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anno 4 numero 12
DIETRO IL CANCELLO
A sinistra, 1944: donne ungheresi appena giunte ad Auschwitz (diario) A destra, 2011: migranti a Lampedusa (fanpage.it)
«Ricordare serve al futuro»
L di
Questo il pensiero espresso dallo scrittore israeliano Abraham Yehoshua: «Solo così sconfiggeremo per sempre l’antisemitismo». Vi proponiamo l’intervista concessa a l’Unità del 27 gennaio 2013
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
a passione per la politica stavolta non è l’oggetto del nostro colloquio. Stavolta, con Abraham Yehoshua, il più grande tra gli scrittori israeliani contemporanei, l’argomento di riflessione è quello che non tramonta mai: la Memoria. E, in particolare, la memoria di un popolo, quello ebraico, che è parte fondante di una identità che si è fatta Stato: lo Stato d’Israele. Una memoria che va coltivata, aggiornata, riflessa nel presente, innovata negli strumenti della sua comunicazione e socializzata alle nuove generazioni. Perché essa, rimarca Yehoshua, «sopravviva a coloro che ne sono stati i portatori». Da uomo di cultura, spesso a contatto con i giovani in Israele e nel continua a pagina 2 ➔
Ieri dietro il filo spinato la follia nazista celava l’immane tragedia dello sterminio di ebrei e “soggetti impuri”. Oggi l’Europa si erige a fortezza, tentando di tenere a distanza la massa dei reietti in fuga dalle guerre e dalla fame. Vecchie idee nazionaliste rivangano nella melma di mai vinti egoismi, per giustificare l’ergersi di nuovi muri, nuove recinzioni a separarci dai nuovi “impuri”
La razza non esiste il razzismo sì
L
di
da l’Unità del 27 gennaio 2013
ALBERTO PIAZZA*
a genetica umana, oggi assai sofisticata, ha dimostrato che la diversità biologica tra due individui qualsiasi della nostra specie è dovuta per l’85% al fatto che appartengono appunto alla stessa specie, e per il 10% al fatto che la loro origine geografica si colloca in continenti diversi: pertanto la differenza del colore della pelle, che più di ogni altra ha alimentato lo stereotipo razziale, occupa nello spettro della diversità biologica una frazione minima. A questa frazione tuttavia è stato associato il massimo valore sociale e culturale, perché il nostro occhio è capace di distinguere differenze di colore e di forme, ma non differenze in sequenze di Dna, ben più determinanti nella nostra vita biologica. È comunque necessario interrogarsi sul motivo per cui lo stereotipo della razza è così difficile continua a pagina 10 ➔
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il fiore del partigiano
Storia di Nadja, sopravvis
DALL’INCUBO DI UN GULAG SOVIETICO A QUELLO DEL LAGER TEDESCO DI RAVENSBRÜCK, FINO
da l’Unità del 27 gennaio 2013
Quella di Nadja è una storia singolare: all’età di cinque anni venne rinchiusa in un gulag sovietico da cui fuggì grazie al nonno. Dodici anni dopo il nuovo incubo, questa volta nel lager nazista di Ravensbrück. Nadja oggi ha 89 anni. La storia che segue è stata raccolta dal professor Romolo Vitelli. Nel 1941 avevo diciassette anni ed ero con altri studenti a 400 chilometri dalla mia città, Mariupol, in Ucraina. Eravamo vicino al fronte di guerra a costruire trincee e buche per ritardare l’avanzata tedesca. L’Armata rossa una notte si ritirò all’improvviso e fummo sorpresi, fatti prigionieri e costretti a lavorare per le truppe naziste. Riuscii a fuggire, ma quando tornai a casa la mia città era stata occupata e venni nuovamente fatta prigioniera e deportata in Germania a Colonia, a lavorare in una fabbrica di armi. Non volevamo aiutare i nazisti a vincere la guerra e facevamo di tutto per sabotare la produzione bellica. Una sera mi si avvicinò il capo-operaio di guardia, un civile tedesco e mi disse: «Sei stata scoperta, domani verranno a prenderti per fucilarti, devi scappare questa notte! Ti lascerò aperta una finestra». Riuscii a fuggire insieme a una compagna e ad arrivare, dopo un lungo viaggio, in Polonia. Bussammo a una casa di contadini per chiedere ospita-
«Ricordare serve al futuro»
➔ segue da pagina 1
mondo, Yehoshua mette l’accento sul fatto che «la demonizzazione dell’altro da sé spesso nasce dall’ignoranza e si alimenta di stereotipi. Al tempo stesso, però, non bisogna cullare una idea salvifica della cultura. La cultura non basta: nazismo e fascismo sono nati in Paesi ricchi di storia, musica e arte». Oggi, 27 gennaio, si celebra la Giornata della memoria. E la memoria torna alla Shoah. Vista con gli occhi del presente, cosa rappresenta quella tragedia? «Indubbiamente rappresenta l’apice del male nella storia dell’umanità, ma non ne è il simbolo. Se ci concentriamo sulle immagini terrificanti della Shoah, sembra che sia tutto accaduto là, a quel tempo. Un evento terribile ma circoscrivibile nel tempo, storicizzabile. Invece non è così. Ed è un bene che sia creato un ponte tra quello che è stato
lità. Credevamo di essere in salvo ma i polacchi, quando capirono chi eravamo, ci consegnarono alla Gestapo.
Orecchini al costo della vita Nel 1942 venni internata nel lager di Ravensbrück, a 80 chilometri a nord di Berlino. Vi restai due anni e mezzo. Lo chiamavano “l’inferno delle donne” per il gran numero di internate femminili e le pesanti condizioni. Nel lager la vita era molto dura, le Kapo ci colpivano selvaggiamente. Tutto era vietato e punito nel campo. Se avevamo i pidocchi venivamo punite, se ci trovavano un foglio di carta sotto la casacca per proteggerci dal freddo venivamo punite, se eravamo sporche di fango venivamo punite. Non si poteva né chiacchierare né pregare né cercare tra i rifiuti qualche rapa marcia. In genere si prendevano 25 nerbate per una infrazione individuale o, se venivano punite tutte le internate della baracca, si restava tutte senza cibo per alcuni giorni. All’inizio fui mandata nello stanzone dove c’erano gli abiti sottratti ai prigionieri a controllare se vi fossero nascosti preziosi, denari, gioielli, monete d’oro. I controlli all’entrata e all’uscita erano severissimi: se avessimo sottratto per noi un solo grammo d’oro ci aspettava la fucilazione immediata. Un giorno dentro la fodera di un cappotto trovai due piccoli orecchini d’oro. Non ne avevo mai visti di così belli. La mia vanità femminile e giovanile ebbe la meglio sulla paura della morte, li presi e
li nascosi sotto la lingua. Al controllo mi perquisirono ma non trovarono nulla. Quando tornai nella baracca dissi alla mia amica austriaca che mi fungeva da mamma di aver sottratto due orecchini e lei: «Sei pazza? Se ti prendono ti fucilano, riportali e consegnali subito!». Non lo feci: ero felice di tenerli e indossarli di nascosto. Un giorno ebbi paura di essere scoperta e li inghiottii prima dell’ispezione. L’indomani alla latrina li recuperai, li lavai con cura e li nascosi sotto una pietra.
In fuga dalla morte Le truppe sovietiche dopo Stalingrado cominciavano ad avanzare e i nazisti non sentendosi più sicuri facevano evacuare i campi di concentramento. Una mattina anche il nostro lager venne abbandonato e cominciammo una terribile “marcia della morte” per essere trasferite al nord, da dove dovevamo imbarcarci per il Sudamerica e continuare i lavori forzati per i nazisti in Brasile. Molte morirono di stenti o furono abbattute dalle guardie. Un giorno mi avvicinai a un tedesco che ci sorvegliava e gli chiesi se non ci lasciasse andare. Era un giovane che aveva perso un braccio in guerra. All’inizio rispose di no, ridendo, poi mi disse: «Non ora, ma quando a sera daranno da mangiare ai cani, al mio cenno buttati rotolando per la scarpata!». Scappai nuovamente con alcune compagne. Vagavamo per i campi, quando all’alba vedemmo una cascina. La casa era stata abbandonata in tutta fretta: dentro
e la nostra vita quotidiana. I soggetti più pericolosi in tutto questo non sono state le SS, un piccolo gruppo in fondo, ma la moltitudine silenziosa e indifferente che ha permesso che ciò si verificasse. Una lezione che dobbiamo avere sempre davanti agli occhi. Per quanto ci riguarda, come ebrei, abbiamo visto sulle nostri carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il nazismo non è una manifestazione solamente tedesca ma più generalmente umana, di fronte a cui nessun popolo è immune. Guardiamoci attorno: gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia, la pulizia etnica in Bosnia, non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista. E allora, noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può es-
sere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi. Dobbiamo farlo, per scongiurare il rischio di restare indifferenti al male. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acui- re la nostra sensibilità, perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto, al di là delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale bisogna compiere atti morali. E per questo affrontiamo gli esami quotidiani». Recenti rapporti indicano che l’antisemitismo è tutt’altro che debellato. Quali misure si aspetta dall’Europa per debellare questo virus? «Sono preoccupato del fatto che, purtroppo, il virus dell’antisemitismo non è stato debellato. Forse si è indebolito; oggi non può mostrarsi in tutta la sua virulenza perché considerato inadatto,
sco nu cu as lia in le ec can So un sot co ma soc esp nis La ria im me ma azi pa
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il fiore del partigiano
vvissuta all’inferno
ÜCK, FINO ALL’ULTIMA FUGA, CON GLI ORECCHINI PER TESORO
pi dobstessi. restare na sofferenti . Come nostra il fatto confeta moà delle ato un orali gli Per esE per
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Lavori forzati per le internate nel lager di Ravensbrück
c’erano pane, salumi, lardo e tanto vino. All’improvviso sentimmo parlare tedesco e guardando dalla finestra vedemmo dei militari. Eravamo ancora con le casacche del lager e il nostro numero: pensavamo di essere perdute. Per nostra fortuna si trattava di militari giovani che nulla sapevano dei lager. Ci allontanammo e nascondemmo in una radura dall’erba alta dove ci addormentammo. Fummo svegliate da scoppi di granate. Eravamo in piena battaglia tra due fuochi: da una parte i panzer tedeschi e dall’altra i carri armati sovietici. Poi la battaglia cessò e i carri si allontanarono. Una compagna, che era uscita di senno durante l’abbandono del lager, si allontanò in sconveniente; ma nelle sue nuove mutazioni continua ad essere presente e a lanciare anatemi e accuse spesso ingiuste contro Israele. Io sono il primo a sollevare critiche sugli errori dei governi israeliani, ma nello stesso tempo individuo spessissimo in molti degli attacchi portati a Israele cose che con le divergenze politiche non hanno nulla a che fare e che riportano invece a meccanismi che vorremmo cancellati. So che debellare completamente l’antisemitismo è un obiettivo proibitivo. Ma non lo è il combatterlo sotto ogni sua forma. L’Europa lo deve combattere con tutta la sua forza. Non per il bene degli ebrei ma per il proprio bene. Per la salute delle proprie società. Per non permettere che questo virus si espanda e colpisca le parti vitali del proprio organismo. La Giornata della Memoria ha dietro di sé una storia breve, ma mi sembra già di individuarne la sua importanza. Una importanza che non sta, ovviamente, nelle cerimonie che avvengono quel giorno, ma in tutto quello che c’è intorno, che la prepara: le azioni educative; la trattazione dell’argomento da parte dei mass media. Con il bombardamento di
cerca di aiuto. Cercammo di trattenerla, ma non ci riuscimmo. Per strada incontrò un comandante russo con un sidecar a cui raccontò di noi. L’uomo prima la riportò da noi con la moto, poi tornò con i suoi compagni dell’Armata Rossa che ci portarono con un camion al loro comando dove fummo rifocillate e curate. Dopo un lungo viaggio in treno e a piedi arrivai a casa dei nonni. Bussai alla porta: ero molto dimagrita e deperita. Venne mio nonno ad aprirmi e mi disse: «Che vuoi ragazza? Aspetta che ti prendo una patata lessa, non abbiamo di più». Stava per chiudere la porta quando la nonna gridò: «Ma non riconosci la voce? È Nadja! È tornata!». Ci abbracciammo e piangemmo insieme per un bel po’, la nonna non la smetteva più di stringermi e di piangere. Avevo sempre con me quegli orecchini che avevo trovato nel lager, ma un giorno mentre li volevo indossare per andare a una festa mi accorsi di averne solo uno; l’altro l’avevo smarrito. La cosa mi rese molto triste pensando a quanti pericoli avevo passato per nasconderli. Ora, l’unico rimasto l’ho consegnato al museo di Ravensbrück, dove in una teca un biglietto racconta la sua storia.
informazioni che ognuno vive ogni giorno, solo un approfondimento morale e intellettuale del tema ha la possibilità di penetrare il cuore e le menti. E gli ebrei continueranno ad aggiungere a questo approfondimento, il proprio lutto, individuale e di popolo». Oggi i pericoli all’esistenza di Israele vengono soprattutto dall’Islam radicale che spesso, come hanno fatto i dirigenti iraniani, abbraccia le tesi negazioniste sull’Olocausto. Come va trattata questa forma aggiornata e «mascherata» di antisemitismo? «In questo sta il doppio impegno dell’Europa. Capire per sé stessa - per il proprio passato e per il proprio futuro - e dall’altra parte aiutare altri - in questo caso il mondo islamico e arabo - a capire fin dove può portare l’estremizzazione. Solo l’Europa può convincere il mondo arabo degli effetti distruttivi della demonizzazione e della volontà di annientare un altro popolo. E qui entra in gioco la politica. Ma quella buona; quella che potrebbe portare alla soluzione del conflitto fra arabi e israeliani, ad una pace giusta fondata sul principio dei due po-
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IL LAGER IN UN DVD
Le rose di Ravensbrück Storia di deportate italiane
Regia: Ambra Laurenzi documentario Produzione: italia Anno: 2006 Note: documentario prodotto dall’ANED e dalla Fondazione Memoria della Deportazione per ricordare le oltre 900 donne italiane deportate a ranvensbrück. La realizzazione è di ambra Laurenzi(progetto e fotografie) e federico girella (elaborazioni digitali e montaggio). La musica originale è di giulia Cozzi, la revisione scientifica di giovanna massariello. attraverso le immagini e le voci narranti di donne che riproducono scritti, testimonianze e fotografie di deportate italiane, si ripercorrono le tappe della deportazione dal momento dell’ingresso in Lager al giorno della Liberazione, ricomponendo in un affresco corale i tratti specifici della deportazione femminile. L’impostazione storica e originale del dVd, consultabile anche come ipertesto, rende utile questo prodotto audiovisivo nei contesti scolastici ed educativi. i capitoli dell’ipertesto comprendono: nota storica, testi delle testimonianze presentate nel dVd, elenco dei nazisti responsabili del campo, Cenni biografici delle testimoni di riferimento, fonti delle testimonianze utilizzate e Bibliografia. ambra Laurenzi è figlia e nipote mirella Stanzione e nina tantini, deportate politiche a ravensbrück. Chi fosse interessato al dVd, prenda contatto con la Fondazione Memoria della Deportazione.
poli, due Stati. Con un’Europa che nella sua equidistanza faccia capire al mondo arabo la legittimità dell’esistenza di Israele come patria del popolo ebraico, e a Israele la necessità di dare ai palestinesi un proprio Stato in cui non ci sia alcuna sua ingerenza nelle loro vite. Dopo aver giocato durante la Shoah il ruolo di portatrice di guerra, l’Europa deve ora cercare di essere portatrice di pace». Perché i giovani dovrebbero coltivare la memoria di un tempo che a loro appare così lontano, impercepibile? «Perché ricordare è la base del futuro. E perché il passato, nelle sue espressioni più tragiche, può ripresentarsi, in forme nuove e per questo più insidiose». Umberto De Giovannangeli alcuni scritti di abraham Yehoshua che aiutano la comprensione dell’ebraismo oggi: i saggi Elogio della normalità (1991, sulla diaspora); Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare (1996); Una notte di maggio (1975, sulla vigilia della guerra arabo israeliana del 1967); il romanzo Viaggio alla fine del millennio (1997) e i due racconti Le nozze di Galia e Di fronte ai boschi.
