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aprile 2014
anno 4 numero 13
Resistenza. Una «volante» partigiana, nel 1944, tra Lessona e Masserano (da “storia
25 APRILE 2014 ED ELEZIONI EUROPEE
Contro tutti i fascismi, per un futuro di pace
I
di
fotografica della resistenza”, bollati boringhieri).
In basso: la brigata Belbo in un’immagine d’epoca tra le mani del partigiano Felix (foto di
ANGELO VITALI
l 25 aprile rappresenta per l’Italia la festa della Liberazione. È la vittoria sull’occupazione nazifascista, è la ritrovata libertà, è la riconquista di una dignità nazionale, è la continuità di un percorso che partendo dalla Resistenza porterà alla Carta Costituzionale, riferimento di successive altre Carte, come quella dei diritti dell’ONU. È tante cose che in breve potremmo definire come la vittoria della democrazia sulla dittatura. Ma questa stessa data, 25 aprile, è per l’Europa è una data storica. È in quel giorno che sul fiume Elba si incontra l’esercito americano con l’esercito sovietico sino ad arrivare al 13 maggio, dopo la continua a pagina 3 ➔
Scendiamo giù dai monti
mario dondero
per
“diario”)
È FESTA D’APRILE! È di
GUERRINO BELLINZANI
la festa nazionale della Liberazione. Liberazione dalla dittatura fascista e dall’invasione nazista. Liberazione dall’oppressione militaresca, dalla precettazione obbligatoria, dall’imposizione del pensiero unico, dalla coercizione delle libertà individuali. Con la Liberazione si festeggia il ritorno alla democrazia. Che è ancora giovane, ma dotata degli strumenti per tutelare diritti e libertà. Giovane, ma capace di difendersi e di respingere ulteriori propositi autoritari, capace di riconoscere le insidie di un ritorno al passato, perseguito magari con mezzi inizialmente meno virulenti, ma tendenzialmente finalizzati al ripristino di sistemi autoritari. La democrazia è sempre esposta a colpi antidemocratici, proprio per la libertà che riconosce a tutti, anche ai suoi continua a pagina 10 ➔
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il fiore del partigiano
Antifascisti ancora, antifascisti sempre!
NEL RICORDO DI CHI SACRIFICÒ LA VITA PER RICONQUISTARE LA DEMOCRAZIA. PER TUTTI
La grottesca (e penosa) vicenda del 25 aprile di Truccazzano testimonia un’ulteriore volta di quanto non si possa dare per scontata l’acquisizione del patrimonio di valori ereditato dalla liberazione dal nazi-fascismo. Ma i tanti altri Comuni della nostra zona ringraziano ancora i partigiani
Basiano e Masate iniziano il 5 aprile
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a sezione “G. Alberganti” di Basiano-Masate, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura dell’Unione Lombarda dei Comuni di Basiano e Masate, organizza, in occasione delle celebrazioni per la Festa della Liberazione: • dal 5 al 26 aprile, nell’atrio del Municipio di Masate, Storia e cronaca della resistenza in Europa, Mostra fotografica a cura di ANPI Basiano-Masate; • venerdì 11 aprile ore 21.00, nella sala consiliare di Masate, Note di libertà, Concerto del Coro ANPI di Cassano d’Adda, e testimonianze sulla Resistenza, con allestimento della mostra fotografica Storia e cronaca della resistenza in Italia, a cura di ANPI Basiano-Masate; • sabato 12 aprile ore 10.30, in piazza della Repubblica, deposizione delle corone al cippo commemorativo e concerto del Corpo Bandistico di Burago Molgora; nella sala consiliare, esposizione dei lavori eseguiti dagli alunni delle classi 3e della Scuola Secondaria di primo grado di Masate.
Bellinzago per la pace ci ragiona e canta
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enerdì 25 aprile l’ANPI di Bellinzago Lombardo dà appuntamento alle ore 10,30 nella piazza del Comune per la cerimonia di commemorazione dei caduti per la libertà. Dopo pranzo ci si trova alle 13,45 presso la stazione della metropolitana di Gessate per recarci alla manifestazione di Milano. Anche quest’anno l’ANPI ha coinvolto gli studenti della scuola secondaria di 1º grado con il “Concorso 25 Aprile”, che ha avuto per tema l’orrore della guerra (v. articolo a pag. 6). La premiazione avverrà sabato 10 maggio alle ore 21,00 presso l’oratorio in Via Quattro Marie 2. La serata offrirà lo spettacolo Dalla guerra alla pace (Ci ragiono e canto), curato dall’Associazione La Comune Luigi Bottasini con il gruppo musicale “I lavoranti”. Lo spettacolo è frutto di una ricerca storica sui danni e le motivazioni delle guerre e sul
bisogno di una pace duratura e generalizzata per tutti i popoli: diverte, educa, appassiona e si rivivono eventi importanti della storia italiana e del mondo.
Cassano in attesa con Marguerite Duras
I
n collaborazione con il Comune, la Sezione ANPI di Cassano d’Adda ha organizzato una serie di iniziative in ricordo della Lotta per la Liberazione, a partire da domenica 30 marzo con la commemorazione dei 5 martiri cassanesi. Il programma della giornata ha preso il via con la S. Messa nella chiesa di San Zeno, a cui è seguito un partecipato corteo partito da p.zza Matteotti fino al cippo dei 5 martiri, dove è stata deposta una corona di fiori, per poi spostarsi in via B. Colognesi per deporre un’altra corona in memoria dei deportati nei lager nazisti. La giornata si è conclusa con le orazioni ufficiali tenute dal Sindaco di Cassano d’Adda, Ing. Roberto Maviglia e da un componente del direttivo provinciale ANPI e la distribuzione delle tessere ad honorem ANPI ai famigliari dei caduti per la libertà. Ha presenziato una delegazione dei ragazzi delle scuole Medie partecipanti al Concorso L. Restelli. La Festa della Liberazione avrà un prologo giovedì 24 aprile all’Auditorium di Villa Borromeo con lo spettacolo L’attesa di Robert, racconto musicale liberamente tratto da “Il dolore” di Marguerite Duras, con musica eseguita dal Corpo musicale Cologne e raccontato da Luca Rubagotti. Venerdì 25 aprile avrà gli abituali appuntamenti, con la S. Messa alle ore 9,00 nella chiesa di San Zeno, il ritrovo alle 9,45 in p.zza Matteotti per il corteo e l’alzabandiera in p.zza Garibaldi; alle ore 10,15 corteo al cimitero di Cassano d’Adda e orazioni ufficiali.
Cernusco ravviva i colori della Memoria
L’
ANPI di Cernusco sul Naviglio, in collaborazione con diverse altre associazioni del territorio e con il patrocinio dell’Amministrazione comunale, anche quest’anno rea-
ISTITUZIONI... SCADENTI
Il sindaco di Truccazzano provoca
Ma noi siamo l’ANPI, ci vuole ben altro...
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l sindaco Sartirana, giunto alla fine del suo mandato, ha potuto accantonare ogni remora istituzionale e bearsi finalmente della possibilità di provocarci. Si tratta di una provocazione di bassa lega, da Podestà di campagna. Qui a lato è riprodotto il manifesto del Comune di Truccazzano apparso il 4 aprile 2014. Incredibile come Sartirana sia riuscito, in un manifesto per le celebrazioni del 25 aprile, a non citare nemmeno una volta i partigiani o la guerra al nazifascismo: Alzabandiera, Messa, Benedizione, Foibe… tutto, tranne la Resistenza. Aspetto non secondario, siamo stati inseriti fra gli organizzatori a nostra insaputa. Nessuno ce l’ha mai chiesto. Naturalmente senza diritto di parola. Normale che al 25 aprile non si faccia parlare il rappresentante dell’ANPI di un paese, Truccazzano, dove era attivo, già dal 1944, un distaccamento della 105a Brigata Gari-
lizzerà la rassegna “I colori del 25 aprile”. Siamo giunti alla sesta edizione di quella che è diventata una bella tradizione della nostra comunità. La protagonista della rassegna sarà la scuola. Inizieremo con la rappresentazione teatrale del 15 aprile (in replica il 16 solo per le scuole), in cui circa 40 ragazzi delle terze medie si caleranno nei panni dei protagonisti della Resistenza locale. Lo spettacolo sarà articolato in due rappresentazioni: “Ribelli per amore”, episodi di Resistenza cernuschese, e “Casa nostra diventarono le montagne”, tratta dal libro di storie di Resistenza di cernuschesi in montagna dello storico locale Giorgio Perego. Il tutto sotto la sapiente regia di Arianna Scommegna, dell’ATIR Teatro Ringhiera di Milano, e di Mario D’Avino, della compagnia MaMiMò di Reggio Emilia, che hanno contagiato i ragazzi con la loro voglia di fare e il loro entusiasmo. Il nostro ringraziamento va anche all’impegno di tutto il corpo insegnante. È
b d ti te p p sc ti sb P n d n Il
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È FESTA D’APRILE! Contro tutti i fascismi, per un futuro di pace
➔ segue da pagina 1
el ni e a di oe o, 5 rno, ti sa e e, 4, i-
baldi; dove c’è una sezione, fondata subito dopo la guerra, che ha sede in una cooperativa che si chiama “partigiani e combattenti”. Normale che al 25 aprile non si faccia parlare il rappresentante dell’ANPI di un paese dove, negli anni venti, le squadracce fasciste, dopo aver fatto irruzione in cooperativa, sono state inseguite e prese a calci e sberle fino a buttarle nella Muzza. Per onore e rispetto di chi rappresentiamo non possiamo scendere così in basso da cadere in una polemica che, con tutta evidenza, nasconde calcoli pre-elettorali. Il 25 aprile, allora, noi lo festeggeremo a Poz-
zuolo Martesana. Lo ricorderemo con una corsa podistica dei ragazzi delle scuole (lo scorso anno erano più di trecento) la “CORSA PER IL 25 APRILE”. Lo celebreremo, guarda caso, in via Martiri della Liberazione, nei giardini del Municipio, dove rimarremo tutti insieme a cantare, ballare e mangiare fino a sera tardi. Perché il 25 aprile è una festa! La Festa della Liberazione dell’Italia dalla dittatura nazifascista.
bello sottolineare che, essendo ormai le scuole multietniche, attori saranno ragazzi che provengono da storie e culture diverse, eppure egualmente appassionati alle vicende della Resistenza, a dimostrare come quei valori abbiano carattere universale. Il successivo appuntamento con le scuole sarà il 29 aprile all’ITSOS Marie Curie: due assemblee del triennio, a cui saranno chiamati a partecipare circa 1.000 ragazzi. L’iniziativa nasce a seguito di un brutto episodio: un sedicente esperto era stato invitato in quella scuola a parlare delle foibe. Si era presentato accompagnato da un gruppo di militanti di estrema destra. Venuti a conoscenza del fatto, come ANPI abbiamo assunto immediatamente una posizione attraverso la stampa locale, che ci ha permesso di entrare in relazione con un gruppo di studenti e docenti democratici. Con loro abbiamo convenuto di organizzare le due assemblee, che ricorderanno il significato della Resistenza e il valore della nostra Costitu-
Maurizio Ghezzi
ANPI Truccazzano - Pozzuolo Martesana zione. Ha per noi un valore simbolico il fatto che le relatrici saranno tre donne (Alessandra Kersevan, ricercatrice di storia e cultura del Friuli, Roberta Cairoli, membro del direttivo dell’Istituto di storia contemporanea “Pier Amato Perretta” di Como, ricercatrice del Centro Lumina, e Debora Migliucci, vicedirettrice dell’Archivio del Lavoro di Milano), a dimostrare che quando la propria cultura ha profonde radici democratiche, non servono prove muscolari o sguardi truci, bastano le proprie ragioni. Avremo altre tre iniziative. Una l’8 aprile in biblioteca, intitolata “Resistenza, dolore, amore e libertà”, importante tappa del percorso che ci porterà l’anno prossimo al 70° della Liberazione: attraverso la voce di Enzo De Negri, figlio di un ufficiale trucidato a Cefalonia, parleremo di quell’eccidio avvenuto dopo l’8 settembre del 1943; ricorderemo poi l’eccidio di Vinca (24 agosto 1944) continua a pagina 4 ➔
morte dei dittatori Mussolini e Hitler, e alla caduta di Berlino, alla cessazione delle ostilità della marina tedesca. Ben tre settimane dopo, non esisteva l’attuale tecnologia di informazione, finalmente si chiudeva l’orrenda avventura chiamata seconda guerra mondiale. Milioni di morti, milioni di feriti, milioni di bimbi soli: questo era lo sciagurato risultato di chi, in nome di una supremazia falsa, aveva portato la guerra e distrutto anche una parte della civiltà europea. Per questo che come ANPI abbiamo rivolto un appello per le prossime elezioni europee. Istituzioni europee ancora deboli ma che nascono dalla grande passione di chi, come Altiero Spinelli, incarcerato dalla dittatura fascista, aveva capito che poteva nascere qualcosa di buono se si partiva dall’antifascismo e dalla democrazia. Per questo siamo preoccupati dalla presenza in Europa, Italia compresa, di partiti e movimenti esplicitamente neofascisti e neonazisti. Queste tendenze che ridanno voce ai vari razzismi, di razza, appunto, ma anche di genere, agli interessi “nazionalisti”, in realtà nascondono piccoli particolarismi ed egoismi, come se quello che succede al vicino non influisca sulla vita sociale ed economica nostra. Certo, questa presenza di movimenti e partiti neofascisti e neonazisti sono qualche volta sopravvalutati da certa stampa (il risultato ottenuto recentemente è meno vistoso ed uniforme di quello che ci viene fatto credere), ma non per questo non dobbiamo riflettere. E quindi proporre. È per questo che chiediamo di dar vita ad un Parlamento dell’Unione Europea con più ampi poteri, compreso quello di eleggere il Presidente della Commissione. Chiediamo, quindi, una svolta nella politica, una svolta che porti allo sviluppo, all’incoraggiamento della crescita ed alla creazione di posti di lavoro “dignitosi”, come dice anche la nostra Carta Costituzionale. L’ANPI invita tutti i cittadini a partecipare attivamente e consapevolmente al voto. E nello stesso momento ci rivolgiamo ai candidati alle elezioni europee perché siano portatori di una moralità, di una politica e di un impegno effettivo contro la disgregazione dell’Europa e contro la rinascita di tanti piccoli egoismi. Insomma ripetiamolo: le votazioni europee devono svolgersi all’insegna dell’antifascismo e della democrazia; tutti noi cittadini dobbiamo sentirci impegnati per un futuro civile, sociale, democratico e di pace. Angelo Vitali sezione di Cernusco sul Naviglio
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➔ segue da pagina 3 attraverso la voce di un protagonista, Celso Battaglia, che da bambino scampò alla strage avvenuta nel paesino toscano, una delle tante che insanguinò l’Italia nel 1944; infine interverrà Paola Soriga, autrice di Dove finisce Roma, un bellissimo libro sulla liberazione di Roma, avvenuta nel giugno 1944. Proprio in relazione a questo evento, la sera del 25 aprile, in collaborazione con la Libreria del Naviglio, al cine-teatro Agorà assisteremo alla proiezione del capolavoro di Rossellini “Roma città aperta”, nella versione recentemente restaurata a cura della Cineteca di Bologna, della Cineteca nazionale e di Cinecittà Luce. Infine domenica 27 aprile faremo “Quater pass per non dimenticare”, ovvero una visita guidata in alcuni luoghi della Memoria di Milano: partiremo dal Binario 21, e, attraverso la Loggia dei Mercanti, arriveremo al Piccolo Teatro di via Rovello, luogo di tortura e di morte per molti resistenti. In questi anni abbiamo seminato e continueremo a farlo, perché, come diceva papà Cervi, “dopo una semina viene un nuovo raccolto”.
A Inzago immagini per ricordare
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a ricorrenza della Festa della Liberazione quest’anno coinvolge per primi i ragazzi, iniziando dagli incontri sulla Resistenza con gli studenti dell’Istituto Bellisario, organizzati dalla nostra sezione il 9 e il 16 aprile. La giornata del 25 aprile si aprirà alle ore 10.00 con il corteo e i discorsi commemorativi in piazza Maggiore. Alle 11, al Centro De André, aperitivo per l’inaugurazione
IL “MUSEO DIFFUSO” DELLA RESISTENZA NEL CAPOLUOGO
Quater pass nella memoria dei quartieri di Milano
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ilano, Medaglia d’Oro della Resistenza, è ricca di storia e conserva la propria memoria antifascista. Numerose sono le lapidi sparse nei quartieri che ricordano il sacrificio di giovani antifascisti e numerose erano anche nelle fabbriche milanesi, in ricordo dei deportati a seguito degli scioperi del 1943-44. Purtroppo la maggior parte di quelle fabbriche sono chiuse e le lapidi si sono perse. Ci sono però luoghi che assumono un carattere simbolico nella memoria dei milanesi, come piazzale Loreto – luogo simbolo dove si erge il monumento in ricordo dei 15 martiri fucilati il 10 agosto 1944. Nella stessa piazza (ora profondamente cambiata), alla fine di aprile del 1945, vennero portati i corpi, ormai cadaveri, di Benito Mussolini e di Claretta Petacci. Da lì, immaginando un ipotetico itinerario, arriveremmo, avendo percorso poche centinaia di metri, al Binario 21 in via Ferrante Aporti, in Stazione Centrale. Da quel binario sotterraneo, perché non vi fossero testimoni, partirono decine di treni carichi di deportati diretti ai campi di sterminio. La maggioranza non fece ritorno. Prima di essere portati al Binario 21, molti di quei prigionieri passavano per il carcere di San Vittore, in piazza Filangeri, che sotto il fascismo divenne luogo di detenzione di numerosi oppositori politici. San Vittore sarà liberato dalle brigate Matteotti il 26 aprile del 1945. Altro luogo di detenzione, di tortura e di delitti per opera della legione Ettore Muti fu l’attuale Piccolo Teatro di via Rovello. Nel 1947 in quell’edificio Paolo
della mostra di pittura di Francesco Andenna, che proseguirà sino al 27 Aprile. Alle ore 21.00, presso il Cinema Giglio, visione del film di Roberto Rossellini "Roma città aperta".
Pozzuolo: corsa, musica, poesia e... pastasciutta
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rogramma ricco per la Festa della Liberazione a Pozzuolo Martesana. Alle ore 15,00: partenza da Trecella della corsa podistica non competitiva: "corsa per il 25 aprile"; ore 16,00: premiazioni; ore 16,30: discorso del Sindaco e del Presidente della locale sezione ANPI; ore
Grassi e Giorgio Strehler fondarono il Piccolo Teatro, facendone un centro e un simbolo della rinascita culturale e della vita democratica di Milano. Poco distante da via Rovello troviamo in via Dante la Loggia dei Mercanti, struttura di particolare pregio architettonico risalente al Duecento, divenuta sacrario dei caduti milanesi per la libertà. A Villa Triste (v. foto), una villetta situata in zona San Siro in via Paolo Uccello, agiva la sanguinaria banda che
prendeva il nome dall’aguzzino Pietro Koch. Lì veniva praticata la tortura con strumenti e sistemi tra i più crudeli, a cui venivano sottoposti ebrei ed antifascisti. Oggi ospita un istituto missionario. Questi alcuni dei tanti luoghi della memoria antifascista di Milano che ci piacerebbe venissero valorizzati e diventassero un “museo diffuso” della nostra metropoli.
Franco Salamini ANPI di Cernusco sul Naviglio
17.00: nei giardini del Comune il gruppo I Numantini intrattengono con musiche, canti della Resistenza e poesie; ore 19,00: Il Comune, l’ANPI e l’Associazione socioculturale Pozzuolo Trecella preparano il Ristoro e la Pastasciutta antifascista. Ore 21,00: Il Comune attende il 25 aprile per inaugurare la ristrutturazione del Municipio, casa di tutti i cittadini; ore 21,30: spettacolo musicale del gruppo Irouseto folk. Ore 23,00: ci salutiamo tutti ripromettendo di rivederci al prossimo 25 aprile. La festa avverrà, guarda caso, in via Martiri della Liberazione al numero 11. Venite da noi, sarà un giorno bellissimo!
Buon 25 aprile a tutti!
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«Un 25 aprile esagerato» e le tante altre storie del Peppo
BELLINZAGO LOMBARDO: RICORDI E CONSIDERAZIONI DI UN MILITANTE
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l Peppo, uno dei numerosi iscritti dell’ANPI di Bellinzago, racconta un suo 25 aprile particolare. La Storia, grande o piccola che sia, è l’insieme delle storie di tutti noi ed è importante poterle ogni tanto raccontare. Lui, in realtà si chiama Giuseppe Brambilla, ma è sempre stato conosciuto come Peppo. Ecco la sua storia. «Un 25 aprile particolare è stato quello del ‘94, quando Berlusconi è entrato in politica e ha detto qualche stupidata delle sue… qualcosa tipo che era ora di finirla col 25 aprile o simile. E gli italiani gli hanno fatto vedere come era ora di finirla: non ho mai visto un 25 aprile così pieno di gente, nonostante l’acqua che c’era… una partecipazione trionfale… una roba esagerata che ci ha riempito il cuore di gioia e forse l’abbiamo zittito da quel punto di vista lì. È il più bel 25 aprile a cui ho partecipato e che mi ricordi». Continua a parlare e guardo il suo baffo grigio e gli occhi che sprizzano simpatia. «Ho avuto altri 25 aprile non tanto belli a cui ho partecipato, in cui… Un tempo c’era uno scontro tra comunisti e democristiani. Come è giusto che fosse, anche loro avevano partecipato alla Resistenza e anche loro venivano in piazza… però in quegli anni portare le bandiere bianche in piazza il 25 aprile… qualcuno finiva perfino all’ospedale: c’era da vergognarsi, però di fatto succedeva. Erano gli anni ‘70 quando ero ancora ragazzo e purtroppo accadevano queste cose. Sempre in quegli anni, a Milano era una cosa normale che in campagna elettorale, quando alla sera si andava ad attacchinare, ci si scontrasse con dei fascisti, chiamiamoli così quelli del MSI. Si veniva alle mani… sempre. Si respirava un’aria diversa. C’era
Il 25 aprile 1994 a Milano (foto di vincenzo cottinelli e fermo-immagine da filmato).
