del ceto dirigente l’alfa e l’omega della propria azione. In realtà il funzionamento della democrazia costituzionale impone la formazione di un Governo che entra nella pienezza delle sue funzioni soltanto dopo aver ricevuto la fiducia delle due Camere. L’idea che le istituzioni possano funzionare solo per via parlamentare anche senza un governo in carica, spacciata dal Movimento 5 Stelle per sottrarsi alle proprie responsabilità politiche, è una patetica bizzarria, che ha reso possibile la nascita di questa inusitata maggioranza, in assenza di altre alternative. La democrazia costituzionale è un regime inclusivo: i costituenti non hanno inteso proteggere la Costituzione al punto di frapporre sbarramenti all’accesso in Parlamento a forze politiche portatrici di culture incostituzionali, salvo il divieto di riorganizzazione in qualsiasi forma del Partito nazionale fascista. La Costituzione, anzi l’edificio della democrazia, viene protetto non sottoponendo ad esami le forze politiche che si presentano in Parlamento, ma attraverso l’architettura dei poteri che garantisce il pluralismo politico ed istituzionale e assicura l’equilibrio e la distribuzione dei poteri, regolandone l’esercizio e prevedendo robuste strutture di garanzia per reprimerne gli
Nessun imperativo assoluto. Le “larghe intese” non hanno niente a che vedere con il “compromesso storico”
abusi. Donata Borgonovo Re, nella premessa al suo libro Le quattro stelle della Costituzione1, cita un comunicato di un gruppo politico che aveva raccolto 30.000 adesioni ad una campagna che si proponeva l’elezione di una nuova Assemblea Costituente, con lo scopo di riscrivere una nuova Costituzione, essendo quella “vecchia” definita «solo un ammasso di regole tese a combattere il rischio di un nuovo fascismo». Orbene, si dà il caso che questo «ammasso di regole tese a combattere il rischio di un nuovo fascismo» sia il DNA della democrazia e costituisca il lascito, il patrimonio irrecusabile della Resistenza che ha consegnato – per sempre – al popolo italiano il dono della libertà, a così caro prezzo conquistata. Infatti, se i princìpi fondamentali della Costituzione sono antitetici rispetto a quelli proclamati o praticati dal fascismo, tuttavia è l’architettura del sistema istituzionale che fa la differenza ed impedisce che, ove mai giungano al governo forze politiche caratterizzate da cultura o aspirazioni antidemocratiche (com’è successo nel nostro Paese con l’avvento dei vari Governi Berlusconi), queste forze possano realizzare una trasformazione autoritaria delle istituzioni, aggredendo il pluralismo istituzionale (per es. riducendo l’indipendenza della magistratura) o il sistema delle autonomie individuali e collettive (libertà di espressione del pensiero, libertà di associazione, diritto di sciopero, etc). La Costituzione, insomma, rende impossibile ogni forma di “dittatura della maggioranza”. Proprio per questo, negli ultimi venti anni, da un vasto arco di forze politiche la Costituzione è stata vissuta come un impaccio, come una serie di fastidiosi vincoli, di cui sbarazzarsi per restaurare l’onnipotenza della politica. La modifica dell’architettura dei poteri, come disegnata dai Costituenti, è l’idea fissa tenacemente perseguita da Berlusconi nel corso della sua lunga avventura politica. Del resto quale sia il modello di governante
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il fiore del partigiano
illustrazione di marilena nardi
ESSO LA CORTE DI CASSAZIONE
che piace a Berlusconi ce l’ha detto lui stesso, qualche anno fa, nel corso di un dibattito pubblico alla presentazione di un libro di Bruno Vespa sui precedenti Presidenti del Consiglio: «Tra tutti gli uomini di cui si parla in questo libro – ha detto Berlusconi citando l’ultima fatica letteraria di Vespa – c’è un solo uomo di potere, ed è Mussolini. Tutti gli altri, poteri, non ne hanno, hanno solo guai. Credo che se non cambiamo l’architettura della Repubblica non avremo mai un premier in grado di decidere, di dare modernità e sviluppo al Paese»2. Non a caso la riforma della seconda parte della Costituzione, approvata dalla maggioranza di centro destra nel 2005 (e poi bocciata dagli elettori nel giugno del 2006) introducendo una sorta di “premierato assoluto”3, ridisegnava i poteri del capo del Governo sulla falsariga della legge 24 dicembre 1925 n. 2263 (Attribuzioni e prerogative del Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato) con la quale Mussolini aveva introdotto il suo “Presidenzialismo”, mettendo fuori gioco il Parlamento e sottoponendolo al potere del decisore politico. Quel progetto politico non è stato mai abbandonato ed adesso, sia pure sotto forma di opzione possibile, è entrato addirittura nel programma del Governo Letta, che ha inserito nella sua piattaforma programmatica l’esigenza di procedere ad una vasta revisione della II Parte della Costituzione, vale a dire della forma di governo, della forma di Stato e del sistema delle autonomie, in tempi strettissimi e con una procedura d’ec-
Il disegno di legge costituzionale (A.S. n. 813) d’iniziativa del Governo è una legge-grimaldello contro la Costituzione
cezione, come se la riforma dell’architettura dei poteri prefigurata dai Costituenti fosse un imperativo assoluto ed autoevidente. Orbene la Costituzione italiana si differenzia dallo Statuto Albertino anche perché prevede una procedura aggravata per la sua revisione, compiutamente disciplinata dall’art. 138 e dei limiti insuperabili al potere di revisione, dettati dall’art. 139, che statuisce che la forma repubblicana non può essere messa in discussione. La Costituzione, inoltre, impedisce anche ogni forma di revisione implicita che sia effettuata mediante il ricorso fraudolento a leggi ordinarie e richiede sempre la procedura ordinaria per l’esame dei disegni di legge in materia costituzionale (art. 72). Queste regole definiscono il carattere rigido della Costituzione ed incanalano le sue possibili modifiche all’interno di un procedimento di revisione che costituisce esercizio di un potere “costituito” e non “costituente”. Uno dei difetti principali dello Statuto Albertino consisteva nel fatto che si trattava di una Costituzione “flessibile”, modificabile sia dalle leggi ordinarie sia dalla consuetudine; per questo lo Statuto finì per adattarsi alle varie stagioni politiche del Regno d’Italia, non costituendo neppure un ostacolo per l’instaurazione della dittatura fascista. Per questo la rigidità della Costituzione costituisce una garanzia per la Repubblica che i Costituenti hanno inserito proprio perché memori della debolezza della precedente Carta costituzionale. Il disegno di legge costituzionale (A.S. n. 813) d’iniziativa del Governo, avente ad oggetto l’istituzione del Comitato Parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali, integra un vero e proprio illecito costituzionale perché incide sul carattere rigido della Costituzione, attenuandolo fortemente. I Comitati Dossetti, in un appello pubblicato il 10 giugno 2013, hanno lanciato un grido d’allarme, definendolo una «legge grimaldello contro la Costituzione». Il prof. Alessandro Pace, nel corso dell’audizione informale tenutasi il 21 giugno dinanzi alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, ha indicato la gravità del vizio di costituzionalità che si cela dietro le formule “procedura straordinaria per la revisione”, “deroga una tantum” o “procedimento speciale derogatorio”, osservando che: «in conseguenza di una deroga una tantum, una o più parti della nostra Costituzione verrebbero definitivamente modificate. Il c.d. “procedimento speciale derogatorio” costituisce quindi una modifica surrettizia con effetti permanenti della procedura ex art. 138 Cost.». In altre parole, con una procedura straordinaria si attenua temporaneamente il carattere rigido della Costituzione, ma gli effetti di questa procedura temporanea saranno definitivi attraverso l’approvazione, mediante un percorso semplificato, delle leggi che dovranno modificare il Titolo I, II, III e V della seconda parte della Costituzione.
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Del resto l’oggetto di questa legge è proprio quello di semplificare il percorso di approvazione delle leggi di revisione costituzionale, comprimendo i tempi e lo spazio di riflessione, poiché viene consentita la seconda lettura ad intervallo non minore di un mese, a differenza dei tre mesi previsti dall’art. 138. Cambiare l’architettura dei poteri costituzionali, come prefigurati dai Costituenti, diventerà un’operazione banale, come approvare una legge finanziaria per la quale non bisogna perdere tempo. Orbene, la Costituzione non è un tabù: come ogni costruzione giuridica può avere bisogno di manutenzione, ma non deve essere tradita e non sono ammissibili cambiamenti che incidano sulla forma repubblicana, introducendo per esempio una monarchia elettiva, secondo il modello della costituzione di Arcore. È inaccettabile che un governo costruito su un’alleanza precaria, con una forza politica che si colloca al di fuori dell’arco costituzionale, invece di concentrarsi sui gravissimi
a cura di
MAURIZIO GHEZZI
Se questa prima Repubblica, come dicono molti osservatori, è alla fine, finisce male, malissimo. Per chi come me appartiene alla generazione che ha assistito pieno di speranza alla sua nascita, questa considerazione è molto amara. Ormai non ho altro desiderio che di uscire di scena. La gestazione della seconda Repubblica, se dovrà nascere, sarà lunga. Forse non avrò nemmeno il tempo di vederne la fine. Ma poiché, se nascerà, nascerà con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà che nascere male, malissimo, come male, malissimo è finita la prima. Norberto Bobbio
da un articolo, scritto nel 1991 per la Stampa, mai pubblicato per volontà dello stesso bobbio in quanto ritenuto troppo pessimistico. esso è stato pubblicato 20 anni dopo in Della stessa leva. Lettere (19421999) carteggio fra Norberto Bobbio ed Eugenio Garin, aragno torino 2011
problemi economico-sociali che affliggono il nostro Paese, costruisca il pactus foederis sull’imperativo di modificare la Costituzione, da realizzarsi infliggendo un vulnus al carattere rigido della Costituzione, frutto della sapienza dell’antifascismo. note 1) donata borgonovo re, Le quattro stelle della Costituzione, il margine editore, aprile 2013 2) Corriere della Sera del 12 dicembre 2007 3) È questa la definizione che fu formulata da leopoldo elia
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Non può un Parlamento di “nominati” cambiare la nostra Carta
A COLLOQUIO CON LO STUDIOSO E SAGGISTA SALVATORE SETTIS, ARCHEOLOGO DI F
Una riflessione sulla Turchia laica e kemalista e le sue mobilitazioni. I tentativi di modificare anche l’art. 41. Veri e propri tentativi eversivi. Le soprintendenze e i “colpi” riusciti di “smontare” tutto per privatizzare
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di
ANNA LONGO
da Patria indipendente del luglio 2013
orrei partire da un fatto recente, la protesta in Turchia, cominciata a fine maggio per difendere un parco e i suoi alberi contro il progetto del governo Erdogan di costruirvi un mega centro commerciale e altre strutture, fra le quali una caserma. Il Gezi Park, nella piazza Taksim a Istanbul, è stato voluto dal presidente Ataturk, ed è anche un simbolo di quella Turchia laica che con Erdogan rischia di scomparire. La protesta si è estesa in altre città e certamente riguarda problemi più ampi che non solo la questione della distruzione di un pezzo di verde pubblico. Tuttavia non mi sembra casuale che sia stata proprio questa espropriazione di un bene comune fisico, tangibile, a far esplodere la rivolta turca. Cosa ne pensa? So poco della Turchia, ma ho l’impressione che questi eventi contribuiscano a mostrare una delle sue caratteristiche essenziali: lo scontro fra una cultura laica di tradizione kemalista e la tentazione di un ritorno all’identità “ottomana”. E mi pare significativo che la difesa di un parco sia diventato il terreno di battaglia. Dalla Turchia viene una delle voci più alte e sofisticate della letteratura mondiale, quella di Orhan Pamuk. Vorrei citare una sua frase, scritta pensando agli speculatori edilizi di Istanbul: «La nostra esistenza dipende dalle decisioni di uomini che disprezziamo. Tutti gli osceni palazzinari di cui ci lamentiamo da anni, i comuni annaspanti nella corruzione, i costruttori senza regole e i politici imbroglioni sono stati prodotti da noi, sono parte di noi, e il nostro disprezzo non ci ha minimamente protetto dalle loro malefatte». Prima di guardare alla Turchia dall’alto in basso, chiediamoci: non sono forse parole adattissime anche all’Italia? In “Paesaggio Costituzione Cemento - la battaglia per l’ambiente contro il degrado civile” (Einaudi 2010), lei parla dell’Italia, della profonda incomprensione che si dà nei confronti del valore del nostro paesaggio, il tradimento della vocazione culturale italiana, i paradossi che ne
conseguono. A partire dall’Articolo 9, proprio la Costituzione, secondo lei, è un baluardo. Vede dei pericoli nelle ipotesi di modifiche di cui oggi si discute? Chi parla di riforme costituzionali dice spesso di riferirsi solo alla seconda parte della Costituzione, ma non mancano tentativi di metter mano anche alla prima. Il governo Berlusconi prima, il governo Monti poi, hanno parlato di modificare l’art. 41, secondo il quale la libertà d’impresa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Vogliamo dunque una Costituzione in cui la libertà d’impresa, che essa già pienamente riconosce, debba da ora in poi esercitarsi senza alcun limite, e cioè anche quando sia in contrasto con l’utilità sociale, anche quando rechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana? Ma c’è un problema ancor più radicale: anche per modificare la seconda parte della Costituzione (per esempio nel senso di una Repubblica “presidenzialista”, fortemente voluta da Berlusconi con il consenso di troppi altri), questo Parlamento non è legittimato, in quanto è un Parlamento non di eletti, ma di nominati con una legge elettorale iniqua e anticostituzionale, che merita il nome di Porcellum, e che a quel che pare nessuno vuol davvero cambiare. Forse un precedente di cui non bisogna dimenticarsi è la modifica del Titolo V della seconda parte della Costituzione, attuata nel 2001. A distanza di dodici anni quali sono le conseguenze? Il Titolo V fu modificato da un governo di centro-sinistra stabilendo un pessimo precedente. Pessimo in due sensi: primo, perché la riforma fu approvata dal Parlamento con pochissimi voti di margine, e purtroppo poi confermata da un referendum popolare. Secondo, perché la riforma aveva il dichiarato scopo di contenere il secessionismo della Lega con un federalismo “morbido”: ma pochi mesi dopo la Lega tornò al governo, e con la complicità di Berlusconi tentò di far passare una riforma costituzionale ben più profonda, anzi eversiva. Per fortuna essa fu bocciata da quello che è e resta il più grande schieramento italiano, il “partito della Costituzione”:
infatti, nel referendum del 2006 votarono contro quella sgangherata riforma quasi 16 milioni di italiani (il 62 % dei voti espressi). Eppure, la sinistra non seppe fare nessun uso di quel risultato folgorante. Anzi, “a sinistra” c’è chi si è passivamente rassegnato ad appoggiare il rilancio di quella stessa riforma che il voto popolare ha sonoramente bocciato. Bisogna riprendere il motto del Comitato che allora promosse il “no” al referendum: Salviamo la Costituzione: aggiornarla non demolirla. Una Costituzione nata dalla Resistenza non può essere cambiata da un Parlamento nato dal Porcellum. Ci si è forse illusi che le Regioni potessero garantire un più efficiente governo del territorio, ma invece neanche sono stati fatti i Piani Paesaggistici previsti dal Codice dei Beni Culturali. È una convinzione diffusa che lo Stato non funzioni e non possa funzionare, si invocano gli interventi dei privati o la formula della Fondazione. Per la Reggia di Caserta si immagina una “Soprintendenza Speciale”. Davvero lo Stato non può funzionare? Se le Soprintendenze non funzionano, il che purtroppo è spesso vero, è perché sono state consapevolmente defunzionalizzate bloccando quasi del tutto il turn-over (ormai da oltre vent’anni) e tagliando drasticamente i finanziamenti. Inoltre, numerosi ministri (in particolare, la micidiale sequenza Bondi-Galan-Ornaghi) hanno delegittimato i loro stessi funzionari con il proprio disinteresse e con il malcelato disprezzo delle procedure della tutela. In altri termini: al consapevole, programmato smontaggio dello Stato (e questo non è certo il solo aspetto) seguono le lacrime di coccodrillo perché lo Stato non funziona. Il progetto è chiaro: smontare le strutture statali per rendere possibile la spartizione del bottino mediante ondate di privatizzazioni selvagge. Sarebbe bello se il nuovo ministro Bray trovasse il coraggio (e le competenze) per capovolgere questa tendenza perversa. Lei nei suoi libri, nei suoi articoli, nei suoi interventi – ricordo quello a Palazzo Ducale di Genova per il convegno dal titolo “Benedetta Cultura”, il primo ottobre 2011 (visibile al link
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OGO DI FAMA MONDIALE
http://www.palazzoducale.genova.it/naviga.asp?pagina=7079) – non tralascia le interconnessioni che legano la cupidigia speculativa italiana a un fenomeno più generale e universalmente diffuso che riguarda il comportamento dei politici e degli stessi cittadini. Le ultime elezioni amministrative hanno promosso molti sindaci di sinistra. È una garanzia, secondo lei? Non sono fra quelli che credono scomparsa ogni distinzione fra “destra” e “sinistra”, ma nemmeno fra gli ingenui secondo cui con l’etichetta di “sinistra” ci si salva l’anima. In una fase storica in cui, capovolgendo il responso delle urne, abbiamo un governo determinato quotidianamente dagli interessati e calcolati capricci di Berlusconi, che le elezioni le aveva perse, una vera “sinistra” avrebbe dovuto rifiutare radicalmente ogni alleanza, anche temporanea, con il nemico. Finché questo non avverrà sarà bene diffidare in linea di principio di chiunque, anche di chi si proclama “di sinistra”. Se poi questo o quel sindaco governerà bene e non si mostrerà succube di Berlusconi, andrà debitamente riconosciuto. Sulla base dei fatti, e non sulla base degli schieramenti.
Nel suo ultimo saggio, “Azione popolare - Cittadini per il bene comune” (Einaudi 2012), lei individua proprio nelle azioni di base, nella capacità delle persone e delle Associazioni di presidiare il territorio e di orientare i politici, la vera potenzialità di salvezza per il nostro Paese. Ritornando alla questione che le ho posto all’inizio a proposito della Turchia, mi pare che sia davvero un dovere di ognuno di noi impegnarsi personalmente, sorvegliare cosa succede attorno a noi, alzare la voce contro ogni forma di piccola o grande svendita o dispersione di territori e beni comuni, dai luoghi di pregio come il centro dell’Aquila ancora in rovina o come la Reggia di Carditello finita all’asta, alle spiagge selvagge (solo 400 chilometri ne sono sopravvissute su 8000 chilometri di litorale) annullate da chioschi privati, dalla campagna agricola divorata dal cemento, agli abusi e agli scempi sempre tollerati. L’impegno diretto è la strada da prendere? Le sembra che si stia facendo? Le associazioni e i movimenti di opposizione “vedono” quel che sembra sfuggire a chi ci governa: il baratro che si è aperto fra l’orizzonte delle nostre aspirazioni e dei nostri diritti e le pratiche di governo. Tuttavia, le associazioni e i movimenti, pur generando anticorpi spontanei alle pratiche antidemocratiche, stentano a trovare un denominatore comune, un manifesto che possa tradursi in azione politica. Ma questo manifesto esiste già. È la Costituzione, che va rilanciata come la Carta dei diritti della persona e della collettività. Perciò l’azione popolare, o di resistenza civile in nome del bene comune, va intesa come adversary democracy: e cioè come esercizio pieno della cittadinanza, che non si esaurisce nel voto, ma si estende a una continua vigilanza critica e capacità propositiva. Essa non sostituisce la rappresentanza politica, ma si affianca ad essa, la controlla e la stimola. Non è contro la democrazia: al contrario, intende salvare la democrazia mediante la partecipazione dei cittadini, secondo il disegno della Costituzione.
