Il Fiore del Partigiano - settembre 2014

Page 1

Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:11 Pagina 1

settembre 2014

anno 5 numero 14

FACCIAMO FESTA! disegno di marilena nardi

ANNIVERSARI

Settant’anni resistenti

Tanti ne ha compiuti a giugno la nostra Associazione

Q di

La Divisione Fiume Adda dell’ANPI organizza la prima Festa di Zona delle sue Sezioni. Si terrà nei quattro giorni di fine agosto, da giovedì 28 a domenica 31, a Truccazzano, ospiti della Cooperativa Très bien. Brinderemo ai settant’anni dell’ANPI nazionale, ricorderemo i nostri martiri locali, come il professor Quintino Di Vona, ucciso a Inzago il 7 settembre 1944. Il loro sacrificio non è stato vano, se oggi possiamo festeggiare in pace e in democrazia.

da l’Unità del 6 giugno 2014

ANDREA LIPAROTO

uella che vi sto per raccontare è la storia di un amore, ma di quelli abbastanza irripetibili. Una storia il cui spartito mostra i segni di una fedeltà assoluta e di gesti brillanti e rivoluzionari. Vergata senza immaginazione, dunque, senza finali da risvegliarsi poi nel solito continua a pagina 3 ➔

Il prof. Di Vona

a pagina 2 il programma e le informazioni ➔


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:11 Pagina 2

2

il fiore del partigiano

Facciamo festa!

settembre 2014

LA PRIMA FESTA DI ZONA A TRUCCAZZANO, DAL 28 AL 31 AGOSTO

A

La Divisione Fiume Adda si ritrova rinnovando la storia dei suoi Padri

lla fine ci siamo riusciti: il 28- 29- 30- 31 agosto si svolgerà a Truccazzano la prima festa della DIVISIONE FIUME ADDA. Questa terra, fra l’Adda, la Martesana e la Brianza, vide centinaia e centinaia di donne e uomini che seppero scegliere la “parte giusta” dalla quale stare. La “DIVISIONE FIUME ADDA” comprendeva quattro brigate Garibaldi (103ª - 104ª - 105ª e 176ª): - 103ª Brigata S.A.P. “Vincenzo Gabellini” alla guida della quale vi era il figlio Alberto Gabellini, suddivisa in 7 distaccamenti facenti capo ai Comuni di Vimercate, Trezzo, Vaprio, Cassano, Cavenago, Ornago e Bernareggio. - 104ª Brigata S.A.P. “Citterio” comprendente i distaccamenti di Arcore, Merate, Brivio, Villasanta, Rovagnate, Cernusco Lombardone e Montevecchia. - 105ª Brigata S.A.P. “Adda” comprendente i distaccamenti di Gorgonzola, Melzo, Cernusco sul Naviglio, Inzago, Cambiago. A Truccazzano agiva un gruppo numeroso di partigiani. - 176ª Brigata S.A.P., intitolata in seguito a “Livio Cesana”, comprendente 6 distaccamenti nei Comuni di Besana Brianza, Macherio, Biassono, Carate, Renate, Veduggio e Bosisio. I morti della Divisione Fiume Adda furono 75, i feriti 86. La nostra non sarà una delle tante feste che intasano le serate sempre meno canicolari dell’estate. La nostra sarà una festa per ringraziare le donne e gli uomini combattenti della DIVISIONE FIUME ADDA che eroicamente agirono in questi nostri paesi, nascosti nelle


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:11 Pagina 3

il fiore del partigiano campagne e nei boschi, fra le sponde dell’Adda e la Brianza. La nostra sarà una festa per dire che li ricordiamo ancora, per dire che non siamo solo bigliettai del Museo della Memoria. All’estero parlano spesso dell’Italia come di un Paese poco serio. E a forza di assistere a scandali, episodi di malcostume, rifiuto di regole, hanno finito per fare una grande confusione, al termine della quale siamo tutti considerati colpevoli, quanto meno di sopportare e tollerare una situazione così degradata. Non è così. C’è un’altra Italia, quella della Resistenza e della Costituzione, c’è un’Italia che ricorda i Caduti per la libertà e ne vuole portare avanti il messaggio, l’Italia pulita, democratica, antifascista. Un Paese che non ricorda i caduti per la libertà e lascia nell’oblio le pagine più belle della sua storia, è destinato alla rovina. Noi, invece, continuiamo a sognare un Paese democratico, civile, unito, in cui libertà e uguaglianza trionfino e vengano non solo riconosciuti, ma attuati e resi effettivi i diritti proclamati dalla Costituzione. La parola d’ordine della nostra festa è: ANTIFASCISMO. E non ci riferiamo soltanto al fascismo in camicia nera, ma a tutto ciò che sa di limitazione della libertà, di contestazione dei princìpi di fondo della nostra Costituzione, di disprezzo delle regole. Non importano le definizioni e classificazioni. Ciò che conta è tenere sempre presente la storia e ricordarci che essa ci insegna che i pericoli per la democrazia possono assumere aspetti multiformi e non debbono mai essere sottovalutati. Quando si osa perfino proporre di modificare l’art.1 della Costituzione, vuol dire che siamo già oltre il limite della tollerabilità ed è indispensabile reagire con forza e con fermezza I nostri genitori e i nostri nonni hanno combattuto contro tedeschi e fascisti perché volevano la libertà e la democrazia; dobbiamo continuare noi ad impegnarci contro tutto ciò che può mettere in discussione le conquiste ottenute al prezzo di tanti sacrifici. Venite a conoscere i nostri giovani! Rimarrete sorpresi! Maurizio Ghezzi