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il fiore del partigiano
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Bartali, il Giusto
SULLA SUA BICICLETTA PORTÒ DOCUMENTI FALSI, SALVANDO OTTOCENTO PERSONE
Al ciclista l’onorificenza di Gerusalemme
B
di
da l’Unità del 24 settembre 2013
ORESTE PIVETTA
eato quel popolo che non ha bisogno di eroi, scriveva Bertolt Brecht, ma l’Italia di settant’anni fa, l’Italia dell’occupazione nazista, della repubblica di Salò, delle brutalità fasciste, l’Italia delle deportazioni (vittime ebrei, operai protagonisti dei grandi scioperi del Nord, ribelli di ogni fede politica), deportazioni che si tendono a dimenticare, aveva bisogno di eroi. Ed è bello scoprire e riscoprire (riscoprire perché già lo si sapeva, raccontato peraltro pure da uno sceneggiato televisivo) che uno di questi eroi, doppiamente eroe, era Gino Bartali, «quel naso allegro da italiano in gita» (inevitabile citazione), come canta in immagini indimenticabili Paolo Conte («E io son qui che aspetto Bartali, scalpitando sui miei sandali… da quella curva spunterà quel naso allegro da italiano in gita…»), “Ginettaccio”, protagonista di un ciclismo eroico, come lo furono Girardengo, Binda, Bottecchia, e soprattutto Fausto Coppi, l’“airone”, ma allo stesso tempo protagonista oscuro e clandestino, senza traguardi, maglie rosa o gialle, senza coppe e trofei, protagonista di quel paese eroico, che si riconquistò allora libertà e dignità. Perché Gino Bartali, che vinse tre giri d’Italia e due Tour de France, scavalcando la guerra, risparmiò a tante famiglie i lager e la morte ed ora è anche “Giusto tra le Nazioni”, come ha riconosciuto lo Yad Vashem, il sacrario della Memoria di Gerusalemme, fondato nel 1953. “Giusto tra le Nazioni”, come quanti, non ebrei, misero a rischio la propria esistenza per salvare quella anche di un solo ebreo durante le persecuzioni nazifasciste. «Gino Bartali, nato a Firenze nel 1914, era un campione del ciclismo», si legge in una pagina del sito dello Yad Vashem: «Era diventato molto popolare ed era considerato un eroe nazionale. Bartali era un devoto cattolico…». Un devoto cattolico ed anche democristiano… Nel duello con Coppi, molti allora, dopo la guerra, tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta, e poi nel ricordo, scelsero il “campionissimo”, per un pregiudizio politico, accantonando le qualità e le rivalità strettamente sportive: a molti di noi piaceva Coppi, che appariva più di sinistra, meno conformista (anche per vie delle sue travagliate e sfortunate vicende sentimentali) e
poi la “leggenda” voleva che una vittoria di Bartali al Tour de France, nel 1948, avesse tenuto in piedi De Gasperi nei giorni caldi dell’attentato a Togliatti (De Gasperi e Andreotti lo incontrarono poi per complimentarsi della vittoria finale). Ma non si sapeva allora quanto s’è saputo dopo e quel pregiudizio appare ora sciocco, come è ovvio, ma per giunta offensivo. Bartali, nel passare degli anni, cominciò ad apparire Un giovane Gino Bartali ritratto non solo come l’ex camin una cartolina celebrativa degli anni trenta pione esperto, ma anche come l’irriverente critico di tante manifestazioni della nuova Italia, ricostruita e avviata al benes- perché copriva lunghe distanze») spiegava sere degli anni sessanta e settanta, l’Italia del che quella era la bicicletta di un campione, consumismo dilagante, che poco si conci- costruita secondo calcoli precisi per consenliava con la sobrietà cui la vita, prima e du- tire le massime velocità («le parti erano perfettamente calibrate»), che non la si poteva rante il ciclismo, l’aveva abituato. toccare in alcun modo. Soprattutto qualche approfondimento sto- Lo Yad Vashem riporta le testimonianze di rico ci aiutò a conoscere l’altro profilo di un figli e parenti di quanti riconobbero in Barcampione, che approfittava della sua fama e tali il campione della loro salvezza: testimodei suoi durissimi allenamenti per vivere da nianze precise di sventure e di paure tra messaggero la sua lotta contro la sopraffa- Firenze, Fiesole, il Lido di Camaiore... Comzione. Il presidente Ciampi, dopo la morte pare una foto: la data è il 1941, Bartali di pronel 2000, consegnò alla moglie Adriana una filo, il naso guerriero, allora i bei capelli da medaglia d’oro al valore civile per celebrare corridore, all’indietro, e una dedica a Giorgio Goldenberg, famiglia di ebrei toscani che quel suo sacrificio. Lo Yad Vashem racconta di una rete di soc- poco dopo, nascosta a Firenze, incontrò il corso messa in piedi, dopo l’occupazione te- campione, “corriere” delle loro speranze di desca, dal rabbino di Firenze Nathan sopravvivenza. Cassuto e dall’arcivescovo Elia Angelo Dalla Costa (già accolto come “Giusto tra le Na- Bartali non parlò mai di queste imprese. Dizioni” e Bartali abitava a Firenze in una ceva che il bene si fa, ma non si dice. In quepiazza intitolata proprio al cardinale). Rac- sto senso era in modo ammirevole antico conta di centinaia di ebrei, italiani, ma anche nella sua riservatezza. esuli da altri Paesi vicini come la Francia e Matteo Renzi, sindaco di Firenze, ha detto la Jugoslavia, scampati così alla deporta- che il riconoscimento dello Yad Vashem commuove la città, che è un bel regalo che zione. Gino Bartali agì «come corriere della rete, dà più senso anche ai mondiali di ciclismo nascondendo falsi documenti e carte nella in Toscana. Questa volta non si discute l’opisua bicicletta e trasportandoli attraverso le nione del sindaco. Aggiungiamo, senza tecittà, tutto con la scusa che si stava alle- mere la retorica, che Bartali tra i “giusti” per nando», consapevole dei gravi pericoli che quanto avvenne in quei terribili anni ci concorreva. Bartali i documenti falsi e le carte li ferma nella convinzione o nella speranza di nascondeva nei tubi della sua bicicletta, nel un ciclismo, sport come pochi dall’anima manubrio, e c’è da immaginarlo a pestare popolare, nato tra garzoni di panettieri e sui pedali per macinare chilometri lungo operai lungo strade sempre vicine alla gente, strade polverose, per salite e discese, e se te- nella fatica che aiuta a capire gli altri. Adesso deschi o fascisti lo fermavano per un con- è un altro mondo. Ma delle radici qualche trollo durante le sue corse («era conosciuto cosa si crede resti sempre.
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Piero Terracina, testimone instancabile
A OTTANTACINQUE ANNI NON SI ARRESTA LA SUA OPERA DI DIVULGAZIONE
Molfetta gli ha conferito la cittadinanza onoraria da l’Unità del 19 dicembre 2013
Cittadinanza al testimone che proprio a Molfetta, quasi vent’anni fa, di MARIAGRAZIA GERINA invitato a parlare alle scuole dalla casa editrice la meridiana segnò agazzi, voi che andrete ad Auuna delle prime tappe del suo viagschwitz, vedrete l’inferno e quegio per l’Italia. Ma anche cittadisto vi cambierà per sempre. Ma nanza «a quel bambino, cacciato poi, quando tornerete, mi raccomando: prennel 1938 dalla scuola italiana, per detevi una sera per andare a ballare», dice, effetto di quelle leggi-vergogna istruendo una piccola delegazione di studenti, emanate dal governo fascista», venuti a salutarlo, prima che nell’aula del scandisce il sindaco Paola NatalicConsiglio comunale la cerimonia di conferichio, cinta con la fascia tricolore, mento della cittadinanza abbia inizio. Eccolo che ha riportato Piero a Molfetta. A qui Piero Terracina, uno degli ultimi sopravmaggio, quando la vittoria al Covissuti italiani della Shoah: un fanciullo dalla mune sembrava lontana. E ieri per Piero Terracina, tornato ad Auschwitz, in uno onorare la promessa della cittadibarba bianca, capace sempre di trasmettere insieme alla memoria dell’orrore la sua incre- dei suoi “viaggi della memoria” (Stefano Carofei) nanza: «Con questo gesto solenne dibile vitalità. L’età sembra averlo reso ancora noi vogliamo pubblicamente ricopiù cristallino e capace di azzerare d’un balzo noscere la ferita che, nel silenzio di tutte le distanze. Per questo forse, a ottanta- Europa e nella nostra Molfetta la sua testimo- molti, lo Stato italiano ha inferto a migliaia di cinque anni, non si spaventa di macinare chi- nianza, rivolta soprattutto ai giovani...». Re- bambini italiani, a cui veniva negato il diritto lometri per essere ovunque ci sia bisogno della citano così i manifesti che tappezzano a frequentare la scuola solo perché ebrei e sua testimonianza. Ieri era a Molfetta, oggi in Molfetta dal municipio al porto, nel giorno in sempre e solo perché ebrei da lì a pochi anni Basilicata, a Rionero in Vulture, dove l’hanno cui il consiglio comunale, all’unanimità, ha sarebbe stato negato anche il diritto alla vita», chiamato gli studenti del liceo classico Carlo deciso di conferirgli con quella solenne moti- spiega, riconnettendo la vicenda di Piero a Levi, poche settimane fa in Germania, per la vazione la cittadinanza onoraria. È la settima quella di «tutti i bambini che non hanno anper Piero, ebreo romano, sopravvissuto alla cora piena cittadinanza nel nostro Paese». prima volta. Il suo viaggio non si ferma mai. «Testimone instancabile della Shoah, che, so- Shoah, cittadino italiano e cittadino del Sorride Piero, il testimone instancabile della pravvissuto alle persecuzioni razziali e alla de- mondo. Con l’onorificenza di cavaliere di gran Shoah, mentre ascolta la giovane sindaco. portazione nel campo di sterminio croce al bavero della giacca e sotto braccio il Perché la memoria - spiega Piero - è proprio Auschwitz-Birkenau, ha trovato la forza di libro che un fotografo tedesco gli ha voluto de- quel «filo che unisce passato e presente, e, raccontare l’orrore, portando in tutta Italia, in dicare. proiettata verso il futuro, lo condiziona». Nell’aula del consiglio, neppure uno degli oltre ottanta ragazzi delle scuole superiori venuti ad ascoltarlo muove un respiro. VARESE E L’ANGURIA DEI CAMERATI: L’INIZIO DELLA FINE Consiglieri di maggioranza e opposizione, che dopo tanti anni siedono in consiglio a parti invertite, con il centrosinistra che governa, hanno votato all’unanimità. La truffa del Varese no, il duce non era mai venuto. Una squadra di camerati provenienti da Caporto fatto costruire sulle bombe e ancora Per colmare questa grave lacuna, i ca- ronno Pertusella si spinse fin sulla sommità sotto sequestro, le bandiere di partito restano merati ed il federale chiesero ed ottennero della collina dove si teneva il raduno. Per fefuori dalla porta. L’unico assente è l’ex sfidi avere tutto per loro il segretario del Pnf. steggiare la scampagnata avevano un’angudante dell’attuale sindaco, Ninnì Camporeale. Per celebrare l’evento, i fascisti della città ria che, sfuggita dalle loro mani, rotolò fra le Il testimone sorride a questa particolarissima lombarda e di tutta la provincia organizza- gambe dei balilla lì convenuti e si diresse a “larga intesa”. E poi comincia a raccontare: le rono il raduno in una grande area montana, grandi balzi come una palla di cannone leggi razziali, la cacciata dalla scuola, la prima appena fuori Varese; a mezza collina ap- verso il palco dove aveva iniziato a parlare grande razzia del ghetto di Roma, la sera del 7 prontarono un palco per il discorso delle au- Augusto Turati. aprile 1944, sera di Pasqua, in cui le SS ventorità del regime. Impavido, il Turati, prontamente imitato nero a prendere anche lui e tutta la sua famiOspite principale era Augusto Turati, segre- dalla sua combriccola, decise di affrontare glia. Il prossimo aprile saranno settant’anni. tario nazionale del partito fascista dal 1926 senza scostarsi il pericolo imminente. Di otto che erano, solo Piero è tornato. «E mi al 1930. Sindacalista rivoluzionario nel bien- Il cocomero, a velocità crescente, andò ad sentivo solo e disperato», dice guardando i ranio rosso, interventista nella guerra del ’15- infrangersi sulla traversa superiore dell’imgazzi, come fosse ancora quel diciassettenne 18, fu fra i molti che aderirono al fascismo palcatura: fra crollo di bandiere e dispertornato dall’inferno nella Roma del dopodel programma laico, repubblicano e vaga- sione di truci gagliardetti, inondò Augusto guerra. «Attorno c’era tanta distruzione, ma mente anticapitalista, del 1919; rimase fa- Turati e i gerarchi di un succoso liquido se ce l’abbiamo fatta allora, ce la possiamo fare scista anche dopo che fu chiara la radice rosso. anche oggi». reazionaria, conservatrice e filo monarchica Luigi Gatti del movimento guidato da Mussolini.
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Il succo del discorso
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L’orizzonte aperto da Primo Levi
UN LIBRO DI FREDIANO SESSI INTRODUCE ALLA LETTURA DELLO SCRITTORE TORINESE
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da il manifesto del 3 gennaio 2014
ARIANNA DI GENOVA
a piccolo, Primo Levi era timido e arrossiva spesso. Fragile di costituzione, era un inguaribile romantico: regalava francobolli alle sue innamorate in miniatura. E poi, gli piaceva insegnare a leggere ai cuginetti e anche raccontare storie. Nato nel luglio del 1919 a Torino, lo scrittore, in quell’appartamento di famiglia, vi rimase per tutta la vita. Fino a quando questa sua abitudine rassicurante non gli venne strappata dalla furia della Storia. La sua condanna venne scritta a chiare lettere sul certificato di laurea in chimica: di «razza ebraica». E d’improvviso perse ogni diritto di esistenza, ogni cittadinanza. Primo Levi, l’uomo, il testimone, lo scrittore è il libro di Frediano Sessi con cui Einaudi Ragazzi (pp. 144, € 10,00) sceglie di presentare quell’autore piemontese che in molte classi della scuola italiana si af-
fronta fin dalle medie. Quando era un adolescente, come adesso i suoi lettori, Primo amava la montagna, che spesso raggiungeva in bicicletta con faticose e ritempranti pedalate. Tentò anche di buttare giù un racconto su quelle cime che lo emozionavano, ma il tentativo fallì: «Volevo rappresentare la sensazione che si prova quando si sale avendo di fronte la linea della montagna che chiude l’orizzonte». Lo scritto, giudicato brutto, rimase inedito. Neanche in amore, all’inizio, fu fortunato: Gabriella, la sua passione, era super fidanzata. Sarebbe uscita dalla sua vita, ma un giorno, trent’anni dopo, Levi la immortalerà in una manciata di parole: «Non siamo malcontenti delle nostre scelte, ma quando ci incontriamo proviamo entrambi la curiosa e non sgradevole impressione che un velo, un soffio, un tratto di dado, ci abbia deviati su due strade divergenti che non erano le nostre…». Intanto, la guerra sconvolge l’Italia. Rifugiatosi ad Amay, tra le vette della Val d’Aosta, con la madre e la sorella, Primo
Levi entrò in una banda partigiana. Sarà proprio un’altra banda, quella dei «casalesi», a far precipitare le cose e a portare all’arresto dello scrittore. Da quel momento, prima in viaggio verso Fossoli, poi verso il lager di Auschwitz, la resistenza diventerà tutta interiore, tesa a sopravvivere all’orrore: Levi era adesso il prigioniero numero 174517. Per poter un giorno raccontare di essere stato all’inferno e di esserne uscito, Primo scampò alla morte. Ma a scarseggiare, negli anni a venire, sarà la forza per riprendere a vivere. Libri come La tregua e Se questo è un uomo lo aiuteranno ad andare avanti. Come testimone, Levi andrà a parlare nelle scuole e incontrerà tanti adolescenti. «No signorina – risponderà a una ragazza che non crede ad alcune foto pubblicate su La Stampa – non c’è modo di dubitare delle immagini. Quelle cose sono avvenute, e sono avvenute proprio così, non secoli addietro, non in Paesi remoti, ma 15 anni fa e nel cuore della nostra Europa».
Una vita d’amore resistente
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Giovedì 13 febbraio 2014, ore 21,00, presso la Sala Consiliare del Comune di Pozzuolo Martesana, la Sezione locale dell’ANPI invita la cittadinanza alla presentazione del libro Giovanni e Nori, una storia di amore e di resistenza.
na storia che si sviluppa tra le pieghe del Novecento. È un libro di Daniele Biacchessi, edito da Laterza con la postfazione di Tiziana Pesce. Giovanni Pesce, comandante partigiano responsabile dei GAP di Torino e di Milano, è stato un protagonista della Resistenza e della Liberazione. Giovanissimo aderisce al Partito comunista e combatte nelle Brigate internazionali contro Franco. Tornato in Italia, è catturato e mandato al confino. Per lui, giovane proletario emigrato con poca cultura, l’incontro a Ventotene con il fior fiore dell’antifascismo diventa fondamentale. Liberato intorno all’estate del 1943, dopo l’arresto di Mussolini e l’armistizio dell’8 settembre, ini-
zia la clandestinità, prima a Torino, poi a Milano. Per Giovanni, primula rossa dell’antifascismo italiano, saranno mesi di azioni militari avventurose, leggendarie, coraggiose, drammatiche. Proprio nella Milano occupata dai nazisti, stremata, affamata, disseminata di luoghi dell’orrore, avviene l’incontro di una vita: i due partigiani Giovanni e Nori si conoscono, si innamorano e non si lasciano più. Le loro vite si intrecciano indissolubilmente con la lotta antifascista: i GAP colpiscono, attaccano e fanno azioni di guerriglia, i tedeschi arrestano, torturano, uccidono. Nella città, crocevia di spie e delatori al servizio del nemico, Nori cade in un’imboscata e viene deportata. È l’ultima separazione perché insieme, Giovanni e Nori, rimarranno tutta la vita, condividendo e vivendo sulla propria pelle la storia di quegli anni. Vi aspettiamo tutti, per parlarne con l’autore Daniele Biacchessi e con Tiziana Pesce, figlia di Nori e Giovanni. Maurizio Ghezzi Sezione di Truccazzano Pozzuolo Martesana
a Cura di
MAURIZIO GHEZZI
«Sono qui davanti a voi, non come un profeta, ma come un umile servitore della gente. I vostri instancabili ed eroici sacrifici mi hanno permesso di essere qui oggi.»
Nelson Mandela (11 febbraio 1990, appena liberato dopo 27 anni di carcere)
Vi proponiamo altri suoi aforismi:
«La libertà è una sola: le catene imposte a uno di noi pesano sulle spalle di tutti.»
«Il coraggio non è la mancanza di paura, ma la capacità di vincerla.» «Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l'amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.» «L’educazione è l’arma più potente che si possa usare per cambiare il mondo.»