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INCONCEPIBILE IL LIBERO PENSIERO PER UN COMICO
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Perché dà fastidio il Benigni “costituzionale” da l’Unità del 21 dicembre 2012
l geniale, l’aristotelico (sì, proprio aristotelico nell’ispirazione ideale) Roberto Benigni, che celebra non solo la bellezza ma canta addirittura la superiore dignità etica della politica, ha creato scompiglio. Dopo anni di distruzione pianificata della bellezza della politica (anche Tornatore ne aveva parlato in un suo film che incorniciava la dolce memoria della militanza lontana), è imperdonabile che proprio un comico rivendichi una così elevata concezione della nobiltà dell’agire politico. E se Galli della Loggia sul Corriere reprime il suo disappunto (si limita a un punto esclamativo) innanzi a un simile inaudito spettacolo (che fa della Carta «oggetto delle divagazioni di un comico»), Maurizio Belpietro non si trattiene. E, in un editoriale di Libero, colpisce duro il «Robertaccio che prendeva in braccio Berlinguer» e ora pretende di parlare di politica e Costituzione. Suscita uno scandalo immenso un artista che non attraversa a nuoto lo stretto di Messina o che non ci sta a far da comprimario nello stupido coro del conformismo antipolitico. E allora l’insofferente Belpietro, cioè lo stesso sedicente apostolo del mercato che denuncia il puzzo sovietizzante impresso nella nozione di lavoro scolpito nella Carta, scatta subito per rimproverare a Benigni di essere «il milionario». E il libero mercato, e l’incontro tra domanda e offerta, che tanto stanno a cuore al liberale Belpietro? Al solito, questi articoli di fede vanno subito mandati alla malora quando premiano un artista che nelle sue idee osa rimanere ancora legato al lavoro. Il fatto è che Benigni non si accoda a quell’astioso ronzio che a reti unificate predica senza tregua contro la politica. In un tempo di ricchi sfondati che comprano giornali per dire basta ai politici o di frenetici capitalisti che creano partiti e liste personali per tentare la scalata al governo, di davvero dissacrante (per smascherare il potere vero, non quello di comodo), non c’è altro che recuperare la celebrazione aristotelica del primato della politica. Il prodotto più grande della politica italiana novecentesca, di quell’incontro storico eccezionale che spinse tutti (Palmiro, Alcide, Nenni, come si esprime Benigni) a dare il meglio sul piano della
progettazione culturale, è senza dubbio la Costituzione repubblicana. Un capolavoro. Con un tocco di sublime acutezza, Benigni ha reso con trasparenza, e forse meglio di molti interpreti professionali, il senso del principio di solidarietà che la pervade nel profondo. La doverosità dell’essere solidali, ha suggerito il comico con un autentico lampo di rischiaramento concettuale, equivale a istituzionalizzare una passione. È come se il principio psicologico di Hume della simpatia, intesa come passione del soggetto che lo porta a prestare cura anche al disagio degli altri, venisse riconosciuto per legge e proposto come pilastro della pubblica città. Quando Benigni ha rammentato la distinzione tra lavoro (nozione allargata che comprende più figure, attività e soggetti) e lavoratore (nozione più ristretta e con una venatura classista) ha mostrato di saperne molto di più, sul fondamento materiale della Repubblica, di tanti suoi seriosi censori che suppongono che chi maneggia metafore non possa poi veicolare pensieri. Fanno finta di avere la puzza sotto il naso dinanzi all’affronto di un comico che con parole e segni poetici si azzarda a parlare di Costituzione. In realtà provoca rabbia il fatto che, combinando con una straordinaria efficacia immagini e retorica, concetti e metafore, senso e significato, Benigni abbia colto, e trasmesso plasticamente a un vasto pubblico, la grandezza ideale persistente della Carta del ‘48. C’è una forte componente della politica italiana, che Belpietro rappresenta senza infingimenti, che il progetto di società tracciato nella Costituzione lo avversa alla radice e non esita per questo a svelare «la menzogna della Repubblica fondata sul lavoro». Lavoro, solidarietà, eguaglianza, diritti sono parole che ancora destano resistenze e il comico che, con i suoi peculiari simboli e con le sue specifiche immagini, invece riesce a farne dei concetti concreti e a dare loro una sostanza vitale merita l’irrisione. Benigni procura un senso di fastidio a Belpietro o Della Loggia non già perché abbia ridotto le cose serie a barzelletta, come scrive Libero. «Robertaccio» fa arrabbiare perché ha disvelato la fecondità valoriale inesauribile di quell’antico compromesso firmato nel 1947 da Palmiro, Alcide e Nenni (e altri ancora).
Michele Prospero
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il fiore del partigiano
Il lavoro per tutti è la profezia della politica
UNA RIEVOCAZIONE DELLA PERSONALITÀ DI GIUSEPPE DOSSETTI, IN OCCASIONE DEL
Dossetti fu una figura cruciale del cattolicesimo democratico. Pochi sanno che l’articolo 1 della Costituzione nacque da un suo colloquio in un bar di Roma con Togliatti
D
di
da l’Unità del 10 febbraio 2013, in occasione della commemorazione di Giuseppe Dossetti, nel centenario della nascita, tenuta alla Camera alla presenza del Presidente della Repubblica
PIERLUIGI CASTAGNETTI
ossetti, partigiano e presidente del Cln di Reggio Emilia, è stato impegnato in politica (prima alla Consulta, poi all’Assemblea costituente, poi in Parlamento e nella Dc di cui fu vicesegretario) per un periodo di soli sette anni, a cui hanno fatto seguito 44 anni di impegno come uomo di Chiesa, prete e monaco. Anche nella vita della Chiesa è inevitabilmente ricordato per il suo straordinario apporto riformatore, come consigliere del cardinal Lercaro e di monsignor Bettazzi, e poi come moderatore e perito al Concilio Vaticano II. Il cardinal Martini lo definì
Non si tocchi la Costituzione
➔ SEGUE DA PAGINA 1
La Costituzione non è una questione che possa essere trattata con somma urgenza come avviene per le leggi finanziarie, le cui correzioni possono essere imposte da situazioni contingenti e di mercato. Le Costituzioni non sono un puro atto di diritto positivo imposto comunque da un legislatore: esse nascono da un processo storico, sono memoria e progetto e, come tali, definiscono l’identità di un popolo, di una comunità politica organizzata in Stato. La nostra Costituzione porta dentro di sé la memoria di 100 anni di storia italiana, nel bene e nel male; contempla le ferite del fascismo, il suo ripudio attraverso la lotta di liberazione e realizza le garanzie perché il fascismo non venga più riprodotto, attraverso una tecnica di equilibrio dei poteri che impedi-
«profeta del nostro tempo», sottolineando la sua straordinaria capacità di associare profezia religiosa e profezia politica. Ma in questa sede vogliamo ricordare il Dossetti costituente per un aspetto meno conosciuto e studiato. Di lui infatti si ricorda il decisivo apporto nella definizione della struttura personalistica della Carta, negli articoli 2 e 3, e poi i due articoli di cui è stato relatore, il 7 e l’11. È stato meno approfondito il suo apporto alla definizione dei contenuti economico-sociali della Costituzione, in particolare sul tema del lavoro. Così come poco si dice del suo rapporto stretto con Palmiro Togliatti, che lui stesso evocherà nel discorso all’Archiginnasio di Bologna nel 1986, come decisivo per la definizione di alcune “architravi” costituzionali. Un sacerdote di Bologna, mons. Giovanni Nicolini, ricorda ancora quando gli capitò di accompagnare in auto Dossetti e La Pira e ascoltare le memorie di questi due grandi protagonisti dell’Assemblea costituente. Dossetti parlò di quando, all’inizio dei la-
vori, incontrò riservatamente Togliatti in un bar vicino a piazza del Popolo, al fine di sciogliere alcuni nodi preliminari e, in particolare, di decidere il principio ispiratore di tutta la Carta, quello che già in quel colloquio, avrebbe dovuto essere l’articolo 1. I due non si conoscevano bene ma nella conversazione si superò presto l’impaccio iniziale. Fu Dossetti a rompere gli indugi e a indicare il tema del lavoro, destando ovviamente consenso ma anche qualche comprensibile sospetto da parte di Togliatti: «Lei lo fa per compiacermi». «No, non mi interessa compiacerla, sono proprio convinto che il tema del lavoro debba rappresentare il cuore della nostra Carta e un punto di incontro fra posizioni culturali che per altri aspetti non sono facilmente conciliabili. La strada per arrivare al comune obiettivo è probabilmente diversa fra noi due. Per lei il tema del lavoro è importante per ragioni politiche e sociali comprensibili, per me è importante come presupposto costitutivo della centra-
sce ogni forma di dittatura. La Costituzione italiana è stata forgiata in quel “crogiolo ardente” rappresentato dall’evento globale costituito dalla seconda guerra mondiale e porta l’impronta di uno spirito universale. Mettere mano alla Costituzione non è mai un’azione banale, vuol dire mettere mano alla storia, interrogarci sulla nostra storia, sulle conquiste di civiltà giuridica faticosamente raggiunte, sui successi, sui fallimenti, sui pericoli che sono all’orizzonte. La Costituzione può essere riformata per adeguarla ai tempi, ma non tollera revisioni radicali che ne snaturino l’impianto. I beni pubblici repubblicani che i Costituenti hanno attribuito al popolo italiano, inerenti la garanzia dei diritti fondamentali e la qualità della democrazia, costituiscono un patrimonio irrecusabile, che non può e non deve essere smantellato. Proprio per tutelare l’indisponibilità di questo
patrimonio, la Costituzione ha previsto un procedimento “rigido” di revisione, incardinato nei binari dell’art. 138, con il limite dell’immodificabilità della forma repubblicana e dei principi costituzionali supremi. Fra questi ultimi, come rimarcato da autorevole dottrina, rientra il principio della salvaguardia della rigidità costituzionale, che è il più supremo di tutti: infatti, se si intaccasse la rigidità della Costituzione, tutti i suoi principi e valori verrebbero esposti agli umori delle contingenti maggioranze politiche e perderebbero di effettività. Il fatto che per avviare un processo di revisione costituzionale (la cui iniziativa, comunque, non spetterebbe al Governo ma al Parlamento) si pretenda di incidere sulla rigidità della Costituzione, lascia trasparire l’intento (o quantomeno la possibilità) che il processo riformatore esorbiti dai limiti sostanziali che la Carta stessa fissa alla sua revisione; limiti che da molto tempo
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ONE DEL 100° ANNIVERSARIO DELLA SUA NASCITA
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lità della persona: senza il lavoro non c’è dignità e senza dignità l’individuo non diventa persona». Nasce probabilmente in quella occasione e in quel contesto non solo l’intesa per definire il contenuto dell’articolo 1 (il cui testo sarà formalmente presentato poi da Fanfani), ma un rapporto personale che segnerà tutta la vita dell’Assemblea costituente, a partire appunto dal dibattito nella prima sotto-commissione sul tema del lavoro. Ne ha parlato puntualmente il costituzionalista Mario Dogliani, nel seminario del 15-16 ottobre 2011 tenuto a Montesole sul tema «Il lavoro nel pensiero di Giuseppe Dossetti», a cui parteciparono anche i professori Ugo De Siervo e Salvatore Natoli. Il pensiero di Dossetti sul lavoro è anticipato nell’articolo “Triplice vittoria” apparso sulle pagine di Reggio democratica sulla vittoria laburista nelle elezioni del 1945 in Gran Bretagna. La discussione nella prima sotto-commissione prende spunto proprio da una proposta formulata da Moro e Dossetti: «Ogni cittadino ha diritto al lavoro e il dovere di svolgere un’attività o esplicare una funzione idonea allo sviluppo economico o culturale o morale o spirituale della società umana, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta». La discussione ovviamente si sviluppa a lungo e i testi si modificano. Quando si affronta il problema del
salario, la prima formulazione che viene posta in discussione è congiunta di Togliatti e Dossetti: «La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve soddisfare le esigenze di un’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia». Questa è una formula che poi è rimasta ed è confluita nell’articolo 36. È ancora Dossetti a dichiarare: «Il lavoro è il fondamento di un diritto che però non è concepito come un diritto nei confronti del datore di lavoro, ma come un diritto che si dirige verso l’intera società, che ha il suo fondamento non nella naturalità dell’individuo, ma nel fatto che lavora... Il diritto ad avere i mezzi per un’esistenza libera e dignitosa non deriva dal semplice fatto di essere uomini, ma dall’adempimento di un lavoro... Questa non è un’utopia perché non possiamo rinunciare al sogno, sogno inteso come sogno politico, di avviare la struttura sociale verso una rigenerazione del lavoro... in modo che il suo frutto sia adeguato alla dignità e alla libertà dell’uomo. Tali principi programmatici non avranno la possibilità di operare un miracolo... ma serviranno almeno ad una progressiva elevazione delle condizioni di lavoro nel prossimo avvenire». E La Pira precisa: «Gli articoli formulati dalla sotto-commissione sono sempre partiti... dalla premessa che essi debbono concorrere a far cambiare la struttura economica e sociale del Paese». Dopo una lunga discussione si arriverà finalmente all’approvazione di una nuova formulazione leggermente diversa, sempre a firma Dossetti-Togliatti: «La remunerazione del lavoro intellettuale o tecnico manuale deve soddisfare le esigenza di esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia». Si potrebbe continuare ancora a leggere i verbali di quel lungo dibattito che affronterà varie altre questioni, in particolare quelle relative al diritto di sciopero, alla finalizzazione della libertà ecosono contestati da forze politiche portatrici di nomica e ad altri aspetti, e sempre reculture estranee ai principi e valori costituziogistreremo gli interventi di Togliatnali, le quali, assieme all’antifascismo, conteti-Dossetti, Togliatti-La Pira, Morostano la divisione dei poteri ed il principio Basso-Dossetti-Togliatti, i veri protafondamentale che la Repubblica sia “fondata sul gonisti di una discussione che anche lavoro”. allora ruotava attorno alla centralità di un diritto soggettivo che è presupPer queste ragioni ti chiediamo di votare contro posto di altri diritti, un diritto che dà questo disegno di legge che integra un vero e senso e coagulo alla trama di tutti i proprio illecito costituzionale: siamo infatti conrapporti economico-sociali, su cui vinti che la fedeltà alla Costituzione debba preavrebbe dovuto reggersi l’intera arvalere sulla disciplina di partito e su ogni altra chitettura costituzionale. considerazione di opportunità politica e ti preNon è mia intenzione trascinare Dosghiamo di rivendicare la procedura normale setti nel dibattito politico, e ancor dell’art. 138 per le pur opportune modifiche comeno in quello elettorale di oggi, ma stituzionali. non possiamo non rilevare la straordinaria attualità di un pensiero che Domenico Gallo, Raniero La Valle, può aiutare ancora a dare un senso e Roberto Lamacchia, una prospettiva al processo di proGiuseppe Giulietti, fondo cambiamento nel quale ci troTommaso Fulfaro, Federico Orlando viamo inevitabilmente inseriti.
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RILANCIAMO LA PETIZIONE SULLE STRAGI NAZIFASCISTE
Vogliamo verità e giustizia
L’
ANPI, ritenendo doveroso fare il punto della situazione sulla questione delle stragi nazifasciste, per le quali il nostro Paese ha versato un tributo di sangue di circa 15.000 caduti, disseminando eccidi compiuti anche prima dell’otto settembre 1943, dalla Sicilia fino al nord Italia con l’esercito tedesco in rotta verso la Germania, ha deciso di assumere la questione delle stragi nazifasciste come una sua battaglia nazionale, rivendicando “verità e giustizia” per le vittime. L’azione dell’associazione si è incardinata nella costituzione di una apposita commissione di lavoro, che ha teso verso tre indirizzi fondamentali: la costituzione come parte civile dell’ANPI in tutti i processi di strage, la raccolta di tutti i materiali giudiziari e parlamentari delle stragi che attualmente sono difficilmente reperibili e consultabili per motivi sia burocratici che politici e, non ultimo come importanza, censire attraverso la realizzazione di una mappa tutte le stragi avvenute, in quanto ad oggi non si ha questo importante strumento divulgativo e conoscitivo. Aggiungasi a tutto ciò l’avvio di una petizione nel Paese indirizzata al Presidente del Senato. Cosa ancora più importante sarà per l’ANPI portare le istituzioni preposte, governo e parlamento, a discutere sulla conduzione politica di questi 70 anni che ha causato l’enorme ritardo con il quale si stanno svolgendo oggi i processi, limitando notevolmente la possibilità di far giustizia, procedimenti che sono elementi unici sia per sostenere la verità storiografica sia per dare sollievo a tutte le vittime. Tutti gli interventi dei vari specialisti hanno concordato su alcuni punti precisi comuni ai loro pensieri. Un enorme ritardo dell’inizio dei processi con altrettanto grandi responsabilità dei governi italiani, che mai hanno preso posizione e coscienza di quello che ha portato a questa colpevole “dimenticanza” nel famoso e famigerato Armadio della Vergogna. Uno sminuire, attraverso una mirata strategia politica, le gravi responsabilità della repubblica sociale e dei fascisti repubblichini, che “volenterosamente” si sono adoperati ad essere accompagnatori quando non esecutori diretti di queste stragi. Una non considerazione della sofferenza dei superstiti e dei familiari delle vittime, spesso lasciate sole a se stesse, senza risarcimenti né morali né economici. Così come abbiamo oggi un gap comunicativo di Memoria tra le generazioni, in quanto venendo meno il contributo del testimone per motivi anagrafici, con più difficoltà si riesce a portare a conoscenza questi fatti, che hanno la potenzialità di divenire strumenti di formazione di nuove coscienze civili. Un’altra considerazione importante su cui tutti hanno condiviso le proprie riflessioni, è quella che fin dal dopo guerra, sia da parte dei tedeschi sia anche in alcune memorie di sopravvissuti, si è voluto scaricare le colpe sui partigiani, mentre invece l’analisi del caso Toscana, dimostra come solo il 12% delle vittime sia stata causata da rappresaglia, e come comunque sempre ci si trovi di fronte a risposte sproporzionate, definibili oggi come crimini contro l’umanità e non azioni di guerra. Gli ordini erano di una guerra ai civili voluta dai massimi vertici militari germanici. Puoi firmare on-line: http://chn.ge/16mvWje
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Adda, Martesana, Brianza: la Divisione Fiume Adda
LANCIATO IL PROGETTO DI UN COORDINAMENTO DELLE SEZIONI ANPI DELLA ZONA “STORICA”
SETTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DELLA RESISTENZA IN ITALIA
FASCISTI! REPUBBLICANI! CHE MANIFESTATE TANTO AMOR PATRIO! PERCHÉ NESSUNO DI VOI CORRE LÀ OVE IL CREPITIO DELLA MITRAGLIA S’ODE CONTINUAMENTE? PERCHÉ NELLE VOSTRE FILA NON CI SONO CHE UOMINI INERMI ED INABILI AD OGNI SERVIZIO MILITARE? DIFATTI NEI VOSTRI RANGHI VI SONO ZOPPI, GOBBI, STOLTI E DEI VERI DELINQUENTI. E PERCHÉ COLORO CHE POTREBBERO SERVIRE LA PATRIA AL MOMENTO OPPORTUNO SCOMPAIONO, COME GIÀ HANNO FATTO, E POI MANIFESTANO AMOR PATRIO? NESSUNO DI VOI ANCORA SI È PRESENTATO LÀ OVE REALMENTE OCCORRONO FATTI. RECLUTATE RAGAZZI INESPERTI, RAGAZZI ANCORA NON DOTATI DI UN SENSO DI GUERRIGLIA ED INUMANAMENTE LI SPINGETE VERSO IL MACELLO, DOPO AVERLI CARPITI ALLE PROPRIE MADRI. “ECCO LA CIVILTÀ FASCISTA!!!” CI AVETE STROZZATI PER VENT’ANNI; LA NAZIONE HA DOVUTO SUBIRE QUEL GRAVOSO TRAVAGLIO CHE VOI CINICAMENTE AVETE IMPOSTO ED ORA CHE IL POPOLO STA PER RISORGERE VOLETE STROZZARLO, SOFFOCARLO PER UNA STOLTA IDEALITÀ CHE TUTTI HANNO RICONOSCIUTO TALE, MA CHE VOI SOLI (P.F.R.) POCHI FESSI RIMASTI (P.F.R.) NON VOLETE CAPIRE, OPPURE AVETE GIÀ CAPITO MA VOLETE NUOVAMENTE SOFFOCARCI PER VIVERE DA PASCIÀ SULLE SPALLE DEI FORTI LAVORATORI ITALIANI.