Qui sotto, il Peppo
proprio una contrapposizione tra la destra e la sinistra che oggi non c’è più». E aggiunge una riflessione sulla politica di oggi: «Oggi, purtroppo, penso che la sinistra sia finita… non esiste più. Purtroppo il PD… vediamo cosa sta succedendo. I partiti piccoli non fanno altro che spaccarsi e non c’è neanche la destra, in verità, e adesso c’è pure Grillo. Però il discorso è che una volta ero motivato, pensavo alla lotta di classe, pensavo di appartenere alla sinistra, perché c’era Berlinguer che faceva un certo tipo di discorso… Pensavamo di essere diversi dagli altri… sì, insomma, così si pensava. E poi invece scopri che è lo stesso. E qui crolla
Vittoria! Referendum del 17 maggio 1981 sull’aborto. Lo striscione che festeggiava la conferma della legge 194 finì su un giornale
tutto. Ho fatto in tempo a essere il segretario del PCI a Bellinzago con Berlinguer. Poi ho seguito Natta, poi è arrivato Occhetto e me ne sono andato via». Parlando, spunta un ricordo degli anni in cui è stato segretario del PCI di Bellinzago Lombardo: «Quella che mi ricordo molto bene è stata la battaglia del referendum sull’aborto nel 1981, sostenuta come segretario del PCI. Lì c’era ancora una bella contrapposizione tra noi comunisti e i democristiani “benpensanti”. Avevo molta paura che, qui, non si arrivasse… A dire la verità avevo paura che anche a livello nazionale non si vincesse il referendum. Invece devo dire che non solo a livello nazionale, ma anche qua a Bellinzago vincemmo: un trionfo per noi, un successo della nostra campagna elettorale. Mettemmo uno striscione sull’argine del Naviglio in modo che tutti i pendolari che passavano mattina e sera da Bellinzago vedessero la scritta “Anche a Bellinzago ha vinto la ragione”. E vicino, tratta da Repubblica, la vignetta di Forattini che mostrava una donna che dalla croce spiccava il volo. È stato per me il massimo!». Ora il Peppo è in pensione, coltiva l’orto e alleva le galline, ma la politica è sempre la sua passione. Giorgio Cervino ANPI di Bellinzago Lombardo Sezione 25 aprile
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Il crimine della guerra visto dai ragazzi
BELLINZAGO: I CENT’ANNI DALLA “GRANDE GUERRA” SPUNTO DI RIFLESSIONE
A
nche quest’anno l’ANPI di Bellinzago Lombardo propone il suo concorso 25 Aprile (è la sua terza edizione) agli studenti della scuola secondaria di 1° grado. Nel 2014 ricorre il centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, o Grande Guerra, cominciata nel 1914. Furono coinvolte centinaia di migliaia di soldati che combatterono e morirono nelle trincee e sulle montagne. Ancora oggi nei luoghi più turistici di quelle regioni si incontrano i resti di opere militari, costruite allora lungo i confini con l’Impero austriaco, come strade, forti, trincee e camminamenti fortificati, che la cura e l’amore di gruppi di persone hanno cercato di preservare, anche con la creazione di piccoli musei, perché non si debba dimenticare chi in quei luoghi soffrì e morì, la maggior parte delle volte senza saperne il motivo, soprattutto da parte italiana. Si è partiti da questo anniversario per suggerire una riflessione sulle guerre dal 1914 al 1945 e le loro conseguenze. La Grande Guerra (1914-1918) fu la guerra delle trincee, una guerra di stallo, dove per anni gli eserciti avversari si fronteggiarono, massacrandosi a vicenda. Fu anche la guerra che portò al crollo dell’Europa come centro del mondo e faro della civiltà universale. Gli sforzi economici per sostenere questa guerra indebolirono l’economia mondiale, provocando la grande crisi del 1929. Si affermò il fascismo in Italia e il nazionalsocialismo in Germania, che provocarono la seconda guerra mondiale (1939-1945): fu la lotta per la sopravvivenza della libertà e della democrazia. In seguito a queste guerre, a salvaguardia della pace nacque in Europa l’Unione Europea e a livello mondiale fu creato l’ONU, l’organismo internazionale per dirimere le controversie tra Stati. Prima del 1914 la guerra era lo scontro tra eserciti, dopo quella data divenne guerra totale, condotta contro le infrastrutture economiche e le popolazioni civili, con tutti i mezzi possibili messi a disposizione dalla tecnologia applicata all’arte militare. Dai bombardamenti a tappeto sulle città sino alle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Le case e le strade distrutte, le persone
Una trincea (da “vIta
In
tRIncea” dI RaI edUcatIonaL).
Sotto, postazione al Passo Sentinella, dolomiti (daL FILMato “L’aLBeRo tRa Le tRIncee” dI PaoLo RUMIz)
che cercano di sopravvivere senza acqua, senza cibo, senza tutto… La Grande Guerra fu quindi l’inizio di un lungo periodo di tragedie in Europa e nel mondo e si protrasse sino al 1945, fine della seconda guerra mondiale. Ben a ragione gli anni 1914-1945 sono stati definiti «l’Età della catastrofe» dallo storico E. J. Hobsbawm nella sua opera Il secolo breve.
Riflessioni in concorso
Il concorso premia le migliori opere degli studenti con tre borse di studio da € 150, tre da € 100 e tre da € 50. Come preparazione al concorso sono state fornite delle schede storiche e dei filmati (di RAI Educational e del giornalista Paolo Rumiz) resi disponibili sul nostro sito internet: www.anpi-bellinzagolombardo.com/ concorsi/3° concorso 25 aprile. Quattro i temi per le classi terze: 1. La Grande Guerra è ricordata per i massacri dei soldati nelle trincee. Giovani contadini analfabeti, provenienti dalle zone rurali del Paese, furono inviati a combattere una guerra senza saperne il perché. E costretti a morire, pena l’accusa infamante di essere traditori. Sì, perché uscire dalla trincea ed entrare nella terra di nessuno era morte sicura. Cosa ne pensate? 2. Durante il periodo 1914-1945 milioni di persone furono costrette a lasciare tutti i loro averi, le loro case, i loro mobili, i loro giocattoli, i loro affetti: divennero profughi
per scambi di popolazione tra Stati. E molti morirono o furono fatti morire. Ad esempio i polacchi dovevano stare nel territorio polacco e i tedeschi in quello tedesco anche se erano ormai anni che le popolazioni si erano radicate altrove. Persone trattate come mobili da traslocare da un appartamento all’altro. Dite un vostro pensiero. 3. Dopo il 1914, da guerra tra eserciti, la guerra si trasformò in guerra totale, coinvolgendo non solo l’esercito, ma anche la popolazione civile e tutte le infrastrutture, case, scuole, fabbriche, giardini, parchi, strade. Tutti i luoghi dove le persone conducono bene o male la loro esistenza. Le guerre del Novecento sono state la più grande carneficina della storia: si parla di 50 milioni di morti. La guerra non può essere la soluzione dei problemi tra Stati. 4. Nel 1914 i concetti di libertà e democrazia erano valori in cui la società di allora si riconosceva. Nel volgere di due decenni, si affermavano democraticamente in Italia e in Germania partiti che si trasformarono in dittature. Cosa fare per impedire che possa accadere ancora? Per le classi prime e seconde, a fronte della visione dei filmati e della lettura delle schede storiche, si chiede di rappresentare graficamente le impressioni suscitate da alcune delle seguenti parole: fame, paura, case distrutte, fuga, giocattoli, giochi all’aperto, scuole, chiesa, trincee, montagne, soldati, profughi, massacri, traditori, limitazione (di parola e di movimento), imposizione, aerei, bombardamenti, carri armati, fucili, genitori diventati soldati, morte, follia. Giorgio Cervino ANPI di Bellinzago Lombardo Sezione 25 aprile
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A scuola di democrazia dai Padri costituenti
PIOLTELLO: INCONTRI CON ALUNNI E PROFESSORI DELLE SECONDARIE
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a nostra sezione di Pioltello da tre anni interviene nelle scuole secondarie di 1° grado con il progetto “Scuola-Costituzione”, rivolto agli alunni, con la partecipazione degli insegnanti. Realizzato con la collaborazione del Comune, il progetto si propone di condurre i ragazzi delle classi terze alla conoscenza della Costituzione della Repubblica italiana, dalle sue origini storiche al suo significato concreto nella vita quotidiana. L’intervento si è concretizzato in incontri con gli alunni, tenuti in un contesto informale, adatto a sollecitare la partecipazione attiva dei ragazzi. A loro è stata fornita un’opportunità di approfondimento di alcuni argomenti storici e giuridici, trattati con modalità semplici. In partenza, il necessario inquadramento storico è stato proposto per cenni su: unità d’Italia e Statuto albertino, fascismo, seconda guerra mondiale, resistenza e guerra di liberazione, referendum monarchia/Re-
pubblica e, infine, assemblea costituente. La Costituzione è stata poi presentata argomentando il significato concreto dei suoi principi di eguaglianza e di libertà, articolati per cenni sui diritti (libera circolazione, salute, istruzione, assistenza sociale, lavoro, iniziativa economica, ecc.), sui doveri (pagamento dei tributi, difesa della Patria, ecc.) e, infine, cenni sulle principali istituzioni: lo Stato, la Regione, il Comune. Al progetto hanno aderito 2 classi di terza media dell’Istituto comprensivo statale “Iqbal Masih” (scuola di Seggiano “ex Matteotti”) e 8 classi di terza media dell’Istituto “Mattei-Di Vittorio” (sei della sede centrale di via Bizet, due della succursale di via De Gasperi). Hanno partecipato agli incontri circa 220 alunni e i loro insegnanti di lettere. Gli alunni hanno ascoltato con interesse e attenzione l’introduzione dell’argomento da parte del sottoscritto. Dopo l’introduzione, alcuni studenti hanno formulato delle do-
mande alle quali ho dato delle sintetiche risposte, rinviando ad un ulteriore approfondimento dei temi trattati, a cura dei docenti, nell’ambito dei programmi di Storia e cittadinanza e Costituzione. Penso di poter affermare, in conclusione, che il progetto sia stato bene accolto dai docenti stessi, sia da parte delle insegnanti della scuola di Seggiano sia da parte delle insegnanti dell’Istituto “Mattei - Di Vittorio”, che hanno partecipato attivamente all’incontro-conversazione. Le professoresse della succursale “Mattei - Di Vittorio”, in particolare, auspicano la conferma del progetto educativo per il prossimo anno scolastico. A loro ho ribadito la disponibilità dell’ANPI di Pioltello a proseguire la collaborazione d’intesa con l’Amministrazione comunale. Pierino Rossini Presidente ANPI di Pioltello Sezione “Sandro Pertini”
SCHEMA DI INTERVENTO/CONVERSAZIONE
Da dove viene e cos’è la Costituzione italiana
Lo schema di conversazione utilizzato nelle scuole secondarie di Pioltello può essere riproponibile anche in altri contesti.
17 marzo 1861: viene proclamato il regno d’italia, si realizza così l’unità d’italia dopo le grandi battaglie politiche e militari del risorgimento.
Statuto albertino: così veniva chiamata la costituzione, cioè la legge fondamentale dello stato, nel periodo della monarchia, che va dal 1861 al 1946. lo statuto venne concesso dal re di sardegna/piemonte carlo alberto (da cui il nome) nel 1848 e, successivamente, esteso a tutto il regno d’italia. (…) vedremo in seguito le principali differenze rispetto alla costituzione della repubblica italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948. fino al 1922 il regno d’italia fu una monarchia costituzionale con una forma di governo parlamentare liberale a ristretta base democratica (le donne, per esempio, votarono per la prima volta soltanto nel 1946).
il 28 Ottobre del 1922, dopo una grave crisi sociale e politica esplosa alla fine della prima guerra mondiale (1915-1918), il potere di governo fu affidato dal re al partito nazionale fascista che, in breve tempo, instaurò una dittatura, cioè un sistema politico a partito unico.
durante il regime fascista (19221943) furono soppresse tutte le libertà democratiche: i partiti politici e i sindacati non controllati dallo stato furono messi fuori legge; le elezioni furono sostituite da plebisciti su “listoni” formati solo da rappresentanti del pnf; venne cancellata la libertà d’opinione attraverso la censura e il controllo dei giornali, della radio e del cinema; fu vietato lo sciopero; fu vietata la libera circolazione sul territorio (legge contro l’urbanesimo); furono introdotte odiose leggi razziali contro gli italiani di religione ebraica (1938); ecc. il regime fascista non era soltanto un regime dittatoriale e antidemocratico (esistevano ed esistono altri tipi di regime dittatoriale: da quelli comunisti di stampo sovietico a quelli teocratici - cioè guidati da autorità religiose - come per esempio l’iran); esso si ispirava anche a una
ideologia aggressiva, nazionalista e razzista che condusse l’italia in un ventennio a partecipare a tre guerre, delle quali l’ultima, la seconda guerra mondiale (19401945), al fianco della germania nazista, fu disastrosa per il nostro paese.
L’8 settembre 1943, dopo la caduta del regime fascista avvenuta il 25 luglio dello stesso anno, il nuovo governo nominato dal re firmò l’armistizio con le forze armate alleate (stati uniti, gran bretagna e unione sovietica): la resa dell’italia fu una scelta obbligata, dopo tre anni di guerra persa su tutti i fronti: africa, balcani, russia; e ciò, nonostante il sacrificio e, spesso, l’eroismo delle truppe italiane male armate ed equipaggiate e, fatto non secondario, senza validi motivi che potessero giustificare l’aggressione militare ad altri popoli. L’Italia, però, nel frattempo era stata invasa dall’ex alleata germania nazista che, nelle zone occupate del centro e del nord, aveva costituito uno stato “fantoccio” (cioè dominato completamente dai tedeschi), denominato repubblica sociale italiana (rsi), con la colla-
borazione del nuovo partito fascista repubblicano che non riconosceva il governo insediato dal re, che però secondo le regole dello statuto era quello legittimo ed era sostenuto dai partiti politici democratici, risorti dopo il 25 luglio. i tedeschi e i loro collaboratori fascisti instaurarono nelle zone occupate un regime oppressivo, che deportava i militari italiani che non aderivano alla rsi per restare fedeli al re, allora capo del legittimo stato italiano; deportava gli ebrei, avviandoli verso un destino crudele nei campi di sterminio nazisti; esercitava vessazioni e soprusi sulla popolazione civile.
per resistere contro questo stato di cose nell’italia occupata, per iniziativa dei partiti democratici furono costituite le brigate partigiane, cioè formazioni militari non regolari, che affrontarono i nazifascisti sulle montagne, nelle valli e nelle città fino alla sconfitta della Germania nella primavera del 1945 da parte degli eserciti alleati. si deve precisare, a questo riguardo, che alla liberazione del-
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il fiore del partigiano
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Il cinema è una storia che fa riflettere
INZAGO: GLI STUDENTI DELLE SUPERIORI DISCUTONO SULLA SHOAH
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er il Giorno della Memoria, organizzati dalla nostra sezione, si sono svolti incontri con i ragazzi e le ragazze dell’Istituto Bellisario. Sono stati momenti significativi per gli argomenti trattati. Abbiamo avuto modo di confrontarci e per noi è stato motivo di arricchimento. Di questo vogliamo ringraziare loro e i loro docenti, che dimostrano sempre nei nostri confronti una grande sensibilità. Vi proponiamo alcune riflessioni di alunni sollecitati dalla visione di film. Rita Catanzariti
La Rosa Bianca Ieri ho avuto l’occasione di vedere il film "La Rosa Bianca" (v. foto), una storia di coraggio incondizionato, avvenuta nel 1943 a Monaco di Baviera. A partire dal 18 febbraio del 1943 alcuni studenti universitari, riuniti sotto il segno della Rosa bianca, diedero vita a un piccolo movimento di opposizione al regime nazista, una
resistenza fatta di parole, di slogan e di volantini. Guidati da due fratelli, Sophie e Hans Scholl, alcuni giovani cominciarono a diffondere clandestinamente voci di protesta e di condanna, in nome di un ideale di pace e di rispetto tra i popoli, chiedendo la fine dei massacri e degli inutili spargimenti di sangue tra i soldati al fronte: a testimoniare come non tutto il popolo tedesco fosse stato contagiato dalla furia assassina di Hitler. Ciò che mi ha colpito e ho ammirato di questa drammatica storia, che ha visto tra i protagonisti Sophie Scholl, una ragazza di poco più di vent’anni, è stata la sua forza e determinazione - assieme al fratello Hans - a far diffondere le sue idee di libertà e pace, per cercare di porre fine ad una guerra, che non solo si prolungherà, ma finirà anche male, con un grande spargimento di sangue. Queste le loro convinzioni espresse di fronte al tribunale, che purtroppo non ha avuto pietà e ha condannato a morte i fratelli Scholl, Christoph Probst e in seguito tutti coloro che
facevano parte della Rosa bianca. Furono solo alcuni dei tanti che si sono opposti al regime nazista. Questo film è un modo per ricordare chi, con audacia e con una forza morale che oggi ci stupiscono, è stato capace di ribellarsi alla schiavitù e all’oppressione di sistemi autoritari e dittatoriali, a costo della stessa vita; che per questo merita di non essere dimenticato.
Da dove viene e cos’è la Costituzione della Repubblica italiana
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l’italia contribuirono, oltre ai partigiani resistenti nelle zone occupate del centro e del nord, anche i militari regolari italiani che risalirono la penisola dal sud combattendo al fianco dei soldati angloamericani.
il 2 giugno del 1946, per iniziativa dei partiti democratici e antifascisti, si svolse un referendum istituzionale che trasformò l’italia da monarchia in repubblica. la casa reale dei savoia pagava in questo modo il sostegno che aveva dato al fascismo dal 1922 al 1943, che aveva portato il paese alla rovina materiale e morale. Nella stessa data del 2 giugno fu eletta anche un’Assemblea costituente che il 23 dicembre del 1947 approvò, a larghissima maggioranza, la Costituzione della Repubblica italiana tutt’ora vigente. la nuova costituzione si differenzia molto dal vecchio statuto albertino per le ragioni di seguito illustrate: 1. è una costituzione democratica cioè votata dai rappresentanti eletti democraticamente dai cittadini (uomini e, per la prima volta, donne), mentre lo statuto era una costituzione concessa dal re;
2. è una costituzione che, oltre a regolare il funzionamento delle stato e delle più importanti istituzioni pubbliche, riconosce ai cittadini non soltanto i diritti politici e civili, ma anche importanti diritti economici e sociali; questi ultimi del tutto assenti nello statuto; 3. i diritti sociali derivano dai principi fondamentali della nuova costituzione in base ai quali il lavoro, la solidarietà e l’uguaglianza non solo formale, ma anche sostanziale, diventano valori centrali del nuovo stato italiano, insieme ai diritti di libertà, al ripudio della guerra, ecc.
facciamo alcuni esempi concreti per capire meglio il significato di questo importante documento nella vita quotidiana di tutti noi. • libertà di circolazione e di soggiorno = articoli 16 e 120 (cenni alla legge contro l’urbanesimo del periodo fascista; cenni alla storia dell’immigrazione meridionale; eccetera). • medico di famiglia e altri servizi sanitari = diritto alla salute universale = articolo 32 (cfr. periodo precedente alla repubblica: elenco dei poveri; assistenza differenziata per categorie; ecc.). • libertà dell’arte e della scienza e del loro insegnamento = articolo 33
(cfr. assenza di tale libertà nel periodo fascista; esempio della musica jazz e, in generale, afro-americana; ecc.). • libertà sindacale = articolo 39 (cenni alla figura di iqbal masih e allo sfruttamento del lavoro dei minori e degli adulti; ecc.). • libertà di iniziativa economica = articolo 41 (cenni ai fini sociali dell’impresa).
la costituzione prevede insieme ai diritti e alle libertà anche importanti doveri dei cittadini nei confronti dello stato. • il dovere di svolgere un’attività lavorativa (articolo 4). • il dovere di voto (articolo 48: il voto in democrazia è un diritto, ma anche un dovere civico perché tutti i cittadini devono partecipare alla vita pubblica). • il dovere di difendere la patria e il servizio militare (articolo 11: la costituzione ripudia le guerre di aggressione ad altri popoli, ma non esclude - articolo 52 - la possibilità che si renda necessario difendersi da attacchi esterni). • il dovere di contribuire alle spese pubbliche attraverso il pagamento di imposte e tasse e un giusto sistema fiscale (articolo 53). • il dovere di fedeltà alla repubblica e di osservarne la costituzione
e le leggi (articolo 54). la costituzione, inoltre, contiene i principi e le regole fondamentali dell’ordinamento della repubblica. le principali istituzioni pubbliche a livello nazionale sono: il parlamento (camera dei deputati e senato della repubblica); governo; presidenza della repubblica; magistratura. le principali istituzioni pubbliche a livello locale, più vicine ai cittadini, sono: la scuola (articolo 34); il comune; la provincia; la regione (articolo 114 e seguenti).
gli Enti territoriali (comune, provincia e regione) sono molto importanti perché la costituzione del 1948, diversamente dal vecchio statuto albertino di un secolo prima, prevede la trasformazione dello stato centralista in uno stato delle autonomie locali, ferma restando l’unità e l’indivisibilità della repubblica. per tale motivo, il federalismo di cui tanto si parla in questi ultimi anni (cioè una forma di stato in cui i governi regionali e locali hanno un peso maggiore rispetto al governo nazionale) non potrà mai rompere il vincolo di solidarietà politica e sociale che tiene insieme tutte le parti P.R. dell’italia.