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Cernusco fa memoria... sul campo
TRA GLI OSPITI, RENZO ULIVIERI, UOMO DI VALORE NEL CALCIO E NEL SOCIALE
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Un convegno su valori sportivi e Shoah
e volessimo fissare un’immagine che tutti sanno il prezzo che metta in relazione lo sport al nazismo, pagarono per quel gesto, probabilmente penseremmo alla pole ripercussioni sulla tenza organizzativa e mediatica dello stadio loro carriera sportiva, affollato durante le Olimpiadi di Berlino del ma soprattutto sul piano 1936 e al volto contrariato di Hitler che aspersonale, un prezzo che siste alle ripetute vittorie del “nero” Jessie altri atleti, condannati Owens. per doping o per uso di Lo sport per il nazismo e il fascismo, come droghe, o per aver venper tutte le dittature, è veicolo di propaduto la loro prestazione, ganda e di supremazia, la vittoria sportiva non pagarono mai. Meè la dimostrazione della superiorità della glio adeguarsi, come fece razza o di quel regime. Le dittature sono la Nazionale di calcio insimbolo di forza, di virilità, di disciplina, glese che rese omaggio a tutti valori presenti anche nello sport. Hitler con il tipico saluto Un’analisi più approfondita ci porta a nonazista scrivendo una tare differenze tra come lo sport era vissuto delle pagine più buie del Berlino, Olimpiadi del 1936. Jessie Owens lanciato in Germania rispetto all’italico fascismo. Lo calcio britannico. verso la vittoria di una delle sue quattro sport per i nazisti aveva come finalità la forOggi lo sport è fenomeno medaglie d’oro, sotto lo sguardo inferocito di Hitler mazione militare: gli atleti dovevano essere di massa ma soprattutto guerrieri, i loro corpi essere forgiati alla economico, che muove guerra, alla vittoria, alla supremazia della ingenti capitali, leciti e ilrazza. C’era il mito del corpo, non quello del della dittatura: vi era una selezione preven- leciti. Frequenti sono le indagini della masingolo, ma collettivo di tutta la razza, per tiva e difficilmente uno sportivo non fedele gistratura per l’uso del doping, per il calcio questo anche per le donne si favoriva l’atti- arrivava ai vertici nazionali. scommesse e per altri reati. vità fisica. Si prediligevano sport, quali Nella storia è sempre stato difficile per uno In Italia le curve degli ultras del calcio sono l’atletica, che esercitano alla corsa, ai lanci, sportivo opporsi, non adeguarsi. territorio esclusivo, salvo alcune lodevoli ai salti, oppure gli sport di combattimento Ricordiamo tutti l’immagine degli atleti sta- eccezioni, della destra estrema e della cricome il pugilato e la lotta; il calcio era osteg- tunitensi Tommie Smith e John Carlos sul minalità organizzata. Spesso coperti dalle giato, perché nato in Inghilterra, tuttavia podio olimpico con il pugno chiuso in un stesse società sportive che di volta in volta Hitler dovette soccombere all’evidenza guanto nero (simbolo del Black Power) ai diventano vittime e carnefici. I vari tentaGiochi di Città del Messico del 1968; non tivi di limitare il fenomeno sono miseradella sua popolarità. Il fascismo, al di là della retorica, mente falliti perché vi è un intreccio politico delle parate e delle adunate, non tra alcuni presidenti delle società e le tifoebbe mai una vera politica di sport serie ultras, fra i dirigenti delle federazioni iL ConVegno di massa, si limitava all’apparenza. spesso scelti per appartenenza partitica. Per affrontare e approfondire la relazione Le donne si preferivano madri o tra calcio e Shoah e per analizzare il fenoamanti, il calcio era considerato lo meno del calcio nell’era contemporanea, a sport per eccellenza, visti i risultati Cernusco il 25 gennaio 2014, come di assoluto valore della Nazionale. Storie di sport, deportazioni, ANPI, abbiamo promosso il Convegno Vi è un aspetto però poco indagato: curve e razzismo Ero in campo... ora sono nel vento. il peso della Shoah nello sport. Interverrà, tra gli altri, Renzo Ulivieri Sicuramente agli atleti, anche di verSabato 25 gennaio 2014 per anni tecnico della serie A, uomo da tice, non vennero fatti sconti: in Gerore 15,00 sempre di sinistra, che ha ricoperto diversi mania sin dal 1933 gli sportivi ebrei Sala “roberto Camerani” incarichi di prestigio all’interno del mondo vennero radiati da tutte le federadella Biblioteca civica di Cernusco sul naviglio del calcio professionistico. Renzo si batte zioni, successivamente furono de(Via fatebenefratelli) da sempre per un calcio pulito, per un tifo portati e utilizzati per le loro abilità appassionato ma mai violento, perché le agonistiche nei campi di sterminio interventi di società sportive si assumano le loro recome passatempo per le SS. Si trattò Renzo Ulivieri sponsabilità, perché ai giovani possa arridi deportazioni senza confini. SolaSergio Giuntini, storico dello sport vare un messaggio positivo e formativo mente in Bulgaria e Danimarca sorLello Gurrado, giornalista e scrittore dallo sport. Spesso ha pagato di persona sero movimenti di massa che Michele Papagna, altropallone queste scelte. impedirono la deportazione non onlus solo di atleti ma anche di semplici Coordina Danilo Radaelli, Franco Salamini presidente anpi di Cernusco S/n cittadini. Per la verità pochi furono ANPI di Cernusco gli atleti deportati perché oppositori
Ero in campo... ora sono nel vento
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Parole, immagini e suoni alimenti della Memoria
NELLA NOSTRA ZONA SONO MOLTE LE INIZIATIVE ORGANIZZATE IN OGNI PAESE
In tutti i nostri Comuni il Giorno della Memoria è tema di celebrazioni. Diamo qui conto di alcuni appuntamenti
A Bellinzago, disegni musica e testi yiddish
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appuntamento per il giorno della Memoria è fissato per sabato 25 gennaio 2014 presso la Scuola Secondaria di 1° grado in Via Giovanni XXIII, alle ore 20,45. Uno spettacolo a cura del gruppo iROUSeTOfOLK dal titolo Musiche per la memoria. Un progetto di musiche originali e letture dalla tradizione ebraica yiddish; disegni dei bambini prigionieri e immagini dai campi di sterminio nazisti.
Cassano d’Adda ricorda a scuola
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utta la cittadinanza è invitata a partecipare agli appuntamenti organizzati sotto il titolo 27 gennaio 1945 - Abbattimento dei cancelli di Auschwitz, 27 gennaio 2014 - Cassano d’Adda ricorda. Dal 20 al 28 gennaio si volgeranno le iniziative per le scuole: • Presentazione ed esposizione della mostra Terezin - Scuole Primarie e Medie Inferiori • sabato 25 gennaio - Spettacolo teatrale Processo alle Banalità del Male di Trento Spettacoli / Ilinx - per le classi 3ᵉ, 4ᵉ e 5ᵉ, Liceo G. Bruno
• lunedì 27 gennaio - Proiezione del film La forza del ricordo - Un treno per Auschwitz Fondazione Fossoli, per le classi 1ᵉ e 2ᵉ, Liceo G. Bruno
• martedì 28 gennaio - Proiezione del film Monsieur Batignole di G. Jugnot, per le classi 3ᵉ della Scuola Media
Sabato 25 gennaio ore 21, Auditorium Liceo Giordano Bruno, via Giovanni XXIII • Spettacolo teatrale Processo alle Banalità del Male - Ingresso gratuito Drammaturgia e regia di Maura Pettoruso, con Andrea Castelli, Alessio Dalla Costa, Stefano Detassis – una produzione Trento Spettacoli, Provincia Autonoma di Trento
Organizzano: ANPI, ACLI, ARCI, Circolo del Popolo, Com. Soci COOP. Con il patrocinio della città di Cassano d’Adda - Assessorato alla Cultura.
Milano commemora da venerdì 24 gennaio
Le commemorazioni “istituzionali” in occasione del giorno della memoria a milano prenderanno il via venerdì 24 con manifestazioni e convegni. il memoriale della Shoah di milano (presso la Stazione Centrale), non ancora ultimato, domenica 26 e lunedì 27 gennaio 2014, sarà eccezionalmente aperto al pubblico con a disposizione Ciceroni di spicco, tra cui gad Lerner, Lella Costa, gioele dix, natalia aspesi, raffaele morelli, ferruccio de Bortoli.
Inzago, la memoria si veste di suoni e luci
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n occasione della Giornata della Memoria la Sezione Quintino Di Vona ha organizzato una serie di appuntamenti: • dal 27 al 31 gennaio - Incontro con gli studenti dell’Istituto Bellisario con la proiezione del film La Rosa Bianca
• dal 22 al 31 gennaio*, La Memoria attraverso lo sguardo dei bambini: mostra di disegni e poesie dei bambini internati nel campo di concentramento di Terezin
• Venerdì 24 gennaio 2014, ore 21.00*, Concerto lirico del Coro Polifonico San Michele di Oreno (Tiziana Cisternino, soprano; Luca Pavanati, direttore). Saranno eseguite composizioni di Verdi,
Puccini, Mascagni, Bach, Mozart. L’evento è a ingresso libero
• Domenica 26 gennaio 2014, ore 16.00*, Quando si aprirono le porte Incontro con l’autrice del libro Maristella Maggi e testimonianza di Venanzio Gibillini, sopravvissuto alla deportazione, la cui storia vera viene raccontata nel libro • Lunedì 27 gennaio 2014, ore 9.30 incontro dedicato alle classi terze della Scuola media di Inzago
• 27 gennaio Giornata della Memoria, scriviamola e accendiamola insieme, appuntamento con i ragazzi delle scuole in piazza Maggiore dalle ore 10.00 con un sasso e in serata dalle ore 20.30 per tutta la cittadinanza con un cero *Queste le iniziative che si svolgeranno presso il Centro Culturale Fabrizio De André di Via Piola 10.
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La guerra impressa nel corpo
LA MEMORIA INDIVIDUALE DEL SOPRAVVISSUTO È UN VIAGGIO DOLOROSO
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La memoria delle sofferenze subite è scritta nelle “cellule del corpo” invece che nella mente, tanto che il corpo autonomamente risponde alle situazioni di pericolo vissute durante il terrore nazista. Così racconta Aharon Appelfeld nel brano tratto da Storia di una vita e proposto come momento di riflessione per il Giorno della Memoria. Il libro, scritto nel 2001, narra la sua vita. Di famiglia ebrea nel 1941 all’età di otto anni fu deportato insieme al padre in un campo di concentramento dal quale fuggì e trascorse i successivi tre anni vagando da solo per i boschi. Nel 1946 approdò in Palestina. Attualmente insegna letteratura ebraica ed è uno scrittore conosciuto in tutto il mondo per il racconto fatto della tragedia degli ebrei nel Novecento: un viaggio doloroso dentro le tenebre della memoria individuale. G. C.
a Seconda guerra mondiale durò sei anni interi. A volte ho la sensazione che si sia trattato di un’unica lunga notte, dalla quale mi sono risvegliato ed ero un altro. A volte ho la sensazione di non aver vissuto io la guerra, ma che sia stata un’altra persona a viverla, una persona a me molto vicina, che mi racconterà esattamente ciò che è successo, perché io non ri-
La vita costretta allo scacco perpetuo
Aharon Appelfeld (da
www.upjf.org)
cordo cos’è accaduto, e come. Dico “non ricordo”, ed è la pura verità. Ciò che si è impresso in me di quegli anni sono soprattutto sensazioni corporee potenti: la fame di pane. Ancora oggi di notte mi sveglio affamatissimo. Sogni di fame e di sete si ripetono ogni settimana. Mangio come mangiano solo le persone che una volta sono state affamate, con uno strano appetito. Durante la guerra sono passato per centinaia di luoghi, stazioni ferroviarie, villaggi sperduti, corsi d’acqua. Ognuno di questi luoghi aveva un nome: non ne ricordo uno. A volte gli anni della guerra mi sembrano un vasto campo da pascolo che si fonde col
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mariLena nardi
UN RACCONTO DI MERAS
ilna 1943: «Ascoltami» dice Schoger, il comandante tedesco del ghetto, al giovane Isaac Lipman, ragazzo prodigio del gioco degli scacchi. «Noi due giocheremo, tu ed io. Se vinci, i bambini del ghetto non saranno deportati, ma io ucciderò te. Se perdi, tu vivrai, ma tutti i bambini di meno di dieci anni partiranno per i campi. Se la partita sarà patta, tutto resterà come prima». La partita si giocherà davanti a tutto il ghetto, riunito e silenzioso. Ma sa che oltre al potere sui corpi, ciò che Schoger vuole spezzare è la libertà, il destino degli ebrei del
ghetto. Ridotti a giocare la loro vita in quella partita da incubo, i prigionieri, ogni giorno più coscienti dei limiti delle loro schiavitù, si organizzano... In uno stile implacabile, ma limpido e denso di forza poetica, Meras scrive una favola su come l’uomo tenta di salvare la propria dignità. Lungi da voler essere un romanzo realistico sulla Shoah, Scacco perpetuo si pone nella scia della grande tradizione dei racconti ebraici dell’Europa orientale.
icchokas meras, Scacco perpetuo, La giuntina editore, 2007.
cielo, altre volte un bosco oscuro, che prosegue infinito nella sua oscurità, altre ancora una lunga colonna di persone cariche di bisacce: ogni ora alcuni cadono a terra, e tutti i piedi li calpestano. Tutto ciò che è accaduto si è impresso nelle cellule del corpo, non nella memoria. A quanto pare le cellule del corpo ricordano più della memoria il cui compito è ricordare. Per molti anni, dopo la guerra, non fui in grado di camminare in mezzo al marciapiede o in mezzo alla strada: ero sempre attaccato ai muri, sempre nell’ombra e sempre di fretta, come se fuggissi. Non piango facilmente, ma le più banali separazioni suscitano in me un pianto disperato. Dico che “non ricordo”, e ciononostante rammento migliaia di particolari. Possono bastare l’odore di un cibo, le scarpe umide o un rumore improvviso a riportarmi nel bel mezzo della guerra, e allora mi pare che non sia finita, che sia continuata a mia insaputa. E solo ora che mi sono svegliato capisco che da quando è iniziata non si è mai interrotta. Dal momento che ho trascorso gran parte della guerra in villaggi e campi, presso fiumi e nei boschi, questo verde si è impresso in me, e ogni volta che mi tolgo le scarpe e calpesto l’erba mi tornano subito in mente i pascoli e le bestie chiazzate sparse per le distese infinite, e la paura degli spazi aperti si riaccende in me. Le mie gambe si tendono e per un momento mi sembra di aver sbagliato: devo arretrare chino fino ai margini del bosco, perché il margine è più sicuro. Ai margini del bosco puoi vedere senza essere visto. Quando succede di trovarmi in un vicolo buio - ogni tanto mi capita, a Gerusalemme - ho la certezza che presto il cancello si chiuderà e io resterò intrappolato. Accelero il passo e cerco di salvarmi. A volte l’atto di sedermi o di alzarmi mi riportano davanti agli occhi una stazione ferroviaria traboccante di gente e di pacchi, di litigi e botte ai bambini, e mani che implorano: «Acqua, acqua!» Improvvisamente centinaia di gambe si lanciano all’assalto di una botte d’acqua capitata al binario e un grosso piede si conficca nei miei fianchi stretti, togliendomi il respiro. Incredibile: quel piede è ancora impresso in me, il dolore è fresco e per un istante ho la sensazione che mi impedisca di muovermi dal mio posto. A volte passa un mese senza che mi appaia una visione di quei giorni. Ma naturalmente è solo una pausa. Può bastare un vecchio oggetto appoggiato al lato della strada per far riemergere dagli abissi lo scalpiccio di centinaia di gambe in un lungo convoglio: chi cade, nessuno lo aiuterà a sollevarsi.
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La razza non esiste, il razzismo sì
➔ segue da pagina 1
da estirpare. Alla stessa comunità scientifica va attribuita una parte di responsabilità, ormai ampiamente documentata almeno per quel che riguarda le generazioni passate. Permane però una contraddizione tra l’evoluzione biologica che premia la variabilità e la diversità (la sola che ci permette la sopravvivenza come specie) e l’evoluzione sociale che invece premia l’omogeneità quale garanzia di conservazione della struttura sociale esistente, la possibilità di identificarsi in un gruppo di uguali per potersi meglio riconoscere rispetto ad altri gruppi. In questa tensione dialettica gli studiosi di genetica sono chiamati a dare il loro contributo almeno per sgombrare il campo da illazioni pseudo-scientifiche e per chiamare le cose con il loro nome. Nel 1959 il grande filologo Gianfranco Contini individuò brillantemente l’etimologia della parola razza nel francese antico haraz, “allevamento di cavalli, deposito di stalloni” di cui è rimasta in italiano l’espressione “cavallo di razza”. Sarebbe auspicabile restituire il termine alla sua etimologia originaria: la razza si addice all’allevamento di animali selezionati, e non all’uomo, su cui influisce la selezione naturale ma non quella artificiale. Se è vero che la comunità scientifica è oggi concorde nel rifiutare la suddivisione della nostra specie in “razze” basata su falsi argomenti biologici, è altrettanto vero che il razzismo esiste, e che negare il suo fondamento scientifico non è un’arma efficace per combatterlo. Per lo più, le definizioni di “razzismo” si basano sulla diversità biologica (che effettivamente esiste) per giustificare una gerarchia tra gli individui che potrebbe avere una origine addirittura genetica, cioè innata. Da un punto di vista biologico, oggi sappiamo troppo poco sulla determinazione genetica del comportamento umano per indicare i meccanismi biologici e culturali che ne influenzano le regole. Da un punto di vista sociale, questa defi-
nizione di razzismo mette in luce la contraddizione tra il concetto di uguaglianza quale principio universale, proclamato co-me non discriminatorio dalla maggior parte delle Costituzioni moderne (è il caso dell’art. 3 della nostra Costituzione) e la realtà della diversità: di qui l’aspirazione a veder riconosciuto il diritto di ognuno alla differenza sia biologica sia culturale. In realtà, come è stato sottolineato da Bobbio, la contraddizione sta non tanto nell’opposizione uguaglianza-diversità (dal momento che l’opposto di uguaglianza è disuguaglianza), quanto: a) nella difficoltà di rispondere alla domanda: «Chi sono gli uguali, chi sono i diversi?» e b) nel ragionamento che se gli uomini sono uguali secondo certi criteri, e diversi secondo altri, ne consegue che gli uomini non sono tutti uguali ma non sono nemmeno tutti diversi. L’equivoco L’ ideologia del razzismo sta subendo metamorfosi tali che oggi non è più sufficiente riaffermare che le razze non esistono e quindi che il razzismo non ha alcuna ragione di sopravvivere. Paradossalmente, una delle rappresentazioni attuali dell’ideologia razzista consiste nel prendere a prestito dalla biologia l’esperienza della diversità biologica per riproporla in termini assoluti sul terreno molto più infido della diversità culturale. Le “razze” diverse non sono più necessarie, anzi è proprio dalla biologia che abbiamo imparato che siamo tutti diversi. Ma se siamo tutti diversi biologicamente, lo saremo anche culturalmente: siamo quindi legittimati a conservare la nostra identità culturale perché “naturale”, e quindi a lottare perché non venga inquinata da persone o gruppi che è bene conservino a loro volta la loro identità culturale. Da un pregiudizio (tutti gli uomini sono distribuiti in gruppi biologicamente omogenei al loro
Accoglienza. Sopra, migranti a Lampedusa; a destra, veglia dei sindacati in commemorazione dei “caduti del mare” in Piazza della Loggia a Brescia
interno, ma sono così diversi l’uno dall’altro da legittimare rapporti di disuguaglianza sociale e politica) si cade nel pregiudizio simmetrico (essendo tutti biologicamente diversi, le nostre diverse culture legittimano il mantenimento delle nostre diverse identità, le quali per natura non sono assimilabili). Il diritto alla differenza, legittimato da alcuni risultati dell’antropologia culturale di tipo strutturalista, si è trasformato in teorizzazioni fondate sui postulati della irriducibilità e dell’assoluta separazione delle culture, delle tradizioni, dei costumi locali. Alla luce di questo principio di frammentazione radicale, l’ idea che certi individui o gruppi non sono “assimilabili” viene progressivamente strumentalizzata in forme di eterofobia e xenofobia: è così che il rifiuto del migrante trova la sua mistificazione culturale senza bisogno di ricorrere al razzismo. Alla radice del problema del razzismo sta la risposta a un problema più fondamentale che la scienza da sola non può risolvere: dobbiamo augurarci una società culturalmente omogenea oppure una società multiculturale? La natura, e forse anche la cultura, ci hanno indicato che le strategie miste forniscono maggiori vantaggi. Se è vero che entrambe le affermazioni: 1) tutti gli individui sono uguali 2) tutti gli individui sono diversi, conducono a pregiudizi cui può attingere l’ideologia razzista, è compito di chi si occupa di scienze biologiche, sociali e politiche indicare le armi educative con cui combattere tali pregiudizi. Ricordiamo sempre che né il comportamento razzista è la necessaria conseguenza di un pregiudizio razzista, né il pregiudizio razzista è la necessaria conseguenza dell’esistenza o meno di “razze” umane geneticamente indefinibili. Alberto Piazza * Direttore del Dipartimento di Genetica, Biologia e Biochimica, dell’Università di Torino
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il fiore del partigiano
Solomon, 2 anni. Così muore un bambino
IL VIAGGIO DI 365 MIGRANTI DALL’AFRICA ALL’ITALIA
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DI
FABRIZIO GATTI
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da l’Espresso del 24 ottobre 2013
l piccolo Solomon aveva due anni e da qualche giorno è arrivato in Sicilia. Finalmente al sicuro. Nessuno gli farà più del male adesso che è protetto dentro il suo minuscolo feretro bianco. Solomon quasi scompare in mezzo a quelle trecentottantasette bare. Sono così tante che possono occupare un intero campo di calcio. Così tante che hanno riempito due navi da guerra per portarle via. Trecentottantasette bare sono la conclusione del viaggio di 365 eritrei, sudanesi, etiopi, le loro mogli, le mamme e i sedici bambini annegati nel naufragio di giovedì 3 ottobre a poche centinaia di metri da Lampedusa. E sono anche la fine di ventidue siriani, morti con altri duecento profughi di cui non si trovano più i corpi: padri, madri e almeno sessanta bambini colati a picco con il barcone affondato venerdì 11 ottobre, a 60 miglia a Sud dell’isola. I numeri hanno il loro peso politico. E queste trecentottantasette bare sono la tragedia su cui il premier Enrico Letta e il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, stanno trasformando l’annuncio dei funerali di Stato in una commedia. Li hanno promessi, sì, davanti ai sopravvissuti, quando hanno accompagnato a Lampedusa il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso. Ma una cerimonia ufficiale avrebbe mostrato ai telegiornali la distesa di corpi. Trecentottantasette bare sono più delle vittime del terremoto all’Aquila. Quasi seicento annegati in otto giorni, contando i piccoli siriani e i loro genitori dispersi in mare, sono molto più dei pompieri-eroi uccisi nell’attacco dell’11 Settembre a New York. Così, sotto la scientifica direzione della prefettura di Agrigento, la città del ministro Alfano, hanno cominciato a seppellire i morti senza nemmeno avvertire i familiari venuti da tutta Europa a riconoscerli. Niente funerali, niente Stato. Niente imbarazzo.