L’
8 settembre del 1943 segnò per gli italiani una sorta di resa dei conti con se stessi. “TUTTI A CASA” fu la scelta di quanti vissero quella data come un invito a rifugiarsi nel calore protettivo della famiglia, stanchi di guerra e di paura. Altri scelsero diversamente, altri interpretarono l’8 settembre come la fine di una stagione di miseria morale e di servilismo. Per quelli che si fecero partigiani la Resistenza fu il momento in cui non contava più la fedeltà allo Stato, o il conformismo delle folle delle piazze mussoliniane, ma solo l’impellente necessità di non doversi più vergognare di se stessi. Questa terra, fra l’Adda, la Martesana e la Brianza, vide centinaia e centinaia di donne e uomini che seppero scegliere la “parte giusta” nella quale stare. Agiva in questi territori la “DIVISIONE FIUME ADDA”, comprendente quattro brigate Garibaldi: - 103ª Brigata S.A.P. “Vincenzo Gabellini” alla guida della quale vi era il figlio Alberto Gabellini, suddivisa in 7 distaccamenti facenti capo ai Comuni di Vimercate, Trezzo, Vaprio, Cassano, Cavenago, Ornago e Bernareggio. - 104ª Brigata S.A.P. “Citterio” comprendente i distaccamenti di Arcore, Merate, Brivio, Villasanta, Rovagnate, Cernusco Lombardone e Montevecchia. - 105ª Brigata S.A.P. “Adda” comprendente i distaccamenti di Gorgonzola, Melzo, Cernusco sul Naviglio, Inzago, Cambiago.
I VERI ITALIANI
marzo 1944, manifesto affisso nottetempo per le vie di Vimercate dai Partigiani del 1º distaccamento della 103ª brigata Garibaldi "Vincenzo Gabellini" - 176ª Brigata S.A.P., intitolata in seguito a “Livio Cesana”, comprendente 6 distaccamenti nei Comuni di Besana Brianza, Macherio, Biassono, Carate, Renate, Veduggio e Bosisio. I morti della Divisione Fiume Adda furono 75, i feriti 86.
Una via in ogni paese
come primo atto pubblico, il coordinamento anPi divisione Fiume adda, chiede a tutti i paesi della zona un impegno diretto a ricordare la storia e il sacrificio dei tanti martiri della resistenza locale, in occasione del 70° anniversario dell’inizio del movimento resistenziale. con una lettera indirizzata ai sindaci il coordinamento invita a “ricordare il sacrificio di questi combattenti per la libertà” dedicando una via di ogni comune alla
DIVISIONE FIUME ADDA Comando delle Brigate Garibaldi
In occasione del 70° anniversario della nascita della Resistenza, le sezione ANPI Adda-Martesana-Brianza si danno come obiettivo quello di costituirsi in un coordinamento denominato: ANPI DIVISIONE FIUME ADDA Coordinamento delle sezioni AddaMartesana-Brianza
Obiettivi del Coordinamento
Nel rispetto delle sezioni e del loro lavoro sul territorio il Coordinamento nasce come progetto per condividere le esperienze positive, aiutando l’organizzazione delle varie iniziative. Il secondo obiettivo che ci poniamo è quello della realizzazione della Festa della Divisione Fiume Adda per l’anno 2014. Infine, ci proponiamo di coordinare e realizzare dibattiti e iniziative culturali all’interno delle celebrazioni dei 70 anni della Resistenza nei mesi di settembre-ottobre 2013.
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“Ai qualunquisti, agli smemorati noi... gliele cantiamo!”
DA CASSANO D’ADDA LA VOCE DEL CORO “PARTIGIANO” RAGGIUNGE LA PROVINCIA
“N
ote di Libertà” è il nome del coro che si è formato a Cassano nel 2011, con la partecipazione di aderenti alla locale sezione dell’ANPI. Il suo sempre più ricco repertorio musicale comprende canzoni dei partigiani, del lavoro, dell’emigrazione, canzoni ispirate ai valori civili che fondano la nostra Costituzione. Alcuni di questi canti nacquero per cementare la solidarietà tra i combattenti e oggi rappresentano uno dei tanti modi per ricordare, e rendere omaggio, alla lotta partigiana, mantenendo vivo l’impegno antifascista. Altre sono canzoni legate alle lotte per i diritti dei lavoratori: storie di uomini e donne disposti a rischiare più di quel poco che avevano, per difendere la propria dignità e rivendicare giustizia sociale. La scelta di questo percorso musicale da parte del nostro coro è, anzitutto, un omaggio a chi tanto ha sofferto e si è sacrificato per affermare i valori e gli ideali di libertà ed eguaglianza della Resistenza: dietro le parole che cantiamo ci sono le storie di persone che misero in gioco tutto, anche la propria vita, per lottare contro il nazifascismo. Il nostro impegno militante è di rendere omaggio ad accadimenti che non sono
Cantanti di memoria. Il coro “Note di Libertà” riunito nella sede cassanese
solo ricordo, ma parte integrante della storia di questo Paese, di scongiurare l’indifferenza e costruire con il passato un rapporto vivo, attraverso le emozioni della musica. Ma attraverso gli accordi e gli arrangiamenti del nostro maestro Piero Zacchetti vogliamo anche proporre un nuovo modo di stimolare la conoscenza e la riflessione su fatti storici che qualcuno, ogni tanto, giudica di scarso
Oltre il ponte (testo: Italo Calvino - musica: Liberovici, da tradizionale)
o ragazza dalle guance di pesca, o ragazza dalle guance d’aurora, io spero che a narrarti riesca la mia vita all’età che tu hai ora. coprifuoco: la truppa tedesca la città dominava. siam pronti. chi non vuole chinare la testa con noi prenda la strada dei monti. silenziosi sugli aghi di pino, su spinosi ricci di castagna, una squadra nel buio mattino discendeva l’oscura montagna. la speranza era nostra compagna ad assaltar caposaldi nemici conquistandoci l’armi in battaglia scalzi e laceri eppure felici. avevamo vent’anni e oltre il ponte oltre il ponte che è in mano nemica Vedevam l’altra riva, la vita, tutto il bene del mondo oltre il ponte. tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore, a vent’anni la vita è oltre il ponte, oltre il fuoco comincia l’amore. non è detto che fossimo santi, l’eroismo non è sovrumano, corri, abbassati, dài, balza avanti, ogni passo che fai non è vano.
Vedevamo a portata di mano, dietro il tronco, il cespuglio, il canneto, l’avvenire d’un mondo più umano e più giusto, più libero e lieto. avevamo vent’anni e oltre il ponte oltre il ponte che è in mano nemica Vedevam l’altra riva, la vita, tutto il bene del mondo oltre il ponte. tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore, a vent’anni la vita è oltre il ponte, oltre il fuoco comincia l’amore. ormai tutti han famiglia, hanno figli, che non sanno la storia di ieri. lo son solo e passeggio tra i tigli con te, cara, che allora non c’eri. e vorrei che quei nostri pensieri, Quelle nostre speranze d’allora, rivivessero in quel che tu speri, o ragazza color dell’aurora. avevamo vent’anni e oltre il ponte oltre il ponte che è in mano nemica Vedevam l’altra riva, la vita, tutto il bene del mondo oltre il ponte. tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore, a vent’anni la vita è oltre il ponte, oltre il fuoco comincia l’amore.
interesse perché lontani nel tempo, o che si prova a reinterpretare, a revisionare… Per questo ai revisionisti, ai qualunquisti, agli smemorati, noi… “gliele cantiamo”! Il coro “Note di Libertà” è stato selezionato per partecipare alla 3ª edizione del concorso SBANDANPI - Un modo per ripensare la Resistenza, che si è tenuto presso la festa provinciale dell’ANPI di Monza e Brianza domenica 30 giugno 2013. Qui la nostra formazione ha presentato la canzone Oltre il Ponte, un bellissimo testo di Italo Calvino che ricorda la sua militanza nella Resistenza e la necessità di tramandare alle future generazioni i valori che stavano alla base di quella scelta. Nella poesia, che fu poi musicata da Sergio Liberovici, Calvino, rivolgendosi ad una ragazza che rappresenta la nuova generazione, narra poeticamente gli eventi e spiega i sentimenti di quegli anni tragici e allo stesso tempo gloriosi e persino felici. Egli racconta l’occupazione militare tedesca con tutto il suo corollario di scontri armati ed agguati, vista attraverso gli occhi di un ragazzo che si unisce ai partigiani per non obbedire ai tedeschi ed ai fascisti. Questa canzone, che fu interpretata anche da Moni Ovadia insieme ai Modena City Ramblers, è stata da noi eseguita al concorso SBANDANPI in un arrangiamento del direttore del coro, il maestro Piero Zacchetti. Paola Dodde e Giancarlo Villa ANPI di Cassano d’Adda e coristi di “Note di Libertà”
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Il futuro della Costituzione ha il volto di una ragazzina
A BELLINZAGO LOMBARDO LA PREMIAZIONE DEL 2° CONCORSO “25 APRILE”
T
ra le iniziative del 25 Aprile c’è stata la premiazione del 2° Concorso ANPI per le scuole secondarie di 1° grado, organizzato dalla Sezione di Bellinzago Lombardo. Quest’anno si è proposto agli studenti una riflessione sui 12 principi fondamentali della Costituzione partendo dalla spettacolo televisivo di Benigni “La più bella del mondo”. Lo spettacolo stesso, un esempio di impegno civile, si è trasformato in una guida introduttiva al Concorso. Gli studenti lo anno potuto ascoltare sul sito internet dell’ANPI, suddiviso in tante parti quanti sono gli articoli della Costituzione, inclusi i due brani introduttivi sul “voto e la politica” e la “storia della Costituzione”. Due le modalità per partecipare: - elaborato scritto per le classi terze, con i seguenti temi: a) Tra i 12 articoli fondamentali della Costituzione quali ti hanno più colpito? Illustrali e spiegane i motivi; b) Immagina un dialogo tra diversi personaggi che discutano della priorità da dare agli articoli dei principi fondamentali della nostra Costituzione; c) Come spiegheresti i principi fondamentali della Costituzione a un ragazzo straniero? - elaborato grafico a tecnica libera per le classi prime e seconde: rappresentare graficamente uno, o più, o tutti i 12 articoli fondamentali della Costituzione.
I premi assegnati sono stati 7: segue l’elenco dei vincitori con le relative motivazioni. Hanno consegnato i premi Antonella Montini e Giorgio Cervino, organizzatori del Concorso ANPI, e Antonio Rolla presidente ANPI. Classi prime - 1° Premio € 150 a Laila Baccaro - classe 1ªE (vedi http://www.anpi-bellinzagolom-
bardo.com/vincitori-2-concorso/classiprime-1-premio). La bandiera italiana assieme alle bandiere di tanti altri paesi sovrastano la bandiera della pace a ricordare che la nostra Costituzione tutela la pace e il rispetto di tutti i paesi. Bella la vivacità dei colori. - Premio “Idea” € 50 a Matteo Arigò classe 1ªE. Un volto di ragazza con i colori della bandiera. Apprezzata l’idea e l’abilità nel disegnare il volto.
Flavio, che aspetta (con Vanna) i suoi diritti Tema 2: Immagina un dialogo tra diversi personaggi che discutano della priorità da dare agli articoli dei principi fondamentali della nostra Costituzione.
di
LUCA BRAMBILLA
– C’era una volta… - esordisce la mamma. – Ma mamma, non sono più un bambino, basta con le fiabe! – dico subito io. – Questa non è una fiaba, mio caro Luca. Questa, ahimè, è la pura realtà – ricorda la mamma. – Ma scusa, non vorrai mica iniziare una discussione sugli articoli dei principi fondamentali della nostra Costituzione raccontandomi una delle tue solite storielle a sfondo metaforico?! – Bravo! Proprio così, mi conosci bene – prosegue la mamma. – Il papà ed io pensiamo che un ragazzo della tua età possa meglio comprendere l’importanza dei valori racchiusi all’interno della Costituzione riflettendo su storie realmente accadute, come quella di Vanna e Flavio, due nostri carissimi amici che tu conosci, la cui esperienza, questa volta, avrai
l’onore di ascoltare dalla loro stessa voce. – Fai attenzione – sottolinea il papà – ai commenti di sottofondo, che, sicuramente, sia Flavio che Vanna, conoscendoli, non mancheranno di esprimere… e poi tu ci dirai cosa ne pensi. – Vanna e Flavio – inizia la mamma – avevano solo qualche anno più di te quando si innamorarono perdutamente l’uno dell’altra. Frequentavano scuole superiori diverse, ma ogni giorno facevano di tutto pur di poter stare insieme più tempo possibile, districandosi in innumerevoli attività e coltivando parecchie amicizie in comune… si volevano davvero un gran bene! – Dopo qualcuno di questi meravigliosi anni, trascorsi nella spensieratezza, – ecco la voce di Vanna – un’estate, come accadeva oramai sin dall’inizio per quanto riguardava la questione “vacanze insieme”, ognuno trascorreva il periodo delle ferie lontano dall’altro, perché ai nostri tempi, quand’eravamo ragazzi noi, devi sapere Luca, non era ammissibile che un ragazzo e una ragazza potessero andare in vacanza insieme; al massimo i ragazzi maschi avevano il permesso e il privilegio di farlo, ed è proprio quello che fece Flavio quel lontano 1982, all’età di ven-
tun’anni. Andò, con un gruppo di amici, in villeggiatura, in Liguria, a Loano. Peccato, però, che poi quella vacanza si trasformò in una tragedia!!! – Tra un divertimento e l’altro, un giorno, infatti, – racconta Flavio, con voce un po’ tremante – giocando tutti insieme in acqua a fare i tuffi a turno l’uno dalle braccia incrociate di altri due che spingevano il malcapitato in aria prima che si buttasse in acqua, successe che, quando toccò a me, non so ancora oggi cosa sia accaduto esattamente, io mi tuffai in modo strano… il primo tuffo della mia vita… e l’ultimo… Anziché tagliare normalmente l’acqua, picchiai con la testa il fondo del mare e rimbalzai subito in superficie galleggiando con la schiena rivolta al cielo e la testa a penzoloni in acqua, sperando che gli amici capissero subito che stavo in quella posizione non perché stessi scherzando, ma perché era successo qualcosa di importante, di grave! Immediatamente mi resi conto che qualcosa dentro di me si era frantumato in modo definitivo: si trattava della sesta vertebra cervicale, con annessa lesione spinale traumatica, e non solo… soprattutto si trattava della mia anima, della mia identità, del mio essere uomo! In un battibaleno, mi crollò il mondo
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il fiore del partigiano
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Bellinzago Lombardo, 25 aprile 2013. L’elaborato grafico di Matteo Arigò, “premio Idea” per le classi prime; sotto, il disegno di Lorenzo Sorrentino, 1° premio classi seconde. Nella pagina a fronte, la premiazione del “Concorso 25 aprile”: Antonella Montini, Giorgio Cervino (gli ideatori) e Antonio Rolla (presidente ANPI) con alcuni dei vincitori
Classi seconde - 1° Premio € 150 a Lorenzo Sorrentino classe 2ªE. La bandiera italiana sventola sul nostro patrimonio culturale e paesaggistico rappresentando gli articoli 12 e 9. Apprezzato l’impegno nella realizzazione dell’elaborato e la sua chiarezza, oltre alla vivacità dei colori. - Premio “Idea” € 50 a Luigi Comi - classe 2ªF. All’interno della rappresentazione di una corona da sovrano, è riassunto l’art. 1 (la sovranità appartiene al popolo… Repubblica fondata sul lavoro) e l’art.3 sull’eguaglianza. Apprezzato l’accostamento corona con popolo sovrano.
- Premio “Idea” € 50 a Sara Tirloni - classe 2ªF. Una scritta e un collage di immagini dei nostri beni culturali e della ricerca sono racchiusi all’interno di un cerchio per illustrare l’art. 9 della nostra Costituzione. Apprezzato l’utilizzo di tecniche miste.
Classi terze - 1° Premio € 150 a Luca Brambilla - classe 3ªF. Nel dialogo tra figlio, madre, padre e gli amici Vanna e Flavio si narra il tragico incidente occorso a quest’ultimo, costretto a vivere in carrozzina. Si considerano gli eventi CONTINUA A PAGINA 12 ➔
addosso: i sogni, le speranze, le aspettative, i progetti fatti con Vanna… puff, tutto cancellato in una frazione di secondo!!! Quel gioco maledetto si era portato via la mia dignità, la mia essenza più profonda. Come un’onda si infrange sulla battigia e porta via il più bel disegno costruito con tanta fatica sulla spiaggia, dopo ore e ore di lavoro e sudore, quel gioco mi lacerò interiormente, strappandomi la vita! Mi sono sentito morire nell’anima… – Quella disavventura catapultò Flavio – continua Vanna – nella realtà drammatica della malattia, in un mondo che, se non tocchi con mano, non immagini neanche che possa esistere. – È, a questo punto, Luca, che entrano in gioco alcuni dei più importanti princìpi della nostra Costituzione – interviene il papà, guardandomi con aria pensierosa. – E sì, perché i princìpi esistono, – controbatte subito con forza Vanna – il problema è che non sempre vengono rispettati. Flavio aveva il sacrosanto diritto di essere assistito, e subito, perché si sa che, in casi come questo, prima si interviene e meno gravi ne risulteranno poi le conseguenze.
Lui venne presto trasportato in ambulanza all’ospedale di Genova, ma al pronto soccorso i medici non sapevano come intervenire. Fatti i soliti esami di routine, dopo diverse consultazioni, venne ricoverato nel reparto di “rieducazione funzionale” ma, anche qui, apri bene le orecchie Luca, il personale non era preparato ad affrontare un problema come il suo. Così, sono sicura, per questioni politiche ed economiche, nessuno si prese la responsabilità di Flavio. Come mai?!... Dopo ben 22 giorni di interminabile e angosciosa attesa in sala rianimazione, senza ricevere alcuna cura, una persona a lui cara, attraverso conoscenze personali, mosse mari e monti perché Flavio potesse essere trasportato presso l’ospedale di Vicenza, in Veneto, specializzato nel settore. Perché questa decisione non è stata presa dall’ospedale stesso? Non posso credere che nessuna normativa non avesse previsto una scelta tanto ovvia come questa. E, in questo frangente, Flavio vive l’indimenticabile ed unica esperienza di salire su un aereo militare scortato dalla polizia. – Nessuno aveva rispettato sia l’articolo 3 della Costituzione: “è compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]” poiché “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di […] condizioni personali […]”, sia l’articolo 2, che “[…] richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” per far fronte alla “questione Flavio” – commenta inorridito il papà. – Anzi – continua arrabbiatissima Vanna – sembrava quasi facesse comodo a qualcuno, non si capì bene a chi, ma la sensazione fu nettamente quella, che Flavio stesse in quell’ospedale, così… senza “far nulla” per giorni e giorni, in attesa… – Anziché “rimuovere gli ostacoli” se ne sono creati di nuovi – asserisce il papà, e si chiede: - Dov’era lo Stato ad esercitare il complesso delle sue norme e delle sue attività, adempiendo così i suoi doveri, pronto ad intervenire concretamente, con prudenza e raziocinio come dovrebbe fare in ogni situazione, ma, in primo luogo, in situazioni di sofferenza come questa? CONTINUA A PAGINA 12 ➔
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il fiore del partigiano
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➔ SEGUE DA PAGINA 11 e si riflette sulle loro conseguenze alla luce degli articoli 2 (i diritti), 3 (l’uguaglianza), 4 (il lavoro). La capacità, la bellezza e l’abilità del racconto e le valutazioni personali sono notevoli. Diventerà uno scrittore? (Intanto lo pubblichiamo noi, su queste pagine, ndr)
- Premio “Poesia” € 50 a Samuele Graffeo - classe 3ªF. In poche righe ha saputo riassumere alcuni valori della nostra Costituzione in modo esaustivo e simpatico. Giorgio Cervino ANPI di Bellinzago Lombardo Sezione 25 aprile
Flavio, che aspetta ➔ SEGUE DA PAGINA 11
– Vergognoso – penso io, tutto emozionato nell’ascoltare dalla viva voce dei protagonisti la storia che la mamma e il papà, per sommi capi, più volte mi raccontano ogni volta che mi accingo a fare un tuffo in piscina o al mare. – A scuola ci insegnano – ricorda il papà – che la Costituzione non è una legge qualsiasi, bensì la Carta dei valori di fondo, dei diritti di tutti e delle regole per tutti che stanno alla base della nostra convivenza civile. Ci viene detto che la Costituzione contiene prescrizioni cui intende che si adeguino i comportamenti e le condotte degli individui e dei gruppi, istituzioni pubbliche comprese. Ai diritti “inviolabili” la Costituzione accosta i doveri “inderogabili”: il valore del termine è analogo, nel senso che è la garanzia del loro adempimento ciò a cui deve aspirare la nostra Repubblica. – Sono stati fatti passi da gigante – interviene la mamma – nel corso della Storia riguardo solo, per esempio, all’importanza dell’eguaglianza dei diritti e dei doveri. Basti pensare alle leggi razziali del 1938, che avevano introdotto pesanti discriminazioni a sfavore degli Ebrei, oppure se ci si sofferma a riflet-
Due elaborati premiati entrambi col “premio Idea” per le classi seconde: qui sopra, il disegno di Sara Tirloni e, a sinistra, quello di Luigi Comi
A settembre in visita a Fossoli e Carpi
L’itine quest’ Lomb ziesco ticam Carp
tere sulla differente appartenenza religiosa: per secoli la legge ha privilegiato gli appartenenti alla religione ufficiale o, comunque, maggioritaria. – Infine, non dimentichiamoci – continua il papà – che, per quanto riguarda le opinioni politiche personali, il Fascismo aveva caratterizzato severe discriminazioni dipendenti dalla posizione politica dell’individuo. Gli articoli 2 e 3 della Costituzione mettono a tacere tutte queste discrepanze storiche. Va dato atto di questo merito ai nostri Costituenti, in maniera encomiabile e lodevole!!! – Quello che, però, non ci viene insegnato – riprende e sottolinea Flavio – è che la Costituzione non è la soluzione di ogni problema!!! E io ne sono la prova vivente. – … tornando a noi, arrivati all’ospedale di Vicenza, mi misero immediatamente in trazione verticale, facendomi indossare un corpetto rigido di ferro, in attesa che si calcificasse la frattura e, dopo tre mesi, me lo sostituirono con un altro simile che avrei dovuto tenere per altri tre mesi. “Non c’è altro da fare” mi dissero i medici, e, come puoi immaginare, Luca, sprofondai in una profonda depressione. Furono mesi terribilmente difficili, se non fosse stato per Vanna, che non mi ha abbandonato, i miei familiari e gli amici non sarei riuscito a superare quell’inferno!