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il fiore del partigiano Il bambino con il pigiama a righe Durante la dittatura nazista, gli ebrei erano le vittime dei tedeschi, che come sappiamo ne furono gli spietati carnefici, ma ci sono storie e vicende personali che meritano di essere conosciute, perché ci fanno capire che non tutti i tedeschi erano dei fanatici nazisti. Una di queste storie è raccontata dal film "Il bambino con il pigiama a righe". Racconta di Shmuel, un piccolo bambino ebreo imprigionato in un campo di concentramento e che, come tutti gli altri prigionieri, può indossare solo un pigiama a righe; il bambino stringerà una forte amicizia con Bruno, figlio del comandante del campo. I due bambini hanno la stessa età e sono nati nello stesso giorno, ma le loro vite sono ben diverse, e a Bruno inizialmente pare molto strano che tutte le persone che si trovano al di là del filo spinato indossino tutti indistintamente una tuta a righe, che, ai suoi occhi da bambino, sembra solo un largo pigiama. Bruno sa che "il Führer" ha grandi progetti per suo padre; dopo una ribellione dei prigionieri, egli finisce per adattarsi a tutto quel cemento e a quelle strane persone con i pigiami tutti uguali che vivono al di là della rete, senza però capire mai a fondo il perché di tutto ciò. Sarà l’amicizia con quel magro e pallido bambino ad aprirgli gli occhi, cioè a fargli capire quanto sia disumano il razzismo nazista che gli hanno sempre insegnato ed inculcato a suon di disciplina. Ma in lui, nel suo cuore, nonostante gli ordini ricevuti, non si cancellerà mai l’innocenza che rende i bambini l’unica vera voce del mondo. La vita è bella Parlando del tema dell’Olocausto, mi viene in mente il famoso capolavoro di Roberto Benigni. Questo film esprime l’amore che c’è nel cuore di ogni uomo e fa vedere cosa sarebbe disposto a fare un padre pur di salvare la vita del proprio bambino, per avere la speranza di vederlo crescere in un mondo migliore. Il protagonista, Guido Orefice (Roberto Benigni), è un ebreo che metterà su famiglia proprio negli anni peggiori della seconda guerra mondiale, ovvero quando inizieranno, anche in Italia, le deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Far credere al bambino che sia tutto un grande gioco è un modo per non turbarlo e fargli pensare che tutto andrà bene. La base principale di questo film sono due sentimenti in grande contrasto tra di loro: la paura e l’amore. L’amore che sconfigge il male e l’odio, addirittura l’amore che riesce a "sconfiggere" il nazismo, incarnato in un padre che si sacrifica per il proprio figlio e per le persone che più ama. Nel film troviamo anche l’ottimismo, la forza di andare avanti e soprattutto il coraggio, il coraggio di sorridere mentre sei stanco morto o stanno per ucciderti, il coraggio che dimostra la grande forza d’animo dell’uomo. La storia è stata costruita sui passi dell’uomo, e ricordarne le cadute serve per rimanere in piedi.
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POZZUOLO: LE VITE DI DIECI DONNE “RESISTENTI”
Solo ricordando si smette di morire L’
Il palco, dieci cartelli con dieci nomi di donne. Fogliazza racconta
Ad agosto si festeggia la Divisione Fiume Adda È deciso: la Festa della Divisione Fiume Adda si farà: a truccazzano a fine agosto, dal 28 al 31. sarà l’occasione per un grande ritrovo di tutte le sezioni anpi della zona adda, martesana, brianza e di ampliare la platea d’interessati ai valori propugnati dalla nostra associazione. contiamo sui nostri giovani, per dare una mano alla costruzione e alla gestione dell’evento e, soprattutto, per “rimorchiare” alla festa i loro coetanei.
ANPI Truccazzano - Pozzuolo Martesana ha organizzato, in collaborazione con il Comune di Pozzuolo Martesana, lo spettacolo di Gianluca Foglia (in arte Fogliazza) sulla storia di 10 donne partigiane. Lo spettacolo, previsto all’interno della rassegna ANPI “poi venne aprile...”, è andato in scena il 3 aprile e ha visto la partecipazione delle ragazze e dei ragazzi delle scuole medie di Pozzuolo Martesana. Zitti e concentrati, quasi 200 studenti hanno ascoltato “Fogliazza” raccontare i suoi incontri con dieci donne straordinarie, dieci vite “resistenti”. Dieci vite di donne che “non erano costrette a scegliere”, e proprio per questo ancor più straordinarie. Bellissimo sentire il silenzio teso in sala nei momenti più duri del racconto e le risate fragorose dei ragazzi quando Fogliazza racconta della vecchia partigiana, vice comandante di brigata, che al bar lo costringe a scolarsi un whisky prima di rispondere alle sue domande. Alla fine dello spettacolo l’ANPI ha regalato ad ogni alunno una copia della Costituzione della Repubblica Italiana. Maurizio Ghezzi
ANPI Truccazzano - Pozzuolo Martesana
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il fiore del partigiano
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tiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali. Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistenteinvitiamo tutti a sottoscrivere e a mente osteggiato in passato a far conoscere l’appello. lo si può parole e ora in sordina accolto. fare on-line all’indirizzo: www. Il fatto che non sia Berlusconi liberacittadinanza.it/petizioni/ver ma il leader del Pd a prendere so-la-svolta-autoritaria in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione. Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che
Sottoscriviamo!
È FESTA D’APRILE! Libertà e giustizia. Democrazia e lavoro
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nemici interni; sta ai cittadini maturi capire dove portano certe tendenze di linguaggio e certe scelte di programma. Quando si esautora il Parlamento, o lo si ritiene un semplice organismo notarile, si va all’opposto dell’esercizio di una democrazia compiuta. Quando si ricorre spesso al voto di fiducia, finiscono i contributi dialettici, finisce il confronto delle idee, si mortifica il ruolo del parlamentare. Un Parlamento a compartimenti stagni non è democratico; è rigidamente allineato sulle posizioni del leader di maggioranza. Un parco buoi, chiamato di volta in volta a pronunciarsi non nel merito dell’argomento in oggetto, bensì sull’opportunità di difendere il governo. E chi se ne frega del provvedimento!!! Oggi è la ricorrenza di quella Liberazione
illustrazione di altan
Diciamo “NO” alla svolta autoritaria
L’APPELLO DEI COSTITUZIONALISTI
è sbagliato. Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone. Primi firmatari: Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Roberta De Monticelli, Salvatore Settis, Rosetta Loy, Corrado Stajano, Giovanna Borgese, Alberto Vannucci, Elisabetta Rubini, Gaetano Azzariti, Costanza Firrao, Alessandro Bruni, Simona Peverelli, Nando dalla Chiesa, Adriano Prosperi, Fabio Evangelisti, Barbara Spinelli, Paul Ginsborg, Maurizio Landini, Marco Revelli, Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio, Gino Strada, Paola Patuelli, Tomaso Montanari, Antonio Caputo, Ugo Mattei, Francesco Baicchi, Riccardo Lenzi, Pancho Pardi, Ubaldo Nannucci, Maso Notarianni, Ferdinando Imposimato, Cristina Scaletti, Laura Barile, Raniero La Valle, Luciano Gallino, Dario Fo, Fiorella Mannoia
che ha permesso di passare da sudditi a cittadini; che ha dato ad ognuno la responsabilità di decidere e la possibilità di renderci consapevoli e protagonisti. Oggi va ricordato il sacrificio di chi, combattendo con le armi in pugno, ha fronteggiato e sconfitto coloro che negavano la libertà e i diritti di ognuno e che ci volevano ancora sudditi di un capo che decidesse per tutti. Alle nuove leve di elettori è bene ricordare come è nata la democrazia, il perché la si festeggia; cos’era l’Italia prima: un paese in cui ognuno doveva stare attento a come parlare, altrimenti c’era l’Ovra che spiava, riferiva e denunciava. Se ti sentivano criticare, ti costringevano a sottostare ad interrogatori ed anche a torture. La libertà è stata conquistata a carissimo prezzo e per difenderla dobbiamo sapere quanto vale e cosa ci può costare perderla. Il 25 aprile 1945 è emblematicamente la fine della occupazione di Milano e con essa dell’Italia da parte dei nazisti a dei fascisti. Miseramente finiva il regime fascista liber-
ticida, totalitario, criminale di guerra. Finiva oltre un ventennio di soprusi, di privazioni, di promesse di grandezza, concluso nella più nera povertà. Oggi viviamo la ricorrenza nel nome dei combattenti, dei caduti e di quanti hanno sfidato il fascismo per l’avvenire nostro e dell’Italia tutta. Grazie combattenti, grazie donne, preziosissime avanguardie e staffette, grazie al vostro coraggio, allo spirito di fratellanza sempre presente in ogni vostra azione, anche quando sottoposti a torture vi sacrificaste per tacere fino alla morte. Onore a voi, alle vostre famiglie, ai vostri cari che oggi esprimono continuità, perché avete conquistato degnamente un posto glorioso nella moderna Storia d’Italia. Oggi siamo in piazza per ricordarvi, per onorarvi, per stringerci solidarmente in un abbraccio ideale e per dirvi che la battaglia continua nel vostro nome, senza tradire gli scopi per i quali siete morti: libertà e giustizia. Democrazia e lavoro. Guerrino Bellinzani
sezione di Pioltello - Limito - Rodano
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1-8 marzo 1944: «Sciopero generale!»
L’OPPOSIZIONE AL NAZI-FASCISMO IN FABBRICA DIVENNE DECISIVA
Un balzo verso l’insurrezione
da Pietro Secchia e Cino Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano, G. Einaudi Editore, Torino, 1958, pp. 179-183
M DI
PIETRO SECCHIA
entre era in corso l’offensiva tedesco-fascista contro le formazioni partigiane, il Comitato di agitazione del Piemonte, Lombardia e Liguria aveva proclamato lo sciopero generale in tutta l’Italia occupata. Ciò infliggeva al nemico uno dei più duri colpi, lo obbligava a spostare le sue forze verso i grandi centri industriali, alleggeriva la pressione sulle unità partigiane e soprattutto avrebbe ridato possente slancio ai lavoratori delle città e delle campagne e alle formazioni provate dai combattimenti. Lo sciopero generale preparato durante alcuni mesi di lavoro, riuscì in modo grandioso e superiore ad ogni aspettativa, fu certamente il più vasto movimento di massa che abbia avuto luogo in Europa durante la guerra, nei territori occupati dai tedeschi(1). I grandi centri industriali di Milano e Torino furono per otto giorni completamente paralizzati. A Milano durante tre giorni scioperarono compatti anche i tranvieri, i postelegrafonici e gli operai del Corriere della Sera. Lo sciopero si estese dal Piemonte e dalla Lombardia al Veneto, alla Liguria, all’Emilia ed alla Toscana. Due milioni di operai parteciparono al movimento appoggiato da forti manifestazioni di contadini e di donne della campagna, specialmente nell’Emilia. Tutte le misure preventive e repressive della polizia fascista e delle SS non riuscirono ad impedire, né a limitare lo sciopero, malgrado che il nemico ne conoscesse la data e gli obiettivi. Con lo sciopero generale i lavoratori chiedevano l’indispensabile per vivere, chiedevano di non lavorare per la guerra, di poter essere liberi nelle loro case, di non essere fermati, arrestati, deportati, torturati dai nazifascisti, chiedevano che i loro figli non fossero arruolati dallo straniero.
Ancora una volta i grandi industriali si dimostrarono in generale solidali con gli occupanti tedeschi; salvo casi singoli si rifiutarono di trattare e di ricevere le delegazioni operaie, arrivarono persino a passare ai tedeschi le liste degli operai scioperanti compiendo a fondo l’opera di aperto tradimento della nazione in guerra. Anche se nessuna delle rivendicazioni economiche che erano alla base dello sciopero rivendicativo-politico venne ottenuta, anche se gli operai dovettero riprendere il lavoro con le paghe di prima, lo sciopero segnò un grande successo per i lavoratori ed una dura sconfitta per i fascisti. La macchina di guerra nazista ricevette un serio colpo, per una settimana la produzione bellica in tutta l’Italia del nord venne arrestata.
Una battaglia vinta
Gli scioperi del marzo del 1943 avevano segnato l’approssimarsi della fine del fascismo, lo sciopero generale del 1-8 marzo 1944 significò un grande balzo in avanti verso l’insurrezione generale, una battaglia vinta contro le forze fasciste-hitleriane(2). Durante lo sciopero generale si ebbe una magnifica prova di unità e di solidarietà di tutte le forze patriottiche raggruppate attorno ai Comitati di liberazione nazionale
In armi. Una squadra d’autodifesa operaia della Breda di Sesto San Giovanni
ed in modo particolare da parte delle classi lavoratrici. Tale unità non fu certo realizzata senza contrasti, tant’è vero che lo sciopero generale già fissato per la metà di febbraio dovette esser rinviato. In seno al CLNAI sostennero la decisa volontà dei Comitati di Agitazione e dei comunisti specialmente il Partito d’azione e il PSI. Ma non furono poche le resistenze che si dovettero superare. In ogni regione, i gappisti ed i partigiani appoggiarono il grandioso movimento operaio con audaci azioni contro i tedeschi ed i fascisti(3). A Torino i partigiani ed i gappisti organizzarono numerosi atti di sabotaggio, fermarono vetture tranviarie, interruppero linee elettriche e telefoniche. In provincia di Cuneo e nelle Valli di Lanzo, ove operava la brigata “GaribaldiCuneo”, tutti i treni che dalle valli alpine scendevano verso Torino furono fermati dai partigiani, che prelevarono fascisti e tedeschi e li fecero prigionieri. Il 1° marzo distaccamenti garibaldini, bloccata la linea ferroviaria Ceva-Ormea, procedettero, dopo un violento conflitto con un distaccamento di repubblichini, all’occupazione di Ceva. Entrati in città, i partigiani diedero l’assalto al municipio, dove era asserragliato un reparto tedesco, e lo costrinsero alla resa. Alle ore tredici i partigiani occupacontinua a pagina 12 ➔
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il fiore del partigiano Pietro Secchia e, sotto, la copertina del libro sulla stagione della Resistenza, scritto a quattro mani con cino Moscatelli
➔ segue da pagina 11 rono la stazione ferroviaria, fecero prigionieri altri tedeschi e fascisti e si impossessarono di numerose casse di bombe e armi trovate nei depositi. Alle tredici e trenta ripresero l’attacco assaltando la caserma dei carabinieri, che si arresero senza opporre resistenza. Alle quattordici e trenta l’azione era terminata ed i partigiani, centocinquanta in tutto, dopo aver requisito camion e macchine su cui caricarono le armi e le munizioni conquistate, partirono inneggiando all’Italia. A Milano le squadre gappiste interruppero a più riprese durante la settimana di sciopero le linee tranviarie e ferroviarie, tagliarono i fili della corrente elettrica, abbatterono piloni, asportarono tratti di binario, attaccarono con le armi pattuglie di militi repubblichini e di tedeschi uccidendone una dozzina e ferendone un gran numero. Tanto nel Veneto che nell’Emilia e nella Toscana le linee ferroviarie principali e secondarie furono interrotte in più punti, a Prato Toscana un treno carico di esplosivi fu fatto saltare.
In fabbrica l’aria è cambiata
Poiché nel Biellese, nella Valsesia e nell’Ossola la presenza di forti formazioni partigiane avrebbe assicurato la completa riuscita dello sciopero generale, gli operai prima che lo sciopero fosse dichiarato vennero messi «in ferie». In alcune località come a Grignasco, a Gattinara, a Varallo, a Borgosesia, ad Omegna, a Novara e a Vercelli dove gli operai non erano stati messi in vacanza lo sciopero riuscì completamente. A Novara città, un tentativo di reazione fascista si ebbe alle officine meccaniche Sant’Andrea dove intervenne un gruppo della “Muti” ed il fascista Belloni tentò di arringare gli operai. L’energico comportamento dei lavoratori impedì al gerarca di parlare e costrinse i fascisti ad allontanarsi. Nell’interno di molti stabilimenti e nelle strade ad essi adiacenti avevano luogo comizi volanti, tenuti in molti casi da oratori improvvisati ed anche da partigiani. La partecipazione dei garibaldini alla lotta generale degli operai suscitava grande entusiasmo tra i lavoratori. Moscatelli tenne un comizio alle maestranze della Elli Zerboni (una fabbrica torinese sfollata a Varallo); quando finì di parlare tutti i quattrocento operai chiesero di essere arruolati in massa nelle formazioni, e non fu facile convincerli che dovevano considerarsi, nella fabbrica, come partigiani combattenti. L’organizzazione delle SAP trovava un terreno fertilissimo nelle città e particolarmente tra gli operai.
Una lotta comune
Eravamo quasi al termine del primo terribile inverno di guerra. Lo sciopero generale dava ai partigiani, duramente provati dalle fatiche e dalle privazioni imposte dalla rigida stagione, la testimonianza che essi non erano soli nella lotta. La grande maggioranza dei giovani combattenti nelle formazioni, allo stesso modo di quelli che lavoravano nelle fabbriche, conoscevano per la prima volta il valore di questa arma potente: lo sciopero generale; conoscevano per la prima volta la grande forza dell’unità della classe operaia. Durante tutto il 1944 e sino al momento dell’insurrezione di aprile la fabbrica fu il fulcro della lotta contro i tedeschi e i fascisti, le agitazioni degli operai appoggiarono le azioni partigiane e queste a loro volta contribuirono a rendere più facile il successo delle rivendicazioni dei lavoratori. Non solo le formazioni garibaldine diedero sempre il loro appoggio agli operai durante gli scioperi, ma intervennero spesso direttamente presso gli industriali in favore dei lavoratori per chiedere il rispetto dei contratti, degli orari di lavoro, il riconoscimento delle commissioni interne. Il generale Cadorna, nel suo libro La Riscossa(4), pubblica un rapporto certamente stilato da qualche tirapiedi di un grande industriale, nel quale l’anticomu-
nismo sprizza da ogni riga, tuttavia tolte le esagerazioni, esso conferma lo stretto legame che vi fu sempre tra le azioni dei partigiani e la lotta degli operai. «Tutti i capi delle formazioni garibaldine sono comunisti: la loro propaganda fra gli operai e i salariati in genere è molto attiva, cercano di accattivarsi l’animo della popolazione mostrandosi quali paladini della classe operaia, estorcendo dagli industriali con la minaccia delle armi contratti di lavoro sproporzionatamente favorevoli con condizioni tali da impedire il normale andamento dell’industria. Con tutto questo forzano la mano dei CLN i quali sono costretti a ratificare il fatto compiuto». In realtà le formazioni garibaldine intervennero sempre soltanto per appoggiare le giuste rivendicazioni dei lavoratori, per impedire quando questo era possibile - che la produzione fosse consegnata ai tedeschi, operando in modo energico nei confronti di quegli industriali che collaboravano col nemico. Numerosi documenti stanno a testimoniare come l’intervento dei partigiani contro società e singoli industriali fosse motivato da fini altamente patriottici: agire contro coloro che con ordinanze all’interno delle fabbriche tradivano la patria. NOTE
1) cfr. leo valiani, tutte le strade conducono a Roma, “nuova italia”, p. 154: «i comunisti sono ottimisti al punto da ritenere possibile l’organizzazione di un grande sciopero generale in tutte tre le regioni industriali: piemonte, lombardia, liguria. ne avrò altri dettagli a milano dove devono trovarsi longo e secchia al centro di tutto il movimento proletario».
2) cfr. Joseph John marus (candidus), Radio Londra, 20 marzo 1944: «gli scioperi avvenuti nell’italia settentrionale dall’1 all’8 marzo, organizzati, condotti, conclusi con una precisione, una disciplina e un coraggio finora mai visti in tutta l’europa occupata, hanno avuto nella stampa internazionale il riconoscimento che meritano. ora che sono giunti dall’italia più precisi particolari sulla natura, l’andamento e la portata del moto, i giornali non esitano a definirlo come il più coraggioso sciopero che si ricordi, data l’eccezionalità delle condizioni e le difficoltà e i pericoli in mezzo ai quali si è svolto».
3) cfr. p. greco, cronaca del c.L.n. Piemontese, istituto storico della resistenza, torino, p. 119: «crescente sviluppo ed espansione delle formazioni garibaldine specialmente per opera di colajanni (barbato) e moscatelli. intensa loro attività di guerriglia e sabotaggio; 1-15 marzo 1944». 4) r. cadorna, La Riscossa, rizzoli, milano.