Barriere. Il Mediterraneo, da ponte delle civiltà, è diventato un confine dove si infrangono i sogni dei migranti. Anche toccata terra, gli ostacoli continuano
L’ultima tappa in mare per le bare bianche di Solomon e degli altri bambini è sul ponte dei pattugliatori “Cassiopea” e “Libra” della Marina militare che negli ultimi giorni, con elicotteri e navi, ha anche salvato centinaia di profughi, intercettati su gommoni o vecchi barconi al largo tra l’Africa e l’Europa. Solomon la notte del primo ottobre è tra i più piccoli passeggeri in partenza sul Malac 1284, l’Angelo 1284. Così si chiama il malandato peschereccio messo a disposizione dai trafficanti libici e affondato a Lampedusa. La scritta in arabo è ancora ben leggibile nelle immagini dei sommozzatori a quasi cinquanta metri di profondità. La storia di Solomon, come quella delle decine di bambini morti in queste ore, comincia già dal suo nome. Non è un nome vero. Tutti i dettagli della famiglia devono rimanere nascosti. Useremo nomi finti. Internet e la globalizzazione sono un grande vantaggio per i dittatori come Isaias Afewerki, presidente dell’Eritrea e amico di tanti italiani che contano. Ogni volta che attraverso tv e giornali le ambasciate identificano un esule, in Eritrea gli agenti di Afewerki vanno ad arrestare il padre, la madre o uno zio. Li tengono in carcere mesi. Finché non pagano l’equi-
valente di tremila euro a testa, a volte cinquemila. C’è chi si indebita tutta la vita, chi vende la casa, chi non ha soldi e resta in cella. L’alternativa alla fuga all’estero è sottostare al regime e accettare più di vent’anni di servizio di leva obbligatorio: la follia con cui Afewerki e il supporto militare ed economico offerto da vari Paesi, tra cui l’Italia, stanno massacrando un intero popolo. Per questo, per un futuro diverso, la nascita di Solomon diventa una ragione in più che convince il suo papà a scappare. Temesgen, il padre, attraversa il Sudan, l’Egitto e nonostante le difficoltà arriva vivo in Israele. Non appena Solomon è abbastanza grande da affrontare il viaggio, cioè quando ha pochi mesi, parte anche lui stretto nel foulard colorato della mamma. Attraversano il deserto del Sudan sui fuoristrada dei contrabbandieri. Poi l’Egitto, fino al Sinai. Ma Freueini, la giovane madre, e il suo piccolo vengono sorpresi dalla polizia. Li arrestano e li rinchiudono in carcere. Sei mesi di prigione per immigrazione illegale, in una cella affollata di profughi. L’Europa in fondo ha chiesto all’Egitto, con cui l’Itacontinua a pagina 12 ➔
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il fiore del partigiano
➔ segue da pagina 11 lia ha siglato accordi di rimpatrio, di reprimere il flusso di persone. E da quelle parti non stanno a guardare all’età. Scaduti i sei mesi, Solomon e la sua mamma vengono espulsi. Grazie al passaporto rilasciato dall’ambasciata di Addis Abeba per 400 dollari americani, finiscono in un campo profughi per eritrei a Mai Aini, in Etiopia. Un campo dove la vita non è facile, per un bimbo e una donna sola. Dopo due mesi Freueini riceve dal marito attraverso gli sportelli di money-transfer i soldi necessari e riparte. Ma davanti a Solomon non c’è nessuna via sicura per rivedere il papà in Israele. Tanto meno per arrivare in Europa. L’Unione ha una posizione ambigua. Gli Stati membri offrono il diritto d’asilo agli eritrei ma, come accade per le altre nazionalità, i profughi devono prima passare attraverso i trafficanti del deserto e il mare. Se sopravvivono a questa selezione, possono sperare in un permesso. Non esistono alternative legali. Nemmeno quando, come la strage di Lampedusa ha dimostrato, ci sono in Europa parenti disposti a dare ospitalità. La maggioranza di noi, attraverso i nostri Parlamenti, ha deciso così. L’Italia tra l’altro è un Paese amico del presidente Afewerki. Nel 2004, anno del massacro di decine di studenti in Eritrea, Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi, ministri del governo Berlusconi, accompagnano sorridenti il dittatore al raduno degli alpini a Trieste. Il Sinai nel frattempo è diventato troppo pericoloso. I beduini sequestrano i profughi. Li torturano e telefonano ai parenti in Europa o in Eritrea in modo che le grida li convincano a pagare il riscatto. Freueini pensa sia meglio raggiungere l’Italia. Poi forse dall’Europa sarà più facile rivedere Temesgen in Israele. Durante la traversata del deserto egiziano, però, il piccolo Solomon e la sua mamma vengono rapiti dai trafficanti. Li rinchiudono per 23 giorni in un recinto al sole, insieme con decine di ostaggi eritrei. Ed è lì che ritrovano Tekle, 16 anni, lo zio di Solomon, il fratello del papà. Anche lui è stato rapito. Tekle è in viaggio da un anno. Racconta che gli hanno fatto attraversare la frontiera tra Sudan e Egitto a piedi. Undici giorni di cammino. Grazie ai parenti in Eritrea che si riempiono di debiti, la mamma e lo zio trovano i seimila dollari
del riscatto. Tremila a testa e uno sconto per Solomon. Ripartono tutti e tre insieme. In Libia i passatori nascondono il bimbo, Freueini e Tekle in un capannone con altri 600 eritrei, a Agedabia, a Sud di Bengasi. Il mare Mediterraneo ormai è vicino. Ma per quattro settimane devono resistere alle condizioni spaventose di quella prigionia. È un centro di smistamento dei carichi umani. Nel capannone alcuni diaconi ortodossi fuggiti dall’Eritrea fanno giocare i bambini come fossero all’oratorio. Molti bambini. Una notte senza preavviso i trafficanti chiudono Solomon, la mamma, lo zio Tekle e tanti altri nel doppiofondo del rimorchio di un Tir. Arrivano a Tripoli dopo ore di viaggio. Da lì Tekle telefona al fratello in Israele. Gli racconta che Fre-
ueini e il nipotino sono ancora con lui. “Te li affido”, gli dice il fratello, “mi raccomando per Solomon”. Un altro viaggio, sotto il telone di un camion. Un giorno e una notte, senza mai scendere. Ed ecco la spiaggia, il mare, il gommone che se ne va pieno di gente e torna vuoto. Malac 1284, il peschereccio che al largo attende di essere caricato, è una sagoma nel buio. Sale per prima Freueini. Tekle le passa Solomon e si arrampica a sua volta sulla fiancata. La mamma va ad accovacciarsi con le altre donne nella stiva. Solomon resta sul ponte in braccio allo zio per tutta la traversata. All’aperto si respira meglio. Là sotto entra acqua dallo scafo o dall’albero dell’elica. Sono tutti bagnati. Un gruppo di madri nel buio canta una nenia di ringraziamento alla Madonna per non averle abbandonate mai. Quando la notte del 3 ottobre le luci di Lampedusa sembrano vicine, lo zio capisce che ormai sono arrivati. Allora si fa largo in quella massa di corpi e scende
nella stiva a restituire il piccolo Solomon alle braccia della mamma. Meglio che non si separino, nella confusione dello sbarco. Tekle le dice che l’Italia è proprio lì davanti e torna su a vedere. Subito dopo il tunisino al timone ordina ai passeggeri di buttare i telefonini in mare. E un po’ dopo ancora, un grido sale dalla stiva. Una voce avverte che si è rotta la cinghia della pompa di sentina, l’unico rimedio contro le infiltrazioni d’acqua nello scafo che adesso si riempie velocemente. Tekle non riesce più a muoversi dal ponte. È il caos a bordo. Quelle centinaia di occhi terrorizzati osservano un barchino e una barca più grande fare due giri larghi intorno al peschereccio. Lo scafista accende la luce di posizione, i passeggeri chiedono aiuto. Ma quelli, secondo i sopravvissuti, se ne vanno. Quando il tunisino dà fuoco alla coperta, si scotta un braccio. La fiammata scatena il panico. Lo scafo sbanda a destra. Poi a sinistra. L’acqua supera abbondantemente il bordo. E il peschereccio affonda pesante come un bicchiere pieno. Il Mediterraneo si prende Solomon, la sua mamma e il loro sogno di arrivare in Israele. Tekle si è salvato. Alla psicologa e agli assistenti delle associazioni “Save the children” e “Terre des hommes”, ha raccontato la storia del suo nipotino. E descritto quel senso di colpa che a 16 anni lo tormenta. Ha telefonato al fratello, ma non ha avuto il coraggio di rivelargli la verità. Anche Ahmed, giovane papà siriano, si è salvato. Per modo di dire. Nel naufragio di venerdì 11 ottobre ha perso il figlio di un anno e mezzo, la moglie incinta, tre fratelli, le loro mogli, i bambini. Il campo di detenzione di Lampedusa è pieno di sopravvissuti. Ma sono sopravvissuti solo in apparenza. Dovrebbero trasformarlo in un centro di cura del dolore. Meno soldati e misure di sicurezza, più medici e psicologi. L’ultima immagine del viaggio di Solomon, prima che fosse sigillato nella minuscola bara bianca, è come l’hanno vista i sommozzatori in fondo al mare. Quelle braccia della mamma che ancora lo stringono forte. La mano a proteggergli la bocca e il nasino perché non affoghi. E lei, Freueini, così giovane, con il crocefisso della catenina stretto tra le labbra. Fabrizio Gatti
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Io recluso tra i migranti, uno smacco all’indifferenza
LAMPEDUSA - L’ECLATANTE PROTESTA DI UN PARLAMENTARE PD
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da il manifesto del 27 dicembre 2013
KHALID CHAOUKI
una mattina livida quella del 23 dicembre. Sono arrivato a Lampedusa la sera prima, accolto all’aeroporto da Paola La Rosa, un’attivista del Comitato 3 Ottobre, nato all’indomani della tragedia che ha visto la morte di 366 migranti a largo dell’isola di Lampedusa. Sono passate da poco le 10,30 del mattino quando con Paola entriamo dentro il Cspa di Lampedusa. Una pioggia sottile e incessante ci accompagna, il centro a prima vista fa paura, non si vede nessuno in giro, solo il grigio della costruzione che s’intona perfettamente al cielo plumbeo. Dopo una mezz’ora qualcosa cambia e un
sole incerto illumina gli spazi della struttura, c’è anche chi fa capolino in cortile, alcuni uomini e qualche donna che esce dalle camerate per venirci incontro. Ci sono pure gli operatori di Lampedusa Accoglienza e subito ci fanno fare un giro per mostrarci le condizioni della struttura che sono pessime, peggiorate rispetto a quanto ricordavo. Diverse camerate non sono utilizzabili perché ci piove dentro, cumuli di materassi giacciono ammassati uno sull’altro a formare alte montagne che sfiorano il soffitto, le porte d’ingresso sono sfondate! Paola e io siamo ammutoliti di fronte a quello che ci viene mostrato. «Facciamo quello che possiamo, con i mezzi che abbiamo», ci spiegano gli operatori. Un senso di angoscia mi prende il cuore. Questa è l’accoglienza di cui siamo capaci?
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No, l’Italia che io conosco può e deve fare di più. L’Italia che ho imparato ad amare dai racconti di mio padre, quando ancora ero in Marocco, non è questa che vedo a Lampedusa. È un’Italia forte e solidale, l’Italia delle opportunità, del lavoro e delle strette di mano franche e sincere. Sono davvero dispiaciuto per quello che si presenta ai miei occhi. Lo squallore che ci circonda mi ferisce. Voglio capire e dunque domando: «Alle persone che sono qui da oltre 96 ore è stato mai notificato un provvedimento giudiziario restrittivo della loro libertà?». «No» mi rispondono. «Quindi sono tenute qui anche da oltre due mesi — senza che un giudice lo abbia disposto — solo perché il Ministero degli Interni non ne ha ordinato il trasferimento?». «Sì». continua a pagina 14 ➔
Natale tra i migranti. In alto, il deputato e giornalista Khalid Chaouki, prende posto nel Centro di prima accoglienza di Lampedusa. Qui a lato e a pagina 22, gruppi di migranti rinchiusi in attesa di conoscere il proprio destino. A pagina 20, le bare dei naufraghi del 3 ottobre scorso, poste in un hangar in attesa di essere trasferite in terraferma per i frettolosi funerali
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➔ segue da pagina 13 Scopro inoltre che queste persone non sono libere di uscire e che tra loro vi sono alcuni dei sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre. I giorni sprecati lì dentro A un certo punto mi viene incontro Khalid, il ragazzo siriano che ha denunciato con il suo video la vergogna delle docce anti scabbia all’aperto, parliamo in arabo e lui nella sua lingua subito si rilassa, si sente a casa. Mi racconta delle sue giornate al centro, di quanto sono lunghe e prive di senso, delle energie, dei sogni e dei giorni sprecati lì dentro. In quel momento capisco che se la mia visita si limita a quella giornata, se salgo sul volo delle 16 che ho già prenotato per il ritorno, qui non cambierà nulla. Sì, magari posso essere l’ennesima voce che denuncia, ma non sarebbe servito a molto altro, gli occhi di Khalid mi chiedevano altro, mi chiedevano un gesto, una presa di posizione. È stato un attimo. Dico a Khalid e agli altri tre siriani del gruppetto: «Resto con voi, non me ne vado, non vi lascio soli. Resto finché qualcosa non si sblocca». Si guardano tra loro, increduli, pensano forse di non aver inteso bene, ma io l’ho detto nella loro lingua e dunque sanno che si possono fidare di quel che hanno sentito. Comunico la mia decisione anche a Paola, questa volta in italiano, e lei mi sorride, complice. Intanto i quattro siriani iniziano a discutere su dove io debba dormire, ci tengono a ospitarmi nella loro stanza. Acconsento con piacere. I guizzi di gioia che leggo nei loro occhi mi confermano nella mia decisione: bisogna prendere posizione, scegliere, agire, mi ripeto. E mi vengono in mente le parole forti, dense di azione e senso pratico di quel grande politico e uomo che fu Gramsci: «Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti». Le parole di Gramsci mi scaldano, nel freddo del centro di Lampedusa, mi rasserenano nella mia decisione. Mi vengono incontro, nel frattempo alcuni operatori, i mediatori che parlano arabo e tigrino, inglese e francese. Vogliono spiegarmi e spiegarsi, vogliono raccontare il loro punto di vista. «Quello che è successo è una vergogna, un grosso errore, ma pur nella sua gravità – mi dicono — non può cancellare i dieci anni di lavoro che abbiamo svolto qui dentro. Lo vedete in che condizioni lavoriamo, ora le avete sotto gli occhi». Anche loro mi sembrano soddisfatti della mia decisione di rimanere, dico loro che voglio stare là dentro finché non sarà ristabilita la legalità, finché il Governo non darà risposte concrete. Mia madre mi diceva sempre che l’unico modo per cambiare le cose è rimboccarsi le maniche, sporcarsi le mani, provare a rad -
drizzare ciò che ci sembra storto. Mancano due giorni a Natale e io, musulmano, che ho passato un anno di scuola dalle suore a Misurina, qualcosa ne so della religione cattolica e del senso di questi giorni per milioni di cristiani. Il centro di prima accoglienza di Lampedusa mi sembra subito un presepe moderno. «Non c’era posto per loro nell’albergo», il figlio di Dio per i cristiani nasce dentro ad una grotta, sceglie subito da che parte stare, si incarna proprio là dove l’umanità è più ferita. Subito sono attorniato da loro, dagli “ospiti” del centro, che vogliono presentarsi, vogliono raccontare la propria storia, vogliono protestare anche. C’è parecchia rabbia, desiderio di essere ascoltati, di tirare fuori la propria umanità. Li ascolto in silenzio, faccio parlare le loro frustrazioni, tocco con mano le loro speranze, molte sono anche mie, guardo negli occhi un’umanità piena di energie, che anni e anni di leggi ingiuste hanno piegato, ferito, avvilito. Chi pensa di avere ancora qualche argomento a favore di quell’orrore che è la Bossi-Fini e del pacchetto Sicurezza dovrebbe venire qui, provare a sostenere il loro sguardo pulito che reclama giustizia. L’Italia ha bisogno di una buona legge che regoli l’immigrazione, che ci faccia uscire dal “cattivismo”, dalla politica della paura, dalla stupidità di norme e codici che non consentono a chi nasce o cresce in Italia di dirsi italiano, di concorrere ai bandi pubblici, di votare, di candidarsi. Leggi che maltrattano chi chiede asilo e rifugio nel nostro Paese. L’Italia ha bisogno di riscoprire negli immigrati una forza, una risorsa economica, intellettuale, umana. Una catena di telefonate Chiamo subito il vice ministro degli Interni Filippo Bubbico, è un uomo che stimo, capisce perfettamente il mio gesto e si mette a disposizione. Ho sentito anche molti altri, una catena di telefonate, spiegazioni, discussioni. Non è stato semplice sbloccare una situa-
zione in stallo da mesi e ormai al collasso, ma dopo la prima notte al centro, la mattina del 24 sono arrivati i militari per sgomberare subito gli oltre 200 migranti ospiti del centro. Mi ha riempito il cuore di gioia vedere tra loro il Caporalmaggiore Capo Pala Romano, di origine eritrea, e la giovane Ahlame Boufessas, soldatessa italiana di origine marocchina. Le seconde generazioni dunque ci sono, in molti prestano servizio al Paese che li ha adottati, o che li ha visti nascere, quel Paese che fa ancora tanta fatica a riconoscerli come figli ma che loro riconoscono come Madre Patria. Restano al centro 17 persone, profughi eritrei e siriani, con loro mi sono fermato sino alla giornata del 25 dicembre. Finché non è arrivata la Croce Rossa italiana, un’ottima équipe pronta a fornire aiuto e assistenza qualificata. Medici e psicologi che saranno al loro fianco 24 ore su 24. Ora però la situazione è molto cambiata, il centro si è svuotato, gli ospiti del centro sono senz’altro più sereni. Capiscono il senso del mio impegno e si fidano delle mie parole. Continuerò a fare pressioni per un arrivo rapido dei giudici per raccogliere le loro testimonianze contro gli scafisti. I miei giorni dentro al Centro Accoglienza di Lampedusa sono stati un dono per me. Un’occasione vera di confronto con quell’umanità migrante sulla cui pelle sono state fatte molte leggi e prese molte decisioni. Ecco, io nel mio nuovo ruolo di parlamentare sono un legislatore, e credo sia importante, anzi, necessario guardare negli occhi le persone, pesare la loro dignità, prima di scrivere o presentare leggi che le riguardano. Dopo Lampedusa, ora dobbiamo scrivere una nuova legge. Una legge sull’immigrazione dal carattere umano e dalla parte dei diritti dei rifugiati. Ora non possiamo più dire di non sapere. Grazie a tutti coloro che sono stati con me con i loro messaggi, le loro preghiere e la loro testimonianza. Andiamo avanti! Khalid Chaouki
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EPPURE IN ITALIA E IN EUROPA LE NORME VIETANO LE DISCRIMINAZIONI
Per rom e migranti le persecuzioni non finiscono mai
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da l’Unità del 27 gennaio 2013
VLADIMIRO ZAGREBELSKY
l divieto di ogni discriminazione è in Europa un pilastro del sistema di tutela della dignità delle persone e dei loro diritti fondamentali. In Italia, innanzitutto, la Costituzione vieta le discriminazioni, affermando all’articolo 3 il principio di eguaglianza e aggiungendo alla formale eguaglianza davanti alla legge anche il dovere della Repubblica di rimuovere le cause delle ineguaglianze di fatto. Le carte dei diritti fondamentali di cui l’Europa si è dotata, in linea con i trattati elaborati in sede di Nazioni Unite, mettono in primo piano il divieto di discriminazione, accanto al riconoscimento della eguale dignità di tutti. Così fanno la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000. Nel sistema della Costituzione il principio di eguaglianza e il conseguente divieto di discriminazione sono tra i principi supremi, che nessuna riforma potrebbe modificare. Nelle Carte europee il divieto di discriminazione è tra i più rilevanti perché è trasversale; esso opera in relazione a tutti i diritti considerati. Questo è il quadro del sistema europeo, cosicché chi si fermasse alla considerazione delle norme in vigore potrebbe con-
cludere che è eliminata la possibilità stessa di razzismo, sotto tutte le sue forme e con esso ogni altra discriminazione sulla base della razza, della lingua, della religione, dell’origine nazionale o sociale, delle opinioni politiche, ecc. Purtroppo una simile conclusione sarebbe troppo ottimistica. Certo le forme estreme della persecuzione antiebraica, con lo sterminio fisico nei Lager e l’annullamento dei diritti essenziali con le leggi razziali anche italiane, non sono più immaginabili nell’Unione Europea. Ma altre forme di discriminazione sono ben presenti e colpiscono ampie fasce della popolazione. D’altronde anche le persecuzioni naziste, di cui i fascismi europei furono attivi correi, non colpirono soltanto gli ebrei. Gli oppositori politici, i rom, gli omosessuali ne furono egualmente vittime. E oggi l’area delle vittime delle discriminazioni, se non proprio della più grave persecuzione, è molto vasta. Essa tocca innanzitutto i rom e i migranti, persino quando essi abbiano ormai acquisito, accanto a quella nazionale, la cittadinanza dell’Unione. E si tratta di discriminazione che assume forme varie, soprattutto nel rapporto di lavoro, fino a manifestarsi in vere e proprie aggressioni come ci ricordano i fatti di Rosarno e i roghi dei campi rom a Napoli, Roma, Milano, Torino. In diversi altri Paesi d’Europa sono presenti atteggiamenti discriminatori da parte della popolazione ed anche da parte
Lampedusa: l’accoglienza ai richiedenti asilo è anche questo
delle autorità. Soprattutto nell’Est europeo, anche in Stati membri dell’Unione Europea come l’Ungheria, la Romania, la Repubblica Ceca i rom patiscono discriminazioni evidenti. Spesso si tratta di discriminazioni indirette: quelle che non si dichiarano come tali, ma sono l’effetto di norme generali, che proprio perché generali non tengono conto delle differenze esistenti in concreto, penalizzano certi gruppi di persone. L’esempio chiaro riguarda ancora i rom e i test cui i ragazzi sono sottoposti in certi Paesi per indirizzarli verso classi differenziali. I test, eguali per tutti, selezionano specialmente i giovani rom che non superano il test a causa della scarsa conoscenza della lingua di riferimento.