E il guaio è che questo fu l’inizio di una serie di tristi eventi che mi misero tutti di fronte ad una amara verità: la legge, pur meravigliosa che sia, con la sua splendida Costituzione, e quant’altro, in cui tutti crediamo, tutela sì, come abbiamo appena precisato, i diritti degli uomini, ma sono gli uomini stessi che non hanno la coscienza di rispettarla e di farla rispettare. Prendi anche la questione del mio lavoro, articolo 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.” Sfortuna vuole che io, proprio prima di quelle vacanze cambiai posto di lavoro, avrei avuto la possibilità di far carriera al mio rientro… invece, non ebbi nemmeno la possibilità di iniziare. Chi è quel datore di lavoro che aspetta uno che sta prima in ospedale per un lunghissimo periodo, poi in “pausa riabilitazione” e ne esce, per giunta, in carrozzina a vita? “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” articolo 4. – Il “fondamento” sul lavoro – precisa il papà, sta ad indicare il valore che la Repubblica attribuisce all’apporto del lavoro di ciascuno, inteso nel senso più ampio del termine, secondo le proprie capacità e le proprie scelte, al contrario rispetto a ciò che succedeva in passato, quando dominavano altri fattori ai
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Borno, il bosco della battaglia
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IN VALCAMONICA, UNA VISITA GUIDATA TRA GLI ECHI DELLA STORIA
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L’itinerario della memoria proposto quest’anno dall’ANPI di Bellinzago Lombardo è la visita al Campo poliziesco e di transito di Fossoli (anticamera dei Lager nazisti) e a Carpi per il giorno 21 settembre.
otto giugno un gruppo dell’anPi di bellinzago lombardo è a borno (Val camonica) e, accompagnato dal prof. Francesco inversini, visita la cappella votiva sita in località sedulzo nella quale sono rappresentati i fatti del 27 settembre 1944. una colonna di 15 giovani ufficiali della Wehrmacht percorreva la mulattiera che collega borno alle zone di montagna presenti a nord del paese, destinazione il rifugio coppellotti del cai di brescia, che i tedeschi, da alcuni anni, avevano sequestrato per farne una base di soggiorno per escursioni e scuola di roccia. a circa trenta minuti dal paese, lungo un tratto della mulattiera che da un lato costeggia un bosco e dall’altro si apre in un grande prato in pendenza, alla colonna tedesca in marcia veniva intimata la resa da un gruppo di partigiani, formato da una trentina di uomini usciti improvvisamente dalla folta boscaglia. un’azione organizzata dalla formazione partigiana Giustizia e Libertà che operava soprattutto nelle aspre montagne della vicina Val di scalve (bg), con l’obiettivo di sottrarre armamenti, di cui le truppe tedesche erano ben fornite. la reazione dei giovani tedeschi fu però immediata e per 10-15 minuti si scatenò una vera e propria battaglia a campo aperto che lasciò sul terreno undici morti tedeschi e due partigiani. un terzo, ferito gravemente, fu ritrovato da soldati sopraggiunti più tardi e fucilato alcuni giorni dopo. la ritorsione tedesca non si fece attendere: ven-
fini del ruolo sociale dell’individuo, come la nobiltà di nascita o la ricchezza. – Ma secondo te, Luca, – riprende Flavio – io posso usufruire di tale diritto, quando, molto semplicemente, non posso neanche uscire di casa a fare una passeggiata?! Tu credi che io possa, con la mia carrozzina, muovermi per le vie del paese, su marciapiedi adeguati alla mia condizione? E se avessi la fortuna di fare questa cosa, potrei salire su un pullman o addirittura andare in metropolitana per raggiungere un eventuale posto di lavoro? Anche qui, dov’è lo Stato che promuove le condizioni per rendere effettivo il mio diritto al lavoro, dov’è? – Oh, sì, – rammenta Vanna – ti ricordi, Flavio? Avevamo appena finito di costruire la casa, adattandola a tutte le tue esigenze, quando una Società, proprio in virtù dell’adempimento di tale diritto, organizzò un concorso regionale per disabili. Ti ricordi? – Ah sì! Pensa, Luca, – continua Flavio – superai sia il test scritto, che il colloquio orale, il quale si concluse con la fatidica domanda: “ma lei sarebbe disposto a trasferirsi con la sua famiglia a Brescia?”… Mi cascarono le braccia: l’ennesima presa in giro… l’ennesima rabbia. Almeno ditelo prima, così avrei evitato la fatica e lo stress che questa cosa ha comportato. Per fortuna, però, dopo qualche anno, superato l’iter
nero bruciate le cascine con gli animali che erano vicino al luogo della battaglia. in seguito arrivò l’ordine dal comando tedesco di bruciare il paese e di arrestare e deportare in Germania uomini e donne sospettati di appoggio alla causa partigiana. seguirono giorni di perquisizioni, rastrellamenti incendi di varie abitazioni, fu anche fucilato un giovane ritenuto direttamente coinvolto nei fatti. si temette che i tedeschi avessero deciso di fucilare 100 persone del paese per ogni ufficiale morto, alla stregua di quanto successo a roma per via rasella. la vicenda si concluse senza che il peggio avvenisse, grazie all’intervento diretto di Hans W. müller, all’epoca dei fatti giovane e colto interprete dei reparti dell’esercito tedesco in Val camonica e dei due parroci del paese, don andrea Pinotti e don domenico moreschi. l’ufficiale müller rimase per sempre in valle e si sposò con una donna del posto. la cappella di sedulzo fu eretta come ex voto di alcune decine di giovani bornesi che per lo scontro di sedalzo furono deportati e che promisero di costruirla se fossero tornati a casa salvi. il voto venne sciolto il 4 ottobre 1958: gli affreschi sono del pittore bornese enrico Peci. l’episodio è raccontato nel libro La Carneficina scritto dal nostro accompagnatore, il prof. inversini.
riguardante la definizione del mio grado di disabilità, iniziai a percepire un piccolo assegno di accompagnamento… meno male!!! Inoltre, a casa mia adibii un locale per poter svolgere qualche lavoretto di riparazioni di piccoli elettrodomestici, giusto per guadagnare qualcosina e tenermi impegnato svolgendo una sorta di attività che potesse, in qualche modo, far fruttificare i miei studi. Oh, sapessi Luca quanta rabbia ho dovuto ingoiare nel corso della mia vita!!! – Perdonami Flavio, – dico io, rammaricato – se ti ho coinvolto in questa mia riflessione, obbligandoti a far riemergere in te storiche inquietudini e ferite ancora sanguinanti! – Non sei tu che devi essere perdonato, ma l’insensibilità e l’egoismo delle persone di potere che scelgono di dare delle priorità nelle loro questioni politiche, economiche e sociali ad alcune situazioni anziché ad altre!!! – Io capisco che ognuno di noi abbia bisogno che siano tutelati i diritti che lo riguardino – concludo io – a seconda del proprio essere, della propria appartenenza sociale o religiosa o, più semplicemente, a seconda della propria storia, e, in questo, mi sembra d’aver capito che la nostra Costituzione risponda appieno. Ed è ovvio che ognuno dia la priorità ai principi in base alla condizione di vita personale, nel
Rosanna Fontana
contesto storico-culturale in cui si trova a vivere. Ma io mi chiedo: “come si può rimanere indifferenti di fronte ad una “fiaba” come quella di Vanna e Flavio? Come si fa a non sentirsi fermentare dentro, almeno un pochino, quel tanto che basti a spronarci a rimboccare le maniche e fare qualcosa per alleviare le ferite di Flavio e dei tanti Flavio che ognuno di noi potrebbe incontrare nel corso del cammino della propria vita?!” Io penso che i nostri padri Costituenti, che si sono cimentati, con tanta fatica, nello stendere i principi della Costituzione un po’ di questo fermento l’abbiano vissuto. E mi auguro che ogni giorno possano nascere nuovi buoni fervori che incitino all’attenzione verso chi ci sta accanto, perché questa discussione mi ha insegnato che non si è eroi quando si fanno “cose grandi” ma è quando si fanno piccole cose, giorno per giorno, in difesa di altri, che queste diventano grandi, a cominciare proprio dal vivere quotidianamente, in prima persona, i principi fondamentali della nostra Costituzione. Grazie Vanna, grazie Flavio, grazie mamma, grazie papà! Luca Brambilla Classe 3ªF scuola secondaria di 1° grado Bellinzago Lombardo
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Il Vercors, cuore pietroso della Résistance francese
COL GRUPPO DI INZAGO, UN “VIAGGIO DELLA MEMORIA” NELL’ALTIPIANO DEL SUD-EST D’OL
L’
ANPI di Inzago, anche quest’anno ha organizzato un “viaggio della memoria”. La meta è stata la Francia, in particolare alcuni luoghi legati alla resistenza francese durante il secondo conflitto mondiale. Il viaggio si è svolto in un fine-settimana di metà maggio. Il primo giorno abbiamo visitato il Memorial de la Résistance di Vassieux en Vercors. In questa regione montuosa del sud della Francia, la Resistenza organizzò la sua lotta anti-tedesca, giungendo a proclamarvi il 9 giugno del 1944 la libera “Repubblica del Vercors”, ma subì una violenta repressione nel successivo luglio. Il secondo giorno è stato dedicato alla città di Lione. È stata una bella sorpresa un po’ per tutti, perché ci aspettavamo solo una grande città industriale, ma abbiamo scoperto che ha un centro storico rinascimentale, con strette stradine e pittoreschi cortili comunicanti tra di loro, ampie e belle piazze. Ma soprattutto molto apprezzati ed ammirati sono stati gli stupendi murales che si trovano in varie parti della città. La nostra guida ci ha portati a scoprire anche luoghi cittadini legati alla Resistenza francese e ad un suo eroe: Jean Moulin. Egli fu un personaggio di spicco, che operò per coordinare e riunire tutti i vari gruppi anti-nazisti in un unico Movimento unito della Resistenza. Fu arrestato
Un ritrovo nel nome del Professore
na grande spaghettata nel parco u adiacente alla nostra sede, concluderà quest’anno le giornate di comme-
morazione del martirio del Professor Quintino di Vona. si inizia sabato 7 settembre, ore 10, presso il centro de andré in Via Piola 10 con l’apertura di una mostra fotografica. la cerimonia di commemorazione si terrà domenica 8, col corteo dalla sede dell’anPi (Via Piola 10, ore 10,15) al cimitero, con accompagnamento della banda s.ta cecilia. alle ore 11, in Piazza maggiore, posa della corona d’alloro sulla lapide e discorsi del sindaco di inzago, benigno calvi, e di un rappresentante dell’anPi. al termine, canti della resistenza eseguiti dal coro “note di libertà”. alle ore 13, nel parco di Via Piola, spaghettata antifascista per tutti. iniziativa a cura della sezione anPi di inzago.
La resistenza all’orrore. Una stanza del “Museo della Storia della Resistenza e della Deportazione” di Lione, qui a sinistra. Il gruppo di Inzago in visita al “Memorial de la Résistance” di Vassieux en Vercors, qui sopra, e per le strade di Lione, nelle altre due immagini (Foto Francesco “ceck” brambilla)
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-EST D’OLTRALPE, LIONE E ANNECY
dalla Gestapo capeggiata dal famigerato Klaus Barbie, fu torturato e morì in carcere l’8 luglio ‘43. Interessante è stata la visita al Museo della Storia della Resistenza e della Deportazione. Questo museo è situato nell’ex-penitenziario e sede della Gestapo. Le collezioni illustrano l’atmosfera degli anni ‘40, l’occupazione e la deportazione. Inoltre si possono vedere videotestimonianze di alcuni ex partigiani e spezzoni cinematografici d’epoca. La domenica, sulla via del ritorno a casa, abbiamo fatto sosta ad Annecy, nella regione della Savoia. Questo paese è una località turistica, situata sulle sponde di un bel lago. Qui, per concludere in bellezza, oltre che a dedicarci alla cultura abbiamo apprezzato anche le specialità gastronomiche del luogo. Il viaggio è stato un’occasione per condividere esperienze e per apprezzare la compagnia di tanti amici. Purtroppo, mentre stiamo raccontando di questo viaggio, non possiamo fare a meno di ricordare con tristezza, ma anche tanta tenerezza, il nostro amico Pippo che nel frattempo ci ha improvvisamente lasciati. Ci rimangono i bei ricordi dei tanti momenti trascorsi in sua compagnia. il Gruppo Viaggi Sezione ANPI Quintino di Vona di Inzago
L’inclusione sociale a convegno
nzago dedica tre settimane a cavallo tra settembre e itreottobre alla seconda edizione di “Vengo anch’io...” passi verso l’inclusione sociale, che quest’anno
ha per tema “la famiglia: ieri, oggi e...”. Venerdì 20/9, ore 21, al cinema-teatro Giglio proiezione del film Precious, con ingresso gratuito. Giovedì 26/9, ore 21, all’auditorium “Fabrizio de andré” convegno dal tema “scuola, società, territorio: uno sguardo nella Famiglia”. Partecipano la psicologa Paola colombo, il pedagogista igor salomone e l’avvocato umberto ambrosoli. modera Paolo riva (caritas milano). Venerdì 4/10, ore 21, all’auditorium “Fabrizio de andré” convegno dal tema “storie di vita e di Famiglia”. Partecipano carlo leoni (cascina castellazzo), barbara brambilla (Padri somaschi), elena de stefani e antonio Papaleo (insegnanti) e un rappresentante dell’associazione Famiglie arcobaleno. modera Vittorio caglio. dal 20/9 al 5/10, al centro culturale “Fabrizio de andré” luciano cavallaro presenta la mostra fotografica La Famiglia. organizzato da anPi, il Granellino di senapa, Padri somaschi, cooperative sociali arcobaleno e Punto d’incontro; con il patrocinio del comune di inzago.
LA SEZIONE DI INZAGO COLPITA DAL LUTTO
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Ciao, Pippo, amico e compagno
ella notte tra il 5 e il 6 luglio scorso, in una camera d’albergo di Marrakesh, durante un viaggio in Marocco con alcuni amici, il nostro amico e compagno Giuseppe “Pippo” Segreto veniva stroncato da un improvviso e fulminante malore. Questo accadimento ha gettato nello sconforto e nella disperazione la moglie Vanna, il figlio Alberto, i parenti, gli amici e tutti coloro che in qualche modo lo conoscevano.
Pippo faceva parte del Direttivo della Sezione ANPI Quintino di Vona di Inzago. Vogliamo qui ricordarlo, testimoniando il prezioso contributo che portava nell’impegno per perseguire gli obiettivi di solidarietà, di memoria storica, di divulgazione dei valori dell’antifascismo che sono propri dell’ANPI. Era una persona buona, umile e disponibile; per dirla con una locuzione dialettale che rende l’idea “andava in mess ai gamb del diaul”, ottenendo ascolto, adesione e consenso anche da persone non strettamente collegate alla nostra associazione. Pippo ci mancherà tantissimo. Ci mancheranno le chiacchierate del sabato mattina alla nostra sede. Ci mancherà “il barista” che sul pullman forniva caffè ed acqua minerale a tutti i partecipanti ai nostri “viaggi della memoria” e alle nostre visite ai luoghi della Resistenza. Il Direttivo della Sezione ANPI rinnova col proprio profondo dolore la più grande solidarietà alla sua famiglia, esprimendo cordoglio e affetto. Ciao, Pippo, riposa in pace. E che la terra ti sia lieve.
Pippo, nella sua militanza, non disdegnava i ruoli “di servizio”: qui lo vediamo impegnato come pizzaiolo alla Festa dei popoli. In alto, coll’inseparabile basco dell’inverno
il Direttivo Sezione ANPI Quintino di Vona di Inzago
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Beppe Fenoglio a Cernusco... “e la luna spunterà”
UNA SETTIMANA DEDICATA ALLO SCRITTORE, SULLE TRACCE DEL “PARTIGIANO JOHNNY” E DEL CERN
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n occasione del 50° dalla sua scomparsa, la sezione ANPI di Cernusco sul Naviglio organizza, in collaborazione con la Biblioteca, Non c’è luna, ma spunterà, una serie di eventi per ricordare Beppe Fenoglio (19221963) partigiano, uomo e scrittore. Si parte il 28 settembre 2013 con un convegno, che si terrà alla sala Camerani della Biblioteca Civica “Lino Penati”, in cui interverranno due docenti, la prof. Valeria Fraccari, che insegna al liceo classico Tito Livio di Milano e che da anni accompagna gli studenti sui sentieri fenogliani, in una quattro giorni di camminate all’insegna della lettura e dell’incontro con testimoni e amici di Fenoglio, e il prof. John Meddemmen, docente all’Università di Pavia dal 1961, il quale nel 1978 collaborò all’edizione delle Opere di Fenoglio curata da Maria Corti. Con loro parleremo del Fenoglio partigiano e della sua formazione antifascista raccontata attraverso i suoi scritti, ci faremo affascinare dalle immagini del documentario Una questione privata (Vita di Beppe Fenoglio) di Guido Chiesa e dalle letture fatte dai ragazzi, discuteremo di come trasmettere ai più giovani la passione per la lettura di questo grande (e purtroppo trascurato) scrittore. Sarà inoltre l’occasione per riannodare il filo rosso che lega Cernusco alle Langhe, ovvero per riparlare della “scoperta” di Giorgio Perego, il quale, nel Partigiano Johnny, ha individuato nella figura di Antonio il sabotatore un partigiano cernuschese (di adozione), Antonio Benelli, artificiere nei Corpi speciali autonomi, tragicamente deceduto ad Agliano d’Asti durante un’esercitazione.