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il fiore del partigiano
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I NAZISTI NON HANNO MAI FATTO SCAMBI TRA COMBATTENTI E PRIGIONIERI
Fosse Ardeatine Le menzogne dei post fascisti
24 marzo 1944-2014. omaggio alle vittime della strage delle Fosse ardeatine (foto eidon). Sotto, rastrellamento negli immediati dintorni di via Rasella a Roma in una immagine d’archivio
Falsa la tesi sull’evitabilità della strage
A di
da MicroMega n° 2/2014
FURIO COLOMBO
nniversario della strage delle Fosse Ardeatine. Quel giorno, il 24 marzo del 1944, 355 italiani, già prigionieri, molti di loro ebrei, sono stati massacrati, per ordine di Hitler, da ufficiali e soldati tedeschi che occupavano Roma. Era la loro “rappresaglia” per l’attentato avvenuto poche ore prima in via Rasella, nel centro di Roma. Dove tre partigiani (tra i pochissimi italiani che a Roma hanno combattuto la feroce occupazione e le torture sistematiche di tedeschi e fascisti in via Tasso), erano riusciti ad attaccare con esplosivo un reparto tedesco, uccidendo 30 militari occupanti. I tre combattenti italiani, Rosario Bentive-
gna, Pasquale Balsamo e Carla Capponi, pur insigniti della medaglia d’oro al valor militare, sono stati perseguitati tutta la vita da ciò che è restato e resta del conformismo e della "zona grigia" italiana (coloro che non si immischiano mai e si fingono sempre equidistanti), con la seguente ragione, sostenuta con vigore dai post fascisti che tentano di scansare l’orrore di cui i loro predecessori e ispiratori sono stati causa diretta: i tre partigiani dovevano consegnarsi e avrebbero evitato la strage. Infatti, il giorno stesso della pubblicazione di un mio testo su "Il fatto quotidiano” ho ricevuto la lettera che riporto testualmente. «Caro Furio Colombo, i tre studenti dell’attentato di via Rasella non erano soldati con le stellette ma erano tre sprovveduti. Se erano intelligenti se lo dovevano im-
maginare che ci poteva essere una rappresaglia. Se credevano di essere eroi come tu li hai descritti si dovevano consegnare. Un altro Salvo D’Acquisto deve ancora nascere. Giuseppe». La lettera, nella sua illogicità, si spiegherebbe da sola. Ma questa volta, e ogni anno e in ogni occasione in cui si parla di via Rasella o delle Fosse Ardeatine, arrivano decine di lettere uguali a questa. Supponiamo la buona fede, perché la disinformazione è una industria attivissima e coloro che speculano su «orrende storie» della Resistenza, che hanno cominciato a ricordare decenni dopo (una volta scoperto che con quelle storie si guadagna moltissimo), si moltiplicano in libreria. E rispondiamo con paziente precisione. continua a pagina 14 ➔
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➔ segue da pagina 13 Primo: tutta la guerra della Resistenza italiana (che voleva dire guerra contro il fascismo, contro il razzismo, contro l’occupazione tedesca) non ha mai avuto stellette o uniformi. Era clandestina come quella francese, come tutta la Resistenza europea. Resistenza significava eliminare, sia pure in piccola parte, i militari stranieri occupanti e i loro complici fascisti, e rendere sempre più difficile la loro attività. Tale attività consisteva nella cattura e tortura degli avversari e dei resistenti politici, nel terrorizzare la popolazione civile con stragi perché non prestasse aiuto «ai banditi», nella cattura ed eliminazione di tutti gli ebrei rintracciabili, compresi i neonati e i malati. Secondo. Carla Capponi, Rosario Bentivegna e Pasquale Balsamo non si sentivano affatto eroi. Si sentivano in dovere di fare, qualunque fosse il rischio, tutto il danno possibile al nemico. I tedeschi occupanti, aiutati dai fascisti che avevano abbandonato l’Italia legale, erano il nemico. I tre di via Rasella, in una Roma quasi senza Resistenza, hanno colpito giusto. Bisognava che tedeschi e fascisti sentissero il pericolo di una vera guerra di popolo contro di loro anche se a rischiare e a combattere, a Roma, erano in pochi. Terzo. «Dovevano consegnarsi». Perché? Non è mai accaduto e non deve accadere, perché renderebbe inutile quella momentanea, ma importante, battaglia vinta. Non deve accadere perché i comandanti tede-
Se l’Italia dimentica i suoi connazionali
(già prigionieri a Regina Coeli), come vendetta per i trenta soldati morti nell’attentato. A Hitler importava poco, per l’azione esemplarmente crudele che aveva da la repubblica del 7/6/2013 subito deciso, di avere o non avere lettere al direttore tre prigionieri in più. Inoltre non i sono da poco recato ad auschwitz avrebbero rinunciato perché stae sono rimasto molto colpito della vano mandando a morte un nugrande affluenza di giovani, nelle cui mero molto alto di ebrei, e il facce attonite traspariva una composta punto che stava a cuore a Hitler e partecipazione ed un accorato rispetto ai suoi ufficiali era che fossero per quei luoghi che furono teatro delebrei, il reato più grave, in quel l’immane tragedia causata dalla follia momento di follia della Storia. nazista. grande però è stato il mio diChi insiste nel presunto dovere di sappunto nel constatare la totale asconsegnarsi dei tre mente due senza delle nostre istituzioni. infatti, volte. La prima è perché non era mentre molti altri paesi europei e no, possibile. Quando si è saputo di hanno esposto in appositi siti del museo via Rasella il comunicato era setestimonianze per onorare la memoria guito dalle parole: «La sentenza è dei loro connazionali, lo spazio destinato già stata eseguita». a noi è stato chiuso al pubblico perché La seconda è che, se lo avessero mancano i fondi per gestirlo. fatto, niente e nessuno avrebbe risparmiato i morti delle Ardeatine Giorgio Maurizi (dieci per ogni soldato tedesco, decisione immediata di Hitler). Ma i tre sarebbero morti di torschi sono gli stessi che hanno appena cat- ture a via Tasso nel tentativo di sapere altri turato e deportato tutti gli ebrei di Roma nomi della Resistenza a Roma. che hanno potuto trovare, dopo averli de- Il nome di Salvo D’Acquisto è una provorubati («come garanzia di salvezza», ave- cazione con cui si usa un grande italiano, vano detto) di tutto l’oro che avevano. Non che si è offerto (in una rappresaglia che deve accadere perché la principale attività non è affatto stata evitata) di prendere il tedesca e fascista nella Roma dove il Papa posto, in una fucilazione collettiva, di un tace, è la pratica ininterrotta della tortura padre di famiglia con figli. I tedeschi hanno in via Tasso. accettato la sostituzione di uno. Ma hanno Non può accadere perché la rappresaglia è sterminato tutti gli altri. stata decisa subito e subito è stato stabilito Dunque su vicende del genere sarebbe che dovevano morire dieci italiani per ogni bene non negare e non mentire e non far soldato tedesco, dunque più di trecento finta di non sapere.
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Dopo settant’anni, è stata fatta giustizia?
LA VERITÀ SULLA STRAGE DELLE FOSSE ARDEATINE NON È ANCORA SENSO COMUNE
D di
da il manifesto del 23 marzo 2014
ALESSANDRO PORTELLI
opo settanta anni, possiamo dire che è stata fatta giustizia per le Fosse Ardeatine? Non parlo solo della giustizia dei tribunali, anch’essa peraltro abbastanza inadeguata, dalla fuga di Kappler con le complicità statali fino alle vicissitudini del processo Priebke e alla farsa seguita alla sua morte. Questa giustizia può, qualche volta, punire i colpevoli, ma non rendere giustizia alle vittime perché ha comunque un ambito necessariamente e giustamente limitato: tratta il “caso” da un punto di vista strettamente penale e individuale e lascia a noi la responsabilità di una giustizia più vasta, che riguarda i sentimenti, la società e la storia. Su questo piano, l’ingiustizia continua. Ci si aspetta a volte che la condanna dei colpevoli ponga in qualche modo fine alla
sofferenza delle vittime dirette: le famiglie, le comunità, le persone care degli uccisi. Ora, a parte il fatto che questa condanna è stata riluttante e insufficiente, questo non è comunque vero: dopo la condanna ci si accorge che nessuno ti restituisce quello che hai perduto. In più, se è vero che la strage delle Fosse Ardeatine è un crimine contro l’umanità, allora – in modo certo meno violento e immediato – vittime siamo anche noi, ed è su questo piano che l’ingiustizia soprattutto continua. Si discute in questi giorni dell’introduzione di una legge contro il negazionismo sulla Shoah. Ora, a parte le perplessità diffuse su questa ipotesi, resta il fatto che il negazionismo è in larga misura un fenomeno di nicchia, e che una sensibilità di gran lunga maggioritaria non solo non nega lo sterminio ma lo riconosce come una delle colpe più spaventose che l’umanità ha commesso contro se stessa. Sulle Fosse Ardeatine, invece, permane un
negazionismo che si fa senso comune: nessuno andrebbe in televisione a dire che la Shoah non è mai avvenuta, ma personaggi ignoranti, protervi e molto influenti hanno continuato spacciare menzogne su via Rasella e le Fosse Ardeatine senza che su loro si abbattesse lo sdegno della maggioranza (e senza che venissero sbattuti fuori per manifesta incompetenza professionale). Fino a quando questo sarà possibile, fino a quando le istituzioni, la scuola, il sistema dell’informazione non sentiranno loro la ferita delle Fosse Ardeatine, fino a quando continueremo a non guardare in faccia la materialità del massacro per inventare e alimentare leggende nere sui partigiani, non basteranno corone apposte per dovere d’ufficio e commemorazioni di routine. Fino a quando la verità non diventerà senso comune e il dolore per le Fosse Ardeatine non diventerà dolore di noi tutti, le vittime continueranno ad essere sole, e giustizia non sarà stata fatta.
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Via Rasella è sempre quella
LE VICENDE DEI GAP SONO APPENA STATE RIORDINATE E DIGITALIZZATE
Ora lo certifica anche l’Archivio storico del Senato
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da il manifesto del 24 marzo 2014
DAVIDE CONTI
a strage delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944 segnò uno dei momenti più tragici della storia della Roma occupata dai nazifascisti. La sua stessa memoria ha più di altri episodi diviso l’opinione pubblica, scindendo da un lato i fatti della storia e dall’altro le fantasie della vulgata antipartigiana. Il settantesimo anniversario della strage, celebrato ieri dalle massime autorità dello Stato e della città, da Napolitano a Marino a Zingaretti, assume un significato fondamentale e riesce non retoricamente a rendere omaggio alle vittime se collocato non solo nella memoria dei parenti, ma nella storia della capitale. L’AVANGUARDIA CLANDESTINA Nella Roma occupata dai nazisti le formazioni dei Gruppi di Azione Patriottica (Gap), costruite in clandestinità dal Partito comunista, sotto la responsabilità del comando militare di Giorgio Amendola, rappresentarono l’avanguardia più efficace, strutturata ed efficiente della Resi-
La famosa sequenza del film “Roma, città aperta” di Rossellini: la corsa disperata di Pina (anna Magnani), poco prima di essere uccisa dai soldati tedeschi. In alto, Rosario Bentivegna, che partecipò all’azione dei Gap in via Rasella, vestito da netturbino
stenza armata nella capitale. Organizzati da Antonello Trombadori, nome di battaglia “Giacomo”, i Gap centrali si articolarono in due reti, guidate rispettivamente da Carlo Salinari “Spartaco” e da Franco Calamandrei “Cola”, a loro volta composte dai gruppi operativi Gramsci, comandato da Mario Fiorentini; Pisacane, comandato da Rosario Bentivegna; Sozzi e Garibaldi di cui furono membri, tra gli altri, Marisa Musu, Maria Teresa Regard, Ferdinando Vitagliano e Francesco Curreli.
DECINE DI AZIONI DI GUERRA Divisa la città di Roma in otto zone operative i Gap realizzarono decine di azioni di guerra contro le truppe occupanti naziste e i collaborazionisti fascisti. La Roma in cui agirono era quella delle deportazioni nei lager del 7 ottobre 1943 di oltre duemila carabinieri e del 16 ottobre di 1.024 ebrei del ghetto; quella delle camere di tortura di via Tasso, delle pensioni Jaccarino e Oltremare; delle fucilazioni di Forte Bravetta; della strage delle Fosse Ardeatine, del coprifuoco e ancora del rastrellamento del Quadraro del 17 aprile 1944, o della strage della Storta del 4 giugno. L’ARCHIVIO DEI GAP Nell’anno del settantesimo anniversario della Liberazione di Roma, le drammatiche vicende della capitale occupata e l’intera attività militare dei Gap sono ricostruite da un’ampia mole di documenti che l’Archivio Storico del Senato della Repubblica ha raccolto, riordinato e digitalizzato, nel corso degli ultimi tre anni, grazie alle donazioni che i partigiani ancora in vita o i loro familiari hanno fatto dei loro archivi personali. Sono stati costituiti così i fondi archivistici, aperti al pubblico, intitolati a Calamandrei-Regard; Rosario BentivegnaCarla Capponi e, in stato di lavorazione e di prossima presentazione in occasione del 25 aprile, Mario Fiorentini-Lucia Ottobrini. I materiali documentari costituiscono,
pur nelle specificità di ogni fondo e nella comprensione di un più ampio arco storico-cronologico coincidente con la vita pubblico-politica dei protagonisti, un vero e proprio archivio dei Gap di Roma e segnano un significativo passaggio di ricostruzione della storia della Resistenza nella capitale. DOPO LA “PRIMA REPUBBLICA” Insieme alle vicende della lotta di liberazione (dalle azioni militari alle missioni coperte con le reti dell’Office Strategic Service statunitense; dalle modalità operative clandestine ai riconoscimenti e ai processi subiti nel dopoguerra) scorrono nelle carte le questioni centrali della guerra della memoria emersa con vigore revisionista dopo la fine della cosiddetta “prima repubblica”, quella nata dalla Resistenza. Sono i documenti conservati nei fondi dei Gap a prendersi carico di destrutturare le pretestuose e pericolose argomentazioni del revisionismo storico. Cadono così, uno dopo l’altro, i falsi miti della vulgata antipartigiana incentrati sulla contestazione di legittimità delle azioni di guerra, sull’infinita polemica strumentale delle destre variamente intese contro le radici resistenziali della Costituzione ed in ultimo la sostituzione della storia con le memorie individuali e le narrazioni empatiche, quelle per intenderci che ancora oggi a Roma spingono persone a giurare di aver visto inesistenti manifesti che invitavano i gappisti a consegnarsi ai tedeschi per evitare la strage delle Ardeatine come vendetta per l’attacco di via Rasella. Viene restituito in questo modo alla città di Roma, come ultima eredità dei padri della Repubblica, un pezzo irrinunciabile della sua storia e allo stesso tempo viene riconosciuto ai suoi figli migliori, che del peso di una scelta lacerante come quella della lotta armata al nazifascismo si vollero far carico, non tanto l’onore della retorica celebrativa, quanto l’identificazione assoluta di aver combattuto dalla parte giusta. Quella di chi, come scriveva Bentivegna in una lettera degli anni settanta ad Amendola e Trombadori, in luoghi come via Rasella «c’era stato perché ci voleva stare. C’era sempre rimasto e c’è ancora».
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il fiore del partigiano
Il prete e il comunista
ENTRAMBI DI TERLIZZI (BARI), SI RITROVARONO A ROMA, AMICI E ANTIFASCISTI
Don Pietro Pappagallo e Gioacchino Gesmundo, morti per la libertà
I di
da l’Unità del 28 febbraio 2014
WLADIMIRO SETTIMELLI
miracoli della Resistenza e della Guerra di Liberazione sembrano non finire mai. Sono infatti centinaia e centinaia gli episodi incredibili di quegli anni tragici e terribili: il sacerdote che suona all’organo Bandiera rossa per i partigiani, gli uomini del Comitato di Liberazione Alta Italia che ordinano l’insurrezione di Milano da un convento di suore che ospitava prostitute e la monaca, poi decorata di medaglia d’argento, che nascondeva i partigiani in un luogo segreto della Chiesa. E ancora i prigionieri russi che, liberati, accorsero in montagna. O i finanzieri-garibaldini che passarono alla Resistenza sul lago di Como e arrestarono Mussolini. E poi i generali e gli ufficiali dell’esercito che obbedirono, nelle azioni, ai contadini e ai montanari. Ed ecco i carabinieri della Scuola allievi di Roma che andarono a combattere, con i soldati e con i civili, a Porta San Paolo e mangiarono il pane di quel fornaio che venne ucciso dai paracadutisti tedeschi alla Montagnola. E ancora l’ufficiale tedesco che passò con i partigiani a La Spezia e morì nel corso di un assalto, proprio come il nobilissimo piemontese che scelse la Resistenza e che tutti conoscevano con il nome di battaglia di «Chopin». Morirà eroicamente. E a Roma, nella Basilica di San Paolo, ecco gli antifascisti travestiti da preti, i generosi combattenti della Brigata ebraica e i soldati del nuovo Esercito italiano che attaccarono a Montelungo, proprio come gli artiglieri di Pampaloni a Cefalonia. Un incredibile spaccato dell’Italia migliore, così diversa e variegata, che si era messa insieme «non per odio, ma decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo». E politicamente? Politicamente altrettanto diversi tra loro gli uomini della Resistenza: cattolici, comunisti, socialisti, azionisti, liberali, repubblicani, democristiani, monarchici, ragazzi di Bandiera rossa e i senza partito. E poi ancora operai, contadini, spazzini, ferrovieri, poeti, scrittori, ex repubblichini, carabinieri, ufficiali dell’esercito, aviatori, marinai, finanzieri, carabinieri, giornalisti, operai del gas, delle grandi fabbriche, delle centrali elettriche e telefoniche, casalinghe, studentesse e studenti, suore e preti, medici e professori di scuola, rappresentanti, bottegai, zingari e
Terlizzi. Il monumento di Pietro Scisciolo dedicato a don Pappagallo, al professor Gesmundo e agli altri martiri delle Fosse ardeatine
persino qualche ladro. Un vero e proprio gran miracolo quel loro ritrovarsi l’uno accanto all’altro a combattere per la libertà, contro i nazisti e i fascisti. COME PEPPONE E DON CAMILLO E ora l’ultimo caso singolare di questa “unione”: un monumento, alto tre metri e mezzo, a Terlizzi (Bari), inaugurato una manciata di mesi fa, in Largo della Ginestra, senza che nessuno ne abbia parlato nel resto d’Italia. È opera dello scultore Pietro Scisciolo ed è stato pagato da un comitato cittadino e dalla Camera dei deputati. Il complesso, dedicato anche ad altri martiri della libertà, raffigura insieme, nell’attimo della morte alle Fosse Ardeatine, un prete e un comunista, un filosofo. Sono don Pietro Pappagallo e il professor Gioacchino Gesmundo, insegnante al «Cavour» di Roma. Non sappiamo se il monumento
sia l’unico del genere in Italia (un sacerdote e un comunista scolpiti insieme nel bronzo) o se in qualche altro angolo del Paese ci sia qualcosa di simile. Pappagallo e Gesmundo, tra l’altro, sono stati decorati con la medaglia d’oro: il primo al merito civile e il secondo al merito militare. Le loro storie sono bellissime ed eroiche. E le ha raccontate molto bene il professor Antonio Lisi, nel suo notissimo libro dedicato a don Pietro. Nati tutti e due a Terlizzi, Pietro e Gioacchino si conoscevano fin da ragazzi. Le loro strade, ad un certo punto, si erano divise per poi tornare ad incrociarsi a Roma, durante l’occupazione nazista. In quei giorni, si erano incontrati decine e decine di volte, tra mille precauzioni. Fu subito chiaro che erano, comunque, dalla parte della Resistenza. Per questo pagheranno con la vita. Peppone e don Camillo erano di là da venire e nei giorni della lotta e del terrore c’era davvero poco spazio per lo scherzo, la battuta, il confronto e lo scontro spiritosi. Eppure, i due di Terlizzi, ora sono insieme su quel monumento. Don Pietro, quinto di otto fratelli, era figlio di un cordaio ed era stato ordinato sacerdote nel 1915. A Roma era arrivato nel 1925 per studiare diritto canonico e lo avevano mandato a gestire, come assistente spirituale, il convitto della Snia Viscosa. Così, il sacerdote, era entrato in contatto con gli operai e si era battuto, insieme a loro, contro le condizioni di lavoro disumanizzanti. Lo avevano subito cacciato. Quello strano «sindacalista», dava noia. Poi, il sacerdote, lo avevano messo ad occuparsi di un convento di suore nei pressi di Santa Maria Maggiore. È allora che don Pietro si ritrova con Gesmundo. Il sacerdote è diventato, per chissà quali vie misteriose, uno specialista in timbri e documenti falsi. Aiuta chi è in fuga: ex militari soprattutto, ma anche perseguitati politici ed ebrei. Casa sua, in via Urbana 2, nel cuore di Roma, era sempre un via vai di gente in cerca di aiuto. Gesmundo, invece, si era trasferito a Roma nel 1928. Ultimo di sei figli aveva perso molto presto padre e madre. Nel 1932 aveva insegnato a Formia, e Pietro Ingrao lo ricorda come un professore straordinario, aperto e in stretto contatto con gli allievi. Tornato a Roma, Gioacchino si era subito iscritto al Partito comunista ed era entrato in contatto con il gappista Mario Fiorentini, per il quale nascondeva armi e munizioni. Inoltre, distribuiva l’Unità clan-
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il fiore del partigiano destina e i manifestini della Resistenza. Pacchi del giornale comunista finivano anche in casa di don Pietro e un giorno Gesmundo aveva detto all’amico: «Tieni, leggi l’Unità» e don Pietro aveva risposto: «Leggerò l’Unità quando tu leggerai il Vangelo» e tutti e due erano sbottati a ridere. IL TRADIMENTO Qualche giorno dopo don Pietro aveva accolto un giovane in casa per i soliti documenti falsi, ma era un delatore che lo avrebbe fatto arrestare. Il sacerdote era stato trasferito subito in via Tasso. Qui, la nota spia Scarpato, lo aveva colpito con un pugno in pieno volto e poi lo aveva preso a scudisciate. Don Pietro era finito in una cella con altri. I nazisti, ogni giorno, lo sfottevano: lo chiamavano il «prete comunista», lo «scarafaggio nero». A volte lo salutavano a pugno chiuso. Un giorno, in un corridoio, don Pietro aveva visto il suo caro compagno Gioacchino. Avevano preso anche lui e ora due «SS» lo stavano riportando in cella trascinandolo per le braccia: Gesmundo, torturato per ore, non riusciva a reggersi in piedi. Di don Pietro, i compagni di cella hanno raccontato molto. Leggeva il breviario, dicono, e cercava di spiegare. Si prendeva cura, un’ora dopo l’altra, del povero brigadiere dei carabinieri Angelo Ioppi (medaglia d’oro della Resistenza) accucciato sul pavimento e ammanettato per 52 giorni. I torturatori gli avevano strappato i denti, rotto le costole e schiacciato i piedi e lui, come un cane e con le mani sempre bloccate, mangiava e beveva da una ciotola messa per terra. Agli altri era proibito aiutarlo. Un giorno, per una perquisizione, a don Pietro era stato ordinato di spogliarsi come tutti. Lui aveva mostrato qualche difficoltà, perché non si era mai mostrato nudo in pubblico e si considerava un vecchio e brutto prete. Allora i compagni di cella, un gruppo di disperati, affamati, infreddoliti e pieni di paura, senza dire una parola, lentamente e con grande fatica, si erano girati verso il muro per non vedere e per dare il tempo a don Pietro di spogliarsi e rivestirsi. Degli ultimi minuti di vita del sacerdote parla anche il medico austriaco Joseph Reider, disertore, avviato alle Ardeatine, legato ad un polso del fucilando. Racconta che sul piazzale delle Cave, tra i morituri, si era formato una specie di ingorgo. Dice Reider: «vicino a me vidi il colonnello Rampolla, il generale Simoni, l’avvocato Martini, un certo Forti e un certo colonnello Montezemolo che aveva il viso gonfio dalle botte, e che cercava di tenersi in piedi con grande dignità. Io, intanto, ero riuscito a liberarmi. Qualcuno gridò a don Pietro: Padre ci benedica. Lui alzò la mano e cominciò a pregare. Poi si avviò nel buio della cava legato agli altri». Più tardi, tra i 335 corpi delle Ardeatine, oltre a quello di don Pietro, vennero recuperati anche i resti di Gioacchino Gesmundo, il professore magro magro e un po’ chiuso, il partigiano che si era sempre occupato di armi ma anche di stampa e manifestini.