La sentenza In altri casi la discriminazione è l’effetto diretto delle norme. Spesso si tratta di norme relative alla concessione di benefici di carattere sociale. È recentissima la sentenza della nostra Corte costituzionale n.4/2013 che ha dichiarato illegittima una legge della Regione Calabria relativa a provvidenze in favore delle persone non autosufficienti, limitandone l’applicabilità, oltre che ai cittadini europei residenti, ai migranti extracomunitari titolari del permesso per soggiornanti di lungo periodo (la cui condizione preliminare di ottenimento è il possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità). La Corte ha ritenuto che sia stato introdotto un elemento di distinzione arbitrario e quindi discriminatorio, non essendo possibile presumere che stranieri non autosufficienti, titolari di un permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo versino in stato di bisogno o disagio maggiore rispetto agli stranieri che, sebbene anch’essi regolarmente presenti nel territorio nazionale, non posseggano analogo titolo legittimante. La sentenza è di particolare importanza e dovrebbe scoraggiare quelle amministrazioni locali del Nord Italia che di tanto in tanto provano ad escludere certe categorie, i migranti per primi, da provvidenze di carattere sociale. Più volte già i Tribunali, anche in applicazione delle direttive della Unione Europea che vietano ogni discriminazione, hanno ritenuto che si tratta di provvedimenti illegittimi. Le discriminazioni sono talora sottili nel modo di manifestarsi, specialmente se operano indirettamente. La vigilanza va mantenuta alta.
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il fiore del partigiano
Respinti dall’Europa, l’
LE CONSEGUENZE SULLA POPOLAZIONE DELLA GUERRA CIVILE SIRIANA NON SCU
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da il manifesto del 3 gennaio 2014
ANTONIO MAZZEO
In fuga oltre il confine Il 97% dei cittadini fuggiti dalla Siria si sono diretti verso i cinque paesi confinanti: Turchia, Egitto, Iraq e soprattutto Libano e Giordania, dove oggi risiedono rispettivamente 835.735 e 566.303 rifugiati. «Ciò ha comportato un aumento della popolazione residente
Più di sei milioni di uomini, donne e bambini sono stati costretti a lasciare la propria abitazione a causa della guerra. E oltre due milioni e mezzo hanno abbandonato il paese. Di questi, però, solo una percentuale minima ha trovato accoglienza nella Ue, restia a concedere loro asilo politico. in Libano del 20%, mentre quella della Giordania del 9%», aggiunge Amnesty International. «In questi due paesi la maggior parte dei rifugiati siriani vive in condizioni assai precarie in campi profughi superaffollati, in centri di accoglienza comunitari o in insediamenti informali». In Giordania circa un terzo dei rifugiati è ospitato in sei campi, il più affollato dei quali è Zaatari, il secondo campo profughi più grande al mondo, con 117.000 residenti. Il resto dei rifugiati siriani vive in villaggi e cittadine nei pressi del confine settentrionale con la Siria e nella capitale Amman. «Non ci sono invece campi profughi ufficiali in Libano, eccetto quelli che da lungo tempo ospitano rifugiati palestinesi», riporta Amnesty International. «Così i siriani sono costretti a vivere ai margini delle città, in campi informali che loro stessi hanno realizzato». Il numero dei rifugiati registrati in Turchia è di 536.765 persone, ma secondo il governo locale la cifra avrebbe già superato quota 700.000. Duecentomila siriani sono “ospiti”
reuterS
iù di 2 milioni e 300.000 rifugiati siriani registrati a dicembre, il 52% dei quali minori di età, a cui si aggiungono almeno 4 milioni e 250 mila persone sfollate nel paese. In tutto, più di 6 milioni e mezzo di uomini, donne e bambini che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni per scampare agli orrori del conflitto in Siria, quasi un terzo dell’intera popolazione. Di questi, però, solo 55.000 sono riusciti a entrare nell’Unione europea e a chiedere asilo, ma gli stati membri hanno dato disponibilità ad accoglierne appena 12.000. «Si tratta dello 0,5% dei siriani che hanno lasciato il paese, una dimostrazione che l’Ue ha miseramente mancato di fare la sua parte per fornire un riparo sicuro a coloro che non hanno più niente se non la loro vita», ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, in occasione della presentazione del rapporto intitolato Un fallimento internazionale: la crisi dei rifugiati siriani. «Il numero dei reinsediamenti previsti è davvero deplorevole e i leader europei dovrebbero abbassare la testa per la vergogna», ha aggiunto Shetty. «Le loro parole suonano banali di fronte alla realtà. L’Europa deve aprire i suoi confini, favorire ingressi sicuri e porre fine a queste gravi violazioni dei diritti umani». Amnesty International denuncia come solo dieci stati membri dell’Ue abbiano offerto il reinsediamento o l’ammissione umanitaria ai rifugiati provenienti dalla Siria. «Coloro che ce l’hanno fatta a passare attraverso le barricate della fortezza europea si sono diretti in buona parte in Germania e Svezia, i paesi che hanno offerto il maggiore aiuto ai richiedenti asilo», si legge nel report. Dall’ottobre 2011 all’ottobre 2013, la Svezia ha ricevuto 20.490 nuove richieste d’asilo, mentre la Germania 16.100. Gli altri stati dell’Ue si sono impegnati a prendere soltanto 2.340 rifugiati. In Grecia, Cipro e Italia, meno di 1.000 persone hanno chiesto asilo in ciascuno dei tre paesi; la Francia ha offerto disponibilità per 500 persone, lo 0,02% del totale delle persone fuggite, mentre la Spagna si è limitata ad accogliere appena una trentina di richiedenti, ossia lo 0,001% del totale dei rifugiati.
di campi profughi gestiti dallo stato. L’organizzazione internazionale in difesa dei diritti umani denuncia tuttavia che dal marzo 2013, più di 600 rifugiati siriani sono stati espulsi dalla Turchia e deportati in Siria. «Da allora — spiega Salil Shetty — abbiamo ricevuto numerose denunce di ulteriori rimpatri forzati di persone accusate dalle autorità turche di condotte criminali o presunte violazioni di legge». Secondo l’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite, al 30 novembre 2013 erano stati registrati in Libia 15.898 rifugiati siriani, ma la popolazione siriana ivi residente è stimata in non meno di 200.000 persone. Il diritto d’ingresso dei rifugiati in Libia è stato progressivamente ridotto a partire dal settembre 2012, dopo l’attacco terroristico contro il consolato Usa di Bengasi. Ulteriori restrizioni sono state decretate nel gennaio 2013 con l’imposizione del visto d’ingresso a tutti i siriani. «Ciò ha costretto centinaia di rifugiati a fare ingresso nel paese utilizzando rotte non ufficiali, esponendosi al pericolo e allo sfruttamento di trafficanti e delle differenti milizie armate esistenti», denuncia Amnesty. «La Libia non possiede un sistema nazionale di asilo; la maggior parte dei rifugiati che vive nel paese ha uno status migratorio irregolare, nonostante la decisione del ministero dell’Interno di dare i permessi di residenza a coloro che si registrano presso l’Ufficio passaporti». Come rilevato da Amnesty International durante una visita in Libia nel novembre 2013, spesso i permessi di residenza non verrebbero riconosciuti dalla autorità locali e dalle milizie armate cresciute numericamente dopo la fine del conflitto del 2011. «In alcuni casi i rifu-
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a, l’odissea dei siriani
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NON SCUOTONO L’EUROPA. LE DENUNCE DI AMNESTY INTERNATIONAL E UNHCR
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Verso l’Italia il viaggio più pericoloso Il viaggio verso l’Italia è sicuramente quello che ha generato le peggiori tragedie. Nei primi dieci mesi del 2013 il numero dei rifugiati e dei migranti provenienti dall’Africa del Nord annegati in mare è stato stimato in 650 persone. Nel suo rapporto sull’incapacità internazionale a dare risposte adeguate alla crisi umanitaria siriana, Amnesty International dedica un passaggio al tragico naufragio di un’imbarcazione con più di 500 persone a bordo, l’11 ottobre 2013, a largo di Lampedusa. «Molti di essi erano rifugiati siriani», scrive l’Ong. «Secondo il racconto dei sopravvissuti, l’imbarcazione fu danneggiata mentre lasciava le acque della Libia da un’unità militare libica che aprì il fuoco contro di essa. L’imbarcazione danneggiata iniziò velocemente ad essere invasa dall’acqua e successi vamente affondò portandosi con sé centinaia di uomini, donne e bambini. I sopravvissuti hanno dichiarato di essere rimasti in acqua per ore prima di essere assistiti dalle unità maltesi e italiane». Innumerevoli gli abusi e le violazioni compiute dalle autorità di frontiera dell’Unione europea. «Le politiche di controllo dell’Ue sono sempre più pregiudizievoli dei diritti dei
rifugiati, dei richiedenti asilo e dei migranti», denuncia Amnesty. «Le misure di controllo dei confini introdotte negli ultimi anni, inclusa l’esternalizzazione delle funzioni anti-migratorie e la costruzione di reticolati, hanno comportato pesanti effetti a danno dei diritti di coloro che chiedono di fare ingresso nell’Unione europea. L’Unione europea ha certo il diritto di controllare le sue frontiere, ma la maniera con cui lo fa non può comportare la violazione dei diritti umani, come sta accadendo oggi». Amnesty rileva, in particolare, come l’Ue abbia finanziato massicciamente i programmi di potenziamento del controllo delle frontiere esterne della Grecia. Negli ultimi due anni, la Commissione europea – nell’ambito del cosiddetto Return and External Borders Fund — ha assegnato alla Grecia 228 milioni di euro per installare sistemi elettronici di vigilanza e accrescere le capacità di detenzione delle persone entrate illegalmente nel paese. Nello stesso periodo, la Grecia ha ricevuto solo 12 milioni e 220 mila euro dal Fondo Europeo per i Rifugiati che sostiene le attività di accoglienza. Grazie ai contributi finanziari, le autorità greche hanno completato la costruzione di 10,5 km di reticolati anti-migranti lungo i 203 km di frontiera con la Turchia, attivando inoltre 2.000 nuovi vigilantes a partire dell’estate 2012. «Queste misure hanno spesso costretto i rifugiati a percorrere rotte sempre più pericolose nel mar Egeo», aggiunge Amnesty International. «Nei loro disperati tentativi di ottenere protezione in Europa, molti rifugiati, comprese le famiglie con neonati e bambini piccoli, spendono i loro ultimi risparmi per pagare i trafficanti e navigare a bordo di piccole e superaffollate imbarcazioni, inidonee alla navigazione». Come il Canale di Sicilia, anche il mare tra la Grecia e la Turchia è lo scenario di infinite tragedie. Dall’agosto 2012 ad oggi, perlomeno 130 rifugiati, provenienti in buona parte dalla Siria e dall’Afghanistan, hanno perso la vita mentre tentavano di approdare in Grecia, negli undici naufragi sino ad oggi accertati. Amnesty International rileva infine come molti rifugiati giunti in Grecia e Bulgaria abbiano subito trattamenti degradanti e disumani. «Rifugiati siriani hanno raccontato di
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giati siriani sono stati detenuti arbitrariamente in centri di detenzione per immigrati con l’accusa di risiedere illegalmente in Libia», aggiunge Amnesty. «Gli intervistati hanno denunciato di essere stati vittime di aggressioni fisiche da parte di uomini armati, furti, vessazioni verbali e, in alcuni casi, di sequestri di persona. Altri hanno raccontato di essere stati sottoposti a gravi forme di sfruttamento, a lavori forzati, con salari bassissimi e, talvolta, di non aver percepito perfino alcuna forma di pagamento». Per 12.000 siriani a cui l’Ue ha riconosciuto il diritto al reinsediamento, altre decine di migliaia sono costretti a rischiare un viaggio pericoloso via terra o via mare per raggiungere un’Europa sempre più barricata e militarizzata. Dall’1 gennaio al 31 ottobre 2013, 10.680 rifugiati siriani hanno raggiunto le coste italiane dopo aver lasciato i porti in Egitto, Libia, Turchia e Siria. Altri hanno raggiunto la Grecia via mare attraverso l’Egeo o dal confine terrestre con la Turchia. «Abbiamo visto centinaia di cittadini siriani perdere la vita nel Mediterraneo», ha commentato amaramente Salil Shetty. «Ed è deplorevole che chi rischia l’incolumità e la vita per arrivare qui sia respinto in modo violento dalla polizia o dalla guardia di frontiera o posto in stato di detenzione per settimane in condizioni realmente squallide, con cibo, acqua e cure mediche insufficienti».
L’esodo di profughi siriani verso il confine del nord dell’Iraq (qui sora) e in attesa del permesso di varco (nella pagina a fronte)
essere stati sottoposti a maltrattamenti dagli agenti di polizia o della guardia costiera della Grecia, che con armi in pugno e protetti dai caschi, li hanno pure privati di tutti i loro beni e, alla fine, li hanno respinti verso la Turchia». Il numero delle operazioni illegali di respingimento dalla Grecia non è noto, ma l’Ong ritiene che abbia riguardato centinaia di persone. In Bulgaria, nei primi undici mesi del 2013, sono arrivati non meno di 5.000 rifugiati. La maggior parte è ospitata in centri di emergenza, il principale dei quali si trova nella città di Harmanli. «Si tratta, a tutti gli effetti, di un centro di detenzione», denuncia Amnesty. «Il nostro staff vi ha trovato rifugiati detenuti — in alcuni casi da oltre un mese — in condizioni squallide in container, edifici in rovina e tende. Mancavano strutture igienico-sanitarie adeguate e il cibo, i medicinali e i letti scarseggiavano. Un ampio numero di detenuti, tra cui anche persone ferite durante il conflitto, necessitava di cure mediche, altre avevano contratto malattie croniche o avevano disturbi mentali». L’Europa fortezza armata disconosce sempre più diritti e senso d’umanità.