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SCHEDA AUTOBIOGRAFICA
da Ritratti su misura, a cura di elio Filippo accrocca, sodalizio del libro, Venezia 1960, pp. 180-181
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Partigiano e scrittore. Beppe Fenoglio ritratto al suo tavolo di lavoro nella sua casa di Alba
Il 5 ottobre, in piazza Matteotti, ci troveremo a “correre” una maratona fenogliana: a turno, con il coinvolgimento delle autorità e della cittadinanza, leggeremo alcuni racconti da I ventitré giorni della città di Alba. Durante questa settimana Cernusco sarà “invasa” da citazioni fenogliane che spunteranno qua e là, come la luna dei sorprendenti Appunti partigiani! Infine, a ottobre per la gita annuale ci immergeremo nelle Langhe, tra Alba e dintorni, nei luoghi dove Beppe fu partigiano. E non mancherà qualche sorpresa... Giovanna Perego ANPI di Cernusco sul Naviglio Sezione Riboldi-Mattavelli
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artì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito - nor death itself would have been divestiture - in nome dell’autentico popolo di Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra. (Il partigiano Johnny)
ono nato in alba il 1° marzo 1922 e in alba vivo da sempre, a parte le lunghe assenze impostemi dal servizio militare e dalla lotta partigiana. la mia attività base è quella di dirigente d’industria: più precisamente curo l’esportazione di una nota casa vinicola piemontese. esordii nel 1952 con I ventitré giorni della città di Alba edito da einaudi. nel 1954, sempre con einaudi, pubblicai La malora. recentemente è uscito, per i tipi di Garzanti, il mio romanzo Primavera di bellezza. oggi sto lavorando ad un romanzo la cui vicenda si svolge in Piemonte nell’estate del 1944. Per quanto cerchi, non trovo alcun aneddoto di qualche sapore relativamente alla genesi ed alla pubblicazione dei miei libri. Potrà forse interessare questa piccola rivelazione: Primavera di bellezza venne concepito e steso in lingua inglese. il testo quale lo conoscono i lettori italiani è quindi una mera traduzione. la critica mi ha seguito e mi segue con una certa attenzione, in misura superiore, debbo dire, all’aspettativa di uno scrittore appartato e “amateur-like” quale io sono. le recensioni a tutt’oggi sono numerose e, per quel che riguarda la sostanza, variano dal moderato elogio alla stroncatura selvaggia. in linea generale il mio atteggiamento di fronte alla sentenza della critica è quello già configurato da altro scrittore e comune, penso, a tutti gli artisti: stupore per quello che i critici sanno trovare nel tuo lavoro e altrettanto stupore per quello che non sanno trovarci. scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. non certo per divertimento. ci faccio una fatica nera. la più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. scrivo «with a deep distrust and a deeper faith».
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il fiore del partigiano
E DEL CERNUSCHESE ANTONIO BENELLI, “IL SABOTATORE”
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di rene ie-
Il filo rosso della memoria
C
ernusco è legato al ricordo della strage di Marzabotto dal 25 aprile 1980 quando venne inaugurato il monumento commemorativo commissionato allo scultore Pietro Cascella. Il filo della memoria è stato rafforzato il 22 ottobre 2011, con una ricollocazione dell’opera e una nuova inaugurazione voluta fortemente da noi dell’ANPI, e intrecciato al ricordo di altri luoghi del nostro paese, intessendo le basi di un percorso di rinnovo della memoria della Resistenza che possa parlare alle nuove generazioni. A tal fine al monumento è stato associato un pannello che narra i fatti di quel settembre maledetto stimolando il passante a fermarsi, leggere e riflettere su ciò che è stato. Altri pannelli sono sorti e sorgeranno dopo quello dedicato a Marzabotto, altri scenari disumani plasmeranno le fondamenta di una umanità nuova che possa maturare il rancore e la rabbia in consapevolezza e attenzione perché atrocità tali non avvengano mai più. A Cernusco ci stiamo provando… siamo solo agli inizi ma i risultati già si vedono. Venite a trovarci, visitate il nostro sito, scriveteci e diffondeteci… teniamo vivo questo filo rosso che volenti o nolenti ci lega tutti e sempre riaffiorerà. www.memoriarinnovabile.org - info@memoriarinnovabile.org
tré ito pre mato, rovosi
oto esi trà ne: e coera
na bo arreper dal ia. di già ne, ello o e on
cahe ita per conioni ma. fasce cid a
Milano, appello alla vigilanza l’
anPi Provinciale di milano esprime la propria profonda indignazione e la propria ferma condanna per il raduno neonazista promosso da Forza nuova al quale parteciperanno formazioni che si caratterizzano per la loro carica antisemita, xenofoba e razzista, provenienti dal nostro continente. il raduno che dovrebbe svolgersi in una località non ancora precisata a nord di milano si pone in aperto contrasto con i principi e i valori sanciti dalla costituzione repubblicana nata della resistenza di cui quest’anno ricorre il settantesimo anniversario e si contrappone nettamente, per i suoi contenuti, ai valori della nostra civiltà fondata sugli ideali nati con la rivoluzione inglese, francese e con il movimento operaio, che sono poi i valori della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà, della pace. mentre chiamiamo gli antifascisti e i cittadini alla massima vigilanza democratica, chiediamo alle istituzioni e alle autorità competenti di intervenire per impedire che queste inaccettabili e provocatorie iniziative che si pongono in aperta violazione della costituzione e delle leggi vigenti possano aver luogo a milano, capitale della resistenza, o in altri comuni della lombardia. milano, 19 agosto 2013
Roberto Cenati Presidente ANPI Provinciale di Milano
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IL COMMENTO
Una vita, la vita di un ragazzino gay MONI OVADIA
I di
da l’Unità del 17 agosto 2013
reGista e scrittore
l Talmud ebraico dice: «Chi salva una vita salva il mondo intero». Questa frase è diventata celeberrima grazie al film di Steven Spielberg Schindler’s List. Il regista l’ha scelta come epigrafe per raccontare la storia di Oscar Schindler, un Giusto fra le nazioni e ormai la sentiamo citare in continuazione ad ogni celebrazione del Giorno della Memoria. E come si stingono in ridondanza e in falsa coscienza la forza e la maestà di queste parole! La natura ambigua e insidiosa del linguaggio, in bocca ai commis della retorica, ha il potere di trasformare il grandioso in insulso. Facciamo però lo sforzo di metterci a nuotare contro corrente, riprendiamoci il senso pregnante di quel detto. La notte fra il 7 e l’8 agosto scorso, abbiamo perso una vita, unica, preziosa, sensibilissima, capace di contenere un immenso dolore. Immaginiamo un titolo sulla stampa: «Un giovane gay, un adolescente di 14 anni, si toglie la vita lanciandosi nel vuoto». Poi le spiegazioni. Non sopportava più le umiliazioni, lo scherno, l’emarginazione. Per questo lui ha scelto il suicidio.
Chi lo ha assassinato? È stata la logica di chi, per supponenza maggioritaria, si ritiene in diritto di abusare di un essere umano solo perché non corrisponde al suo stereotipo marcio, gonfiato dalla violenza di chi ha decretato che l’uniformità è valore in sé e la diversità, l’alterità, sono disvalori in quanto tali. Questa sottocultura da cloaca occupa, senza costrutto, i cervelli di altri giovani, compagni di classe, vicini di quartiere, che invece di trarre profitto da una relazione di conoscenza, di rispetto, di amore con la ricchezza del loro compagno, si degradano nella stupidità e nel pregiudizio. Questi ragazzi sono “istruiti” da adulti balordi il cui cervello andrebbe messo sotto sequestro in attesa che imparino a farne l’uso proprio. Alcuni di questi imbecilli sono disinvoltamente tollerati nel Parlamento repubblicano con una nonchalance decisamente poco democratica. Quanto ai politici, con poche eccezioni, da anni si perdono in oziosi cavilli nominalistici e in dilazioni strumentali per interessi elettorali invece di colmare il vergognoso ritardo con cui l’Italia, come al solito, nega diritti inviolabili ai nostri cittadini lesbiche e gay, mentre coccola l’ideologia machista. Come giustificazione, adducono la cosiddetta “sensibilità” dei temi “etici” e così possono mettere in campo tutte le tecniche dilatorie per perpetuare lo schifo sine die. Questo sconcio lo chiamano moderazione. Non mi stanco di ripeterlo, la moderazione che può essere virtù altrove, in Italia si legge ferocia. Una ferocia bianca persino peggiore di quella nera. Ma cosa c’è di più “sensibile” di una vita, della vita? Non dimentichiamolo, questo ragazzo è anche figlio di tutti noi. Rivendichiamone il sacrificio.
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il fiore del partigiano
La resistenza armata in M
TERZA PUNTATA - LE FORMAZIONI PARTIGIANE SI RIORGANIZZANO E MOLTIPLICANO GLI A
C
ol contributo del prof. Giorgio Perego, ripercorriamo la storia della Resistenza nella nostra Zona. I primi capitoli sono stati proposti nei due precedenti numeri del nostro giornale. di
GIORGIO PEREGO
V - Riprende la lotta partigiana e inizia una lunga scia di sangue Dopo un periodo di relativa calma, la guerriglia in Martesana riprendeva con il secondo attacco, purtroppo funesto per i partigiani, al campo d’aviazione di Arcore. L’attacco venne compiuto la sera del 29 dicembre 1944 e vi parteciparono, suddivisi in due squadre, garibaldini di Vimercate e Rossino, assieme a giovani dell’oratorio e del Fronte della Gioventù. Mentre la seconda squadra, più numerosa, attendeva ai bordi del campo d’aviazione il segnale di entrata in azione, la prima squadra procedeva al disarmo della ronda e all’assedio della palazzina del Comando. Tutto stava procedendo secondo i piani, quando le grida di un’ultima sentinella allertarono gli avieri presenti nella palazzina. Venne così meno l’effetto sorpresa ed ebbe ragione la forza numerica dei repubblichini. Nello scontro a fuoco veniva colpito a morte il comandante partigiano Iginio Rota, mentre la seconda squadra partigiana non poté fare altro che ripiegare. Le informazioni fornite da due spie portarono presto all’individuazione dei responsabili dell’attacco. Nella notte del primo gennaio la polizia fascista arrestava Pierino Colombo, Renato Pellegatta, Aldo Motta, Luigi Ronchi, Emilio Cereda. Seguirono poi gli arresti dei giovanissimi Enrico Assi, Carlo Verderio, Angelo Nava e Felice Carzaniga; della sorella e della fidanzata di Iginio Rota; di Felice Sirtori (della 13ª brigata del Popolo) e dei sacerdoti don Enrico Assi e don Attilio Bassi. Il 29 gennaio 1945 il tribunale fascista di Milano condannava a morte, mediante fucilazione, i partigiani Pierino Colombo, Emilio Cereda, Luigi Ronchi, Aldo Motta, Renato Pellegatta; a morte in contumacia il partigiano Carlo Levati; a trenta anni di carcere (data la loro minore età) i partigiani Enrico Assi, Angelo Nava, Felice Carzaniga, Carlo Verderio. I cinque partigiani vimercatesi vennero fucilati alla schiena, da un plotone di fascisti, alle ore 7,10 di venerdì 2 febbraio, nel campo d’aviazione di Arcore. Dopo due mesi dall’attacco al campo d’aviazione di Arcore, il sesto e il settimo distaccamento (Vaprio e Grezzago) della 103ª brigata Garibaldi attaccavano, con l’intento di procurarsi armi e munizioni, il Comando tedesco di Caponago. Anche questa volta purtroppo fallì l’effetto sorpresa e l’azione si concluse col magro bottino di tre fucili e tre pistole. L’attacco, riporta una fonte, «viene deciso per la sera del 28 febbraio. Verso le venti, insieme ai partigiani del 7° distaccamento, ci raduniamo in località Cavallasco
(...). Sul posto si trovano due automezzi ed il comandante di brigata “Francesco”, con il vice comandante di divisione “Ciro” (...). Accompagnati da un civile, entriamo nella villa passando per un cortile posteriore non controllato (...). Mentre ci stiamo avvicinando al centralino telefonico del Comando, da una scala che dal locale porta ai piani superiori scendono improvvisamente due degli ufficiali con un cane pastore. “Actung! Actung!” è il loro grido; il cane viene lanciato contro di noi, gli ufficiali estraggono le loro pistole, ma subito un fuoco infernale si abbatte su di loro e sui militari che accorrono. Sfumato il fattore sorpresa, occorre ora far presto, ogni minuto in più nella villa è pericoloso». Tutti i partigiani, tranne uno ferito a una gamba e prontamente ricoverato in ospedale grazie a un medico compiacente, riuscirono a far ritorno alla base. Anche il rastrellamento operato dai tedeschi il giorno seguente all’attacco non diede per fortuna alcun esito e non comportò rappresaglie nei confronti della popolazione di Caponago.
La rappresaglia di Pessano L’8 marzo 1945, tre partigiani della 184ª brigata Garibaldi Falck di Sesto San Giovanni, passando in bicicletta, avvistavano a Pessano, ai margini dell’abitato, un ufficiale tedesco dell’organizzazione Speer, che si era installata presso le scuole del paese (Prima Todt, poi Speer: organizzazione preposta all’esecuzione dei lavori nelle opere militari e civili del Reich in Germania e nei paesi occupati). I garibaldini si avvicinarono all’ufficiale decisi a disarmarlo, ma lui «intuita la manovra fece atto di voler reagire. Prontamente i garibaldini fecero uso delle armi e lo stesero al suolo». La notizia si diffuse rapidamente in tutto il paese, terrorizzando la popolazione al pensiero della inevitabile rappresaglia. Il giorno successivo, alle ore 18,10, un camion scortato da soldati tedeschi e repubblichini conduceva al Comando tedesco, presso le scuole elementari, otto ostaggi prelevati dal carcere di Monza. Alle ore 19 venivano fucilati, sul luogo dove era stato colpito a morte l’ufficiale tedesco: il gappista Alberto Gabellini “Walter”, nato a Cambiago nel 1916; Angelo Barzago, nato a Bussero nel 1925, appartenente alla 201ª brigata Giustizia e Libertà; Mario Vago, garibaldino di Busto Arsizio, classe 1923; Romeo Cerizza, garibaldino di Milano, classe 1923; i caratesi, della 119ª Garibaldi, Dante Cesana, classe 1919, Angelo Viganò, classe 1919, Claudio Cesana, classe 1924. La rappresaglia di Cassano d’Adda I partigiani della 105ª brigata Garibaldi di Cassano d’Adda, Inzago e Gorgonzola avevano deciso di compiere un’azione di recupero armi facendo irruzione al caffè Quadri, in località “Fornasèn” di Cassano, locale abitualmente frequentato da militari tedeschi. Alle ore 22 della sera del 28 marzo 1945 «arrivano in bicicletta i componenti della brigata del distaccamento di Gorgonzola. Sono capeggiati dal partigiano Luigi Restelli, che, fulmineo, spalanca la porta, seguito da altri quattro. Mentre i primi due controllano
Le forze partigiane della Divisione “Fiume Adda”
alla data del 25 aprile 1945 le forze partigiane della martesana-brianza orientale erano state unificate nel “comando divisione Fiume adda” ed erano così composte: Brigate Garibaldi 103ª “Vincenzo Gabellini”, con distaccamenti a Vimercate, trezzo d’adda, Vaprio d’adda, cavenago, ornago, bernareggio; 104ª “Gianni citterio”, con distaccamenti ad arcore, merate, brivio, Villasanta, rovagnate, cernusco lombardone, montevecchia; 105ª “Giovanni brambilla”, con distaccamenti a Gorgonzola, melzo, brugherio, cernusco sul naviglio, inzago, cambiago, cassano d’adda; 176ª “livio cesana”, con distaccamenti a besana brianza, macherio, biassono, carate, renate, Veduggio, bosisio. Brigate del Popolo 13ª, con centro a Vimercate; 23ª, con centro a inzago; 26ª, con centro a cernusco sul naviglio; 27ª, con centro a brugherio. Brigate Matteotti 11ª, che estendeva la sua attività a Pioltello, cernusco sul naviglio, carugate, bussero, Pessano con bornago. tenendo conto che la forza effettiva di una brigata garibaldina saP andava dai 200 ai 300 uomini (divisi in diversi distaccamenti che andavano dai 30 ai 50 uomini); che l’11ª matteotti contava 200 uomini, e che le quattro brigate del Popolo potevano arrivare a 300 uomini, possiamo concludere che nella brianza orientale-est milanese, alla data del 25 aprile vi fossero non meno di 1.500 combattenti per la libertà.
i tedeschi, gli altri si impadroniscono delle armi. Di corsa si avviano all’uscita. La missione sembra riuscita. In quel momento si sente uno sparo. Il Restelli cade fulminato sul posto, altri vengono feriti leggermente. Segue una sparatoria confusa; un partigiano lancia una bomba. Il locale piomba nel buio e nel caos avviene lo sgancio. Entrano in azione allora i compagni di Cassano che aiutano i feriti ad allontanarsi». Oltre a Luigi Restelli veniva colpito a morte un ufficiale tedesco. Rastrellamenti, arresti compiuti a Cassano e a Gorgonzola, interrogatori non portarono all’individuazione dei responsabili dell’attacco. Così, per rappresaglia, vennero prelevati dal carcere di Monza quattro detenuti. Il 31 marzo, Sabato Santo, alle prime luci dell’alba, venivano fucilati a Cassano d’Adda: Luigi Lodola, di Castelnuovo Bocca d’Adda; Giuseppe Fontana, di San Vito di Gaggiano; Giuseppe Ruggeri (partigiano di Rossino presso Vimercate) e Giovanni Ballarati. Il plotone d’esecuzione consumò la vendetta anche sul cadavere di Luigi Restelli, pure sottoposto a fucilazione.
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n Martesana: l’insurrezione
ANO GLI ATTACCHI, SUBENDO TERRIBILI RITORSIONI. FINO ALLA DISFATTA NAZIFASCISTA
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ribaldino di Caponago, all’altezza del cimitero del paese, una colonna tedesca che transitava sulla camionabile Pessano-Vimercate-Monza. I partigiani protrassero l’attacco fino all’esaurimento delle munizioni senza avere la meglio. Lo stesso distaccamento, alle ore 17, mandava una pattuglia di rinforzo a quello di Pessano: in un’azione perdeva la vita Giuseppe Mauri di Caponago e rimaneva ferito Arcore, febbraio 1945. Montagnetta per prova mitragliatrice il comandante del distacantiaerea, luogo della fucilazione dei partigiani vimercatesi camento di Caponago, Angelo Brambilla. Il 26, a Gorgonzola venivano fermate due colonne nazifasciste, e i circa 250 VI - L’insurrezione prigionieri venivano portati a Vimercate. Il periodo insurrezionale in Martesana fu «partico- A Burago Molgora la 103ª Garibaldi, dopo uno sconlarmente movimentato e irto di imprese belliche, tro con morti e feriti, catturava 20 tedeschi. non tanto per la liberazione dei paesi quanto per il A Carugate, l’11ª Matteotti fermava parte dell’autocontinuo affluire di ingenti forze, soprattutto nazi- colonna “Ligure”, che proveniva da Pessano. Sempre a Carugate, la 26ª brigata del Popolo assieme ai ste, in ritirata verso il confine». Come scrisse anche Giovanni Pesce “Visone”: «Sui garibaldini della 103ª costringevano alla resa il prepartigiani del Vimercatese è caduto tutto il peso sidio dell’aeronautica militare. delle forze nemiche che hanno lasciato Milano o che, Nello stesso giorno «due distaccamenti partigiani, aggirandola, provenienti da sud, tentavano di rag- alla cui testa sono i comandanti Erba e Torsa, attacgiungere il confine. Tra le brigate va sottolineato cano una colonna tedesca presso Melzo: uno sconl’impegno della 105ª Garibaldi i cui distaccamenti tro terribile. Alla fine nelle mani dei partigiani restano un cannone di piccolo calibro, due mitrasanno trovarsi sempre dove c’è bisogno d’agire». Il 24 aprile a Brugherio veniva attaccata una colonna gliatrici, parecchi fucili e pistole. Un altro gruppo tedesca proveniente da Cernusco sul Naviglio e nello d’insorti al comando del tenente Saul Sironi cattura un grosso reparto fascista che da Pozzuolo cercava di scontro cadeva il partigiano Luigi Teruzzi. Nello stesso giorno cadevano a Cernusco sul Navi- portarsi sulla statale per fuggire a nord». glio due giovani partigiani, Cesare Riboldi e Luigi Tra Cavenago e Bellusco, in seguito a una violenta Mattavelli, durante l’azione di disarmo di un mare- sparatoria contro una colonna blindata tedesca uscita dall’autostrada all’altezza di Cavenago, persciallo fascista. Sempre il 24, durante la notte, alcuni partigiani devano la vita: Luigi Besana, Giovanni Saronni, Audell’11ª Matteotti attaccavano a Carugate un’auto- gusto Sesana, Pierino Mussini, Giacomo Ronco. colonna tedesca: durante la sparatoria che ne se- Il 27, garibaldini del Vimercatese accorrevano in guiva veniva colpito a morte il garibaldino Mario soccorso del distaccamento di Inzago, dove una quaMandelli. rantina di tedeschi con quattro automezzi erano asIl 25 aprile, a Gorgonzola avvenivano le seguenti serragliati nelle scuole e resistevano da due giorni. azioni: l’uccisione di un tenente colonnello della Numerosi scontri avvennero sull’autostrada Milano“Aldo Resega”; l’occupazione del salumificio Sala; il Bergamo e sulla statale 11, a Cascina Bianca di Camdisarmo di un autocarro carico di munizioni e di poricco, a Gorgonzola, a Vaprio, a Ornago, a Belun’arma pesante; il fermo, dopo una sparatoria, di lusco, a Busnago. una colonna tedesca. Il 28, a Trecella veniva attaccato il presidio della Nello stesso giorno, di mattina, veniva attaccata a contraerea tedesca, il quale rifiutava la resa, riuMelzo una colonna nazifascista forte di 20 autocarri scendo, nella notte, ad avviarsi verso Cassano, dove mentre tentava di attraversare il paese. Nello scon- però veniva fermato. tro a fuoco i partigiani venivano sopraffatti e lascia- A Vaprio un’altra colonna nazista arrivava fino a vano sul campo due morti e sette feriti. Fara Canonica, e dopo numerosi assalti partigiani, Verso le ore 18 i partigiani di Melzo attaccavano nei quali subiva gravissime perdite, si arrendeva. un’altra colonna tedesca costringendola alla resa e Anche tra i partigiani vi furono numerosi caduti: Ana lasciare nelle loro mani 63 prigionieri. gelo Biffi, Luigi Cantoni, Carlo Galbusera, Luigi Sempre il 25 veniva attaccata dal distaccamento ga- Gatti, Mario Malvestiti, Mario Pagnoncelli, Pietro
Riva, Adriano Sala, Luigi Signorini. Nello stesso giorno, a San Pedrino di Vignate veniva circondata e fermata un’altra colonna tedesca. Al prolungato conflitto a fuoco parteciparono numerosi partigiani di ogni formazione. La resa dei tedeschi avvenne verso sera, quando giunsero i reparti americani. I numerosissimi prigionieri vennero trasportati dagli alleati nel campo di concentramento che avevano allestito presso Treviglio.