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CONTRO GLI ABUSI DELLA FORZA PUBBLICA
Un decalogo per difendersi
da il manifesto del 12 marzo 2014
C’ di
PATRIZIO GONNELLA*
è un giudice a Varese. Si chiama Giuseppe Battarino e ha disposto che si proceda all’imputazione di due carabinieri e sei agenti di polizia per omicidio preterintenzionale e arresto illegale per la morte di Giuseppe Uva. I fatti risalgono all’oramai lontano 2008. Un altro giudice, Agostino Abate, nella sua veste di pubblico ministero aveva invece chiesto l’archiviazione del caso. Contro di lui l’ex ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare per come erano state condotte le indagini. Non era più chiaro infatti chi era la vittima, chi l’accusato, chi i testimoni. Era stata prodotta una confusione di ruoli a difesa di una verità pre-esistente alla giustizia. Probabilmente anche nel caso Uva si riuscirà ad andare a processo per le violenze avvenute in una camera di sicurezza delle forze dell’ordine. C’è un altro giudice, questa volta a Bari. Si chiama Giovanni Anglana. Ha riaperto le indagini sulla morte di Carlo Saturno nel carcere di Bari avvenuta più o meno tre anni fa. Anche in questo caso c’era stato un pm che aveva chiesto l’archiviazione. Nel caso del giovane Carlo la storia era ancora più complessa. Qualche anno prima, quando da ragazzino era finito nel carcere minorile di Lecce, aveva denunciato alcuni poliziotti penitenziari per le violenze efferate subite. In quel caso il pubblico ministero aveva proceduto. Si era arrivati al dibattimento. Saturno si era costituito coraggiosamente parte civile. Tornato in carcere da maggiorenne a Bari pare si sia suicidato in una cella di isolamento. In quegli stessi giorni il processo per le violenze subite a Lecce si estingue per prescrizione. Ora il giudice chiede che si indaghi ancora. Alcune ferite al viso, al capo e all’orecchio destro non lo hanno convinto. La causa della morte torna in discussione.
Queste sono due storie diverse dove chi deve indagare sceglie la via burocratica dell’archiviazione e chi deve giudicare chiede che si indaghi meglio. Viene da dire che qualcosa non torna nella giustizia italiana. Allora proviamo a redigere un decalogo a cui affidarsi affinché nei casi di violenza istituzionale ci si possa quanto meno approssimare alla verità storica. 1. Si introduca subito il delitto di tortura nel codice penale in modo che fatti gravi non siano trattati giudizialmente come minimali o secondari. 2. Si prevedano tempi non brevi di prescrizione. I processi per casi di questo genere sono difficili, lunghi. Richiedono dunque indagini meticolose che rompano il muro dell’omertà. 3. I Ministeri competenti avviino procedimenti disciplinari nei confronti dei presunti responsabili senza attendere gli esiti lunghi dei processi penali. 4. La prescrizione giudiziaria non deve mai essere valutata in sede disciplinare quale causa giustificativa di una decisione di assoluzione e di permanenza in servizio. 5. Si approvi un codice etico di condotta come quello suggerito dall’Onu per chiunque operi nei settori dell’ordine pubblico e della sicurezza. 6. Presso le Procure si istituiscano sezioni specializzate in fatti di questo genere che usino nelle indagini personale inter-forza di polizia il quale a sua volta sia adeguatamente esperto e formato. 7. Non si unifichino i processi per le violenze con quello per calunnia nei confronti della persona che ha sporto denuncia. L’unificazione dei procedimenti rende indistinguibili vittime e carnefici. 8. Una volta arrivati a dibattimento lo Stato si costituisca parte civile in modo da sottrarre le mele marce alla difesa pregiudiziale del corpo di appartenenza. 9. Si proteggano i testimoni che hanno il coraggio di raccontare quanto visto. Se i testimoni sono a loro volta detenuti li si trattenga in luoghi del tutto sicuri dove non entrino mai in contatto con le persone sotto accusa. 10. Lo Stato interrompa le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che offrono tutela legale a coloro i quali si macchiano di delitti di questo genere. 11. Si preveda un obbligo di visita medica. *Presidente di Antigone
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Moretto, il pugile del Ghetto a mani nude contro i nazisti
LE STRADE DI ROMA FURONO IL RING DELL’«EBREO RIBELLE» DIFENSORE DEI PIÙ DEBOLI
N di
da l’Unità del 17 marzo 2014
STEFANIA MICCOLIS
ella sua testimonianza alla Shoah Foundation, Pacifico di Consiglio, il ribelle del ghetto, conclude con queste parole: «Ci sono stati milioni di persone sterminate solo perché di religione ebraica. Vorrei che i giovani non lo dimenticassero mai, perché senza memoria non c’è storia. Anche per Israele sogno una pace duratura con i suoi vicini». In punto di morte nel 2007, in giudaico romano, il suo messaggio fu «fate bavelle», non piegatevi mai. Quest’uomo di «religione ebraica» - e sottolineava, non di «razza ebraica» - indotto a passare all’azione dagli eventi dell’ingiustizia, aveva un animo puro, alla continua ricerca di una pace per il suo popolo. Non smetteva di pensare agli ebrei, perseguitati o discriminati, soggetti a continue vessazioni e sofferenze; la sua missione era di proteggerli e difenderli. Assorbito da ideali e passioni, senza vie di mezzo, con una carica carnale, spinto da un profondo senso di giustizia, lottava per difendere le vittime dalla «banalità del male», con un atteggiamento di sfida nei confronti dei carnefici. Durante gli anni del fascismo e della guerra venne soprannominato il Moretto (e così verrà ricordato), per i suoi colori scuri e lo sguardo iroso; pugile audace (continuò ad allenarsi da solo, anche quando lo buttarono fuori dalla palestra perché ebreo), utilizzava tutti i suoi colpi, la sua prestanza fisica, l’astuzia, l’agilità, la sua impavida tracotanza, l’instancabile resistenza per salvare e proteggere i più deboli. Non si abbassava ai nazisti, li uccideva anche con le sue mani, aveva in sé una incosciente spavalderia, la follia di rischiare tutto, sempre in lotta per la vita, non rimaneva mai a terra, si rialzava come su un ring, combatteva al di là di ogni sopportazione: faceva saltare un tavolo contro il nazista che lo interrogava a via Tasso, si buttava dalle finestre delle carceri, saltava dalla camionetta che lo por-
tava alla morte nei campi di concentramento. Tutto alla luce del giorno, non si nascondeva, non amava rinchiudersi, voleva vivere. Entrò poi nel Partito d’Azione e lottò fino alla Liberazione.
Protagonista anche dopo la guerra Dopo la guerra, la sua storia è forse meno conosciuta, ma della massima importanza per comprendere come l’Italia non abbia mai fatto i conti col passato. Egli divenne un protagonista della ricostruzione, anche grazie a una intensa collaborazione col rabbino Elio Toaff. Negli anni ‘50 l’intolleranza antisemita continuava, gli attivisti del Msi oltraggiavano la memoria con retate e barbare scorribande nel Ghetto. E anche dopo, questa volta per la rottura
Pacifico di consiglio, chiamato “Moretto”, il difensore del Ghetto e dei più deboli
con l’estrema sinistra a causa della Guerra dei sei giorni, Moretto capì che gli ebrei erano in forte pericolo e organizzerà un sistema di difesa: chiamerà attorno a sé dei volontari, «i ragazzi di Moretto», una vera «dinamica di unificazioni fra identità differenti»; insegnerà loro come battersi contro gli oppressori di turno, farà nascere l’Associazione Genitori Scuola, per presidiare licei e scuole, formerà turni di guardia per l’incolumità delle istituzioni e di tutto il quartiere; e poi propaganda, manifestazioni, sit-in. Non abbandonò nessuno del suo popolo, neanche gli ebrei perseguitati in Urss e corse verso Berlinguer a Fiumicino perché portasse una petizione per la loro libertà. Le ultime ferite che lo affliggeranno: la guerra del Kippur nel 1973, e l’attentato
alla Sinagoga a Roma del 1982. Oggi, oltre al libro a cura di Alberto di Consiglio e Maurizio Molinari che raccoglie le testimonianze dei suoi cari e di chi lo ha conosciuto, e l’importantissima intervista alla Shoah Foundation, la storia di Moretto verrà raccontata in uno sceneggiato per la tv (ne dà notizia la rivista Pagine Ebraiche e il figlio stesso di Pacifico). L’obiettivo è non dimenticare, ed è nelle scuole che tutto deve cominciare. Il ricordo del giovane regista A questo risponde il libro Di pura razza italiana di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Baldini & Castoldi, 2013), che cerca di sfatare il detto «italiani brava gente», per far scoprire il ruolo di un Paese complice e responsabile. E a questo risponde anche l’interessante e bel documentario, Ferramonti, il campo sospeso, di Cristian Calabretta, classe ‘76. Non molti lo sanno, ma in Italia sono esistiti quattordici campi di internamento, il più grande di tutti e l’unico costruito per intero (anche se ora vi passa sopra una autostrada) quello di Ferramonti di Tarsia, in Calabria. Nonostante le porte chiuse e frasi come «ancora con la storia degli ebrei», il giovane regista non si è arreso. Cristian si documenta presso l’Archivio di Stato di Cosenza e di Roma e il fondo Israel Kalk al Cdec di Milano; ma il più grande aiuto lo riceve dagli stessi internati o dai loro cari. Un’incredibile partecipazione con documenti, foto, interviste, utilizzate da collage all’interno del documentario, ricco di informazioni istruttive. La vicenda di Ferramonti è singolare (non era un campo solo per ebrei, ma per apolidi, slavi, stranieri nemici al regime fascista): si sono salvati più o meno tutti gli ebrei internati, perché era permessa loro una sorta di organizzazione, «ma certo, la violenza non è solo fisica, la violenza peggiore è la privazione della libertà». Il documentario, molto richiesto all’estero, meriterebbe sbocchi in Italia: «Prendere coscienza delle proprie responsabilità dice Cristian - significa conoscere quello che il Paese ha fatto, e soprattutto gli errori che ha commesso; solo così si possono guidare le future generazioni verso la giusta direzione». Presentato a novembre al Campidoglio, il 31 marzo una proiezione si terrà presso la Camera dei deputati. Forse si accenderà l’attenzione: «Se il campo non c’è più, il ricordo l’ha tenuto in piedi».
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Estreme destre mutanti in Europa
PARTITI DROGATI DAL FALLIMENTO DELLE FORMAZIONI TRADIZIONALI
S DI
da Le Monde diplomatique del marzo 2014
JEAN-YVES CAMUS*
e si fa risalire la comparsa dei populismi di estrema destra agli inizi degli anni ‘80, sono passati più di trent’anni senza che sia stata formulata più chiaramente una definizione al contempo precisa e operativa di questa categoria politica. Bisogna dunque tentare di vederci più chiaramente nella generica categoria di ciò che chiamiamo comunemente «estrema destra» o «populismo». In Europa, dal 1945, il termine «estrema destra» indica fenomeni molti diversi: populismi xenofobi e «antisistema», partiti politici nazional-populisti, a volte fondamentalismi religiosi. Il concetto va preso con cautela, nella misura in cui, da un punto di vista più militante che obiettivo, i movimenti così etichettati sono interpretati come una continuazione, a volte adattata alle necessità dell’epoca, delle ideologie nazional-socialista, fascista e nazionalista-autoritaria nelle loro diverse declinazioni. Cosa che non riflette la re-
Da una trentina di anni, un po’ dappertutto in Europa, l’estrema destra ha il vento in poppa. Se alcuni partiti impregnano le loro diatribe di riferimenti neonazisti, la maggior parte cerca la rispettabilità e occupa il terreno del sociale. Presentandosi come l’ultima risorsa e come un bastione contro una supposta islamizzazione della società, essi spingono a una ricomposizione delle destre
A chi la destra? Marine Le Pen, col vento a favore. Sopra, skinheads nell’ombra
altà. Certo, il neonazismo tedesco – e il Partito nazional democratico (Pnd) in una certa misura – come il neofascismo italiano (ridotto a Casa Pound Italia, Fiamma tricolore e Forza nuova, lo 0,53% dei voti totali) si inscrivono bene nella continuità ideologica dei loro modelli, allo stesso modo degli avatar tardivi dei movimenti degli anni ‘30 in Europa centrale e orientale: la Lega delle famiglie polacche, Partito nazionale slovacco, Partito della grande Romania. Tuttavia, sul piano elettorale, solo il defunto Movimento sociale italiano (Msi), la cui storia finisce nel 1995 con la svolta promossa dal suo capo Gianfranco Fini, è riuscito a far uscire dalla marginalità in Europa occidentale questa famiglia politica; che a Est, oggi segna il passo (si veda la mappa nelle pagine successive). Anche se il successo di Alba dorata in Grecia e di Jobbik in Ungheria provano che essa non è definitivamente sepolta, nel 2014 è molto minoritaria. In un’epoca in cui non si apprezzano affatto le grandi ideologie che predicano l’arrivo di un uomo e di un mondo nuovo, i valori di questa estrema destra tradizionale si dimostrano inadatti. Il culto del capo e del partito unico poco conviene
alle attese delle società frammentate, individualiste, in cui l’opinione si forgia attraverso i dibattiti televisivi e la frequentazione dei social network. Tuttavia, il lascito ideologico di quell’estrema destra «all’antica» resta fondamentale. Si tratta innanzitutto di una concezione etnicista del popolo e dell’identità nazionale, da cui deriva la parallela avversione per il nemico esterno – l’individuo o lo Stato straniero – e per il nemico interno: le minoranze etniche o religiose e l’insieme degli avversari politici. È anche un modello di società organicista, spesso corporativista, fondato su un antiliberismo economico e politico che nega il primato delle libertà individuali e l’esistenza degli antagonismi sociali, salvo quello che oppone il «popolo» alle «élite». Gli anni ‘80-’90 hanno visto il successo elettorale di un’altra famiglia, che i media e numerosi commentatori hanno continuato a chiamare «estrema destra», anche se alcuni sentivano che il paragone con i fascismi degli anni ‘30 non era più pertinente, e che impediva alla sinistra di elaborare una risposta ai suoi avversari non puramente retorica. Come chiamare continua a pagina 20 ➔
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➔ segue da pagina 19 i populismi xenofobi scandinavi, il Front national (Fn) in Francia, il Vlaams Belang nelle Fiandre, il Freiheitliche Partei Österreichs (Fpö) in Austria? La grande disputa terminologica cominciava, e non si è ancora chiusa. «Nazional-populismo» usato da Pierre André Taguieff, «destre radicali», «estrema destra»: l’esposizione delle controversie semantiche che oppongono i politologi richiederebbe un libro intero. Dunque, suggeriamo semplicemente che i suddetti partiti sono passati dall’estrema destra alla categoria delle destre populiste e radicali. La differenza sta nel fatto che, formalmente e in genere sinceramente, questi partiti accettano la democrazia parlamentare e l’accesso al potere attraverso la sola strada delle urne. Se il loro progetto istituzionale resta sfocato, è chiaro che esso valorizza la democrazia diretta, per mezzo del referendum di iniziativa popolare, a scapito della democrazia rappresentativa. Lo slogan del «colpo di scopa» destinato a cacciare dal potere élite giudicate corrotte e lontane dal popolo è comune a tutti loro. Esso prende di mira al contempo la social-democrazia, i liberali e la destra conservatrice. Per queste destre il popolo è un’entità trans-storica che ingloba i morti, i vivi e le generazioni a venire, collegati da un fondo culturale immutabile e omogeneo. Cosa che induce la distinzione tra i nazionali «per razza» e gli immigrati, in particolare extra-europei, di cui bisognerebbe limitare il diritto di residenza così come i diritti economici e sociali. Se l’estrema destra tradizionale resta al contempo antisemita e razzista, le destre radicali privilegiano una nuova figura di nemico, contemporaneamente interno e esterno: l’islam, cui sono associati tutti gli individui originari di paesi culturalmente musulmani. Un etnicismo esplicito o latente Le destre radicali difendono l’economia di mercato nella misura in cui questa permette all’individuo di esercitare il suo spirito di impresa, ma il capitalismo che promuovono è esclusivamente nazionale. Da qui la loro ostilità alla globalizzazione. Insomma, sono partiti nazional-liberali, che ammettono l’intervento dello Stato non più solo nei suoi tradizionali ambiti di competenza, ma anche per proteggere gli emarginati dell’economia globalizzata e finanziarizzata, come testimonia il discorso di Marine Le Pen, presidente del Fn. Dunque, in che cosa le destre radicali si distinguono dalle destre estreme? Innanzi tutto per il loro minor grado di antagonismo con la democrazia. Il politologo Uwe Backes mostra che le norme in vigore in Germania ammettono come legittima e legale la critica radicale dell’ordine eco-
nomico e sociale esistente, mentre definiscono come un pericolo per lo Stato l’estremismo, che è un rifiuto in blocco dei valori contenuti nella Legge fondamentale. Sulla base di questa classificazione, sembra pertinente chiamare «destre estreme» i movimenti che ricusano totalmente la democrazia parlamentare e l’ideologia dei diritti umani, e «destre radicali» quelle che le accettano. Queste due famiglie occupano un posto diverso nel sistema politico. Non solo l’estrema destra si trova nella situazione di ciò che il ricercatore italiano Piero Ignazi chiama il «terzo escluso», ma si vanta di questa posizione e ne trae vantaggio. Le destre radicali, invece, accettano di partecipare al potere o come partner di una coalizione di governo – la Lega nord in Italia, l’Unione democratica di centro (Udc) in Svizzera, il Partito del progresso in Norvegia - o come forza parlamentare di appoggio di un gabinetto di governo di cui non fanno parte: il Partito per la libertà (Pvv) di Geert Wilders nei Paesi Bassi, il Partito del popolo danese. La loro permanenza è assicurata? Questo genere di partito vive sul filo del rasoio, tra una marginalità che, se perdura, lo condanna sotto la soglia minima elettorale, e una normalizzazione che, se si rivela troppo evidente, può condurre al declino. L’esempio greco è un caso che fa scuola. Dopo quasi trent’anni di esistenza come gruppuscolo, il movimento neonazista Alba dorata ottiene quasi il 7% dei voti al momento nelle due elezioni legislative del 2012. Bisogna dedurne che il suo razzismo esoterico-nazista abbia conquistato improvvisamente 426mila elettori? Niente affatto. Questi hanno dapprima preferito l’estrema destra tradizionale, incarnata dal Laos (Allarme popolare ortodosso) entrato in Parlamento nel 2007. Ma tra le due elezioni legislative del 2012 si è prodotto un evento chiave: la partecipazione del Laos al governo di unità nazionale diretto da Lucas Papademos, la cui tabella di marcia consisteva nel far approvare dal Parlamento un nuovo piano di «salvataggio» finanziario, accordato dalla «troika» al prezzo di misure di austerità drastiche. Divenuto destra radicale, il Laos ha perso il suo fascino a vantaggio di un’Alba dorata che rifiutava ogni concessione. Al contrario, nella maggior parte dei paesi europei, le destre radicali o hanno soppiantato totalmente i loro rivali estremisti (Svezia, Norvegia, Svizzera e Paesi Bassi), o sono riuscite, come i Veri finlandesi, a emergere in paesi dove queste avevano fallito. Ultimo caso specifico, sempre più frequente: quello in cui la destra radicale subisce la concorrenza elettorale di formazioni «sovraniste». La volontà di uscire dall’Unione europea costituisce il cuore del programma di questi partiti, ma
essi sfruttano anche le tematiche dell’identità, dell’immigrazione e del declino culturale, senza tuttavia portare la stimmate di un’origine estremista e liqui-
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dando la dimensione razzista. Possiamo citare l’Alternativa per la Germania, il Partito per l’indipendenza del Regno unito (Ukip), il Team Stronach per l’Au-
stria e Debout la République, diretta da Nicolas Dupont-Aignant, in Francia. continua a pagina 22 ➔
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La destra in Europa. I dati della mappa sono precedenti le ultime elezioni in Ungheria, dove lo Jobbik ha preso il 20,46% dei voti.
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il fiore del partigiano
➔ segue da pagina 21 Essere utilizzato a vanvera per screditare in particolare ogni critica al consenso ideologico liberista, ogni rimessa in questione della bipolarizzazione del dibattito politico europeo tra conservatori-liberali e social-democratici, ogni espressione nelle urne del sentimento popolare di sfida verso il malfunzionamento della democrazia rappresentativa non è il solo difetto del termine «populismo». L’universitario Paul Taggart, per esempio, malgrado le qualità e la relativa precisione della sua definizione dei populismi di destra, non può fare a meno di stabilire una simmetria tra questi ultimi e la sinistra anticapitalista. Egli liquida così la differenza fondamentale che costituisce l’etnicismo esplicito o latente delle destre estreme e radicali. Secondo lui, come per molti altri, il populismo della destra radicale non si definisce per la sua singolarità ideologica, ma per la sua posizione di dissenso in seno a un sistema politico in cui sarebbe legittima solo la scelta di formazioni liberali o di centro-sinistra. Allo stesso modo, la tesi difesa da Giovanni Sartori secondo cui il gioco politico sarebbe organizzato intorno alla distinzione tra partiti di consenso e partiti di protesta, dove i primi hanno la capacità di esercitare il potere e sono accettabili come partner di coalizione, pone il problema di una democrazia di cooptazione, di un sistema chiuso. Se la fonte di ogni legittimità è il popolo e se una parte considerevole di questo (tra il 15% e il 25% in diversi paesi) vota per una destra radicale «populista» e «antisistema», in nome di quale principio bisogna proteggere questa parte da se stessa mantenendo un ostracismo che tiene queste formazioni lontano dal potere – senza d’altronde riuscire a ridurne l’influenza nel tempo? Questo punto di filosofia politica è tanto più importante in quanto riguarda anche l’atteggiamento degli opinionisti nei confronti delle sinistre alternative e radicali, delegittimate perché vogliono trasformare – e non riformare – la società. Spesso queste, secondo la vecchia e falsa idea degli «estremi che si toccano», sono considerate doppioni speculari delle radicalità di destra. Il politologo Meindert Fennema costruisce così una vasta categoria dei «partiti di protesta», definiti come oppositori al sistema politico nel suo insieme, che biasimano quest’ultimo per tutti i mali della società e che non offrono, secondo lui, nessuna «risposta precisa» ai problemi che sollevano. Ma quale sarebbe una «risposta precisa» ai problemi che la social-democrazia e la destra liberal-conservatrice non sono riuscite a risolvere? D’altronde, il problema dell’Europa è l’ascesa delle destre estreme e radicali o il cambiamento di paradigma ideologico delle destre? Uno dei fenomeni impor-
tanti degli anni 2010, è che la destra classica ha sempre meno reticenze ad accettare come partner di governo formazioni radicali come la Lega nord in Italia, l’Udc svizzero, il Fpö in Austria, la Lega delle famiglie polacche, il Partito della grande Romania, il Partito nazionale slovacco e ormai il Partito del progresso norvegese. Non si tratta solo di tattica e di aritmetica elettorali. La crescente porosità tra gli elettorati del Fn e dell’Unione per un movimento popolare (Ump) lo dimostra, al punto che il modello delle tre destre – contro-rivoluzionaria, liberale e plebiscitaria (con il suo mito dell’uomo provvidenziale) – elaborato recentemente da René Rémond, anche aggiungendone una quarta incarnata dal Front national, non rende più affatto conto della realtà francese. Indubbiamente, si sta andando verso una concorrenza tra le due destre. Una, nazional-repubblicana, opererebbe una sintesi
F 1
DA QUANDO L’UE HA DECISO DI DO
S
di
da www.sbilanciamoci.info del 21 marzo 2014
CLAIRE RODIER*
econdo le ong, 16mila persone sono morte alle frontiere dell’Europa tra gennaio 1993 e marzo 2012, con un’accelerazione della mortalità migratoria dal 2000, quando gli Stati membri dell’Unione Europea (Ue) hanno deciso di mettere in atto una politica comune di immigrazione e d’asilo basata sulla messa in sicurezza delle frontiere per lottare contro l’immigrazione irregolare. All’indomani del naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, le dichiarazioni di numerosi politici europei potevano far pensare che questa terribile disgrazia avrebbe rappresentato una svolta. Tuttavia, alcuni giorni dopo aver osservato un minuto di silenzio in memoria delle vit-
D d a F u il
Migranti passano davanti a un cartellone di un recente referendum anti immigrazione in Svizzera. I frontalieri italiani e la Lega nord stavolta non hanno gradito
sovranista e moralmente conservatrice della tradizione plebiscitaria e della destra radicale frontista: sarebbe il ritorno della famiglia «nazionale». L’altra sarebbe federalista, pro-europeista, libero-scambista, liberale sul piano sociale. Certamente con delle varianti, la lotta di potere in seno alla grande nebulosa delle destre si gioca dappertutto in Europa sugli stessi piani: Stati-nazione contro governo europeo; «una terra, un popolo» contro una società multiculturale; «la vita totalmente soggiogata alla logica del profitto» o primato della comunità. Prima di pensare alla maniera di battere le destre radicali alle urne, la sinistra europea dovrà riconoscere i mutamenti del suo avversario. Ma ne siamo ancora lontani.