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La festa dei ragazzi tra giochi di legno e i prodotti di Libera
BELLINZAGO LOMBARDO · LA NOSTRA PRESENZA ALLA SAGRA PATR
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a prima domenica di settembre l’ANPI ha partecipato alla Festa del paese, allestendo tre banchetti. Uno che presentava le iniziative dell’ANPI sul territorio, un altro per offrire ai visitatori i prodotti di Libera, coltivati da cooperative di giovani sui terreni confiscati alla mafia. Infine, grande interesse ha suscitato il banchetto dei giochi in legno di Anacleto, un nostro caro iscritto: era presente con tutti i suoi appassionati lavori. Molti ragazzi si sono divertiti con le pistole a elastico cercando di colpire delle sagome, di legno ovviamente! Giorgio Cervino ANPI di Bellinzago Lombardo Sezione 25 aprile
Il laboratorio di Anacleto, dove le idee trovano forma
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La festa è un gioco in libertà. Anacleto Breda, eterno ragazzo, posa soddisfatto accanto al suo capolavoro: un orologio con gli ingranaggi a vista completamente intagliati nel legno. Sopra, si gareggia con le sue armi-giocattolo in uno dei banchetti dell’ANPI. In alto, il banchetto con i prodotti di Libera
n salto al laboratorio di Anacleto, che fa Breda di cognome. Qui, nella cascina di Gessate in cui è nato, «con la levatrice e non in ospedale come si fa ora», sono le radici della sua passione per la lavorazione del legno. Questa stanza era in realtà una stalla dove si allevavano i vitelli e altri animali da cortile, poi gli è stato assegnato dal padre un angolo e a poco a poco ha preso possesso dell’intero locale. Forte è il legame con questi muri che gli ricordano la sua giovinezza e il crescere del piacere per questo suo hobby. C’è di tutto, dal semplice traforo al tornio: trapani, bordatrici, affilatrici e seghe varie. La maggior parte dei suoi lavori sono in compensato e, precisa, potrebbero essere fatti da tutti i ragazzi e le ragazze con il traforo a mano, se per un po’ «abbandonassero il mondo virtuale dei pc e degli smartphone e si dedicassero al sano e concreto lavoro manuale». Ecco la Colt, il Winchester, la mitraglietta dei carabinieri, fatte come vorremmo fossero fatte tutte le armi: con gli elastici. Ne sparano fino a ben sei consecutivi! E poi la trottola siciliana, la trottola con spago, un gioco con gli incastri, gli animali, il clown di legno che salta la corda… Si parte dall’idea di un modello, lo si disegna su carta, stu-
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AGRA PATRONALE E SUL LUOGO DELL’ECCIDIO DEL MONTE FRATTA
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La lezione dei martiri di San Gallo Combattere il virus del populismo
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Sopra, il laboratorio di Anacleto, ricavato nella ex stalla della cascina paterna. Qui a sinistra, il meccanismo che permette di sparare sino a sei elastici consecutivi. Sotto, Winchester, Colt e mitraglietta dei carabinieri
è la neve, questo 30 novembre, quassù in località Fratta. Si trova qui un gruppo dell’ANPI di Bellinzago Lombardo, per onorare i giovani che in questo luogo furono letteralmente massacrati il 28 ottobre 1944. E anche per ricordare che la libertà che ci hanno ridato purtroppo non è da considerare scontata. Oggi il populismo imperante è capace di metterla in dubbio: si continua a gridare che tutto non va bene e quasi si invoca l’arrivo del solito dittatore. Di ieri il capo di uno dei “forconi” che gridava «L’Italia schiava dei banchieri ebrei»: a questo punto si è arrivati! Si cerca di trovare il responsabile del disagio sempre indicando “un altro”, senza mai guardare in casa propria. Bisogna stare attenti e pronti a intervenire per difendere la nostra democrazia. Il Monte Fratta è vicino a San Gallo, nei pressi di Botticino (Brescia). Sta nevicando e noi siamo intorno al cippo e alle lapidi che segnano il luogo del martirio, perpetrato ad opera dei cosiddetti “ragazzi di Salò” che cercavano di impedire la lotta contro la dittatura. Vano fu il loro tentativo, che, però, costò morte e dolore. Si ripropongono alcuni brani tratti dal libro Memorie della Resistenza a Botticino di Fabio Secondi che danno testimonianza dell’accaduto: continua a pagina 20 ➔
diando nel dettaglio tutte le varie fasi di costruzione (si può creare da sé o trovare su internet): lo si riporta sul compensato e via con il traforo, il trapano, le seghe, la carta vetrata, la colla e i morsetti. E poi il piacere di guardare e riguardare quello che si è fatto. Sono riproposti giochi di una volta, ma anche giochi complessi come quello con le palline che cadono dall’alto su delle guide e seguono un percorso che si può modificare e infine l’orologio a pendolo, che è considerato da Anacleto il suo capolavoro. L’entusiasmo di Anacleto è coinvolgente e vorresti subito provare anche tu a dare forma a quei legni tutti bianchi che sembrano desiderosi di essere lavorati: chissà che un giorno o l’altro ci si possa cimentare in questa impresa, naturalmente con il suo aiuto e i suoi consigli. G. C.
Località Fratta: il luogo dell’eccidio
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il fiore del partigiano A sinistra, gli antichi strumenti di lavorazione del marmo conservati nel museo di Botticino. Qui sotto, una ricostruzione dell'estrazione del marmo dalla cava
➔ segue da pagina 19 … Il compito del distaccamento di San Gallo (appartenente alla 122ª Brigata Garibaldi), oltre alla raccolta di viveri e indumenti, è quello di preparare il sabotaggio, per mezzo di esplosivi, della stazione ferroviaria di Rezzato, dove transitano i convogli militari tedeschi. Il 28 ottobre 1944 tre partigiani appartenenti a questo distaccamento vengono uccisi in località Fratta. Il gruppo si era accampato nella cascina Fratta, a nord di Botticino. Quando il comandante Gheda all’alba si alza per una perlustrazione, si accorge di qualche movimento sospetto e al suo “chi va là” subito crepitano colpi di mitra che lo feriscono. La cascina è provvista di due uscite opposte. Entrambe sorvegliate dai fascisti. Gli otto partigiani che stanno all’interno tentano subito una sortita, approfittando dell’oscurità, per sottrarsi all’accerchiamento. Uno a uno cercano di abbandonare la cascina buttandosi nei cespugli all’intorno protetti dal fuoco di sbarramento dei compagni. Cinque garibaldini però restano all’interno, tre vengono catturati, mentre due di loro… riescono a nascondersi nella cisterna, costretti ad ascoltare le voci e i rumori che accompagnarono la tragica fine dei loro compagni, Giuseppe Biondi, Beniamino Cavalli e Francesco Di Prizio, picchiati e uccisi sul posto dai fascisti. Gheda, colpito di striscio, riesce a mettersi in salvo e a ricongiungersi al resto del distaccamento… (varie testimonianze). … È una mattina grigia. Su San Gallo e le colline che lo circondano grava una fitta nebbia. All’alba gli abitanti… vengono svegliati di soprassalto da colpi d’arma da fuoco che echeggiano in tutta la val-
lata. Una lunga serie di raffiche di mitra si ode provenire dal Monte Fratta. Dopo mezz’ora una pattuglia di nazifascisti scende nella borgata e, giunta davanti alla casa parrocchiale, chiama ad alta voce il sacerdote dicendo: «Vada sul Monte Fratta che ci sono dei morti da be-
nedire». Questa frase fu udita da molti, ma le prime ad accorrere sul luogo dell’eccidio sono quattro donne, alle quali apparve una scena raccapricciante… (testimonianza di Don Sandro Gori). … I due nascosti (nella cisterna) si chiamano Ciotti e Giordani Giuseppe… Io avevo portato con me un poco di vivande e un poco di medicazioni: quando i due sono usciti dalla stalla con il mitra in mano la gente si è spaventata, ma poi ha capito che si trattava dei sopravvissuti e la paura è scomparsa… (un testimone). Continua a nevicare: il nostro gruppo lascia Fratta per visitare il museo del Marmo di Botticino e poi incontrare l’ANPI locale. Giorgio Cervino
Il gruppo dell’ANPI di Bellinzago rende omaggio ai caduti del Monte Fratta con l’esposizione della bandiera di Sezione. Sopra, il cippo a ricordo dei martiri
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La lucidità di Mandela
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DARIO FO
da il Fatto Quotidiano del 12 dicembre 2013
11 febbraio 1990 Nelson Mandela, in seguito alle continue manifestazioni e alle pressioni dei democratici, anche bianchi, del Sudafrica, venne liberato dalle carceri nelle quali aveva trascorso gran parte della sua vita. Di lì a poco ci furono le nuove elezioni e l’ergastolano fu eletto presidente del Sudafrica. Suo vice fu nominato l’ex presidente bianco, De Klerk, che aveva firmato la sua liberazione. Mandela, appena eletto, entrando nel salone–ufficio assegnato al presidente del Sudafrica esclamava: «Sarà difficile che mi abitui a questi spazi, vengo da una cella di dimensioni molto ridotte, col cesso incluso». Quindi, rivolto al suo segretario, chiede: «Visto lo sfarzo, quanto è la paga?». Il segretario mostra la parcella scritta su un foglio. Mandela rimane un attimo senza fiato e ed esclama: «Che esagerazione! No, non posso accettarlo!». All’istante a tutti quanti noi italici vengono in mente le reazioni degli ultimi eletti al parlamento quando, agli inizi di quest’anno, qualche onorevole fece notare il disastro da cui si trovavano travolti i pensionati, i licenziati delle fabbriche chiuse, smantellate, coi macchinari spediti all’estero. «Dovremmo far qualcosa, dimostrare la nostra solidarietà!» esclamò uno dei neoeletti. «In che senso solidarietà?» chiese impallidendo il solito veterano della poltrona garantita. E la risposta fu: «Cedere una parte del nostro stipendio per soccorrere gli esodati e i giovani senza alcuna prospettiva di lavoro». Dopo qualche secondo, nella sala non c’era più nessuno, salvo il giovane autore dell’insana proposta. In una scena all’inizio dello stupendo film Invictus di Clint Eastwood, il partito di Mandela, riunito a congresso, decide di abolire i colori e lo stemma dalle casacche dei giocatori della nazionale di rugby, lo sport più popolare in Sudafrica, dove c’era un solo nero. Votazione per alzata di mano. Tutti gli uomini di colore levano le braccia in alto. I simboli della squadra, che oltretutto si trova in una crisi disperata, vengono annullati. Allora entra in scena Mandela, prende la parola e, con tono deciso, si dice contrario a quella risoluzione. «Dovremmo ripristinare gli Springboks. Reintegrare il loro nome, il loro emblema e i loro colori immediatamente. E vi dico perché. A Robben Island, tutti i miei carcerieri erano bianchi. Li ho studiati, ho imparato
la loro lingua, ho letto i loro libri, la loro poesia. Occorreva che conoscessi il mio nemico per poter prevalere su di lui. E infatti abbiamo prevalso, non è così? Tutti quanti noi abbiamo vinto. I bianchi non sono più i nostri nemici, oggi, sono i nostri fratelli sudafricani, i nostri concittadini in democrazia. E a loro stanno a cuore gli Springboks. Se glieli portiamo via noi li perderemo, ci comporteremo come da sempre hanno fatto loro con noi. No. Noi dobbiamo essere migliori. Dobbiamo sorprenderli con la comprensione, con la moderazione e con la generosità. È il momento di costruire questa nazione, usando ogni singolo mattone a nostra disposizione». Ci fu una nuova votazione e, per un solo voto, la proposta di Mandela venne approvata. Ciò che vi abbiamo proposto non è il risultato di una sceneggiatura ad effetto facile: neanche una parola è frutto di fantasia e melodramma. In questi giorni gran parte dei giornalisti mistificano per eccesso il personaggio. Si tende a presentarlo come se si fosse trattato di una specie di San Francesco di colore che impone ai seguaci di abbandonare ogni spirito di vendetta. Un insolito politico straordinariamente illuminato e propenso al perdono e alla pacificazione ad ogni costo. Mandela, fin da prima della sua liberazione, si estranea completamente come se non avesse vissuto tutte le angherie patite e dice: «Quando la mia liberazione era prossima ho messo giù le tracce dei discorsi che avrei dovuto tenere, e man mano le parole “condanna”, “castigo” e soprattutto “vendetta” venivano cassate. Così, forse, avrei deluso i miei fratelli che speravano, in memoria dei loro cari umiliati, torturati, e uccisi per anni, anzi secoli, che fosse data soddisfazione a quel popolo trattato come gli animali da allevamento? Ma il problema più importante era quello della costruzione di una comunità nazionale che non vivesse nella logica infinita della vendetta e delle ritorsioni. Il pericolo maggiore era quello di creare, in conseguenza del far giustizia ad ogni costo, una situazione di paura, anzi, di terrore nella totalità dei bianchi, i quali avrebbero preferito abbandonare il proprio Paese piuttosto che subire una ritorsione». Quel comportamento fu di esempio a tutti i popoli. Soprattutto l’idea di creare tre commissioni di giustizia che avessero come compito quello di scoprire la verità sulle violazioni dei diritti umani. Non solo quelle messe in atto dai dominatori bianchi, ma anche quelle del movimento al quale apparteneva Mandela. E in particolare fu istituita una commissione che si preoccupava
mariLena nardi
LUNGIMIRANZA POLITICA E ONESTÀ PERSONALE NE HANNO FATTO UN GIGANTE
di indurre chi aveva commesso violenze a dire la verità e soprattutto raccontarla davanti alle loro vittime. Solo confessando i propri delitti si sarebbe potuta ottenere l’amnistia. Ma ancor più si cercava di indurre le stesse vittime al coraggio di testimoniare le violenze subite. E qui esce una verità che pochissimi cronisti hanno avuto la dignità civile di raccontare. Cioè quanti furono gli amnistiati e quanti i condannati: i primi furono 849, mentre i condannati ammontarono a ben 5392. Compresi alcuni vincitori, come l’ex moglie di Mandela, Winnie Madikizela. Per concludere vogliamo sottolineare un atto di Mandela veramente eccezionale, unico, forse, nella storia delle grandi guide dei popoli. Egli, nell’atto stesso in cui accettava di ricoprire la carica di presidente del Sudafrica dichiarava che sarebbe rimasto al potere per un solo mandato. E mantenne la sua parola. Anzi, alla folla di sostenitori che insistevano perché rinnovasse quell’impegno egli rispose: «No, non voglio assolutamente essere di esempio per un andazzo che normalmente si ripete in ogni società democratica: quello di gestire il potere ad libitum. Oltretutto ci sono giovani uomini politici che, sono sicuro, faranno meglio di me. Infatti, personalmente, ho mancato in più un’occasione, a cominciare dal problema della lotta all’AIDS, e da un’attenzione più decisa, direi drastica, contro la criminalità organizzata che sta ancora rovinando il mio Paese».
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il fiore del partigiano
Neofascisti in cerca di nuove
L’ESTREMA DESTRA ITALIANA, XENOFOBA E RAZZISTA, TENTA DI FARSI LARGO IN VISTA DELLE EURO
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da il manifesto del 16 gennaio 2014
SAVERIO FERRARI
confini dell’estrema destra in Italia risultano assai labili e incerti almeno dal 1993, da quando Silvio Berlusconi si schierò a fianco dell’allora segretario missino Gianfranco Fini candidatosi a sindaco di Roma. Per averne un’idea basterebbe guardare agli schieramenti elettorali. Si arrivò addirittura nelle elezioni politiche del 2006 a un sistema di alleanze del centro-destra che dall’Udc di Marco Follini arrivava a comprendere la Fiamma tricolore di Luca Romagnoli, passando per Alternativa sociale di Alessandra Mussolini, con al proprio interno Forza nuova. Non un caso isolato. Così è stato più volte anche per le elezioni amministrative sia a livello regionale sia comunale. Un continuo mescolarsi, con aree e componenti dichiaratamente nostalgiche del fascismo, collocatesi peraltro
anche direttamente all’interno di Alleanza nazionale, prima, di Forza Italia e del Pdl, poi, come della Lega. Un tratto caratteristico delle destre italiane in nulla assimilabili a quelle conservatrici europee. Detto questo, il quadro attuale delle formazioni dell’estrema destra, pur assai variegato, potrebbe essere ricondotto a due diverse aree: una più classica, si potrebbe dire di stampo politico-istituzionale, e una seconda con esplicite connotazioni antisistema. Gli istituzionali Nell’area politico-istituzionale due, al momento, sono i poli che in competizione fra loro si stanno contendendo l’eredità di Alleanza nazionale. Da un lato i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto, con la recente aggiunta dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che insieme hanno costituito Officina per l’Italia, dall’altro La Destra di Francesco Storace postasi a capo di uno schieramento assai composito (Movi-
mento per l’Alleanza nazionale) che spazia dall’ex ministro delle Risorse agricole Adriana Poli Bortone, all’ex capogruppo di An al Senato Domenico Nania, al nipote di Pinuccio Tatarella, Fabrizio, passando per i residui di Futuro e libertà e della Fiamma tricolore (che ha appena assorbito pezzi di Alba dorata Italia). Siamo nel campo dei nostalgici di Alleanza nazionale e ancor prima dell’Msi. L’ipotesi di fondo sarebbe quella di provare a riprendersi, almeno in parte, lo spazio elettorale di un tempo. La posta in gioco fra i due contendenti non verte unicamente sulla leadership, ma in misura rilevante sui diritti di proprietà del consistente patrimonio di An, svariati immobili e conti correnti milionari riversati allo scioglimento nella fondazione omonima e mai transitati nel Pdl. Un fondo gigantesco derivante in primis dalle vecchie proprietà missine, frutto a volte di generose donazioni provenienti dalla vecchia nobiltà nera italiana. Ad aggiudicarsi il primo round sono stati i Fratelli d’Italia che, in
GRECIA ·UCCISI AD ATENE, QUASI TRE MESI FA, DUE NEONAZISTI. UN ATTENTATO UN PO’ T
Una strategia della tensione, aspettando le ele
Non convince la pista «di sinistra» per ritorsione al delitto del rapper Fyssas. Uniche certezze: esecuzione professionale e rivendicazione falsa
da il manifesto del 16 gennaio 2014
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ono passati quasi tre mesi dal primo novembre 2013 e l’assassinio di due militanti di alba dorata nella periferia di atene continua a essere avvolto nel mistero. La presunta rivendicazione non solo non ha chiarito i tanti punti oscuri ma, al contrario, ha suscitato più interrogativi che risposte. il tutto in una situazione sociale esplosiva, con un governo conservatore appeso a un filo e il partito della sinistra radicale Syriza che viene accusato, oramai a frequenza quotidiana, di fornire copertura politica ai terroristi di sinistra, veri o presunti. ma andiamo con ordine. L’unico elemento certo dell’esecuzione a freddo, il primo novembre, dei due giovani nazisti nel quartiere neo iraklio di atene, è la dinamica. i due terroristi sono arrivati in moto e si sono avvicinati con i caschi in testa al gruppetto di quattro giovani militanti di alba do-
rata che stazionavano di fronte alla sede del gruppo. il secondo terrorista è rimasto di copertura, mentre il primo ha cominciato a sparare da una distanza di 14 metri. in tutto 13 colpi, in soli 7 secondi, tutti a segno. un albadorato riesce a scappare con una leggera ferita sul braccio, due rimangono uccisi sul colpo, un terzo giace tuttora in stato comatoso. il video ripreso dalle telecamere di sicurezza della stessa sede del gruppo nazista (ora visibile su internet) mostra un killer freddo ed estremamente preciso. un professionista. Un assassinio già visto un’esecuzione così precisa i poliziotti greci l’avevano già vista. era nei rapporti della polizia cipriota sulla strage avvenuta nel giugno 2012 nella località turistica di ayia napa. due killer avevano ucciso con 14 precisissimi colpi in 9 secondi le cinque guardie del corpo di un imprenditore cipriota. Come si è scoperto dopo, era un omicidio su ordinazione originato da contrasti sulla gestione dei locali notturni a Cipro. grazie alle telecamere di sicurezza, i poliziotti ciprioti sono arrivati anche a individuare i due assassini. Sorpresa: erano vecchie conoscenze dell’area anarchica insurrezionalista, subito arrestati ad atene. a uno dei due hanno messo le manette dentro un centro sociale autogestito nel quartiere ribelle di exarchia. Sembra che il compenso per gli omicidi fosse di 30.000 euro. i due sono stati estradati a Cipro ora e sono in attesa del processo. Secondo fonti dell’antiter-
rorismo greco, oltre a eseguire “contratti” di morte, i due erano coinvolti anche nelle attività della Setta dei rivoluzionari, il più misterioso tra i gruppi terroristi greci. i poliziotti lo avevano saputo attraverso soffiate di malavitosi, quindi non avevano elementi per un’imputazione formale. ma già all’indomani dell’attacco contro gli albadorati l’antiterrorismo aveva indicato come possibili responsabili quelli della Setta. il gruppo dalla denominazione così inusuale (nel lessico della sinistra la parola “setta” ha sempre avuto connotazioni negative) fece la sua apparizione nel 2009, uccidendo il poliziotto che proteggeva una testimone dell’accusa al processo contro ela (Lotta rivoluzionaria popolare), un gruppo storico del terrorismo greco che aveva interrotto l’attività nel 1995. La testimone protetta era la moglie separata di uno degli imputati, ex sindaco dell’isola di Kimolos. il tribunale non tenne conto delle deposizioni della testimone giudicando che l’ex consorte accusava per astio personale. L’ex sindaco fu pienamente assolto, appena due mesi dopo l’uccisione della guardia. La misteriosa Setta è tornata a colpire nel luglio 2010, uccidendo il giornalista Sokratis ghiolias. già l’attacco in stile mafioso – citofonare per far scendere la vittima per strada- aveva fatto parlare di criminalità comune. per questo la Setta si è affrettata a rivendicare l’omicidio, ammettendo che era composta da militanti attivi nell’area “extralegale” e rivolgendo appello ai detenuti a «riprendersi la propria dignità» e a ribellarsi contro
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uove albe dorate
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ELLE EUROPEE, TRA NOSTALGIE DI PARTITO E SORTITE MOVIMENTISTE
maggioranza nella fondazione, si sono anche appropriati della titolarità del vecchio simbolo da esibire nelle prossime elezioni europee. Con ogni probabilità, tra contestazioni e ricorsi, il tutto proseguirà in qualche aula di tribunale.