VII - Due eventi di portata nazionale
Cattura e fucilazione di Roberto Farinacci Il 27 aprile 1945, a Beverate, veniva catturato dal distaccamento di Merate della 104ª brigata Garibaldi il gerarca Roberto Farinacci. Fascista della prima ora, ras di Cremona, con le sue squadracce di manganellatori aveva terrorizzato la provincia. Farinacci rimase sempre fascista intransigente, leader del fascismo puro e duro, filonazista. Nel 1938 era stato tra i maggiori sostenitori dell’emanazione delle leggi razziali; nel 1939 era fautore dell’ingresso immediato in guerra. Dopo l’arresto trascorse la notte presso Villa Prinetti di Merate. Il giorno successivo veniva condotto a Vimercate, dove un tribunale popolare lo condannava a morte. L’esecuzione fu immediata e avvenne nella piazza principale del paese. La resa delle SS italiane Il 30 aprile veniva fermata a Gorgonzola una colonna di circa 200 SS italiane. Non si trattava di una colonna qualsiasi, ma di ciò che rimaneva del famigerato Kampfgruppe “Binz”, al comando dell’SSObersturmbamfuhrer Franz Binz, di Duren. Il Gruppo “Binz” si era formato dall’unione dei soli due battaglioni di SS italiane, il “Debica” e il “Vendetta”, dei quali i tedeschi più si fidavano. Il 25 aprile, nella Bassa piacentina, Binz dava l’ordine di ritirata all’intero Gruppo. Armato di tutto punto, con automezzi, carri armati e mortai, varcato il Po esso si diresse a Santo Stefano Lodigiano, Somaglia, Lodi Vecchia (dove giunse il giorno 29), bersagliato dall’aviazione angloamericana e costretto a continue soste dagli attacchi partigiani. Mentre nei giorni precedenti tutti i presidi di SS italiane si erano sfaldati e arresi ai partigiani, il Gruppo “Binz” era l’unico ancora in grado di opporre un’efficace reazione militare. Da Lodi Vecchia, il “Binz” puntò su Paullo per tentare di raggiungere la Brianza, ma il 30 aprile «a Gorgonzola i carri armati americani gli bloccano la strada. Franz Binz ha compreso che è la fine e si arrende». Ricordiamo che le SS italiane prestavano giuramento, come quelle tedesche, a Hitler e portavano il distintivo del “teschio d’argento”; avevano gli stessi gradi di quelle tedesche, ma le loro mostrine erano rosse. I tedeschi impiegarono le SS italiane soprattutto in operazioni di polizia, rastrellamento e rappresaglia contro partigiani e popolazione civile. 3 - Fine
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TRUPPE NAZISTE IN RITIRATA PASSARONO DA INZAGO. FINENDO INTRAPPOLATE
Quei tedeschi alla Pirogalla
Q
di
LUCIANO GORLA
uello che di seguito riassumo è un fatto accaduto ad Inzago, alla Cascina Pirogalla, sul finire del mese di aprile del 1945. Una vicenda il cui racconto, quand’ero ragazzino, ho avuto modo di ascoltare più volte proprio in quella cascina, dove abitavano mia nonna materna ed uno zio agricoltore. Nell’aprile 1945, la Seconda Guerra Mondiale, almeno in Europa, stava per concludersi. Infatti, come si apprende dalla Storia, le truppe tedesche presenti in quel periodo in Italia erano ormai in rotta e allo sfascio. Ai vertici della Wehrmacht non restava che aderire alle trattative iniziate in Svizzera, su iniziativa del generale Wolff, in vista della capitolazione. Mussolini, in quei drammatici giorni che precedettero la Liberazione di Milano, aveva in un primo tempo deciso di condividere il progetto Pavolini, consistente nel chiamare all’adunata i fascisti irriducibili per una "resistenza eroica, fino alla morte": sacrificio supremo che avrebbe dovuto consumarsi nella fortezza naturale della Valtellina. Ma poi a Milano, con la mediazione dell’arcivescovo, card. Alfredo Ildefonso Schuster, cercò di trattare con il CNL (Comitato nazionale di liberazione) la resa del fascismo repubblichino. La morsa, intanto, andava serrandosi. Il 23 aprile 1945, presso Guastalla, il IV corpo d’armata americano aveva passato il Po: mentre il Duce stava trattando in arcivescovado, gli americani erano a 60 km da Milano. Lasciando Milano, dopo il fallimento delle trattative di resa, Mussolini disse di volere dirigersi proprio in VaItellina; ma sappiamo poi quale strada prese ed il destino a cui andò incontro. La città di Milano era pronta all’insurrezione ed i giorni che seguirono videro la riscossa delle formazioni partigiane, la resa delle truppe tedesche d’occupazione, la fuga dei fascisti e l’esultanza della popolazione. Nella nostra Zona, dopo la liberazione di Milano, una colonna motorizzata tedesca, composta di alcune decine di militari della Wehrmacht, ben armati ed equipaggiati, proveniente da sud (si disse da Melegnano), dopo essere transitata da Trecella, dove c’era stato un presidio tedesco con delle batterie di contraerea, imboccò la strada per Inzago. L’intento del reparto era probabilmente quello di immettersi sulla Strada Statale 11 Padana Superiore, con l’obiettivo di dirigersi a nord; i tedeschi, infatti, non cercavano che di tornare a casa. Giunto nel territorio di Inzago il reparto, ormai isolato, venne comunque a sapere che
la strada della ritirata non era libera, per la presenza di gruppi partigiani. Temendo forse un’imboscata, i tedeschi decisero di interrompere la marcia e di attestarsi nella campagna locale, nell’eventuale attesa di negoziare un libero passaggio da Inzago. Dopo aver scartato la possibilità di fortificarsi presso la Cascina Santa Croce, più vicina all’abitato ma ritenuta meno idonea dal punto di vista strategico, occuparono la Cascina Pirogalla. Sotto l’androne del portone d’in- Foto d’epoca della Cascina Pirogalla innevata gresso posizionarono un’autoblindo puntata verso la strada; mentre alle finestre delle camere da letto, si- sente nella zona, su ciò che stava accadendo tuate al piano superiore delle abitazioni, po- ad Inzago. Alla Cascina Pirogalla, dopo una sizionarono delle mitragliatrici pure esse prima chiusura carica di minacce da parte puntate verso la strada. Nel cortile furono dei tedeschi, dovuta anche - si presume - a parcheggiati gli automezzi carichi di muni- qualche problema linguistico, la ragione inizioni, di carburante, di materiali vari e di ge- ziò a prevalere. Le ore passavano, in ogni neri alimentari. Un autocarro telonato era modo, cariche di suspence, in cui ottimismo carico di biciclette requisite chissà dove. La e pessimismo circa il finale si alternavano, Pirogalla fu isolata: chi si trovava all’interno producendo una notevole tensione. Inzago, della Cascina non poteva uscire e dall’esterno il 7 settembre dell’anno precedente, aveva già nessuno poteva accedervi, nemmeno i resi- subito una sorta di assedio e la minaccia di denti. l tedeschi che avevano con loro un sol- decimazione per un gruppo di uomini, riudato ferito, sistemato in una requisita niti in Piazza Maggiore, al termine di un racamera da letto, erano dunque pronti a so- strellamento nazi-fascista. Quella giornata di stenere una decisa posizione che avrebbe terrore si era conclusa con la fucilazione del prof. Quintino di Vona: insigne uomo di culanche potuto degenerare. tura e fervente patriota, il cui sacrificio è oggi Gli inzaghesi seppero dell’occupazione ricordato da una lapide in Piazza Maggiore, della Cascina Pirogalla nel mentre, al San- dove avvenne la barbara esecuzione. tuario del Pilastrello, stava per iniziare la celebrazione di una Messa. Al diffondersi della Alla Pirogalla la difficile situazione si notizia, che passò fulminea di bocca in bocca, sbloccò quando sulla bianca e polverosa lo smarrimento fu generale. Il parroco, strada fecero la loro comparsa alcuni carri mons. Giacomo Passoni, che già aveva avuto armati americani, preannunciati dal rumore un ruolo importante nelle trattative di resa assordante dei motori e dei cingoli. I mezzi del presidio tedesco installato presso le corazzati, dalle cui torrette spuntavano le scuole elementari, non si perse d’animo. A teste dei carristi, circondarono la Cascina chi gli fece presente la drammaticità della si- manovrando con abilità e facendo roteare le tuazione, rispose: «Siamo venuti al Pila- minacciose bocche da fuoco. Un piccolo strello per ringraziare la Madonna dei aereo da ricognizione era nel frattempo sopericoli scampati; bene, la pregheremo an- praggiunto e roteava in continuazione sopra cora perché di nuovo ci aiuti». Non intese la Cascina. Gli americani, con la mediazione di un interprete, trattarono la resa dei tedequindi sospendere la funzione liturgica. Intanto il locale comando del CNL si era schi che uscirono dalla Cascina e deposero le prontamente mobilitato. Una delegazione armi. I prigionieri furono inviati al campo di raggiunse la Cascina Pirogalla col proposito raccolta Milano-Baggio, mentre alcuni milidi tentare una trattativa con i graduati tede- tari americani rimasero a sorvegliare le armi schi, per evitare il peggio. La tensione si leg- e gli automezzi dei tedeschi, finché arrivageva sui volti di quelle persone coraggiose, rono gli addetti alla bonifica che ritirarono partigiani e autorità civili; i quali, a rischio tutto il materiale bellico. della loro incolumità, non vollero lasciare Nei prati attorno alla Cascina Pirogalla rinulla d’intentato per il bene di tutti: vincitori masero a lungo soltanto i segni dei cingoli dei e vinti. Un esponente delle locali formazioni carri armati che, a detta dei contadini, «avepartigiane (Carlo Simone, ndr) fu inviato ad vano arato il terreno» e devastati gli argini informare un distaccamento alleato, pre- che dividevano i poderi.
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La legge 194 è un diritto
settembre 2013
LE REGIONI DEVONO GARANTIRNE I SERVIZI A TUTTI
da l’Unità del 25 giugno 2013
VALERIA FEDELI
L
di
VicePresidente del senato
a 194/78 è una legge che tutela le donne. È una legge dello Stato e in quanto tale deve essere applicata. Questo semplice e banale principio, che non dovrebbe trovare contraddittorio, è invece negato dall’esperienza. L’accesso alle strutture dove si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza è diventato complesso quando non impossibile. Il motivo principale è l’altissimo numero di medici obiettori, passato dal 58,7% del 2005 al 70% circa nel 2010 per quanto riguarda i ginecologi (leggermente minori le percentuali per anestesisti e altro personale medico). L’obiezione di coscienza è un diritto dei medici, che nessuno vuole mettere in discussione. Si tratta però di un diritto individuale, che non può riguardare le strutture, né può ledere i diritti previsti e garantiti dalla 194. È esattamente in questa direzione che vanno le mozioni presentate come Pd alla Camera e al Senato durante il dibattito in Aula in questa settimana. (...) Oggi ci sono Regioni, come la Campania o la Basilicata, dove il numero di obiettori supera l’80%, rendendo di fatto impossibile l’accesso alle strutture e inapplicabile quindi la legge o
costringendo donne e coppie a migrare verso altre regioni o all’estero. E iniziano a spuntare di nuovo, spesso per notizie di cronaca nera o giudiziaria, gli ambulatori fuorilegge, dove si pratica l’aborto senza garanzie e controlli. (...) Credevamo di aver dimenticato per sempre l’esperienza delle interruzioni clandestine di gravidanza, anche perché i dati dimostrano che la 194 è stata una legge efficace, se gli aborti in Italia erano circa 400.000 nel 1978 e oggi sono circa 115.000 l’anno, riguardando nel 75% dei casi donne straniere, spesso poco informate sui propri diritti. Accolgo quindi con favore l’annuncio del governo che si è impegnato a vigilare sulle Regioni perché vengano garantiti i servizi di interruzione volontaria di gravidanza, a seguito anche dell’approvazione delle mozioni alla Camera che chiedevano proprio un impegno in questo senso. C’è da passare dalla teoria - dove i diritti delle donne sono perfettamente tutelati - alla pratica, per garantire le scelte libere e la salute delle donne. Finanziando e ridando piena centralità ai consultori; proponendo come opzione alle donne l’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica; promuovendo la conoscenza dei diritti in tema di contraccezione di emergenza; prevedendo azioni di prevenzione dell’interruzione volontaria di gravidanza mediante attività di educazione alla tutela della salute e di
informazione sulla contraccezione nelle scuole; tornando a far interagire, come nelle intenzioni della 194, competenze sanitarie e psicologiche, di cura e sociali, di assistenza e di prevenzione. La 194 perseguiva un equilibrio tra salute, autonomia, libertà e responsabilità delle donne e doveri e diritti dei medici, che sono indubbiamente portatori di libertà di scelta, ma hanno anche responsabilità, come singoli e come categoria, cui non possono sottrarsi. Questo equilibrio tra libertà individuale e responsabilità delle strutture va rivisto, per garantire sempre le cure e l’assistenza alle donne. I tempi rispetto al 1978 sono cambiati. Tante cose per le donne sono migliorate, ma molto c’è ancora da fare per raggiungere una vera parità di genere e una vera libertà. Alla legge sull’aborto si arrivò dopo la stagione del femminismo, delle battaglie culturali per una società più libera e aperta. Una stagione che ha prodotto enormi risultati, per l’autonomia, la libertà e la responsabilità delle donne e per il Paese. Una stagione che - pur con le dovute differenze di pensiero e coinvolgimento - si è sentita di nuovo viva negli ultimi due anni, da quando il movimento delle donne invase piazza del Popolo a Roma, chiedendo con forza rispetto, diritti, cambiamento. Per far ripartire l’Italia anche con l’energia libera e sana delle donne.
Femminicidio: il senso malato del mondo
N
di
da l’Unità del 4 maggio 2013
SARA VENTRONI
on ce la caveremo con un minuto di silenzio, in nome delle donne. Non ce la caveremo con una corona di fiori, o un rosario di nomi, sgranato come un bollettino di guerra. La trama è ormai prevedibile, come un format. Una liturgia quotidiana. E le pagine di cronaca nera non sono certo un anticipo di gloria. Qualcuno piange lacrime asciutte per Ilenia Leone - diciannove anni - strangolata a mani nude, con i vestiti da cuoca ancora addosso, calati sulle gambe. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato in un uliveto silenzioso, a Castagneto Carducci, vicino Livorno. Qualcuno piange per Alessandra Iacullo, trent’anni, accoltellata alla gola, ritrovata accanto al suo motorino, in un luogo desolato, tra Ostia e Acilia: la Riserva del Pantano. Periferie. Campagna. Alberi come testimoni muti. Oppure una camera da letto, un salotto, una cucina. La location non conta. È solo una variazione sul tema. Lo sanno tutti che l’assassino ha le chiavi di casa. Lascia sempre le impronte, prima del delitto: centinaia di messaggi, telefonate. O qualche livido nero sul braccio. Ma non chiamatelo amore. E non chiamatela
passione. Non ci è concessa alcuna commozione. L’empatia lascia il tempo che trova. E non dobbiamo appassionarci alla saga. Non ce la caveremo con la foto-tessera di lei che sorride: non immaginava certo che proprio quello fosse il momento per finire nel numero indistinto delle statistiche: ogni due giorni una donna viene uccisa, per mano di un ex marito, un fidanzato geloso, uno spasimante rifiutato, un passante pieno di voglia. E avanti il prossimo. Non ce la caveremo con un racconto minuzioso del contesto: gli amici che si stringono nel dolore, portando a spalla la bara, e i negozianti dei paraggi che mai se lo sarebbero aspettato. Serrande abbassate. Lutto cittadino. Non ce la caveremo con un’intervista al fratello dell’assassino o un reportage di costume, infiorato di dettagli sempre più crudeli, perché l’opinione pubblica ha fame di novità. È già assuefatta. E la morte, da sola, non basta più. Non ce la caveremo con gli esperti. Gli psicologi, i criminologi, gli opinionisti: come se tutto si potesse spiegare con una psiche fragile e labile, una relazione andata in malora, finita con un discreto spargimento di sangue. (...) L’unico gesto possibile, in assenza di risarcimento morale, è solo politico. E passa per le parole. Dare un nome alle cose è un buon inizio: non si tratta di uxoricidio o di amore molesto. È femminicidio.
Questa parola - nuova di zecca nel vocabolario comune - racconta di noi, del nostro Paese, molto di più di quello che vorremmo sapere. È un’espressione che viene da lontano. Ci parla degli uomini che portano i pantaloni, che siedono a capo tavola. Che non conoscono rifiuti. Femminicidio è un sostantivo che sta sulle nostre spalle contadine, più di quanto la nostra cattiva coscienza possa immaginare. La morale è ancora la stessa: ti uccido perché non vuoi essere mia, come dovresti essere, per destino e per natura. Mentre ti uccido so che gli altri, un pochino, mi capiranno. Non possiamo stupirci: fino a qualche anno fa, un marito o un fratello potevano chiedere lo sconto di pena, in nome dell’onore salvato. Le donne erano proprietà privata dei maschi di casa. Ci giriamo intorno, ma il pensiero inconfessabile è sempre lo stesso. Non esplode all’improvviso. È un senso del mondo. Non si chiama raptus, né amore. Il disegno è lì. Elementare. Come un palinsesto primitivo. Così semplice agli occhi, eppure così difficile da interpretare. L’impeto che precede il gesto violento non viene dal nulla. Non esiste il vuoto della mente. Nella cronaca nera quotidiana c’è, al fondo, un segreto inconfessabile. Qualcosa che ancora resta da raccontare. Per questo non saremo assolti dal silenzio, ma dalle parole.