Jean-Yves Camus*
* ricercatore associato all’istitut de relations internationales et stratégiques (iris), direttore dell’observatoire des radicalités politiques, fondazione Jean Jaurès. autore dell’opera: Les droites etrêmes en europe, seuil, paris, di prossima uscita
Mare monstrum: U
L’
di
da www.sbilanciamoci.info del 21 marzo 2014
GRAZIA NALETTO
Europa che oggi sponsorizza e celebra con centinaia di manifestazioni e iniziative la Giornata mondiale contro il razzismo è la stessa che ha permesso la strage di Lampedusa del 3 ottobre, solo la più grave delle centinaia di naufragi che hanno attraversato il Mediterraneo. È quella che impone a chi è costretto a fuggire dal proprio Paese di chiedere asilo nel primo Paese europeo di arrivo, a meno che non sia provato e documentato che questo non è in grado di accoglierlo. Tutela il diritto di asilo, ma sino ad oggi ha accolto solo 56 mila degli oltre 2,5 milioni di profughi siriani (la Turchia ne ha accolti 656 mila, il Libano un milione). L’Europa di oggi è quella che vincola la «cooperazione con i Paesi terzi» alla sottoscrizione di accordi stringenti sul «contrasto dell’immigrazione irregolare» e che con la "direttiva della vergogna" ha stabilito che è possibile rinchiudere nei centri di detenzione i migranti senza documenti colpiti da un provvedimento di espulsione per 18
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il fiore del partigiano
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Frontiere di morte in Europa, 16 mila vittime in vent’anni
DI DOTARSI DI UNA POLITICA COMUNE E DIVENTARE UNA «FORTEZZA», SONO CRESCIUTI I NAUFRAGI
time, il Parlamento europeo ha adottato il regolamento Eurosur. Questo sistema di rafforzamento della sorveglianza delle frontiere sud dell’Europa è stato concepito per la lotta contro la criminalità transfrontaliera e l’immigrazione irregolare. A ottobre 2013, è stato magicamente trasformato in dispositivo di salvataggio in mare: nell’annunciare la sua entrata in vigore, il commissario europeo Malströmm si è felicitata di questo passo in avanti verso un miglior contrasto della criminalità e un’individuazione più rapida dei boat people in difficoltà. Analogo cambiamento di tono da parte dell’agenzia Dopo la strage Frontex, che predi ottobre tende «di aver contribuito al soca Lampedusa, corso, nel 2013, di Frontex ha creato 16mila migranti». una task force per Sino ad oggi, Frontex aveva il Mediterraneo l’abitudine di mettere in primo piano i suoi successi in termini di intercettazioni di “clandestini”: ora si tratta di operazioni di soccorso. E ancora, è per «una missione militare ed umanitaria di sorveglianza del Mediterraneo» (Mare
Nostrum) che il governo italiano ha mobilitato due fregate, due pattugliatori, elicotteri dotati di strumenti ottici e a infrarossi, aerei equipaggiati per la sorveglianza notturna e un drone, oltre a 1500 uomini, per una spesa stimata di 1,5 milioni di euro al mese. La svolta promessa si riduce forse a un artificio semantico? Tutto porta a crederlo, con l’annuncio della Commissione europea, ad inizio dicembre, della creazione di una «task force per il Mediterraneo» destinata a prevenire le morti di migranti. Essa ha l’obiettivo di rafforzare la sorveglianza delle frontiere e la lotta contro il traffico e la tratta di esseri umani, oltre che il crimine organizzato. Ma come potrebbe l’irrigidimento dei controlli evitare che uomini e donne in fuga dalla miseria e dalle persecuzioni intraprendano rotte sempre più pericolose per tentare di raggiungere ad ogni costo un’Europa che, pur essendo inospitale, non cessa di essere attraente? Come altri episodi, il naufragio del 3 ottobre ha messo in evidenza il fatto che numerosi migranti, etichettati come “clandestini”, corrono rischi inimmaginabili per raggiungere l’Europa e lo fanno per trovare una terra d’asilo. Dall’inizio del conflitto siriano, più di due milioni di rifugiati hanno abbandonato il Paese e si trovano negli Stati confinanti e in Nord Africa. L’Ue ne ha accolti qualche migliaio, arrivati con mezzi
mesi. È, infine, quella che nella Carta dei diritti fondamentali vieta le espulsioni collettive e le discriminazioni "etniche", religiose o fondate sulle caratteristiche somatiche, prevedendo il «rispetto delle diversità culturali, religiose e linguistiche». Ma poi lascia che i singoli Paesi membri possano negare o restringere l’accesso dei cittadini stranieri (ormai non solo di Paesi terzi) ai servizi sanitari, assistenziali e previdenziali. L’Unione Europea promuove regole comuni per rifiutare, respingere ed espellere i migranti di Paesi terzi; disciplina le regole sul soggiorno e sulla circolazione dei migranti regolarmente residenti; ha definito uno status uniforme e procedure comuni in materia di asilo, ma lascia che siano i singoli Stati membri a governare l’immigrazione per motivi di lavoro. Né è prevista alcuna forma di armonizzazione delle politiche di «integrazione», ambito nel quale l’Ue può solo «incentivare e sostenere l’azione dei Paesi membri». Così in Germania come in Italia e in Spagna si pongono limiti all’ingresso di lavoratori migranti, salvo poi farne lavorare a migliaia al nero e sottopagati nell’edilizia, nell’industria alimentare, nell’agricoltura o nelle ristrette mura domestiche, per svolgere quei
lavori di cura che il sistema di welfare in via di smantellamento non assicura più. E ciò avviene anche nel pieno della crisi. In molti, espulsi dal mercato del lavoro, decidono di tornare nel Paese di origine. I più restano. Non di memoria dunque dovremmo parlare oggi, ma del presente. E l’Europa del presente è quella del rifiuto, della sofisticazione degli strumenti di sorveglianza e di militarizzazione dei mari e delle frontiere grazie al sistema Eurosur e all’agenzia Frontex: 2 miliardi e 496 milioni stanziati tra il 2007 e il 2013 per i due fondi per le frontiere esterne e per i rimpatri, ma solo 1 miliardo e 455 milioni per i fondi per i rifugiati e per «l’integrazione» dei cittadini di Paesi terzi. Nel 2012 i cittadini di Paesi terzi stabilmente soggiornanti erano il 4,1% della popolazione europea, 20,7 milioni, ma non parteciperanno alle prossime elezioni europee perché non sono considerati cittadini e sono privi del diritto di voto. Potranno invece candidarsi i rappresentanti di quei movimenti nazionalisti, xenofobi e populisti che vorrebbero cacciarli tutti. Sarebbe un errore lasciare che fossero loro a dettare l’agenda nella prossima campagna elettorale.
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propri – compresi quelli illegali: perché le politiche restrittive in materia di visti e permessi di soggiorno degli Stati membri non consentono vie d’accesso legali. Fingendo di voler correggere questo approccio dissuasivo, il programma di task force prevede di sollecitare questi Stati ad accogliere il maggior numero di rifugiati, attraverso operazioni di reinstallazione in Europa di coloro che si trovano nei campi dei Paesi vicini, e di «esplorare le possibilità» di favorire «sistemi d’ingresso protetti» nell’Ue. Intenzioni che resteranno lettera morta. In primis, perché non hanno niente di nuovo: per dare un contenuto a una task force che non è altro che una risposta congiunturale all’emozione dell’opinione pubblica a seguito del “naufragio di Lampedusa”, la Commissione europea si è accontentata di rispolverare le vecchie ricette inefficaci che propone da ben 15 anni. Inoltre, queste intenzioni, di carattere non vincolante, riposano sulla buona volontà e sullo spirito di solidarietà. Difficile credere che gli Stati membri, impegnati da più di dieci anni a organizzare le loro politiche d’asilo come strategie di esclusione dei rifugiati, aprano spontaneamente le braccia alle stesse persone che cercano di dissuadere dall’oltrepassare le loro frontiere. * Giurista del Gisti e co-fondatrice della rete Migreu
a cura di
MAURIZIO GHEZZI
«... Quando noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, felicemente ci incontrammo nei pressi di Milano e discutemmo di tutto ciò che attiene al bene pubblico e alla pubblica sicurezza, questo era quello che ci sembrava di maggior giovamento alla popolazione, soprattutto che si dovessero regolare le cose concernenti il culto della divinità, e di concedere anche ai cristiani, come a tutti, la libertà di seguire la religione preferita, affinché qualsivoglia sia la divinità celeste possa esser benevola e propizia nei nostri confronti e in quelli di tutti i nostri sudditi. Ritenemmo pertanto con questa salutare decisione e corretto giudizio, che non si debba vietare a chicchessia la libera facoltà di aderire, vuoi alla fede dei cristiani, vuoi a quella religione che ciascheduno reputi la più adatta a se stesso. Così che la somma divinità, il cui culto osserviamo in piena libertà, possa darci completamente il suo favore e la sua benevolenza.» Editto di Costantino - Milano maggio dell’anno 313
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Quel fazzoletto di seta ross
LO STRANO INCONTRO TRA UNA FORMAZIONE PARTIGIANA E UNA COLONIA GESTITA DA SUORE
I
Il racconto che pubblichiamo è il contenuto di una lettera scritta nel 2005 dal partigiano Vladimiro Diodati, “Paolo”, alla figlia Milena.
n questa notte di Natale voglio scriverti questa lettera, figlia mia, perché avverto il peso del tempo, e sento che i miei giorni volgono ormai al tramonto. Sono trascorsi sessant’anni dalla fine della guerra e tante cose ho serbato nel cuore. Ma in questa notte sento il desiderio di offrirti questa semplice testimonianza. Te la dono con il mio affetto, con tutto il mio bene, affinché sappia che tuo padre ha vissuto la sua vita con la coerenza degli ideali. In quel periodo accadde tutto così in fretta, figlia mia. Allora c’era poco tempo per pensare... le scelte si facevano sulla nostra pelle. A volte bastava un attimo: stare di qua o di là della barricata poteva essere anche una questione di emozioni: la libertà oppure l’onore? Il desiderio di un’Italia migliore o l’orgoglio di non venir meno a una parola data? Questo, sia chiaro, per chi le scelte le operò in buona fede. Gli altri, non so… Non c’era tempo, allora, per approfondire… Sicuramente ci saranno stati errori anche dalla nostra parte. Forse degli eccessi… Ma noi sognavamo la libertà, non dimenticarlo, figlia mia… Altri stavano dalla parte della dittatura, del terrore, della morte. Io scelsi di stare dalla parte della vita... C’è un episodio, però, che oggi voglio consegnare ai posteri. Una storia che, sino ad ora, è appartenuta alla sfera del mio privato, delle mie emozioni, di quei profondi sentimenti che hanno albergato nel mio cuore. Non l’ho mai raccontata prima; ma, a sessant’anni dalla fine della guerra, voglio fissarla sulla carta per te, affinché possa ricordarti del tuo papà… Accadde nell’autunno-inverno del 1944. Dal settembre 1943 avevo scelto la via dei monti, quella della libertà. Nella valle in cui operavo iniziava il primo freddo di quel secondo autunno di lotta. Era la fine di ottobre e, dopo lungo girovagare, una sera, verso le 10, arrivammo nel paesino di ...*, che già allora era chiamata la “piccola Svizzera della Liguria”. Eravamo una decina in tutto: tre o quattro del Comando, con sei o sette partigiani sfiniti dalla stanchezza e dalla paura. Il grosso della nostra Brigata era rimasto nell’altra vallata, quella a ridosso del Piacentino. Ci avrebbero raggiunti la mattina seguente, in prossimità del Passo. Bussammo a una Colonia che ci avevano segnalato: una bellissima costruzione moderna che si affaccia in alto, a sinistra del paese, tutta luccicante per le vetrate che ne fasciano l’intera perimetria. Mi avevano informato ch’era abitata da alcune suore, con molti bambini. Nel buio pesto ci aprì una sorella. Madre Ignazia,
questo il suo nome, sussultò sbigottita di fronte alla luce fioca di una lampada che lasciava trasparire i nostri volti. Uomini stanchi, con fazzoletti rossi al collo, con le barbe e i capelli lunghi; i caricatori sul petto, le bombe alla cintura e le armi a tracolla non avrebbero offerto tranquillità ad alcuno, in quel periodo... Ci presentammo a nome del CLN: «Abbiamo bisogno di far riposare i nostri uomini. Siamo stanchi, sfiniti...». Dapprima Madre Ignazia cercò di dissuaderci: «Siamo completi, ci dispiace, non un solo letto è libero. Non possiamo proprio ospitarvi». Poi, impietosita, ci fece accomodare. La suora aveva una cinquantina d’anni suonati, un bel volto largo, aperto, simpatico, incorniciato da un velo bianco inamidato che glielo ricopriva sino alle gote. Ed una voce chiara, musicale. Mi presentò alle altre suore, una ventina, in buona parte giovani che, spaventate, erano scese una ad una dalle loro camere. Appartenevano all’Ordine di Santa Marta ed erano sfollate dal loro convento con duecento bambini in tenera età, abbandonati dalle autorità fasciste al loro destino. Il quadro che mi si presentò, man mano che osservavo, era pietoso e desolante. La colonia era gelida, le suore avevano freddo e sicuramente i bambini, già a dormire nei loro lettini, saranno stati più intirizziti che mai. «Non abbiamo di che riscaldare l’edificio», mi disse la Madre. Poi proseguì narrandomi di come erano state costrette a girare le frazioni della Valle per elemosinare un po’ di pane, per aggiungerlo alle poche scorte alimentari che avevano per sfamare i bambini e loro stesse. Alla fine trovammo riparo, per quella sera, negli scantinati, con qualche materasso recuperato alla bell’e meglio in soffitta.
i rifornimenti furono trasportati con un carro alla colonia, mentre le suore, meravigliate, ringraziarono la “Provvidenza”. Fra me e Madre Ignazia si instaurò così un rapporto di simpatia e fiducia. Il giorno seguente convocai i paesani, con i muli e le slitte. Avevo notato, in un certo punto della strada che dal paese scende verso la vallata, un deposito di alcune tonnellate di legna da ardere, pronta per essere trasportata e venduta nelle città della costa. Indicai il da farsi e, per tutta la giornata, fu un via vai di slitte trainate da muli, stracariche di quella legna, che si trasferirono alla colonia. Le suore accesero le stufe e tutto, all’interno, si riscaldò. Come per incanto, i bimbi sentirono il tepore e giocarono felici. Per loro era iniziata una nuova vita. Nei giorni successivi, anche i montanari, seguendo il nostro esempio, fecero a gara per rendersi utili. Si mobilitarono ancora, con i loro muli, in una cinquantina, superando fatiche e difficoltà, valicando il passo e raggiungendo, accompagnati da una nostra staffetta, la colonia, stanchi ma felici, con 50 quintali di farina di grano. Madre Ignazia mi confidò le prime impressioni ricevute allorquando ci accolse la prima volta. Con quei fazzoletti rossi al collo e quelle barbe lunghe cosa poteva pensare di noi? Eravamo quelli della guerra di Spagna, quelli che bruciavano le Chiese e violentavano le religiose. Questo, almeno, scriveva la stampa fascista. Questo avevano raccontato di noi. Ora si trovava davanti degli uomini, soprattutto giovani, che si erano accorti di loro. In mezzo alla guerra che infuriava, col nemico alle calcagna e fra un rastrellamento e un’azione di guerriglia, per settimane ci preoccupammo di far rivivere quella Comunità abbandonata negli stenti.
L’indomani mattina, mi recai nell’ampio refettorio e constatai che le razioni di cibo erano alquanto misere. «Quando le autorità ci condussero qui - mi raccontò Madre Ignazia - ci avevano promesso che non avremmo dovuto preoccuparci di nulla. Avrebbero pensato loro a non farci mancare niente. Questa è una colonia estiva per i figli dei lavoratori di una grande azienda e vi doveva essere tutta l’attrezzatura per il suo buon funzionamento. Invece non abbiamo trovato neppure le pentole e le posate. Ora eccoci qui, con duecento figlioli di povera gente, alcuni senza genitori, a cui pensare, da sfamare e da vestire». Me ne andai con il cuore stretto, pensando a come poter intervenire in quella pietosa situazione. Intanto la nostra Brigata, attraversata la catena che divide il paese dal Piacentino, si ricongiunse a noi. I nostri uomini avevano catturato due camion tedeschi lungo la Via Emilia, liberando gli autisti, trattenendo i mezzi e le scorte, soprattutto scatolame di salsa di pomodoro, oltre a quattro-cinque quintali di marmellata. La visione di quei bambini affamati non ammetteva esitazioni. La decisione fu istantanea e non trovò alcuna resistenza. Tutti
Un giorno, via radio, ricevemmo l’ordine di predisporre l’arrivo di alcuni lanci di aerei, comunicandoci le coordinate del luogo prescelto. La vigilia della data stabilita ascoltammo da radio Londra il messaggio in codice: «Paolo e Francesca», che preannunciava l’arrivo. Il prato riservato al lancio era in una conca non lontana dalla colonia. All’ora fissata arrivarono gli aerei. Fecero alcune evoluzioni attorno alla zona; quindi, riconosciuto il segnale convenuto disegnato sul prato, iniziarono a passare e ripassare a bassa quota seminando nel cielo tanti piccoli puntini, variopinti ombrelloni che scesero dondolando dolcemente. A quel punto, dalla terrazza della colonia, si levò un allegro cinguettio di voci: erano i bimbi e le suore radunatisi per salutare la pioggia dal cielo, quasi fosse una festa. Raccolto il materiale, feci caricare i paracadute di seta, una sessantina, e li inviai alla colonia. Le suore, con tutto quel ben di Dio, cominciarono pazientemente a scucire le tele, recuperando persino il filo con cui erano composte le corde. Una sera, una staffetta del Comando di Zona
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avremo cento letti per i partigiani feriti che arriveranno stanotte». L’avrei abbracciata. Fu così che la colonia diventò anche un ospedale partigiano. Per tutta la notte ci furono arrivi di feriti, alcuni mutilati, intirizziti dal freddo, stremati dal lungo, estenuante viaggio. Man mano che giungevano, venivano accolti dalle suore, dissetati e sistemati nei letti messi a disposizione. Le Sorelle divennero tutte infermiere che provvidero ad ogni cosa, dalla cucina alle cure mediche.
illustrazione di umberto grati
Arrivarono le feste di Natale e Madre Ignazia mi pose, con tatto e cautela, il problema della Comunione per i partigiani ammalati. «Non si preoccupi, Madre - le dissi. - Interroghi ogni partigiano ed esaudisca ogni singolo desiderio. Vedrà che troverà giovani desiderosi di essere comunicati». Quindi venne il mio turno. «Sorella - risposi - potrei benissimo comunicarmi. Per me non significherebbe niente e Lei sarebbe felice. Ma non posso carpire così la sua buona fede». Madre Ignazia non si scompose, ma cominciò a pregare: «Ave Maria, gratia plena...». Fu allora che, commosso e quasi trascinato da una forza misteriosa, cominciai a ripetere la preghiera che mia madre mi insegnò quand’ero fanciullo: «Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum...». La vigilia di Natale una staffetta ci informò dal Comando che il giorno dopo avremmo dovuto lasciare il paese, perché tedeschi e fascisti stavano organizzando un rastrellamento di vaste proporzioni. Durante la messa di mezzanotte, molti partigiani parteciparono alla funzione religiosa e si comunicarono. La mattina di Natale salutammo le suore con grande commozione e Madre Ignazia ci benedisse. Ma prima della nostra partenza, trovammo nel refettorio duecento figlioli tutti vestiti con fiammanti grembiulini: rossi, bianchi e celesti. Erano le stoffe dei paracaduti. Le sorprese, però, non erano finite. Madre Ignazia ci consegnò uno scatolone con dentro decine e decine di fazzoletti rossi, di quella stoffa setificata da addobbi religiosi. Sulle due punte dei triangoli, ricamate in seta, due stelle a cinque punte con il tricolore d’Italia. Piansi di gioia… Poi ci separammo.
giunse in paese con un messaggio di poche righe, col quale mi si informava che era iniziato un rastrellamento di grandi proporzioni nella valle del Piacentino e che un centinaio di partigiani feriti, dell’ospedale di zona, doveva essere evacuato. Sarebbero arrivati con ogni mezzo: a dorso di mulo, con le slitte, a piedi, durante la notte. La nostra Brigata avrebbe provveduto a riceverli. Che fare? Sembrava impossibile trovare una so-
luzione così su due piedi. Alla fine pensai di fare un tentativo. Mi diressi alla colonia, in quella gelida serata. Bussai alla porta e, alla Madre che mi venne ad aprire, porsi il biglietto ricevuto poco prima: «Legga», le dissi, attendendo in silenzio come se avessi posto una domanda. «Faremo così - rispose subito la Madre. - Ci sono duecento letti; metteremo due bimbi per ogni letto: uno alla testa e uno ai piedi. In tal modo
Ecco, figlia mia, perché ho voluto raccontarti questo episodio. Quel fazzoletto, che ho sempre conservato da allora e che tu ben conosci, fu confezionato dalle Suore di Santa Marta che avevano lavorato in segreto per chissà quanto tempo! Quando entrai a Genova liberata, io e tutti gli uomini della mia Brigata portammo al collo un fiammante fazzoletto rosso: quello con la stella a cinque punte e il tricolore ricamati. Ancora oggi, in questa notte di Natale, mentre lo osservo appeso al muro della mia stanza, mi commuovo al ricordo. *il nome del paese, dimenticato da diodati nel suo racconto, secondo una nostra ricostruzione dovrebbe essere, plausibilmente, quello di casella, nell’interno genovese. un’altra località che porta tutt’ora anch’essa la nomea di “piccola svizzera ligure” è monesi di triora, nel ponente, in provincia di imperia. (n.d.r.)