Casa Pound e Forza nuova Diversa è invece la natura della competizione in corso sull’altro versante dell’estrema destra italiana, quello senza alcuna speranza elettorale (a partire dalle europee), ma che ama presentarsi con un profilo “rivoluzionario” e “antagonista”. Anche qui, due le sigle a contendersi il medesimo spazio: Forza nuova e Casa Pound. Più di uno comunque i tratti in comune, più di quanto si pensi, a partire dal modello individuato nel primo movimento fascista del 1919-1920. Da qui l’idea delle “minoranze attive” come possibili protagoniste della storia (una storia magari da forzare con l’uso della violenza), l’avversione alla democrazia e alle istituzioni parlamentari, l’intransigenza, i comporta-
menti “trasgressivi” e “futuristi”, una sorta di identità antiborghese, ma anche il culto della giovinezza. Diverso è semmai il modo di rideclinare il tutto nel presente. Più rozzo e di tipo organizzativistico il tentativo messo in atto da Forza nuova, più attento alle suggestioni culturali quello di Casa Pound. Forza nuova ha cercato in questi ultimi anni, con pochissimi successi, di relazionarsi perfino con movimenti e proteste sociali, provando, tra l’altro, anche a entrare nel comitato a sostegno del referendum per l’acqua pubblica e addirittura nelle lotte del movimento No-Tav, venendo sempre respinta. L’unico vero risultato è stata, prima, una marginale presenza, due anni or sono, nell’originario movimento dei Forconi, quindi una partecipazione alle mobilitazioni del dicembre scorso, finite con una rottura: da una parte Forza nuova con il leader siciliano Mariano Ferro, dall’altra il resto del comitato promotore con Casa Pound. Il fiasco della manifestazione na-
Casa Pound, saluti romani e inni al Duce: Alba dorata sbarca all'Esquilino
zionale indetta a Roma per il 18 dicembre ha per il momento raffreddato gli animi. La Lega della terra Dal canto suo Forza nuova, puntando sempre a un riscontro di tipo movimentistico, ha anche dato vita alla cosiddetta Lega della terra, null’altro che un’associazione collaterale, guidata dall’ex coordinacontinua a pagina 24 ➔
O UN PO’ TROPPO “STRANO”
le elezioni europee
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lo Stato. Sul perché era stato ucciso ghiolias, un giornalista praticamente sconosciuto, le spiegazioni dei terroristi erano piuttosto fumose: nella sua pagina web aveva espresso dubbi sulla genuinità rivoluzionaria della Setta, riprendendo peraltro i dubbi manifestati da quasi tutti gli organi di stampa. L’estate scorsa il giornalista investigativo Kostas Vaxevanis ha svolto un’approfondita inchiesta sull’omicidio ghiolias, arrivando alla conclusione che il giornalista è rimasto vittima di un intreccio di ricatti a mezzo stampa. anche in questo caso, come nella strage cipriota, era un contratto di morte, ma mascherato da esecuzione terroristica. dopo ghiolias la Setta non ha più dato segni di attività. fino al primo novembre 2013 e all’uccisione dei due albadorati. a sorpresa però, a distanza di ben due settimane dall’attacco a neo iraklio, l’attentato è stato rivendicato da una sigla inedita: le “forze Combattenti rivoluzionarie popolari”. nel testo di ben 18 pagine non viene fornito alcun elemento a riprova dell’autenticità della rivendicazione. Si spiega invece che l’attacco è stato la risposta all’uccisione, da parte dei militanti di alba dorata a metà settembre, del rapper pavlos fyssas per fare un raffronto con la resistenza antifascista contro le potenze dell’asse e con la guerra civile condotta nell’immediato dopoguerra dal partito Comunista contro le forze monarchiche, per arrivare infine a tessere l’elogio dell’«azione diretta» dei militanti anarchici «unici antifascisti coerenti». il tutto in
un greco elementare, cosparso di espressioni burocratiche e arcaizzanti frammiste a parole del gergo giovanile, inglesismi, errori di ortografia, di senso e di sintassi. pochi hanno creduto di trovarsi di fronte a un nuovo gruppo dalle eccezionali capacità militari ma piuttosto confuso sul piano politico. L’opinione prevalente, anche presso l’antiterrorismo, è che dietro le forze Combattenti c’è sempre la Setta, che ha cambiato nel tempo composizione e quindi ha dovuto cercare una nuova denominazione. ed ecco la domanda che ritorna: che probabilità ci sono che un gruppo di assassini a pagamento si trasformi in un’organizzazione autenticamente politica, seppure estremista e armata? molto più probabile che anche le sue azioni terroristiche siano dettate da precisi impegni “professionali”, conclusi con chiunque sia disposto a pagare.
Syriza sotto attacco il tutto in un contesto di aspra contrapposizione tra il governo conservatore di antonis Samaras e la società civile greca, stremata da tre anni di durissima austerità. Le pulsioni lottarmiste sicuramente ci sono, ma sono confinate in piccolissimi gruppi dell’estremismo giovanile, con scarsa influenza e capacità operativa. gli “anarchici nichilisti” della Cospirazione dei nuclei di fuoco ormai stanno in prigione e a piede libero c’è solo qualche vecchio terrorista come nikos maziotis e Christodoulos Xiros. il primo era un maldestro bombarolo anarchico, ma nel decennio prece-
dente è diventato il capo di azione rivoluzionaria, gruppo sgominato nel 2010. Xiros era uno dei membri storici dell’organizzazione 17 novembre, condannato a sei ergastoli ed evaso agli inizi dell’anno dopo una licenza premio. non è escluso che a 56 anni si rimetta a fare quello che faceva da giovane. ma dietro a tutto ciò c’è l’avvicinarsi di una svolta decisiva nella politica greca, ma anche europea. L’attuale maggioranza si basa su due deputati, le elezioni sono vicine e, sondaggi alla mano, Syriza ne sarà sicuramente il vincitore. per la prima volta in europa ci sarà un governo che dirà un chiaro e definitivo no alla politica di austerità. una sfida che esige sangue freddo, lucidità politica e grandi capacità di manovra tra gli scogli delle istituzioni europee. forse qualcuno, in grecia ma anche all’estero, pensa che aprire a Syriza un fronte d’instabilità interno, magari soffiando sul fuoco della violenza e degli “opposti estremismi”, sia la maniera giusta per neutralizzare le istanze di cambiamento. Certo, il momento è favorevole al gioco sporco: il governo Samaras è legato mani e piedi al carro della merkel, l’amministrazione pubblica greca è paralizzata e i servizi di sicurezza allo sbando, pronti a vendersi al miglior offerente.
Dimitri Deliolanes*
* autore del libro Alba dorata. La destra nazista minaccia l’Europa, ed. fandangolibri
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➔ segue da pagina 23 tore di Pavia del partitino di Roberto Fiore, Daniele Spairani. Il piano per l’agricoltura che è stato alla fine elaborato dalla Lega della terra è stato denominato «Piano Fenice», dal simbolo de La Fenice, sempre caro a tutti i neofascisti, significativamente già utilizzato dai colonnelli golpisti in Grecia nel 1967, raffigurante il mitico uccello che «rinasce dalle proprie ceneri». Lega della terra, guarda caso, è la traduzione letterale di Landbund, dal nome del partito agrario tedesco che avversò la Repubblica democratica di Weimar e successivamente sostenne il Partito nazionalsocialista (ossia Hitler) alle elezioni tedesche del 1933. Vale la pena ricordare che il nazismo ebbe fra i suoi miti anche quello della ruralità, basato sul principio dei legami fra Sangue e Suolo, Blut und Bund. Walther Darré, il teorico di questa “ecologia razzista”, viene così oggi riscoperto da Forza nuova. Sembrerebbe sia la Sicilia il territorio ove Forza nuova intenderebbe in questo momento concentrare i propri sforzi. «Fuori gli immigrati» Casa Pound, invece, dopo le cocenti sconfitte elettorali del febbraio scorso, in particolare nel Lazio e a Roma (poco meno dello 0,8%), dove puntava a un risultato significativo, se non l’elezione di un proprio rappresentante in Campidoglio, ha virato recentemente con decisione verso lidi ancora più radicali. Due gli avvenimenti: un incontro ufficiale a Roma con una delegazione di Alba dorata greca e l’immersione nel movimento dei Forconi partito il 9 dicembre. Riguardo all’incontro con Alba dorata va rilevato come l’iniziativa nel dicembre scorso sia stata preparata in pompa magna con l’affissione di migliaia di manifesti nella Capitale e che da parte del vicepresidente di Casa Pound Andrea Antonini (150 i presenti nella sede centrale di via Napoleone III) si sia sottolineata la condivisione in toto del «programma politico di Alba dorata». Programma che al primo punto, come è stato detto nell’incontro dallo stesso Apostolos Gkletsos del comitato centrale di Alba dorata, recita senza equivoci: «Fuori gli immigrati!». Ancora qualche mese fa Alba dorata aveva cercato un rapporto politico con Casa Pound, assai tentennante, a differenza di Forza nuova, ad allacciare una relazione dato il profilo neonazista dell’interlocutore greco. Ora sembrerebbe che non vi siano più difficoltà. Uno scenario nuovo. Saverio Ferrari
LA LETTERA APERTA
«Cari genitori, aiutate i vostri ragazzi»
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da l’Unità del 14 agosto 2013
VALERIA VIGANÒ
a parola omofobia significa paura degli omosessuali. Contiene un capovolgimento di significato, che mette chi la pratica in uno stato patologico. La fobia sposta la collocazione della responsabilità dal soggetto omosessuale a chi invece teme l’omosessualità. Ma ha in sé anche una giustificazione psicologica, è una parola ambivalente. La paura di chi è maggioranza genera un comportamento di disprezzo e schifo, ripulsa verso chi ha una sessualità diversa. Ed è una paura essenzialmente culturale. Nella natura esistono 450 specie che praticano legami con lo stesso sesso e sostanzialmente negano e cancellano la definizione dell’omosessualità come contro natura. E nei secoli, in differenti contesti storici, è stata inglobata e praticata senza suscitare riprovazione. Non interessa qui indagare se la dottrina religiosa o le leggi sociali siano stati colpevoli del mutamento. Interessa l’oggi, ancora intessuto di suicidi, uccisioni, aggressioni, dileggi, emarginazioni agite nel nostro Paese. E allora mi rivolgo ai quei genitori che vivono la vergogna di avere un figlio o figlia gay e usano metodi coercitivi, di esclusione ed espulsione dalla famiglia, ma anche agli altri genitori, quelli che nascondono ciò che per loro rappresenta un problema, vedono ma non condividono, negano e non ascoltano le difficoltà, contribuendo ad aumentarle. Mi rivolgo agli insegnanti di ogni grado che tacciono, ignorano, fanno finta di niente davanti alla ferocia dei loro studenti. Ai ragazzi e alle ragazze che per farsi forti denigrano e sfottono pesantemente loro coetanei incolpevoli, ma colpevoli perché non si uniformano a un diktat sottilmente perverso che li accantona. Mi rivolgo a certi ambienti retrogradi che costringono gli omosessuali al silenzio. Il silenzio è una grandissima pena, nella doppia accezione: è pena perché si soffre moltissimo, è pena perché si sconta una condanna. Ma chi
può giudicare e applicare il tormento, chi reprime ciò che considera sbagliato? Mi viene una sola risposta: l’ignoranza più stupida. Gli omofobi sono ignoranti e vogliono rimanere tali. Non importa il livello sociale, il grado di studi, le esperienze esistenziali, l’origine famigliare. La loro ignoranza è mentale, la loro ignoranza è grettezza, la loro ignoranza è potere, la loro ignoranza è violenza. È la derisione della dignità di un altro essere umano, è giudizio morale che imprime un marchio su persone che non fanno del male, che vogliono solo esprimere liberamente i propri sentimenti. Viverli in una vita piena, oltre le menzogne e quel tragico silenzio di cui parlavamo. Persone che non sono riconosciute nemmeno dallo Stato a cui appartengono, l’Italia, e al quale contribuiscono come tutti gli altri. I doveri sono gli stessi, i diritti no. La sessualità nella società contemporanea è un fluido che scorre in molti rivoli, ma viene sbattuta in faccia ancora in biechi stereotipi che generano il possesso e la sopraffazione. Eppure quel fluido è molto più libero dei modelli imposti nei quali le donne sono merce, due donne sono previste solo eccitanti per il maschile, gli uomini sono checche. Va oltre le definizioni di omo o eterosessualità, chi ha avuto amori etero si scopre attratto da un simile e capita anche il contrario. I rivoli a furia di scorrere hanno rotto gli argini artificiosi, le persone vogliono essere se stesse. Tutto qui. È un concetto diverso di donna e di uomo nei quali maschile e femminile si intersecano, anima e animus, leggetevi Platone o Jung. E allora, omofobi, imparate a considerare due occhi, due gambe, due braccia, un cervello come entità umana intera, guardate non alla vostra paura ma alla qualità di chi vi è di fronte, ai quali sussurrate scherni, o li prendete a parolacce e pernacchie, o a botte per dare una lezione. Quale lezione? Pensateci, la lezione dovrebbe essere data a voi, e voi dovreste impararla e guarire dal vostro inutile, pericolosissimo terrore.
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Figli di piombo, la nostra storia
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
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Benedetta tobagi - Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita einaudi editore, collana frontiere, € 20,00
da l’Unità del 28 novembre 2013
el corso di una manifestazione antifascista, il 28 maggio 1974 in Piazza della Loggia a Brescia esplode una bomba che uccide otto persone e ne ferisce centodue. Nel suo ultimo libro, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi), Benedetta Tobagi spiega perché quella strage costituisca un punto di svolta drammatico per l’intera storia italiana. A Brescia non è solo avvenuta la strage più sanguinosa di quegli anni, e neppure la più nota, ma per la prima volta un attentato non si rivolge ad una porzione indistinta e casuale di cittadini, bensì colpisce una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. È la «strage col più alto tasso di politicità» e rappresenta uno snodo cruciale della “strategia della tensione”. Un mese dopo, a Padova, le Brigate Rosse compiranno il loro primo omicidio uccidendo Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci nella sede del Msi. Negli anni Settanta Brescia è una città con una forte presenza operaia e sindacale. Dopo il 1968 diviene teatro di numerosi atti violenti di matrice neofascista, a cui rispondono manifestazioni unitarie della sinistra e della Dc. È proprio in una di queste occasioni di risposta alla violenza politica, la mattina del 28 maggio 1974, che il discorso rivolto ad una piazza gremita di lavoratori dall’ex partigiano Franco Castrezzati, segretario generale dei metalmeccanici Cisl, viene interrotto dal boato di una bomba. Con uno stile in parte già affiorato nella sua opera d’esordio (Come mi batte forte il tuo
cuore, Einaudi, 2009), Benedetta Tobagi riesce a combinare ricostruzione storica e narrazione letteraria, soffermandosi su squarci di biografie personali travolte dalle tempeste della storia italiana. Compresa la biografia dell’autrice: infatti, un altro 28 maggio, sei anni esatti dopo Piazza della Loggia, un gruppo armato di estrema sinistra ucciderà Walter Tobagi, padre di Benedetta e giornalista del Corriere. Il libro ricostruisce sia le articolate trame del terrorismo neofascista - con il corollario dei numerosi depistaggi e di una verità giudiziaria ancora inafferrabile - sia il ricco e vivace contesto in cui agiscono molte delle persone coinvolte, ricordate assieme alle passioni che sovente le animavano. In molte parti, l’autrice attinge alla preziosa esperienza di Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime di Piazza della Loggia, che nella strage ha perso sua moglie Livia. La ricostruzione della storia d’amore fra Livia e Manlio Milani è struggente e intreccia la dimensione privata con i riverberi delle passioni politiche, con la fitta trama di rapporti sociali, solidarietà e impegno di cui si componeva la loro vita sino ad un istante prima della deflagrazione. Il capitolo Marx e il Gattopardo rappresenta una precisa ricostruzione di un’atmosfera e di un tempo in cui era ancora possibile cogliere appieno le connessioni fra i destini delle persone, i legami sociali e la politica. Benedetta Tobagi è nata nel 1977, non ha memoria diretta degli anni Settanta, ma la sua capacità di ricostruire i tratti culturali e gli stili di vita diffusi allora varrebbe da sé la let-
Scrittura industriale collettiva (115 autori) In territorio nemico - minimum fax, € 15,00 Un ufficiale che diserta e intraprende un viaggio attraverso l’Italia devastata dalla guerra. Una ragazza di buona famiglia che diventa una partigiana pronta a uccidere un fascista dopo l’altro. Un ingegnere aeronautico che si nasconde in attesa che passi la bufera. Matteo, sua sorella Adele, il cognato Aldo: sono i personaggi di In territorio nemico, tre giovani separati dalla guerra che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, cercano di ritrovarsi in un paese in preda al caos. Nei venti mesi terribili dell’occupazione nazista, i tre protagonisti faranno esperienza della battaglia, dell’isolamento, dell’amore, del conflitto con sé stessi, fino ad affrontare la prova più difficile: scegliere da che parte stare mentre la morte li minaccia a ogni passo. In territorio nemico è una nuova epica della Resistenza. Un’epopea corale resa possibile dal lavoro di oltre cento scrittori e ispirata alle testimonianze di chi la guerra l’ha vissuta e non ha cessato di raccontarla. Un romanzo vivo e toccante che apre una rinnovata prospettiva sull’esperienza tragica e fondativa della seconda guerra mondiale italiana.