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Matteotti polemizzò anche col suo stesso partito, rivendicando la necessità, per i riformisti, di gesti di rottura col conformismo. Per primo denunciò la minaccia di contagio del fascismo in Europa
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da il manifesto del 11 giugno 2013
GIANPASQUALE SANTOMASSIMO
i sono molti motivi per considerare importante l’uscita degli scritti sulla guerra di Giacomo Matteotti (Socialismo e guerra, a cura di Stefano Caretti, premessa di Ennio Di Nolfo, Pisa University Press, pp. 300, € 35). Ne elenco brevemente i tre principali: documentano finalmente in maniera completa e dettagliata l’attività e le prese di posizione di quello che fu, nel quadro politico italiano, l’oppositore più intransigente della guerra. In secondo luogo, fanno comprendere chiaramente i motivi per i quali Giacomo Matteotti fu sempre venerato nell’esclusiva dimensione di martire, ma ignorato nel suo pensiero politico, da parte della componente largamente maggioritaria dell’antifascismo italiano, legata strettamente alla tradizione dell’interventismo democratico e dei suoi miti. Infine, questi scritti restituiscono senso e dignità a un termine come “riformismo” negli ultimi decenni declinato come sinonimo di moderatismo o peggio come ammiccamento alla restaurazione sociale. Sono testi che vanno dal 1912 al 1924, documentando anche posizioni e attività sugli strascichi della guerra e sulla pace difficile e ingiusta. Matteotti considerò sbagliato e pericoloso l’atteggiamento dei vincitori e fu tra i pochi a valutare nel loro giusto rilievo le opere di John Maynard Keynes, non solo come autore de Le conseguenze economiche della pace del 1919, ma anche del meno noto saggio del 1922, A revision of the Treaty: being a sequel to the economic consequences of the peace. Fino a quando non gli fu ritirato il passaporto dal governo fascista partecipò agli incontri internazionali in campo socialista volti a mitigare la “pace cartaginese” di Versailles. Fu anche tra i primi a cogliere la pericolosità di Hitler e del “fascismo in Baviera” in una situazione tedesca ed europea minata dall’irrazionalità delle riparazioni di guerra.
Pacifista militante. Giacomo Matteotti in una foto tratta dal volume “Il delitto Matteotti”, curato da Stefano Caretti e pubblicato da Piero Lacaita editore
L’avversione al nazionalismo Ma qui ci occupiamo, per brevità, solo dell’opposizione alla “grande guerra” vera e propria. La sua profonda avversione al bellicismo e al militarismo era già emersa nel 1912 in occasione del conflitto libico, allora in piena consonanza con le posizioni di tutto il suo partito, compreso Mussolini e il fronte “rivoluzionario” che
in parte sarebbe divenuto interventista. Già nell’agosto 1914 Matteotti enunciava il principio della neutralità assoluta. Di fronte al ricatto del patriottismo usava parole molto dure: «Noi non neghiamo l’esistenza della Patria, ma non essa è la nostra idealità; un’altra e più alta assai è la nostra aspirazione. E quando a paladini della Patria si ergono i clerico-mode-
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Il combattente della pace
USCITO IN LIBRERIA “SOCIALISMO E GUERRA” DI GIACOMO MATTEOTTI
rati, i nazionalisti, i militaristi - e si servono anzi a tale scopo dello straccetto patriottico - allora noi insorgiamo anche contro la Patria. Se vi è un luogo, piuttosto, dove oggi si lotti per la libertà della Patria, quest’è in Tripolitania..., e non di qua dalle prime dune di sabbia». Di fronte alla prospettiva dell’immane e inutile carneficina tra i proletariati europei, propone un vero e proprio scatto di ribellione col ricorso all’insurrezione, quel “sovversivismo” che gli fu attribuito postumo da Piero Gobetti. Secondo Caretti, Matteotti fu «una sorta di splendido isolato: coerente e tenace assertore di un pacifismo coraggiosamente militante che rimase sostanzialmente inascoltato». E in polemica anche con il Partito socialista, giudicato troppo timido per la scelta del «non aderire né sabotare», laddove sarebbero stati necessari gesti più risoluti («tira vento di piccole viltà, anche nel mio partito»). In un articolo sulla Critica sociale del febbraio 1915, polemizzando con Turati, ne contestava le posizioni troppo timide: «Da buon riformista, io non ho mai negato le possibilità e necessità rivoluzionarie. Non già quelle che dovrebbero di punto in bianco sostituire il mondo socialista al mondo capitalista, o il mondo dei buoni a quello dei cattivi; ma quelle certamente che ci fanno evitare un maggior male, e che mirano a sbarazzare il terreno del progresso socialista da alcuni particolari ostacoli, da alcune particolari croste, che resistono sebbene al di qua o al di sotto si sia formata una gran forza opposta; e occorre lo scoppio di violenza». A Turati, dominato dallo spettro della possibile guerra civile ottocentesca, contrapponeva l’immagine ancora più tragica della grande guerra moderna e delle sue implicazioni. Tra minacce, pestaggi e carcere E anche su questo terreno, infatti, si delinea quella che potremmo definire la “venerazione conflittuale” nei confronti di Filippo Turati, ammirato ma spesso contestato da Matteotti. «Troppo debole è stato il proletariato italiano... - scriveva a guerra ormai proclamata - Prepariamoci ormai a veder dilagare la menzogna...
Una raccolta di scritti sulla tragedia del primo conflitto mondiale, cui l’esponente socialista si oppose strenuamente, facendo leva sulla sua politica internazionalista
Orsù, lavoratori, che fate? Levatevi il cappello, passa la Patria, e ormai più non ci sono socialisti; passa la Rovina, passa la Guerra, e voi date ancora la vostra carne martoriata». Frattanto Matteotti, proprio per la sua intransigente opposizione alla guerra, viene fatto oggetto di attacchi e intimidazioni sempre più minacciosi da parte degli avversari. «Il dottor Matteotti deve scomparire», titola il Corriere del Polesine, foglio degli agrari, il 5 febbraio
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1915. Cominciano le prime aggressioni, gli agguati, i pestaggi, che lo accompagneranno negli anni che gli resteranno da vivere. Per le sue dichiarazioni al consiglio comunale di Rovigo nel giugno 1916, giudicate “disfattiste” dal Prefetto, Matteotti viene processato e condannato a trenta giorni d’arresto con la condizionale per «grida sediziose e disfattismo». La sentenza del Pretore contrappone Matteotti ai dirigenti socialisti, come Turati, giudicati responsabili e ragionevoli, e stigmatizza il comportamento dell’accusato: «Il dottor Matteotti ha rivendicato a sé il diritto alla più illimitata libertà di parola, considerando che, nei più dei casi, le dottrine giudicate aberrazioni in un’epoca appartengono a verità indiscusse in altra più o meno lontana». Da allora in poi, la voce di Matteotti fu ridotta al silenzio. Richiamato alle armi nel luglio 1916 in provincia di Verona, fu già alla fine di agosto trasferito in Sicilia, perché considerato CONTINUA A PAGINA 22 ➔
LE DIMISSIONI DI MUSSOLINI DALL’AVANTI!
Un direttore voltagabbana
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l direttore dell’«avanti!», dopo avere sostenuta la neutralità assoluta, indotto in polemica per confidenze private, s’è dichiarato favorevole alla guerra contro l’austria. la direzione del Partito, riconfermando l’avversione socialista contro ogni guerra, ne ha accettate allora le dimissioni. ed è stato bene. anzi doveva avvenire prima, se l’etichetta rivoluzionaria del mussolini e certi suoi gesti non avessero abbacinato moltissimi. (...) ma non si meraviglia chi sa come molti di questi così detti rivoluzionari non sieno altro che degli impulsivi momentanei, dei letterati della politica, capaci di porre come dogma assoluto per ogni luogo e tempo quello che dieci minuti dopo rinnegheranno. Purtroppo l’educazione politica è ancora mito. e la folla preferisce innamorarsi dei mussolini, perché trinciano l’aria col taglio
più netto. Per noi, quando un uomo arriva a comporre un manifesto per la neutralità assoluta, a lanciarlo per tutta italia come segno di un partito; e venti giorni dopo ne parla come di un puro esercizio dialettico di propaganda, dal quale l’azione deve essere diversa, anzi opposta - il giudizio è chiaro, e non ne parliamo più. ritorniamo al lavoro. ritorniamo a predicare l’internazionale dei lavoratori, contro tutte le guerre. una spina ci sta nel cuore però: potremo più adesso preparare l’insurrezione contro la guerra, dopo che l’uomo messo più in alto, ha stinto il rosso della nostra bandiera e l’ha consegnata al Governo perché richiami e mobiliti? egli può chiamare ridicola questa situazione. noi piangeremmo, se non dovessimo camminare. da la lotta, a. XV, n. 43, 24 ottobre 1914, p. 1, firmato «Gemma»
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➔ SEGUE DA PAGINA 21 dal Comando Supremo un «violento agitatore», la cui permanenza in zona non lontana dal fronte era considerata estremamente pericolosa. Il confino in Sicilia dura dal settembre 1916 sino al marzo 1919, data del suo congedo, prima a Campo Inglese e poi in altre località nei dintorni di Messina, sottoposto a disciplina militare e alle limitazioni di un controllo stringente. Dopo Caporetto, non si associò agli appelli alla «concordia nazionale» del suo partito e guardò con speranza alla prima rivoluzione russa e al manifesto dei 14 punti del presidente Wilson. Il dissenso con Turati Ancora a guerra finita, e col fascismo al potere, dissente dal progetto di Turati e Treves di prender parte alla solenne celebrazione del 4 novembre 1923, giudicando impossibile che i socialisti si trovino coinvolti in un’esaltazione nazionalistica della guerra. «Pensavo anche - scrive a Turati - se noi dovevamo lasciar passare il giorno del Milite Ignoto senza fare nulla, lasciando ad altrui la brutta ipoteca bellicosa su un simbolo così sentimentale. Noi avremmo potuto richiamarci ad esso come a colui che morì per la patria libera e per un mondo senza guerre... Penserei di riunire il ricordo del Milite Ignoto anche a quello di tutti i nostri morti ignobilmente calpestati in questi giorni». Anche nei confronti del fascismo, di cui per primo intuì la minaccia e il pericolo di contagio che rappresentava per l’Europa intera, Matteotti raccomandò sempre un atteggiamento più fermo e risoluto. Nella sua ultima lettera a Turati, pochi giorni prima di venire assassinato, scriveva: «Innanzitutto è necessario prendere, rispetto alla Dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fino qui; la nostra resistenza al regime dell’arbitrio dev’essere più attiva, non bisogna cedere su nessun punto, non abbandonare nessuna posizione senza le più decise, le più alte proteste. Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati; lo stesso codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà (...) Perciò un Partito di classe e di netta opposizione non può accogliere che quelli i quali siano decisi a una resistenza senza limite, con disciplina ferma, tutta diretta ad un fine, la libertà del popolo italiano». Gianpasquale Santomassimo
NEL REPORTAGE “STAZIONE MEDITERRANEO”
La bella Italia che sa accogliere
E
di
da l’Unità del 22 marzo 2013
LUCIANA CIMINO
dris Mahmuodzadeh ha lasciato il suo paese per motivi politici, «mi avevano condannato a morte». È passato per la Turchia, poi ha camminato sulle montagne «per settimane, mangiando le foglie dagli alberi». Arrivato in Italia con documenti falsi, è stato arrestato. Appena uscito dal carcere, dopo due anni, è andato a chiedere asilo politico alla questura di Padova. L’ha ottenuto e oggi è mediatore nella cooperativa sociale Agorà Kroton, in Calabria. Anche Lassad Azzaabi ha deciso di fare il mediatore «dopo aver subito una ingiustizia dalla questura di Caserta», «ho cominciato a lottare per chiedere più diritti per le persone nella mia condizione». Oggi lavora a Napoli per la cooperativa sociale Dedalus. «Il nostro è un lavoro fondamentalmente politico» spiega Giacomo Marrazzo, della cooperativa partenopea «la nostra azione quotidiana, il nostro contrastare le discriminazioni avviene lavorando». Sono alcune delle voci raccolte nel reportage Stazione Mediterraneo storia dell’Italia che accoglie e include realizzato da Nelpaese.it con Giornale Radio Sociale, Visioni sociali (e in collaborazione con Redattore Sociale), presentato ieri a Roma dall’Unar, l’ufficio nazionale anti discriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio per la Settimana di azione contro il razzismo. Il titolo parte da una frase dello scrittore Erri De Luca, voce narrante del film, «l’Italia è la stazione centrale del Mediterraneo». Il reportage attraversa il Sud, partendo dalla Calabria e arriva a Roma attraversando Napoli. Al centro il lavoro quotidiano di centinaia di operatori e cooperative sociali impegnate in progetti di accoglienza, inclusione e inserimento per immigrati, richiedenti asilo, rifugiati politici, donne vittime di tratta e comunità rom. Passando per la situazione difficile di alcuni territori a causa delle intimidazioni mafiose, come a Crotone, o della gestione della prostituzione da parte della criminalità organizzata, come per la cooperativa Dedalus di Caserta. «La Calabria all’inizio ha risposto con il volontariato puro - spiega Pino de Lucia, presidente di Agorà Kroton - non c’erano
risorse né leggi a darci indicazioni; nonostante questo è nata una cosa bella perché Badolato è diventato il primo paese ad accogliere migranti». «Le cooperative danno risposte immediate, dando una accoglienza che è diversa da quella istituzionale: i nostri governi hanno fatto i Cie, una cosa abominevole, noi invece integriamo, facendoli lavorare anche sui beni comuni. Non sono immigrati passivi che vengono accolti ma persone che si danno da fare per migliorare la qualità della vita di tutta la comunità». Il reportage si sofferma su quei migranti che sono diventati a loro volta operatori e lavorano con le stesse cooperative che li hanno accolti. «Nonostante le difficoltà e la crisi delle risorse pubbliche per le politiche sociali, organizzazioni, operatori e giovani propongono un’altra Italia che s’impegna contro ogni forma di discriminazione nella grande Stazione Mediterraneo» dice Giuseppe Manzo, direttore di Nelpaese.it «Un’Italia che va raccontata attraverso un’informazione responsabile: Nelpaese.it, Giornale Radio Sociale, Visioni sociali e Redattore Sociale sensibilizzeranno tutti network radio-televisivi e web per la diffusione del reportage». Per Pietro Barbieri, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore, Stazione Mediterraneo è «una testimonianza straordinaria di come nel nostro paese i diritti umani siano lontani dall’essere applicati per tutti e racconta come le organizzazioni del terzo settore italiano siano in frontiera per esplicitare questa mancanza e trovare strategie per superare una fase tanto complicata». Per Barbieri «L’Unar dovrebbe essere ancora più indipendente dalla Presidenza del Consiglio». «Una vera agenzia indipendente per i diritti umani nel nostro paese non c’è (in gran parte d’Europa sì), come se da noi tutto funzionasse a meraviglia su questo campo. Il monitoraggio invece deve essere affidato a pezzi di società civile riconosciuti dalla Stato». Ma prima occorre un governo che faccia innanzitutto una cosa: «riconoscere almeno la cittadinanza alle persone nate in questo Paese; se si deve ricominciare a valutare le modalità di accoglienza e inclusione bisogna partire da qui, è il livello minimo».
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Storie americane, ormai anche italiane
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
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raymond carver - Di cosa parliamo quando parliamo d’amore - Vuoi stare zitta, per favore? Racconti - minimum Fax
aymond Carver è uno dei maggiori interpreti e descrittori del disagio della classe media americana negli anni 60 e 70 dello scorso secolo: nelle sue storie, nei suoi racconti, famosi per la cruda essenzialità della sua parola, si tratteggiano protagonisti comuni, coppie come tante, riprese nella quotidianità della vita. Nato nello stato dell’Oregon (costa ovest americana) nel 1938, vive spostandosi tra l’Oregon, lo stato di Washington e la California settentrionale, ove muore nel 1988 all’età di cinquant’anni. Di famiglia umile (la madre era cameriera, il padre operaio in una segheria), si barcamena per tutta la vita tra le più disparate occupazioni, conservando però sempre un grande amore e passione per la scrittura e la lettura. L’alcolismo (tra le cause del fallimento del primo matrimonio di Carver) e una certa idiosincrasia per l’istituto familiare lo accomunano all’altro grande scrittore dell’ovest americano, Charles Bukowski, da cui lo differenzia invece una maggiore attenzione alle cose minimali di ogni giorno (minimalismo). Diverse sono le raccolte dei suoi racconti apparse in versione italiana: ricordiamo solamente Di cosa parliamo quando parliamo di amore Roma, Minimum fax, 2001 e Vuoi star zitta per favore? Racconti Roma, Minimum fax, 1999. In molti suoi racconti è vivida la descrizione della vita di coppia come dolorosa tensione tra due debolezze, tradimenti compiuti o ricevuti, tra aspirazione alla libertà e amore per la famiglia. È poi assillante la visione della precarietà e della mancanza di sicurezza nel proprio lavoro in cui versa l’individuo nella società americana: si veda per esempio in “Vita-
mine” storia incentrata appunto sul lavoro della compagna del protagonista del racconto (vendita a domicilio di prodotti multivitaminici) «Ma le ragazze che lavoravano per lei cambiavano di continuo. Qualcuna si licenziava dopo pochi giorni, alcune addirittura dopo poche ore… Quelle che non ce la facevano si licenziavano. Non si presentavano più al lavoro e tanti saluti.» Oppure in “Jerry, Molly e Sam” la potente descrizione della crisi e della disoccupazione così vicina a quella dei giorni nostri «Giù all’Aerojet, invece di assumere stavano licenziando. Nel cuore dell’estate, proprio ora che i contratti per gli armamenti fioccavano in tutto il paese, all’Aerojet parlavano di tagliare i costi. Anzi li stavano tagliando i costi, ogni giorno sempre di più. Il suo posto non era più sicuro di altri, anche se lavorava lì da due anni, quasi tre»... «Nessuno era al sicuro, dai capireparto ai supervisori, giù giù fino agli operai della catena di montaggio»… Vi è poi nell’intelaiatura del discorso carveriano una fondamentale sfiducia nell’istituzione della famiglia e del matrimonio che si integra con una critica dell’american way of life nel senso di ruolo sociale e carriera lavorativa. Questo è molto evidente per esempio nel tragico racconto dal titolo “Di’ alle donne che andiamo”. Nel racconto viene analizzata la vita di chi diventerà poi nella fine tragica e coincisa del racconto («Jerry usò lo stesso sasso su entrambe le ragazze») un pluriomicida. L’inizio è in stile un po’ alla Bukowski. Nel racconto della felice giovinezza di entrambi il primo tarlo è rappresentato dalla frase «Ma poi Jerry si sposò e lasciò il liceo per un posto fisso al Robby’s Mart». L’amicizia
marco ansaldo - Il falsario italiano di Schindler - rizzoli, € 18,00 Ventisei chilometri di scaffali, oltre trenta milioni di fascicoli, mappe, disegni, grafici, quaderni, liste, effetti personali, fotografie: le stanze segrete dell’ex caserma delle Ss di Bad Arolsen custodiscono l’archivio definitivo dell’Olocausto, il registro più completo dell’ossessione nazista di documentare e catalogare ogni singolo aspetto dello sterminio. Un inferno di carta. Solo nel 2007, a più di sessant’anni dalla fine della guerra, la Germania ha finalmente deciso di togliere i sigilli e di aprirlo al pubblico. Marco Ansaldo è il primo italiano a essersi addentrato in questo labirinto di fogli e storie. Quelle ignote degli internati illustri - Anna Frank, Primo Levi, i Finzi-Contini, il giovane Mike Bongiorno in fuga verso l’America - e quelle travagliate dei molti anonimi dimenticati. Come il tipografo Schulim Vogelmann, ebreo fiorentino di origini polacche, l’unico italiano salvato da Schindler, che imparò il tedesco a costo di preziosi tozzi di pane e divenne falsario per conto del Reich. Un inaspettato romanzo corale sulla costante ricerca della salvezza.
continua fino al matrimonio di Bill quando però «Bill guardò Jerry e pensò che sembrava più vecchio, molto più vecchio dei suoi ventidue anni». In una domenica passata insieme «Bill pensava che Jerry stava davvero diventando profondo, perché aveva sempre lo sguardo perso nel vuoto e non diceva quasi niente». La decisione di andare a fare un giro in macchina insieme (da cui il titolo: Bill dice a Jerry «Vado a dire alle donne che andiamo» è il prologo all’abbordaggio delle due ragazze e al tragico epilogo. In Vuoi star zitta per favore, racconto che dà il titolo alla raccolta pubblicata da Minimum Fax nel 1999, è l’amore coniugale analizzato nella sua bellezza e problematicità. Un tradimento rivelato dalla moglie del protagonista molti anni dopo dà il via a un vagabondaggio fuori casa in cui vengono descritti bar, partite a poker, quartieri malfamati fino al ritorno a casa, all’incontro con i figli e all’apparente lieto fine. Ma la tensione tra fedeltà e tradimento nell’amore percorre molte novelle di Carver (tra cui la già citata “Vitamine” in cui il marito ha una storia con la collega della moglie), come pure le dinamiche coniugali un po’ alienanti che a volte si instaurano (es. l’ossessione per il peso della compagna di Earl, protagonista di “Loro non sono mica tuo marito”). In sintesi, i personaggi che popolano i racconti di Carver rappresentano l’America comune, quella di ogni giorno: coppie in crisi, gente che non sa come sbarcare il lunario, oppressa dai debiti, alle prese con lavori precari, frequentemente disoccupata. Un’America che parla fortemente all’Italia: l’Italia che è diventata simile allo scenario descritto da Carver. Pietro Tagliabue matteo alborghetti - La 53ª brigata Garibaldi Tredici martiri settembre 1943aprile 1945 - mursia, € 18,00 Dopo l’8 settembre 1943 furono molti i giovani che scelsero la via della montagna, formando i primi nuclei della Resistenza. La 53ª Brigata d’Assalto Garibaldi “Tredici martiri” iniziò a operare subito dopo l’armistizio. Guidata dal comandante Giovanni Brasi (“Montagna”), fu protagonista della Resistenza nel bergamasco e in Italia settentrionale, reclutando giovani del posto, ma anche antifascisti che arrivavano dal milanese o militari di varie nazionalità che fuggivano dai campi di prigionia. Molte le azioni che la resero celebre, come la battaglia di Fonteno, uno dei più importanti episodi del movimento partigiano in Lombardia. Molti gli uomini che la 53ª sacrificò alla causa resistenziale: dai “Tredici martiri” fucilati il 22 dicembre 1943, da cui prese il nome, alla squadra di Giorgio Paglia, catturata nel rifugio di Malga Lunga a Sovere, il luogo simbolo della storia di questa brigata. Attraverso testimonianze orali, l’autore ricostruisce la storia della Resistenza bergamasca.