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Brasile da dimenticare
1964-2014. A CINQUANT’ANNI DAL GOLPE, IL BRASILE NON HA ANCORA FATTO I C
A
di
da il manifesto del 1 aprile 2014
SOLANGE CAVALCANTE
lla fine degli anni ‘50, in Brasile, il presidente Juscelino Kubitschek (detto JK) era tra i pochi, dalla proclamazione della repubblica, nel 1889, a concludere un mandato politico nel Paese, senza che fosse stato ucciso, vittima di uno suicidio sospetto, né deposto da un golpe. Meno male. La calma apparente e il programma sviluppista del governo JK fecero sì che la classe media riuscisse a guadagnare abbastanza da far girare l’economia con l’acquisto di frigoriferi, automobili e un po’ di svago. Si può dire che fu quello svilluppo industriale ed economico a rendere possibile la nascita del nuovo cinema brasiliano, della bella musica d’avanguardia tra bossanova e jazz, e persino a far sì che molti giovani potessero finalmente frequentare l’università per imparare da Sartre, da Lukács e Marx… Si può dire anche che tutto quel benessere era elitario e, pertanto, illusorio.
UN GRANDE CAMBIAMENTO A parte i ragazzi, molti intellettuali e artisti, alcuni sindacalisti e qualche prete, pensavano che sarebbe stato necessario un grande cambiamento - magari armato, magari violento in modo che non solo la borghesia dei salotti buoni di Rio de Janeiro, ma anche le donne, i neri, gli índios e i contadini avessero anche loro il diritto di imparare a leggere e scrivere, diritto al riposo settimanale e, principalmente, diritto ad almeno un pasto al giorno. Nel 1961, quando l’istrionico Jânio Quadros fu eletto presidente del Brasile al posto di JK, a larga maggioranza, fu più o meno come se Beppe Grillo oggi diventasse presidente del Consiglio italiano. Ce l’aveva fatta a forza di fare tutto e il contrario di tutto, incluso l’andare a Cuba per salutare Fidel Castro, promettendo di seguire il modello cubano di riforma agraria in terra brasiliana. Poi, da presidente, adottò misure più di controllo dei costumi che propriamente politiche, alternandole a una forma classica di populismo. Fu così quando ricevette la visita di Ernesto Che Guevara a Bra sília, decorandolo al valore e facendogli passare in rassegna le truppe militari. E quando, dopo sette mesi di governo, i conservatori erano ormai irritati e il popolo continuava a vivere di aria fritta, l’allucinato presidente Quadros propose di chiudere il Congresso per governare da solo, o in caso contrario, avrebbe rinunciato al mandato. Ma siccome nessuno lo sostenne, dovette davvero andar via.
Immagine da «o dia que durou 21 anos», documentario di camilo G. tavares
Il 1° aprile di 50 anni fa un golpe militare ispirato da Cia e poteri forti metteva fine al governo di «Jango» Goulart, instaurando una dittatura meno nota di altre ma non meno sanguinaria. Ecco come andò veramente Teoricamente, sarebbe toccato al vice-presidente João Goulart assumere la guida del governo. Ma solo teoricamente. Jango, come era chiamato, non piaceva a tutti. Per quelli di sinistra, era un borghese latifondista - infatti, di terra ne aveva tanta. Quelli che volevano la rivoluzione sapevano che il massimo di vicinanza che Jango aveva al Socialismo era un cognato socialista, il deputato Leonel Brizola. Per i conservatori, invece, Goulart era un comunista accanito. Nel 1954 aveva perso il posto come ministro del lavoro proprio a causa dell’eccessiva solidarietà con sindacati e lavoratori. Nel momento della rinuncia di Jânio Quadros, guarda caso, João Goulart si trovava proprio in Cina, per incontri diplomatici niente meno che con Mao Tse Tung. Perciò, le Forze armate brasiliane non gli avrebbero mai permesso di assumere la presidenza. Arrivarono al punto di progettare l’abbattimento dell’aereo presidenziale, durante il viaggio di ritorno di Jango a Brasília. Fiutando l’aria di golpe, il deputato socialista Leonel Brizola organizzò barricate per difendere la posizione di Goulart. Non riuscendo
a evitare il suo insediamento, i militari imposero al Congresso di cambiare il sistema politico brasiliano, da presidenzialista a parlamentarista, pur di indebolire le azioni del nuovo governo. UN PIANO MULTINAZIONALE Ma l’instabilità politica non era cominciata affatto con Jango. Era da tempo che un piano golpista era stato organizzato dai vertici delle Forze armate, dai banchieri e dai latifondisti, sponsorizzati da Esso, Coca-Cola, le tedesche Mannesman e Mercedes Benz, nonché dal Partito democristiano tedesco. Si trattava di una lobby multinazionale che, con l’appoggio della Cia, era riuscita a piazzare i suoi agenti in ogni giornale, casa editrice, sindacato, università, radio, tivù, circolo industriale e persino nei più importanti club di calcio. Dicevano a tutti che il suo obiettivo era che tutta quella brava gente doveva “sostenere” la democrazia. Il risultato si vedrà. Il piano per la presa del potere funzionò tramite la sigla «Ipes» dell’Istituto di ricerche e studi sociali, qualcosa a metà strada tra una Onlus attuale e una loggia massonica. Dal 1962, anno in cui è stato creato, fino al ‘64, l’Ipes riuscì a reclutare centinaia di manager di diversi gruppi bancari, delle industrie chimiche e farmaceutiche, delle industrie alimentari, di una decina di agenzie di pubblicità, più una dozzina di imprese di trasporti e industrie elettroniche. I golpisti architettarono addirittura uno schema per elaborare progetti da presentare al Congresso e un sistema per abbatterne altri, al fine di favorire i propri interessi e creare l’inerzia legislativa. L’agenzia di notizie Ipes creava appositamente cinegiornali
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TO I CONTI COL PASSATO allarmisti sulla crisi, contro la violenza e la corruzione, riempiendo la stampa di articoli scritti da opinionisti scelti tra i conservatori più noti, che denunciavano la “deriva comunista” del Brasile. E guai ai giornali che non li avessero pubblicati. Avrebbero perso tutti gli sponsor affiliati all’Ipes. Ecco da dove un certo Licio Gelli prese l’ispirazione per il suo piano di rinascita democratica in Italia. Nonostante l’ingovernabilità dovuta ai deputati comprati dall’Ipes con i soldi del governo statunitense e la convulsione sociale, il presidente João Goulart aveva comunque l’appoggio dell’opinione pubblica. Aveva dalla sua parte persino il basso rango della marina militare, una categoria storicamente malmessa, composta da neri poverissimi, che oramai minacciavano di ricorrere allo sciopero per farsi ricevere dal ministro della Marina. Fu anche per loro che il presidente scese in piazza, a Rio de Janeiro, e pronunciò lo storico discorso del 13 marzo 1964. Jango annunciò la nazionalizzazione del petrolio, la riforma agraria, diritti sindacali per i lavoratori rurali e altre riforme strutturali. Chi era più a sinistra trovò tiepide le misure. Però, il grosso della popolazione era contenta. Il basso rango dei marinai rimase soddisfatto, Goulart non l’avrebbero mai mollato, nonostante girasse voce che qualche infiltrato tra di loro stesse fomentando la protesta. Ed era vero. Sì, perché ormai non ci si poteva più fidare di nessuno. Il piano per infiltrare golpisti Ipes in tutti i segmenti della società stava funzionando. IL MOMENTO DEI MILITARI Verso la fine di marzo, bastò che l’ambasciatore statunitense in Brasile, Lincoln Gordon, e un centinaio di agenti Cia tenessero informato il presidente Lyndon Johnson, per decidere che il momento giusto per la presa del potere da parte dei militari era arrivato. Dagli Stati Uniti parte l’ordine di posizionare navi e aerei lungo la costa brasiliana, pronti ad agire anche a costo di versamenti di sangue, se necessario (come ha fatto capire lo stesso presidente degli Usa). Il 31 marzo del ‘64, carri armati muovono verso Brasília e Rio de Janeiro, minacciosi. La maggior parte dei governatori degli Stati aveva già aderito alle forze golpiste. Jango decise di non reagire, ordinando azioni militari lealiste che mettessero a repentaglio la vita della popolazione civile. Fu deposto e costretto all’esilio in Uruguay. Dal 1964 al 1985 i militari brasiliani e la casta golpista ripuliranno il Paese dalle sue ricchezze e dagli oppositori, torturandoli, “suicidandoli”, squartandoli e buttandone via i pezzi, con l’aiuto degli squadroni della morte del peggio della polizia civile. La dittatura brasiliana non è nota quanto quella argentina o quella cilena. E invece quell’orrore è esistito. Cinquant’anni dopo, le ferite fanno ancora tanto male.
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aprile 2014 La presidentessa dilma Rousseff e José Maria Marin allo stadio Mané Garrincha di Brasilia (rodrigo stuckert/cbf). In basso, vladimir Herzog, il giornalista scomodo, assassinato dal regime militare su istigazione di Marin
Mister Mundial è in fuorigioco
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da Alias - il manifesto del 19 marzo 2014
el 1975, Ivo Herzog aveva solo nove anni - e la dittatura militare, 11. Ma tanto, quando si nasce sotto una dittatura, poco importa la monocromia dei carri armati e delle uniformi militari, specie se hai un papà vicino per insegnarti a giocare a pallone. E chissà, era forse proprio per il futuro dei figli Ivo e André, e per la moglie Clarice, che il giornalista Vladimir Herzog - direttore del tg per l’emittente pubblica Tv Cultura di San Paolo conduceva con discrezione la propria vita di iscritto al (proibito) Partito comunista brasiliano, senza che gli fosse mai passato per la testa di entrare in clandestinità, o impugnare le armi contro il regime. Era settembre quando Vlado, chiamato alla Tv Cultura per provare a recuperare la credibilità del giornalismo, oramai identificatosi con il regime, decise di conferire al tg un’aria di dibattito libero e democratico. Perché no? In fondo il generale Ernesto Geisel, quarto presidente militare dal golpe del 1964, aveva promesso di promuovere l’apertura politica del regime. Herzog finì col credere che alla Censura federale non sarebbe importato se avesse mandato in
onda notizie, come ad esempio quelle dal Vietnam. Anche perché, a quel punto, la guerra era ufficialmente finita. Ma purtroppo si sbagliava. Durante gli anni del regime, non contava ciò che i generali dichiaravano pubblicamente, ma ciò che l’ala dura del regime, con i suoi sostenitori civili, tramava nei sotterranei del potere. Fu a causa della pressione degli sponsor di un tg concorrente, legato a «Tradizione, Famiglia e Proprietà», e di agenti infiltrati dai golpisti nei giornali, nei sindacati, nelle imprese e nei partiti che cominciarono a spuntare ovunque manifestazioni di esagerata indignazione contro la cosiddetta «linea comunista» adottata da Herzog nella tv «Viet-Cultura». La polizia politica aveva già arrestato dozzine di giornalisti coinvolti nella lotta democratica e ora puntava gli occhi su Herzog. In poco tempo la caccia al topo finì con l’arrivare all’Assemblea Legislativa di San Paolo. Due deputati dell’Arena - partito fantoccio del regime militare vennero ben istruiti per far precipitare la situazione. Solo così si spiega il tenore dei loro discorsi tenuti il giorno 6 ottobre, 1975. Con grida veementi contro la «comunistizzazione» della televisione di Stato e una valanga di accuse per condizionare il parlamento, i deputati costruirono la giustificazione perfetta per l’arresto del direttore del telegiornale di Tv Cultura. Non passò molto tempo, e la polizia convocò Vladimir Herzog per una deposizione. Sabato 24 ottobre, il giornalista si presentò spontaneamente al Doi-Codi per dimostrare la sua “buona fede”. Ma al regime poco importavano le buone maniere e, di lì a poco, altri giornalisti arrestati svelarono che Vlado era già stato preso, incappucciato, spogliato e rivestito con una tuta militare. Più tardi sentirono solo le sue grida allucinanti, mentre lo torturavano. Erano così atroci che i boia dovettero alzare al massimo il volume della radio per coprirle. E mentre un racontinua a pagina 28 ➔
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➔ segue da pagina 27 diocronista annunciava l’estrema unzione data al Generalissimo Franco in Spagna, la voce di Vlado andò abbassandosi, fino a spegnersi del tutto. Il giorno seguente venne divulgata una nota alla famiglia e al Paese, in cui si dichiarava che il giornalista Vladimir Herzog si era suicidato. Non solo. Insieme alla nota uscì una fotografia nella quale Vlado appariva in una cella praticamente inginocchiato, con una corda al collo - come se qualcuno potesse impiccarsi a cinque centimetri dal pavimento. Trentanove anni dopo, questa storia torna sui media – e non solo a causa del 50mo anniversario del golpe militare che ricorre martedì prossimo, 1 aprile ma in connessione diretta con la Coppa del mondo di calcio. Sì, perché uno dei due politici che proferì il discorso che portò alla prigione, alla tortura e alla morte del giornalista Vladimir Herzog, è nientemeno che José Maria Marin, l’attuale presidente della Federazione calcio brasiliana (Cbf) e del Comitato organizzativo locale, prossimo anfitrione del Mundial 2014. Ivo Herzog, figlio del giornalista ucciso, proprio non riesce a comprendere il silenzio omertoso della Fifa. Furioso per le accuse, José Maria Marin, che non ha mai voluto rispondere neanche alle nostre domande, ha citato in giudizio il giornalista Juca Kfouri per diffamazione. Kfouri, legato ai movimenti per l’etica nello sport, è uno dei primi firmatari della petizione inoltrata alla Fifa per chiedere le dimissioni di Marin: «È davvero una vergogna per noi ritrovare uno come lui alla cerimonia di apertura della Coppa del Mondo - dice Ivo Herzog -, al fianco della presidentessa della Repubblica Dilma Rousseff, perché anche lei e il suo ex marito furono torturati dal regime. Marin non solo denunciò mio padre, quando era deputato, ma un anno dopo la morte di Vlado si esibì in un pubblico elogio nei confronti di Sergio Fleury, l’ufficiale che guidava il Dipartimento di sicurezza politica e sociale, responsabile di uno “squadrone della morte” che torturò, uccise e squartò - e solo occasionalmente viene ricordato come capo della Polizia civile di São Paulo». Il figlio del giornalista ucciso non si dà pace per l’impunità dei crimini della dittatura in Brasile, e lancia un appello alle Federazioni mondiali, ai calciatori e all’opinione pubblica internazionale affinché venga manifestata la propria indignazione alla Fifa. «Avere José Maria Marin come anfitrione della Coppa del mondo 2014 in Brasile - sostiene Herzog - è un po’ come se Erik Priebke fosse stato il patrono di Italia ‘90». Solange Cavalcante
IL SOLDATO “IMPAZZITO” DI FORT HOOD: UNO DEI TANTI
L’«ordinario» stress dei veterani
S di
da il manifesto del 3 aprile 2014
GIULIANA SGRENA
e hai fatto la guerra o l’hai subita non te ne liberi più, ti resta dentro. Quante volte ho sentito citare la «guerra dentro» parlando direttamente con i veterani dell’Iraq negli Stati uniti. Quel tormento che ti rode dentro, anche quando eri convinto di andare a combattere per il tuo paese, ma spesso non lo eri nemmeno. Gli orrori della guerra sono difficili da immaginare senza averli vissuti. Il segno resta. Lo indicano le statistiche dei disagi e delle malattie provocate dai «di-
Fort Hood, texas (reuters)
sordini da stress post traumatico». Depressioni, perdita di lavoro, rottura di rapporti familiari, suicidi, omicidi. «Non aveva dato segni di voler usare la violenza contro se stesso o contro gli altri» Ivan Lopez, il soldato che ieri, 3 aprile, ha sparato e ucciso tre persone prima di suicidarsi nella base di Fort Hood in Texas. Così ha raccontato ai media e all’opinione pubblica statunitense il capo di stato maggiore dell’esercito John McHugh. Ma Ivan Lopez (ancora una volta un latino, che inevitabilmente mi ricorda Mario Lozano), 34 anni, autista di mezzi militari, aveva passato quattro mesi in Iraq nel 2011. Quattro mesi
sono pochi ma possono essere interminabili quando si vive come occupante in un paese che senti ostile mentre devi essere pronto a uccidere - e troppo spesso accade - anche senza motivo, quasi sempre senza motivo. E da quando era tornato era sotto cura per depressione, ansia e altri problemi. Lo stress post traumatico provocato dalla guerra in Iraq e da quella che continua ogni giorno in Afghanistan è superiore a quello della «lontana» guerra in Vietnam, le cui vittime non sono mai riuscite a superarne gli effetti. Almeno 2,3 milioni di veterani delle ultime guerre soffrono di stress e depressione, il 19 per cento dei quali con danni al cervello. Ma solo il 50 per cento dei malati viene curato e solo la metà in modo minimamente adeguato (secondo uno studio della Rand Corporation). Non ci si può dunque meravigliare di quanto succede a Fort Hood, la base militare americana più grande al mondo che può ospitare fino a 50.000 soldati. E infatti non è la prima volta che assistiamo a un massacro, tanto è vero che i militari, a parte gli ufficiali, in giro per la base non dovrebbero portare armi, ma Ivan Lopez aveva il suo fucile sotto la tuta mimetica. La restrizione sulle armi è stata applicata dopo la carneficina compiuta nel 2009 da Nidal Malik Hasan, uno psichiatra che aveva ucciso tredici persone, dodici soldati e un civile in attesa di essere visitati. Nel settembre dello scorso anno altre dodici persone sono state assassinate da un ex militare della marina all’interno del Washington Navy Yark. Non solo assassini ma anche suicidi, il cui numero - vale la pena sottolinearlo - supera quelli dei soldati caduti in guerra (circa 1 al giorno, secondo i dati registrati nei primi mesi del 2012). Un’impennata nei suicidi si è registrata nel 2005, quando si è intensificata la guerra in Iraq e in Afghanistan. È così vero che il Pentagono ha dovuto istituire un Ufficio per la prevenzione dai suicidi. Recentemente, durante una visita per verificare gli effetti dello stress post traumatico su di me, mi è stato chiesto, per l’appunto, se avevo tentazioni suicide. La domanda mi ha sorpresa, ma a pensarci bene ne ho capito le ragioni.
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il fiore del partigiano
La “polvere” dei nuovi neri
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ESTREMISTI DI DESTRA E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA UNITI DALLA DROGA
L’ di
SAVERIO FERRARI
estrema destra a Milano si è sempre caratterizzata per le sue posizioni e le sue campagne in favore di «legge e ordine». Così fu negli anni Settanta quando si mobilitò contro la «violenza rossa» e per l’introduzione della pena di morte. Nel contempo occupava con i propri squadristi piazza San Babila e assaltava le sedi dei partiti di sinistra. Non solo, come in seguito emerse da diverse inchieste giudiziarie, più di un suo esponente risultò trafficare in stupefacenti, organizzare rapine e fruire dei proventi del mercato della prostituzione. Una doppiezza che già si infranse clamorosamente il 12 aprile 1973 in occasione di una manifestazione nazionale dell’Msi, nel corso della quale due suoi militanti assassinarono un agente di polizia, Antonio Marino, lanciando bombe a mano contro i cordoni delle forze dell’ordine. Ora, in un contesto completamente mutato, colpisce il susseguirsi di alcuni episodi, a partire da un concerto nazirock, il 16 dicembre scorso, promosso da un coordinamento di sigle neofasciste per celebrare il trentennale della scomparsa, per incidente stradale, di Carlo Venturino, il fondatore degli «Amici del vento», gruppo musicale di estrema destra, tenutosi al Music Hall Madison, una storica discoteca situata in via Giovanni da Udine, periferia nord ovest di Milano. Il locale era già finito sulle pagine di cronaca nel dicembre 2006, nell’ambito dell’inchiesta «Soprano», che portò alla sua chiusura. Il Madison era allora guidato da Vincenzo Falzetta, detto «O’
la vignetta di
FOGLIAZZA
18 maggio 2013, inaugurazione a milano di una nuova piazza
banana», che l’aveva acquisito per conto della famiglia calabrese dei Coco Trovato per riciclare denaro e spacciare cocaina. Riaprì solo nel 2009. Attualmente a gestirlo è la Par, partecipazioni alberghiere e ristorazioni, una società a responsabilità limitata che risulta essere di proprietà di tre soci, gli stessi che l’hanno concesso in affitto ai promotori del concerto. Uno di questi, Antonio Luca Biasi, detto «Lulù», è rimasto coinvolto nel febbraio 2011 nell’operazione «Carpe diem», condotta dal Gico e dalla Direzione distrettuale antiIn alto, il Music Hall Madison di Milano. mafia di Salerno: 35 arSotto, militanti dell’estrema destra (foto tam tam) resti per traffico internazionale di droga con relativo smantellamento del clan di Giuseppe Alfano alias «Peppe o’ nel rapporto della Commissione antimafia del 2012 che portò allo scioglimento, nell’otsqualo». Questioni di droga hanno riguardato in pas- tobre dello stesso anno, del comune di Reggio sato anche Rodrico Gentile, altro proprieta- Calabria, come l’emissario del boss mafioso rio del Madison. Ai tempi dell’università, nel Santo Crucitti. Tibaldi, attualmente indagato, 1993 venne arrestato per spaccio di droga. figura come socio unico della Milasl srl, proNel suo appartamento a Baggio fu trovato prietaria degli spazi, precedentemente nelle mezzo etto di sostanze stupefacenti tra eroina mani di Lino Guaglianone che nel 2007 vendette tutte le quote a Tibaldi, pur rimanendo e cocaina e otto milioni di lire in contanti. La droga è risultata essere anche al centro amministratore unico fino al marzo 2010. della vicenda che ha portato, l’11 dicem- Guarda caso la sede della società in un primo bre scorso, al fermo, poi tramutato in ar- momento era proprio in via Durini 14 (ora è resto, da parte della procura della Repub- a Reggio Calabria), ovvero allo stesso indiblica di Giuseppe Flachi, detto don Pepé, rizzo della Mgim, lo studio di commercialisti boss della ’ndrangheta lombarda, e di di- di cui Lino Guaglianone è socio. Studio sotto versi altri personaggi coinvolti in traffici il quale il 17 settembre 2009 lo stesso Guadi stupefacenti tra Italia ed ex Jugoslavia. glianone fu fotografato dai carabinieri in Dalle numerosissime intercettazioni è compagnia di Paolo Martino, considerato anche saltato fuori come uno dei leader uno dei più influenti capi della ’ndrangheta a milanesi degli Hammer, Domenico Bosa, Milano. alias Mimmo (già finito in carcere per co- Di Pasquale «Lino» Guaglianone, si è già caina nel 2003), intrattenesse stretti rap- scritto e detto molto: ex tesoriere dei Nar (i porti con il narcotrafficante Milutin Nuclei armati rivoluzionari fondati nel 1977 dal terrorista nero Giusva Fioravanti), conTiodorovic. Pochi giorni fa, infine, è emerso che la dannato con sentenza definitiva per associanuova sede, in zona Certosa, tra via San zione sovversiva e banda armata, candidato Brunone e via Pareto (gli stessi locali per nel 2005 per Alleanza nazionale alle regionali, qualche tempo già di «Cuore nero»), ap- commercialista, curiosamente, non iscritto pena inaugurata da «Lealtà azione», ov- all’albo a Milano ma a Reggio Calabria. vero l’associazione fiancheggiatrice la rete Forse non così casuale il continuo sovrapneonazista di Hammerskin, sia stata data porsi, anche recente, fra estrema destra e criin «comodato d’uso gratuito» niente- minalità organizzata. Solo un dato di meno che da Michelangelo Tibaldi, citato continuità.