tura del libro. Negli ultimi anni i figli delle vittime del terrorismo hanno arricchito con la propria ricerca la riflessione sugli anni Settanta. Oltre a Benedetta Tobagi ricordiamo i testi di Mario Calabresi, Agnese e Giovanni Moro, Silvia Giralucci ed Eugenio Occorsio. Mi ha sempre colpito in questi libri l’utilizzo parsimonioso dell’espressione “anni di piombo”. È una scelta che condivido. Infatti, cristallizzare la complessità delle vicende del decennio in quella definizione rischia di farci dimenticare che si trattò anche di “anni del tritolo”, ossia di stragi sulle quali non è ancora stata fatta piena luce. E anni della partecipazione: stavano infatti emergendo nuove forme di cittadinanza e si manifestavano forme di soggettività politica originali, come ha ricostruito Giovanni Moro (Anni Settanta, Einaudi, 2007). Grandi leader quali Aldo Moro ed Enrico Berlinguer avevano compreso che non si poteva aspirare al rinnovamento della politica italiana senza intercettare le nuove soggettività diffuse nella società, senza percorrere quelle strade che la violenza ha invece interrotto. In aggiunta al dolore delle vite spezzate, stiamo ancora pagando il prezzo delle strade interrotte. Ne risulta indebolita tanto la fiducia dei cittadini quanto la legittimità delle istituzioni. Il fossato che divide gli uni dalle altre, ricorda Benedetta Tobagi, si può colmare soltanto conoscendo fino in fondo la nostra storia. Averne ricordato le molteplici sfaccettature è il grande merito di un grande libro. Marco Almagisti
Valeria fraccari - Per un’infinità di motivi - prospero editore, € 3,99 in formato e-book (http://www.prosperoeditore.com) «Scrivo per un’infinità di motivi» sono le parole di Fenoglio che ispirano questa storia. Per un’infinità di motivi, partendo dal ritrovamento reale di alcuni inediti di Fenoglio abbandonati lungo le sponde del Tanaro, narra la storia di Caterina e di Francesco che si dipana tra il 1968 e il 1993, con una serie di salti narrativi in avanti e a ritroso che avviluppano sempre più il lettore. L’ambientazione è quella di un’Alba quasi pietrificata e delle Langhe, così vivide di storie partigiane. I luoghi parlano a chi li attraversa e sa ascoltare le voci di coloro che ci hanno preceduto, sembra volerci dire l’autrice, che dal 1998 fa provare ai suoi studenti l’esperienza appassionante del trekking letterario lungo i sentieri fenogliani, con gli scarponi ai piedi e Il partigiano Johnny tra le mani. Un modo diverso per avvicinare alla lettura e alla letteratura i ragazzi... e non solo.
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La pulizia delle parole e quella delle idee
LINGUAGGIO ·LA CREAZIONE DI UNA REALTÀ FITTIZIA SERVE A CELARE LA VERITÀ E DE
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da il manifesto del 28 novembre 2013
ALBERTO BURGIO
a stroncatura è sacrosanta. «Sgangherata» l’ancora per poco segretario del Pd ha definito l’ultima esternazione di Berlusconi e in specie la sparata più fragorosa, quella stravagante denuncia del colpo di Stato che i senatori avrebbero (hanno) posto in atto decretando la sua decadenza da parlamentare. La reazione è irreprensibile. Oggi il preteso colpo di Stato, ieri i suoi potenti rampolli paragonati agli ebrei perseguitati nella Germania di Hitler, l’altroieri gli elogi a Mussolini, tiranno benevolo e impotente, e le invettive contro il kapò di Strasburgo. Ci mancherebbe che non si rispedisse al mittente ogni porcheria in forma di parole. Il nostro povero Paese deve averne di colpe per meritarsi la maledizione di dover fare i conti pressoché ogni giorno da vent’anni col padrone della destra e la sua sterminata corte di lacchè. Detto questo, possiamo con ciò dirci soddisfatti e archiviare senz’altro l’ultima boutade in attesa della prossima? Fare sempre di nuovo punto e a capo, come se la questione fosse il grado di correttezza istituzionale o di razionalità delle corbellerie berlusconiane? Il problema è un altro. Riguarda un corollario implicito in questo inarrestabile flusso di aggressioni verbali alla verità e al buon senso. Un corollario che concerne le parole della politica, l’uso del linguaggio e l’intossicazione delle menti che, passo dopo passo, viene contaminando la società, inquinando il discorso pubblico, corrompendo il sentimento civile, soffocando sul nascere la capacità di discernere e indignarsi. Berlusconi, come ognun sa, non è né stu-
pido né pazzo, per quanto la vertiginosa caduta possa offuscargli la mente. Grande comunicatore, esperto demagogo, è consapevole che tra ragione e comunicazione politica non corre spesso buon sangue. Sa, istintivamente, che il linguaggio in politica serve soprattutto a ottenere consenso. E che per questo non è necessario informare, spiegare, istruire. Occorre piuttosto creare una realtà funzionale al potere. Suscitare emozioni, agitare passioni, radicare convinzioni preconcette e indi-
Tra ragione e comunicazione politica non corre buon sangue. Da Gramsci a Hobbes, il sovrano è il signore del discorso pubblico scusse. Questo Berlusconi fa da vent’anni con naturale sapienza. E nel farlo si colloca, senza saperlo, in una lunga tradizione. Da tempo immemore l’esercizio del potere s’intreccia alla produzione di codici linguistici. Il sovrano, ammoniva Hobbes, è in primo luogo il signore del linguaggio, e di ciò il Novecento dei “totalitarismi” ha offerto prove evidenti e consistenti. Mentre trucidava e mandava al gas milioni di persone il Terzo Reich provvedeva a coniare una neolingua che ebbe non poca influenza nel generalizzare la corruzione morale dei tedeschi. Coraggio, fedeltà, onore, idealismo. Con questi nomi si ribattezzavano l’as-
sassinio e la brutalità, l’indifferenza disumana e la più aberrante violenza. E non è che un codice resta inerte, racchiuso nelle pagine di un vocabolario. Vive nella mente delle persone, connota il rapporto con le cose e le azioni, ridefinisce significati e valori. Man mano che, avendo acconsentito al nuovo potere, i tedeschi si ritrovavano invischiati in una palude di falsità e menzogna, la loro capacità di discernere ne risultava compromessa. La coscienza di queste connessioni motiva l’ossessione di Gramsci per quella che nei Quaderni chiama «struttura materiale dell’ideologia», alludendo a «tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente». Il problema, a suo giudizio, è che per effetto di questa influenza ciascuno di noi si ritrova una «coscienza teorica» di cui spesso non è consapevole e che quindi non controlla. Una coscienza «superficialmente esplicita o verbale» che ha «accolto senza critica» e che confligge con le sue azioni e con le sue intenzioni. La qual cosa non è senza conseguenze, poiché (sempre Gramsci) «la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica». Siamo così al cuore del discorso, che non deve sembrare sproporzionato rispetto alle sordide sortite di Berlusconi sulla persecuzione propria e dei suoi figli. Quanto meno è democratico, tanto più il potere funziona come una fabbrica del falso. E viceversa. Quando si riflette sull’Italia a cavallo tra XX e XXI secolo e sul suo declino, non si considera questo versante del problema. Non avvedendosi che trascurare la questione del linguaggio è un errore fatale, perché dalla pulizia delle parole discende quella delle idee, quindi la capacità di giudicare e agire conseguentemente. Se nella comunicazione
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RITÀ E DEFORMARE LA CONOSCENZA E LA COSCIENZA DELLE PERSONE Il lavoro rende liberi. La scritta sul cancello d’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz è forse l’esempio più feroce e grottesco di dove possa arrivare la mistificazione nel linguaggio del potere
pubblica non c’è verità, se il discorso pubblico serve soltanto a mascherare e a deformare, il disorientamento collettivo è inevitabile, e con esso la morte della democrazia. Forse si dirà: così si drammatizza una faccenda tutto sommato semplice e innocua, visto che alle parole del vecchio non crede più nessuno. Invece la situazione è seria e non è affatto casuale che non ce ne si avveda o che si faccia di tutto per nasconderlo. Berlusconi non è il solo a mentire e a usare la comunicazione per intossicare la ragione pubblica. Se le sue sparate sono (per noi) scopertamente insulse, dovremmo chiederci una buona volta come funziona la lingua che noi stessi usiamo e che disciplina funzioni e relazioni nella sfera pubblica. Quanta verità trasmettono le parole che strutturano il discorso politico? In che misura si è consapevoli della loro funzione ideologica, del ruolo che esse svolgono nella creazione di una realtà fittizia e al tempo stesso concretissima, in forza della quale viene esercitato ogni giorno un potere distruttivo di quanto ancora resta di un’autentica dimensione collettiva? Certo, non si tratta di parole «sgangherate». Anzi, se ne sorveglia accuratamente la correttezza formale. Ma non per questo le tossine che esse liberano nel corpo della società sono meno letali. Vogliamo fare solo un piccolo esempio? Che cos’è il celeberrimo «debito pubblico», nel nome del quale tutti i nostri governanti (tutti, a cominciare dall’onnipresente capo dello Stato) si stracciano le vesti, ripetono la litania della mancanza di risorse e propagandano l’inevitabilità dei sacrifici, cioè dei tagli alla spesa, della cancellazione dei diritti sociali (sanità e pensioni), della distruzione di milioni di posti di lavoro, della devastazione del territorio e della scuola
pubblica, dell’ennesima svendita del patrimonio collettivo? Nessuno ricorda mai che quell’enorme debito si è costituito perché, a partire dai primi anni Ottanta, invece di far pagare le tasse a chi di dovere si è preferito finanziare la spesa vendendo titoli di Stato proprio a chi veniva graziosamente esentato dal prelievo fiscale e trasformato così, con un colpo di bacchetta magica, in creditore, da debitore che era. Nessuno mette in comunicazione quel debito con l’enorme eva-
sione fiscale, che ancora oggi viene amorevolmente tutelata. Nessuno dice che quel cosiddetto debito pubblico è in realtà un debito privato, privatissimo. E nessuno, a maggior ragione, osa sostenere che quindi a doverlo pagare sono i grandi patrimoni privati, banche e proprietari di imprese, che i soldi ce li hanno eccome, tant’è che possono permettersi lo shopping del patrimonio pubblico a prezzi di saldo. È solo un esempio tra i tanti della grande affabulazione che giorno dopo giorno genera la «coscienza teorica» della stragrande maggioranza degli italiani, legittimando la più grande redistribuzione inegualitaria di ricchezza sociale dai tempi della Grande depressione. Dopodiché si capisce bene la ratio della cosa. Manipolare la mente dei sudditi, privatizzare la sfera pubblica, ridurre l’opinione pubblica a un simulacro, serve a governare senza troppi fastidi. Soprattutto se lo si fa senza evidenti sgrammaticature, a differenza di quanto sovente accade ai vecchi demagoghi. Ma si può davvero star sicuri che alla fine si intascheranno i dividendi dell’operazione? Si può escludere che, azzerata la capacità critica dei più, la cittadinanza preferisca poi affidarsi a qualche Salvatore, più disinvolto e forse più efficace nell’arte del mentire? Come ammoniva il già citato Gramsci, capita ai ciarlatani di essere morsi dalla biscia usata per i loro raggiri, e ai demagoghi di essere le prime vittime della propria demagogia.
OBBLIGO DEL SILENZIO CONTRO TUTELA DELLA SALUTE
Quei rifiuti tossici sepolti... nel silenzio
Notizia d’agenzia: Camera rende pubblici atti su traffico rifiuti denunciato da pentito Schiavone
«A
vevano secretato l’audizione di Schiavone del 1997.» «Come, “avevano secretato”?» «Cioè, tutto doveva essere segreto.» «Ma loro sono dei parlamentari, li abbiamo eletti noi e la commissione antimafia è stata istituita per tutelare noi… la gente comune… tutti!» «Hanno detto che non potevano, perché c’erano delle indagini e avevano l’obbligo del segreto.» «Sono passati nove anni, qualcosa potevano dire… far trapelare qualcosa a qualche giornalista con la schiena dritta.» «Diciamo che ci hanno tradito… Non hanno pensato alle conseguenze del-
l’inquinamento per le persone, i bambini, le famiglie…» «Sì, sono stati zitti… Il pentito ha parlato e si è meravigliato del silenzio che ha circondato le sue rivelazioni sui rifiuti tossici… Hanno pensato solo ai fatti loro…» «È stato lui a sottolineare la gravità di quello che era successo, non i parlamentari, lui a scandalizzarsi… Altrimenti, nulla.» E forse proprio questo intervento di Schiavone ha spinto la presidente della Camera Boldrini alla pubblicazione degli atti parlamentari relativi all’inchiesta sui rifiuti tossici condotta dalla commissione della Camera dei Deputati. Lo sdegno è così forte che verrebbe da lasciarsi andare al turpiloquio, ma nemmeno così riusciremmo a placarci l’animo… G.C.
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Realizzare la Costituzione è la vera urgenza
DUBBI SULL’OBBLIGATORIETÀ E LA TEMPISTICA DELLE RIFORME ISTITUZIONALI
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da il manifesto del 1 gennaio 2014
MASSIMO VILLONE
apolitano conferma nel suo discorso di fine anno la nota linea delle riforme istituzionali «obbligate e urgenti». Ma lo sono davvero? E quali? In ogni caso, non è dubbio che, se riforme si faranno, la spinta del Capo dello Stato sarà stata decisiva. Esprimiamo un dissenso, con la sola eccezione della legge elettorale. I punti sono tre: non è il momento giusto per mettere mano alla Costituzione; le riforme proposte in larga parte non sono utili e anzi dannose; la Costituzione va attuata, e non stravolta. Primo. Perché non è il momento giusto? Anzitutto, per un problema di rappresentatività del legislatore costituzionale. Questo parlamento è in assoluto il meno rappresentativo della storia della Repubblica. La Corte costituzionale ha già pronunciato l’illegittimità del Porcellum. Rimane formalmente intatta la legittimazione giuridica. Ma quella sostanziale e politica è colpita a morte, e lo sappiamo fin d’ora, anche prima che le motivazioni della sentenza siano note. Un parlamento delegittimato alle radici della sua rappresentatività può curare l’emergenza della crisi economica, che non tollera sospensioni o ritardi. Può fare una legge elettorale rispettosa della sentenza della Corte costituzionale. Ma non ha titolo a ricostruire dalle fondamenta la casa di tutti. Inoltre, la questione riforme si è impropriamente intrecciata sin dall’inizio con la sopravvivenza dell’esecutivo. Riforme fatte non perché duri la Carta, ma perché duri un governo. Il contorto percorso dei saggi e della legge speciale di revisione costituzionale è stato imposto dal governo. Lo sanno tutti che le mozioni parlamentari sul punto furono scritte sotto dettatura di Palazzo Chigi. Cosa impediva invece di partire con l’articolo 138 della Costituzione e le proposte da anni in campo, più o meno saggiamente riprese? L’ambizioso progetto — poi ampiamente ridimensionato nell’ultimo discorso di Enrico Letta per la fiducia —
e il cronoprogramma iniziale di diciotto mesi furono barbacani a sostegno della pericolante strana maggioranza.
Secondo. Perché le riforme proposte sono dannose, e non utili? Lo sono di certo per la parte che insiste su linee ampiamente smentite dagli ultimi venti anni, perseguendo obiettivi ormai agli antipodi di quanto sarebbe necessario. I problemi del paese vengono da una intrinseca fragilità della politica, e dei suoi attori. Frammentazione, feudalesimo partitico, personalizzazione estrema unita a debolezza delle leadership, evanescenza del progetto, perdita del radicamento non sono curati dalle comparsate televisive, da twitter o dai blog. E non si curano nemmeno blindando artificiose leadership di governo con numeri parlamentari falsati dai sistemi elettorali, o mettendo con norme costituzionali o di regolamento parlamentare la mordacchia a ogni voce non allineata. Eppure, è proprio questa la linea che si vorrebbe: uomo solo al comando, elezione sostanzialmente o formalmente diretta del leader con la sua — beninteso obbediente — maggioranza, permanenza in carica per la durata del mandato, bipolarismo militarizzato. Nulla conta che il sistema non sia più bipolare, e che per venti anni proprio la linea proposta si sia mostrata fallace e ingannevole. Nessuno dei governi benedetti con il voto popolare è arrivato senza traumi a fine legislatura. Nemmeno quelli di Berlusconi. Terzo. Perché la Costituzione va attuata, e non stravolta? Ce lo dice l’Istat. Disoccupazione, povertà relativa e assoluta, pensionati a mille euro o meno, giovani o ex giovani che la pensione nemmeno la vedranno, ascensore
sociale fermo, impossibilità per tanti di formare una famiglia, di affrontare un’emergenza medica, di mandare i figli all’università. Nessuna speranza di futuro. Collassa la prima parte della Costituzione, assai più di quella — la seconda — che si vuole riformare. Lo stesso Giorgio Napolitano parla di un anno difficile e drammatico, di unità e coesione sociale a rischio. Vero. Ma certo non perché i regolamenti parlamentari o le norme costituzionali sui decreti legge siano inadeguati. Piuttosto, perché milioni vivono nella disperazione. È la incapacità di dare risposte che soprattutto delegittima politica e istituzioni, e non viene dalle regole inadeguate, ma dalle priorità non assunte e dalle scelte non fatte. È perdere la speranza la causa prima della sfiducia in chi ci rappresenta e ci governa. È nel drammatico aumento delle diseguaglianze e dei bisogni inascoltati il rischio per l’unità e la coesione sociale. Se le risposte giuste arrivassero, da esse la politica, le istituzioni, e la stessa Costituzione trarrebbero nuova vitalità. Mancando ancora le risposte, nessuna riforma sarebbe a tal fine utile. L’unica medicina davvero obbligata e urgente è una buona legge elettorale che avvii — e il processo non sarà breve né indolore — il risanamento della politica. Una legge che sia scritta tenendo conto che la rappresentatività, e non un artificiale decisionismo forzosamente riduttivo della diversità e del dissenso, è oggi cruciale per consolidare le istituzioni vacillanti. Dare voce, non mettere bavagli: così si riassorbono le pulsioni distruttive che Napolitano giustamente richiama. Lo impone tra l’altro oggi la Corte costituzionale, ma già prima il buon senso.
il fiore del partigiano
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