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IL 26 APRILE 1937 UN VIOLENTO BOMBARDAMENTO AEREO ITALO-TEDESCO DIS
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da il manifesto del 27 aprile 2012
ANGELO D’ORSI
I 29 aprile 1937 il Corriere della Sera dà notizia della distruzione di Guernica, l’antica storica capitale di Euskadi, avvenuta tre giorni prima, il 26 aprile, un lunedì pomeriggio. Il primo articolo del Corriere ha un titolo emblematico, che coglie perfettamente nel segno, ma rovesciando le cose: «Come si falsa la Storia. La distruzione di Guernica e le menzogne della democrazia internazionale». Di qui si può capire perché quell’evento possa esser considerato l’esempio e quasi il modello del ribaltamento della verità, a cui tante volte abbiamo poi assistito nel corso del XX e dei primi decenni del XXI specie in relazione ad eventi militari. Non è solo il Corriere a prestarsi all’operazione di costruire menzogne per nascondere le menzogne. È tutta la stampa italiana, allineata e coperta alla volontà del Duce, in quell’anno terribile che fu il 1937, quando il fascismo, reduce da una guerra - l’Etiopia, con la «conquista dell’Impero» tornato «sui colli fatali di Roma» - si è immediatamente impegnato in un’altra guerra, quella contro los rojos spagnoli, guerra di cui Mussolini come Hitler capiscono subito l’importanza ideologica, prima che strategica. Con il sostegno decisivo sia della Chiesa cattolica spagnola, sia, un po’ più defilate, delle gerarchie vaticane, i sedicenti volontari italiani (che raggiunsero la cifra di 120.000) inviati dal regime fascista e la potente rinata, aeronautica militare del Terzo Reich, trasformano una sedizione militare, già sul punto di fallire, in un’aggressione internazionale a uno Stato europeo, usando il terrore di massa. E la menzogna per giustificarlo o occultarlo. Ma esisteva una stampa indipendente internazionale, e grandi reporter (a cominciare da George Steer, l’australiano, mitico corrispondente del Times e del New York Times) che si recarono sui luoghi e inviarono vere corrispondenze di guerra, in grado di inchiodare nazisti, fascisti e franchisti alle loro colpe. Il caso di Guernica è emblematico. Le menzogne del comando di Franco - balbettante fra diverse versioni, ma tutte coincidenti nell’attribuire la responsabilità ai rossi - si rivelano presto insostenibili davanti alle circostanziate denunce dei giornali britannici francesi e americani. Quelli italiani persistettero nel loro repertorio di sciocchezze e menzogne, tanto più desolante, se si pensa che ne furono protagoniste grandi firme, che, nel dopoguerra si riciclarono tranquillamente nella stampa “democratica” e ancora oggi sono considerate stelle del giornalismo italiano, come Luigi Barzini che, sul Popolo d’Italia (il quotidiano di Mussolini), scrisse articoli vergognosi quanto superficiali. La campagna su Guernica assunse un tono prevalentemente antibritannico, anticipazione della assordante propaganda contro «il popolo dei cinque pasti», che già avviata dopo le sanzioni all’Italia per l’aggressione all’Etiopia nel 1935, diverrà ossessiva durante la guerra mondiale. Non potendo negare la distruzione della città
Guernica
Guernica-Milano. La tela di “Guernica” esposta, nel corso di una mostra su Picasso nel 1953, nella Sala delle Cariatidi ancora ferita dal bombardamento del 1943
Menzogne italiane
Allineata e coperta per volontà del Duce, la stampa italiana costruì menzogne per nascondere la verità. Con l’avallo di autorevoli penne ancora oggi celebrate santa dei Baschi, si insiste sulla menzogna: sono stati i repubblicani in fuga, e si disegna la trama classica del complotto internazionale, su cui, a partire dall’attacco all’Etiopia, e alle successive sanzioni contro l’Italia, la pubblicistica fascista si è scatenata, in un crescendo che toccherà i suoi picchi massimi nella Seconda guerra mondiale. Scrive il Popolo d’Italia che i francesi del Fronte Popolare, «prendendo a pretesto la distruzione di Guernica per attribuirla all’aviazione nazionale, piuttosto che alle torce incendiarie dei repubblicani fuggiaschi», hanno collaborato a «intorbidire l’atmosfera internazionale»: accanto a loro, «i demagoghi ispirati dalla bibbia anglicana con i seguaci di Carlo Marx e i fratelli massoni». Nell’idea della cospirazione internazionale, invece degli ebrei sono i protestanti, gli anglicani, che complottano con i marxisti, e, naturalmente, con i massoni. L’altro elemento che entra nel modello Guernica ci riporta sotto gli occhi un altro luogo comune
delle guerre coloniali, dalla Libia del 1911 all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia 2011. Gli invasori sono i «liberatori». Tale Riccardo Andreotti firma sulla Gazzetta del Popolo un articolo che fissa un vero canone interpretativo: «Guernica è apparsa alle truppe liberatrici quasi completamente rasa al suolo dalla furia devastatrice dei rossi che, prima di abbandonarla, l’hanno data alle fiamme». Un altro inviato speciale, Renzo Segàla (altro “grande nome” del giornalismo nazionale), sul Corriere della Sera presenta un quadro che sembra riprodurre i suoi stessi servizi da Addis Abeba occupata dalle truppe italiane all’incirca un anno prima: gli invasori sono salutati dalle popolazioni locali come liberatori, vengono ben accolti nelle città (e in special modo a Guernica, si precisa con straordinaria spudoratezza): «in confronto a quanto fatto dai rossi a Guernica, Pompei può ancora sembrare una città abitabile». Su La Stampa attraverso uno dei suoi inviati di punta, Sandro Sandri (destinato a morte prematura, in quello stesso anno ‘37, dopo aver avuto il tempo di pubblicare un libro encomiastico verso il generale Graziani, il massacratore degli africani), fa capire, fin dal titolo, che non la verità dei fatti, ma la fedeltà politica stanno a cuore al giornale: «Guernica ridotta in cenere dai dinamitardi comunisti». Il racconto vuol essere una dolente epopea capace di commuovere e insieme indignare. «Mentre lungo la strada una folla com-
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SCO DISTRUSSE LA CITTÀ mossa ed entusiasta di contadini accorsi dai villaggi vicini faceva ala al passaggio delle truppe, benedicendo ed acclamando, uno spettacolo terribile si presentò ai nostri occhi, non appena fummo nell’abitato (... ) un silenzio desolante regnava nelle vie di Guernica, su cui la barbarie rossa ha compiuto un crimine che supera di gran lunga l’incendio di Eibar.» Quella di Guernica bombardata dai nacionales o loro alleati non è che una «stupida panzana». Ancora Il Popolo d’Italia ritorna sull’argomento, con parole che vorrebbero chiudere la bocca ai malevoli che parlano di bombardamento. A leggerle oggi v’è di che rimanere quasi sedotti da tanta disinvoltura: «Ho compiuto oggi un doloroso pellegrinaggio fra le rovine ancora fumanti di Guernica (...) e ho potuto constatare che le case erano distrutte da incendi e che gli incendi dimostravano origini identiche. Ciò mi ha portato a credere che erano stati appiccati dall’interno. Non ho visto il minimo segno di bombe lanciate dall’alto, né ho osservato segni di esplosioni di bombe di aerei nelle vicinanze dei fabbricati.» Siamo alla ipostatizzazione della menzogna, alla costruzione di un paradigma: se esso rimarrà vigente in Spagna, per i successivi quattro decenni, in Italia comincerà a essere incrinato solo dopo il fascismo, pur rimanendo in qualche modo in circolazione il germe del dubbio, capace se non di rovesciare la verità, quanto meno di farla apparire traballante. Insomma, il modello di una storia assurdamente “paritetica”: «Furono i tedeschi, ma agirono di testa propria, e non si esclude che gli stessi repubblicani abbiano collaborato in qualche modo...». Su questa strada si arriverà alle posizioni di revisionismo storiografico anche assai greve, negli ultimi decenni. Revisionismo che investirà anche, e soprattutto, il quadro di Picasso, la più efficace e drammatica testimonianza e insieme denuncia del massacro della ciudad sagrada del popolo basco. Ancora oggi capita di leggere su siti, giornali e libri che quel quadro era in realtà stato già dipinto e che il furbo pittore lo riciclò, per venderlo alla Repubblica. Anche per combattere tante menzogne, e mezze verità, in occasione del 75° del bombardeo (aprile dello scorso anno, ndr) si è tenuto a Guernica (Gernika nella grafia basca), un importante simposio internazionale organizzato dal Museo della Pace, e dall’annesso ricchissimo Centro di Documentazione (www.museodelapaz.org/es/docu-historia.php): è stato fatto il punto sulle conoscenze, interrogandosi sulle ragioni, gli attori, i risultati. Guernica ne è stata confermata come un esperimento che anticipa la guerra totale, con il suo terrore e le sue menzogne. È emerso, in questo primo convegno dedicato al martirio della città basca, un quadro esauriente delle ripercussioni del bombardamento, con una specie di catalogo delle menzogne, nel quale quelle italiane hanno risaltato. Al punto che un convegnista britannico ha chiesto come questo potesse spiegarsi, e ha avanzato un’ipotesi, a cui non ho saputo replicare: gli italiani popolo di guitti e mentitori, da Barzini a Berlusconi?
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IL COMMENTO
La voce della Resistenza attraversa spazi e tempi da l’Unità dell’8 giugno 2013
Per fare un esempio concreto, ritengo utile ricordare che è la Resistenza antifascista ad attivare in Italia il princidi MONI OVADIA pio di uguaglianza fra l’uomo e la reGista e scrittore donna. pilastri che sostengono l’architet- Ritengo altresì necessario sottolineare tura dei diritti di una democrazia una volta di più, che il concetto di laica e liberale e socialmente re- uguaglianza, è profondamente dissisponsabile, sono stati enunciati con mile da quello di egalitarismo con il forza assiomatica dai padri della Ri- quale viene capziosamente confuso voluzione Francese con la memorabile dalla cultura conservatrice e reazioallitterazione di tre grandi parole scol- naria. Uguaglianza è parità di diritti, pite nel tempo del riscatto umano: Li- di dignità, di opportunità e di accesso berté, Égalité, Fraternité. alla conoscenza per tutti i cittadini, Con l’esordio degli anni Ottanta, il nessuno escluso. La destra politica, somondo vede prodursi con una pro- prattutto in Italia, ha espunto dal suo orizzonte l’uguaglianza ma anche la fraternità, confinando il proprio concetto di democrazia al solo principio della libertà. Non solo, ne ha forzato l’interpretazione economicista, piegandolo all’idea di facoltà-arbitrio di chi è privilegiato per censo, per evirarne il significato più autentico. Per portare a termine questa operazione culturale, era necessario neutralizzare la cultura dell’antifascismo il cui grande ammaestramento è che libertà, uguaglianza, fraternità e giustizia sociale, sono consustanziali. Per calunniare la Resistenza, si è data la stura a un’alluvione del pegBella ciao. Piazza Taksim resiste e canta gior pseudorevisionismo, fino ad arrivare a cogressione rapida, la disgregazione del niare un similvocabolario di una lincosiddetto «blocco socialista», assiste gua falsa e ridicola, in cui spiccano all’irruzione virulenta delle ideologie parole sconce come «divisivo». Questo iperliberiste targate Reagan e That- attributo è stato affibbiato anche alla cher e conosce la contestuale crisi del canzone Bella ciao dal sindaco di Pemodello socialdemocratico fondato sul scara che la ritiene troppo «politicawelfare state. mente connotata». Tanta stoltezza Uno degli effetti principali e, a mio pa- revisionista ha già avuto una straorrere, più dannosi di questo sommovi- dinaria risposta nella piazza Taksim mento socio-economico, è la corro- di Istanbul. I cittadini liberi, democrasione perversa e mirata del principio tici e ribelli, che si oppongono alla prodella libertà. Mi è capitato spesso di tervia di un potere arrogante, hanno parlare di questa aggressione delibe- scelto come loro inno Bella ciao, come rata a uno dei valori fondativi della fecero gli attivisti di “occupy Wall nostra democrazia costituzionale fon- Street». Nessuno si illuda! La voce data sul lavoro. Ne parla in modo ine- della Resistenza attraversa spazi e quivoco la nostra Carta all’Articolo 3. tempi.
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Una professoressa e un Paese presi a schiaffi
ANNI DI LOGORIO MEDIATICO E POLITICO HANNO SVILITO UN RUOLO SOCIALE PRIMARIO
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MILA SPICOLA
da l’Unità del 16 giugno 2013
a scuola è finita. Ieri in Italia un’insegnante è stata presa a schiaffi da un genitore per avergli bocciato il figlio, - no, non il figlio, per esser stato bocciato, l’insegnante. C’è qualcosa di cui ha bisogno adesso l’Italia più del pane e sono il rispetto collettivo per ciò che siamo come Paese, e ciò che siamo lo dobbiamo anche alla scuola, nel bene e nel male. Non è possibile affatto che in un angolo del Paese, fosse anche il più remoto, un genitore prenda a schiaffi un’insegnante nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche. Chi l’ha permesso? Abbiamo alle spalle anni di logorìo sociale e di attacco mediatico e politico a una professione inattaccabile e la responsabilità è di chi ha favorito tutto ciò, confondendo pericolosamente responsabilità individuali - che possono e devono essere individuate e sanzionate, (ma nessuno lo fa), che ci sono statisticamente in ogni professione - e ruolo collettivo, che non può essere mai messo in discussione e invece lo fanno tutti, persino i premier. L’Europa ha chiesto all’Italia, tra i diktat per toglierla dal procedimento d’infrazione, di ridare ruolo sociale e di riqualificare il lavoro dei docenti; non è una richiesta peregrina: è un obiettivo strategico fondamentale. La nuova geografia del lavoro mondiale coincide con la geografia dei saperi, lo hanno capito tutti nel mondo, tranne l’Italia, che si barcamena in ricette improbabili per combattere la crisi, rimanendoci sull’orlo, perché non è capace di comprendere quello che serve: innovazione, saperi qualificati e sguardo lungo. Per innovare e guardare lontano si de-
vono promuovere alti livelli medi di conoscenza nella popolazione, e non lo fai attaccando un docente, ma migliorando le condizioni del sistema che deve promuoverli. Obbiettivi che, a parole tutti perseguono, ma nei fatti non sanno come realizzare, semplicemente perché ci vogliono azioni efficaci e competenti decise da chi di problemi complessissimi come l’innalzamento dei livelli medi si occupa da anni. Quasi tutti i rapporti relativi ai sistemi d’istruzione individuano come motore vero dell’innovazione dei sistemi d’istruzione - e dunque dei paesi - l’esercito degli insegnanti: non le strumentazioni da fornire agli insegnanti, o la valutazione dei docenti, ma la formazione, la selezione e la qualificazione continua degli insegnanti. Qualcuno ha confuso la riqualificazione dei docenti con la valutazione dei docenti; quello è l’ultimo anello della catena. Non cambi il risultato in un sistema se ti limiti alla valutazione delle variabili dipendenti (l’operato dei docenti, i livelli cognitivi degli studenti), devi agire sulle cause di quelle variabili. Tre sono i passi. Il primo: riqualificare la formazione universitaria. Diventi insegnante chi ha nel proprio bagaglio formativo non solo le conoscenze disciplinari (accade oggi) ma anche un bagaglio di “attrezzi del mestiere” che sono discipline come la pedagogia, la docimologia, la psicologia infantile e adolescenziale, la gestione e il management scolastico. Il secondo passo: la selezione dei docenti. Concorsi seri e veri. Che accertino non solo le conoscenze con batterie ridicole di test (spesso sbagliati, spesso oggetto di ricorsi, spesso abbuonati a tutti per non incorrere in procedimenti d’infrazione), ma che prevedano prove che accertino anche le competenze necessa-
il fiore del partigiano
PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA ZONA DELLA MARTESANA
Redazione: presso la sede della Sezione Quintino di Vona di Inzago (MI) in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Direttore responsabile: Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)
rie per diventare insegnanti, comprese le predisposizioni psicoattitudinali a un mestiere difficilissimo. Il terzo passo. Rivoluzionare la professione. Un docente torni ad essere un intellettuale: deve studiare, deve avere il tempo di farlo e deve avere il riconoscimento perché lo fa. È un lavoro intellettuale, che va praticato e riconosciuto come lavoro intellettuale, perché ciò accada bisogna semplicemente porre in essere le condizioni affinché sia così. Non è peregrino immaginare che, almeno ogni 4 anni, un docente possa trascorrere sei mesi fuori dalle classi, a rotazione, per fare ricerca, dentro e fuori la scuola, per qualificarsi, studiare, partecipare a convegni, produrre sperimentazione, effettuare lavoro di supporto, organizzazione e produzione di saperi e attività dentro la sua scuola.
La Storia del Novecento on line
È
nata www.novecento.org una rivista on line di didattica della storia progettata e gestita dall’istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in italia e dai 68 istituti ad esso associati, presenti sul territorio nazionale. attraverso essa l’insmli intende contribuire a realizzare gli obiettivi della convenzione con il miur per l’insegnamento della storia del novecento. l’ambizione è quella di raccogliere, condividere e ridistribuire saperi, conoscenze, risorse utili per la ricerca didattica e l’innovazione in atto nella scuola italiana, utilizzando le potenzialità di internet e stimolando la nascita e lo sviluppo della comunità virtuale degli insegnanti-ricercatori di storia. la rivista è stata quindi pensata e progettata come uno strumento affidabile per i docenti italiani che vogliano aggiornarsi dal punto di vista storico e didattico, come un punto di riferimento che offra materiali, percorsi didattici, dossier di documenti, mostre virtuali, riflessioni metodologiche e aggiornamenti su quanto avviene in europa in questo specifico ambito di insegnamento. attraverso essa la rete insmli sarà in grado di fornire al mondo della scuola il proprio contributo sull’insegnamento della storia e di valutare la ricaduta del proprio lavoro tra i docenti italiani.