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il fiore del partigiano
Quei Garibaldini con le mos
I MILITARI ITALIANI DI STANZA IN JUGOSLAVIA CHE SI SCHIERARONO CONTRO I TEDESCHI NON EBBERO RIC
Montenegro 1943 - 1945: la Storia negata
L’
8 settembre 1943, data dell’armistizio, i tedeschi chiedono alle 4 divisioni italiane che presidiano il Montenegro la consegna delle armi pesanti e progressivamente tentano di occupare le posizioni strategiche tenute dall’esercito italiano. La divisione di fanteria “Emilia”, di stanza a Bocche di Cattaro sull’Adriatico, decide di porre fine alle infiltrazioni tedesche e il 14 settembre iniziano violenti scontri con furiosi scambi di colpi di artiglieria. Contravvenendo alle direttive del XIV corpo d’armata, il generale Buttà comandante della “Emilia”, fa distribuire le armi ai volontari civili che vogliono opporsi ai tedeschi. Una prima offensiva tedesca viene respinta e gli Jaeger (i cacciatori, truppe scelte di montagna) ripiegano rovinosamente. Ma poi la situazione precipita, la formazione italiana è priva di copertura aerea e subisce ingenti perdite, gli Stukas creano vuoti paurosi. In soccorso all’“Emilia” si muove dalla zona di Nikšić la divisione alpina “Taurinense”. Il generale Vivalda, comandante la divisione alpina, ha raggiunto un accordo di non belligeranza coi partigiani dell’EPLJ (Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia), che fanno da guida agli alpini fra le impervie montagne del Montenegro. I tedeschi, intuendo la manovra della “Taurinense”, cercano di ostacolarne i movimenti e, anche in seguito al tradimento dei cetnici e all’aggressione di bande mussulmane e di banditi, gli alpini sono impegnati in continui scontri, appoggiati solo dalle scarse e sospettose forze partigiane; essi giungeranno in tempo per proteggere l’imbarco verso l’Italia di quanto resta dell’“Emilia”. Un reparto composto da oltre 200 alpini vagherà fra il Montenegro e la Bosnia, forzando blocchi tedeschi ed eludendone molti altri; dopo oltre un mese “la Colonna Fantasma” si unirà alla neo formata “Divisione Garibaldi”. Bandiere rosse a Berane In questo quadro la divisione “Ferrara”, di stanza poco lontana dalla zona delle Bocche, assiste passivamente agli scontri e decide di non intervenire, esprimendo un orientamento filotedesco. Una volta sciolta la divisione, molti reparti combatteranno nei battaglioni di camicie nere a fianco dei germanici, mentre alcuni reparti e singoli soldati ed ufficiali si uniranno ai partigiani nella lotta di liberazione. A rimanere sostanzialmente intatta negli uomini e nel potenziale bellico è la divisione di fanteria di montagna “Venezia” di stanza a Berane e dislocata nella fascia di terra tra i fiumi Lim e Tara nell’est del Montenegro. A comandarla c’è il generale Oxilia, veterano della prima guerra mondiale. Oxilia è anche un abile diplomatico; formalmente in attesa di ordini, prende tempo,
Il generale Peko dapc ̌ević e i combattenti della divisione “Garibaldi” a Berane nel dicembre 1943. Sotto, a Pljevlja i presidenti Pertini e Špiljak inaugurano il cippo dedicato alla divisione italiana
tergiversa, si rifiuta di consegnare le armi ai tedeschi, attende il promesso sbarco alleato alle Bocche, cerca una pacifica convivenza con le formazione cetniche di Mihajlović e nel frattempo, grazie all’opera del capitano Mario Riva e del suo capo di stato maggiore colonnello Stuparelli, getta le basi per un accordo con i partigiani del 2° Korpus dell’EPLJ, del mitico maggior generale Peko Dapčević. Ma i tedeschi premono, vogliono risposte e fatti precisi; l’8 ottobre del ’43, pochi giorni prima della formale dichiarazione di guerra del governo Badoglio alla Germania (13 ottobre), si aprono le ostilità. A Berane occupata dalla “Venezia” sfilano, bandiere rosse in testa, i partigiani. Una macchina scoperta percorre la cittadina con seduti uno accanto all’altro il comandante della divisione italiana Oxilia e Dapčević, il comandante partigiano. Verso Berane confluiscono tutti i reparti italiani della “Taurinense” e di quanto resta dell’“Emilia”, ma anche singoli soldati e ufficiali e reparti di carabinieri e guardia di finanza, e formano la “Divisione Partigiana Garibalidi”. La scelta del nome non è casuale, perché Giuseppe Garibaldi è un riferimento molto amato dai montenegrini, in quanto egli diede un apporto decisivo alla liberazione del Montenegro dal dominio ottomano, inoltre, soprattutto per i partigiani di Tito, era un richiamo alla formazione, inquadrata nelle Brigate Internazionali, che solo pochi anni prima aveva combattuto dalla parte della repubblica nella guerra civile spagnola (a Guadalajara antifascisti della Garibaldi avevano inflitto una dura sconfitta alle camicie nere comandate da Roatta e mandate da Mussolini in appoggio all’alzamiento dei generali golpisti Franco e Mola). La “Divisione Partigiana Garibaldi” porta come distintivo le mostrine dell’Esercito Italiano e il fazzoletto rosso garibaldino, simbolo di lotta per la libertà e l’autodeterminazione dei popoli. Unico caso in tutta Europa, la Divisione Partigiana Garibaldi manterrà un comando autonomo italiano nell’ambito dell’EPLJ, anche se
verrà ristrutturata in quattro Brigate, adeguandosi alle necessità della lotta partigiana e di guerriglia. I conti con la Storia Le perdite negli scontri furono ingentissime; a causa dei mancati rifornimenti di medicinali, viveri e vestiario molti soldati e ufficiali morirono, anche a seguito di una violenta epidemia di tifo scoppiata nel primo semestre del ’44. I rapporti fra gli italiani e il comando jugoslavo furono improntati alla massima correttezza, ma anni di dura repressione, a volte spietata e gratuita, dell’occupante italiano non potevano essere cancellati con un colpo di spugna. Dopo l’8 settembre, alcuni ufficiali responsabili di atti di repressione furono giudicati e condannati a morte dai tribunali jugoslavi e non mancarono neppure singoli episodi di intolleranza verso gli italiani. Furono gli unici italiani di tutto il periodo bellico dichiarati e puniti per crimini di guerra. Alessandro Pirzio Biroli, governatore del Montenegro, fu tra i militari uno dei più ligi esecutori della criminale politica di repressione attuata dal regime e da Mussolini. Tra il 1941 e il 1942, a seguito di una insurrezione, egli ordinò efferati massacri anche di vecchi, donne e bambini e la distruzione di interi villaggi. Stranamente coperto dai governi post fascisti, non pagherà mai per i suoi crimini. Il sottosegretario alla guerra dei governi Bado-
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ostrine
RO RICONOSCIMENTI NEL DOPO-GUERRA
glio e Bonomi, Mario Palermo, visitò l’unità italiana, condividendo con soldati e ufficiali per oltre un mese la dura vita di montagna. Al ritorno in Italia si adoperò senza risparmiarsi, scontrandosi anche con gli alleati, per fornire ai soldati viveri, medicinali, armi e vestiario. I superstiti furono rimpatriati dall’antica Ragusa (Dubrovnic) a partire dal febbraio 1945. Il freddo dopo-guerra La Repubblica federale jugoslava e Tito stesso riconobbero l’apporto decisivo degli italiani della Garibaldi nella lotta di liberazione. Alcuni italiani, come il capitano Mario Riva della “Venezia” e il maggiore Cesare Piva della “Taurinense”, assursero a simbolo di lotta al fascismo e di fratellanza fra il popolo jugoslavo e quello italiano. A Pljevlja le autorità jugoslave, nel 1983, alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini, eressero un cippo in ricordo della “Divisione Partigiana Garibaldi”. A conclusione del conflitto, il contenzioso fra Italia e Jugoslavia, la guerra fredda, lo scontro fra Tito e Stalin e i riflessi che questi fatti ebbero sulla politica italiana faranno sì che questa vicenda, unica e scomoda, verrà marginalizzata se non ignorata nelle commemorazioni ufficiali e finirà per essere dimenticata anche dai movimenti antifascisti militanti. I reduci, non accolti in quanto tali nell’ANPI perché facenti parte di un’unità regolare dell’esercito, non trovarono accoglienza neppure fra le associazioni combattenti dell’esercito, in quanto inquadrati sotto comando partigiano. Per ripristinare la verità storica e ricordarne i fatti, i reduci della “Divisione Partigiana Garibaldi” confluirono nell’Associazione Nazionale Reduci e Veterani Garibaldini, organizzazione presieduta dalla pronipote di Giuseppe Garibaldi. Annita Garibaldi Jallet, in un convegno tenuto a Roma il 24 ottobre 2013, ha rinnovato gli obbiettivi dell’associazione. I documenti ufficiali della Divisione Partigiana Garibaldi vennero consegnati dal colonnello Carlo Ravnich, ultimo comandante della divisione, a Umberto II e da allora fanno parte dell’archivio storico, inaccessibile, dei Savoia in Svizzera. Recentemente, una richiesta del Sovrintendente dell’Archivio Centrale di Stato italiano al fine della consultazione di tali documenti non ha avuto esito. Luigi Gatti
Per saperne di più • il corposo libro di stefano gestro “la divisione partigiana garibaldi – montenegro 1943- 1945”, editrice mursia. con ricordi e documenti personali del sottotenente gestro. • il libro di mario palermo “storia di un comunista napoletano”, edito da guanda nel 1975. • “fratelli nel sangue. contributi per una storia della partecipazione degli italiani alla guerra popolare di liberazione della Jugoslavia” di aldo bressan e luciano giuricin, edit rijeka, 1964, di fonte jugoslava. • le recenti ricerche dello storico eric gobetti disponibili su internet.
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Campione anche di Resistenza
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
I
valerio piccioni - Manlio Gelsomini. Campione partigiano - ed. gruppo abele, pagg. 174, € 14,00
dal sito: www.anpi.it
n queste pagine, il giornalista Valerio Piccioni ha ricostruito la drammatica storia di un medico, campione di atletica (si allenava tutti i giorni alla Farnesina, a Roma, e correva i cento metri in undici secondi netti) che decise con coraggio di aderire alla Resistenza, finendo torturato in via Tasso e ucciso nelle Fosse Ardeatine. Si chiamava Manlio Gelsomini. Era nato a Roma il 9 novembre 1907. In sua memoria sono dedicate a Roma quattro lapidi. Quella della sua ultima abitazione, in via Venezia 18; al Policlinico Umberto I, dove lavorava, al primo piano vicino alla Biblioteca (oltre al suo nome c’è pure quello del dottore Luigi Pierantoni, altro medico ucciso alle Fosse Ardeatine); in piazza dell’Immacolata 27, sul muro dell’edificio del suo studio medico; e, infine, in via Re Tancredi 6, dietro piazza Bologna, dove il nome di Gelsomini è accostato – nella comune militanza nell’Unione Sindacale del Lavoro – a quello di Mario Tapparelli (che viveva nell’edificio), Franco Saverio Sardone, Arturo D’Aspro, Alberto Giacchini e Giovanni Senesi. Con decreto luogotenenziale, il 12 ottobre 1945, gli è stata conferita la medaglia d’oro al valore militare, alla memoria, con questa motivazione: “Fu tra i primi ad organizzare un movimento di resistenza armata, nella zona dell’Alto Lazio… con fermezza d’animo, con l’ascendente personale e generoso sprezzo della vita, durante i giorni del terrore nazifascista, fu di luminoso esempio ai
propri dipendenti, donando fiducia ai timorosi e accrescendo audacia ai forti…”. Ufficiale medico, dopo l’8 settembre, partecipò ai combattimenti di Porta San Paolo, quando – all’indomani dell’Armistizio fra l’Italia e gli Alleati – l’esercito tedesco si impadronì di Roma. Aderì, poi, al fronte militare clandestino, organizzando gli sbandati a nord di Roma (Concentramento di “Monte Soratte”), con il soprannome di “Ruggero Fiamma”. Partecipò ad azioni contro i tedeschi, continuando a svolgere l’attività di medico. Una spia lo fece catturare, mentre andava ad assistere un ferito. Un infiltrato che faceva il doppio gioco, in continuo contatto con i partigiani, ma al soldo dei tedeschi: un romano, sedicente produttore cinematografico a Londra; ricercato a Parigi, per una truffa, ai danni di una ricca signora milanese. Una storia, quella di Gelsomini, fra imboscate notturne e proclami. Fino ai sogni e agli incubi di via Tasso, in un diario, compilato “tragicamente”, scritto da chi sente l’avvicinarsi della fine: il 24 marzo 1944. Nella presentazione del libro è messa in evidenza la densa narrazione (pagina dopo pagina) e la documentata e minuziosa ricerca dei dati e dei fatti, in cui si rincorrono passato e presente, i ricordi e la vita reale, le ricostruzioni storiche e le ipotesi. Il percorso personale e politico di un giovane, di un professionista colto – altruista e atleta – che, come altri della sua generazione, la vita, le circostanze e gli ideali trasformarono in eroe.
carlo vallauri - Esperienze di autogoverno democratico - laterza ed., pagg. 392, € 22,00 Le Repubbliche partigiane sono state le prime realizzazioni democratiche e le prime dimostrazioni di capacità di autogoverno da parte degli italiani. Dopo tanti anni di dittatura, la popolazione era infatti chiamata a libere elezioni e dimostrava così la diffusione di un vasto movimento democratico, precursore dell’Italia repubblicana. Grazie alle convergenze di forze politiche eterogenee nascevano (soprattutto nel 1944) le esperienze della Valsesia, Val Maira, Val Varaita, Valle di Lanzo, Langhe e Alba, Val d’Ossola e Alto Monferrato, dell’Oltrepò pavese, della zona libera di Carnia e il Friuli occidentale, di Torriglia e delle Val Ceno e Val Taro, Montefiorino e Bobbio. gherardo colombo-roberta de monticelli - A scuola di Costituzione con i ragazzi di Libertà e Giustizia - salani ed., pagg. 208, € 13,00 “La Costituzione è incompiuta” diceva Pietro Calamandrei nel 1950. Eppure, “La Costituzione è sconosciuta” dice uno studente nel 2013. È l’insieme delle leggi fondative del nostro Paese. Un documento unico, scritto quasi settant’anni fa, profondamente attuale. Ma quanti di noi lo conoscono, quanti sanno applicarne i principi nella vita di tutti i giorni, partecipando così attivamente alla società? L’Associazione Libertà e Giustizia, insieme all’Associazione Nazionale Magistrati, è entrata nelle scuole superiori e ha coinvolto studenti e insegnanti in un progetto di grande valore civico, i cui frutti sono raccolti in questo volume.
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IN CARCERE DA 38 ANNI ACCUSATO INGIUSTAMENTE DELLA MORTE DI DUE AGENTI FBI
Prigioniero politico Leonard Peltier, leader dell’American Indian Movement da il manifesto del 26 marzo 2014
«L’ di
MARCO CINQUE
unico indiano buono è l’indiano morto», recitava il vecchio adagio razzista degli wasichu (i visipallidi invasori), ma il più grande genocidio della storia umana è stato declassato, dai vari governi statunitensi, ad un banale, impunibile e impunito «destino manifesto». I massacri, le deportazioni, le sterilizzazioni di massa, le leggi razziali, la reclusione in ghetti chiamati «riserve» e le assimilazioni forzate spariscono nei negazionismi degli sceriffi planetari, per lasciar posto a festeggiamenti cele brati in pompa magna, rilanciati nel 1992 in occasione del cinquecentenario della cosiddetta «scoperta dell’America» (Columbus day), che continuano ad offendere sia le popolazioni aborigene che a mistificare la verità storica. Leonard Peltier è oggi il simbolo della resistenza di quei popoli aborigeni oppressi da più di 500 anni. Amerindiano di ascendenza Ojibwa Lakota, Peltier è stato tra i primi fondatori dell’Aim (American Indian Movement), movimento nato per sostenere e difendere le popolazioni native del Nordamerica. Oggi, quasi settantenne, Leonard sta scontando una condanna a 2 ergastoli ed è in carcere da 38 anni. La sua vicenda risale al 1973, cioè a quando oltre 300 nativi iniziarono una protesta contro gli abusi e gli spossessamenti dei territori Lakota, soprattutto dopo la scoperta di enormi giacimenti di uranio nell’area di Sheep Mountain. Venne perciò chiesto aiuto a Peltier e agli attivisti dell’Aim, per impedire queste violazioni. Due anni dopo, nel giugno del 1975, durante una festa religiosa nella riserva dei Lakota Oglala, a Pine Ridge, alcune auto dell’Fbi prive di targa circondarono la zona e iniziarono una sparatoria contro la gente inerme. I Lakota risposero al fuoco e alla fine sul terreno rimasero tre corpi: due agenti dell’Fbi, Ronald A. Williams, Jack R. Coler e un indiano, Joe Stuntz. Naturalmente per il nativo ucciso non venne
aperta alcuna inchiesta, mentre per i due agenti furono indagate tre persone, tra cui Leonard Peltier. Nonostante un accurato rapporto balistico della stessa Fbi rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati dall’arma del leader dell’Aim, il destino dell’imputato lakota era già irrimediabilmente segnato, poiché il processo si svolse a Fargo, città storicamente nota per essere anti-indiana e molti testimoni furono pesantemente minacciati dall’Fbi, per non parlare delle versioni contrastanti degli agenti accusatori. Il dibattimento fu una farsa presieduta da un giudice razzista e una giuria composta esclusivamente da gente bianca, che non esitò a condannare Peltier al carcere a vita. Da allora la causa di Leonard è stata sostenuta e divulgata in ogni parte del mondo (spesso sul manifesto) da normali cittadini, associazioni e personalità quali il Dalai Lama, Desmond Tutu o artisti come Robbie Robertson, Bruce Springsteen, Little Stevens, Pete Seeger e tanti altri. La sua vicenda è stata narrata anche nel film documentario del 1998,
Un cartello nella Monument valley in arizona. Sopra, l’arresto di Leonard Peltier nel febbraio 1976 ad alberta, in canada
«Incident a Oglala», per la regia di Michael Apted. Ma la campagna in suo sostegno ancora continua, sia negli Stati uniti che in Europa: lo scorso 6 febbraio, a Barcellona, è infatti iniziato un presidio permanente davanti al Consolato degli Usa, mentre in altri paesi europei è stata promossa una nuova raccolta di firme, con un appello al presidente degli Stati Uniti. Già negli anni ’90 Clinton aveva deciso di firmare per la liberazione di Peltier, ma le proteste dell’Fbi lo hanno fermato. Chiediamo ora ad Obama di fare ciò che Clinton non ha avuto la forza di fare. In rete c’è la petizione per chiedere la grazia: https://secure.avaaz.org/en/petition/Freedom_for_Leonard_Peltier_Grant_Clemency_Now/. In carcere Leonard è diventato un bravo pittore autodidatta, cercando di fare qualcos’altro che non fissare le quattro pareti che ne imprigionano il corpo. I volti del suo popolo, gli animali sacri e la riscoperta delle sue radici ancestrali gli danno una fede e una forza interiore che gli permettono di resistere, di aprire varchi di colori attraverso il muro, di guardare oltre il loculo di cemento in cui è costretto ad abitare. In una sua poesia, intitolata Peccato aborigeno, Leonard denunciava la repressione fisica e anche culturale perpetrata contro la sua gente: «…siete colpevoli solo di essere voi stessi /di essere indiani /di essere umani /è la vostra colpa a rendervi sacri».
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PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA ZONA DELLA MARTESANA
Redazione: presso la sede della Sezione Quintino di Vona di Inzago (MI) in via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Direttore responsabile: Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)