ANPI Truccazzano - Pozzuolo Martesana

3

settembre 2014

Settant’anni resistenti

➔ segue da pagina 1

buio. Il tutto prende le mosse dal 6 giugno 1944 quando in Campidoglio, su impulso del CLN, Comitato di Liberazione Nazionale, viene costituita l’ANPI, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Protagonisti della Resistenza, all’indomani della Liberazione di Roma - mentre nel Nord ancora si combatte - si trovano insieme, finalmente liberi, senza il fiato addosso dei nazisti e dei loro portantini in camicia nera, a progettare passi di rinascita. A far fronte, prima di tutto, a necessità incombenti: assistenza alle famiglie dei partigiani caduti e a quelli in vita per il loro pieno reinserimento nella società. La lotta armata e l’impegno civile. Dal primo comunicato ufficiale (26 settembre 1944) emergono con nettezza il senso e il fine del cammino che l’Associazione intende intraprendere, ma non solo. A leggere bene è facile intuire l’avvio di un vero e proprio “viaggio sentimentale”: «... la fiamma ideale che ha sorretto gli intrepidi pionieri dell’Italia Democratica non deve disperdersi con la Liberazione del territorio nazionale: deposte le armi i loro compiti non sono finiti. La stretta comunione di intenti e di opere che li ha animati nell’azione militare deve perpetuarsi nell’attività civile. Non il baratto del sacrificio con privilegi e prebende deve essere il fine, ma - come si addice alle forze più sane e vigorose dell’antifascismo italiano - la difesa e la ricostruzione della Patria (...)». Da allora i combattenti per la libertà non hanno smesso un momento di collocare l’ANPI in prima fila nelle battaglie volte a riposizionare civilmente l’amata Italia a seguito delle tante occasioni in cui degrado morale, spinte eversive, affondi liberticidi hanno rischiato di snaturarne origini e direzione. Il 1948 è l’anno dell’entrata in vigore di uno straordinario baluardo e motore di “risorgimento”: la Costituzione della Repubblica. E non pochi dei suoi ideatori sono partigiani e dirigenti dell’Associazione. Tra tutti Arrigo Boldrini, Bulow. “Il comandante”, per antonomasia. Autore di «leggendari colpi di mano» (come ricorda Lucio Cecchini nella sua storia dell’ANPI edita nel 1996) ai danni di fascisti e tedeschi, dopo l’8 settembre del 1943 Boldrini organizza a Ravenna ben due brigate partigiane. Quindi, col rientro nella vita civile, viene eletto Presidente Nazionale dell’ANPI nel corso del primo Congresso che si tiene a Roma nel 1947. E lo resterà per 60 anni. Bulow, senza dubbio alcuno, è stato uno dei più arguti e appassionati seminatori d’antifascismo con l’imperativo però di una raccolta di decisivi frutti d’avvenire: «L’ideologia antifascista non può ridursi ad una posizione morale di ripulsa del fascismo, ma impone un pronunciamento, una critica puntuale sullo stato della democrazia, sui guasti della società italiana, proprio perché antifascismo, democrazia, Costituzione rappresentano i grandi pilastri di uno Stato

moderno. Ecco perché la strategia dell’antifascismo si deve rinnovare ed arricchire con il contributo autonomo delle forze più vive della società e delle nuove generazioni» (da Patria Indipendente - la rivista ufficiale dell’ANPI - del 27 luglio 1975). Le nuove generazioni. Un altro capitolo “fondativo”. Ad un certo punto del suo esistere, l’Associazione deve fermarsi. Le partigiane e i partigiani, dopo aver affrontato i nazifascisti prima, quindi i fascisti di ritorno negli anni ‘60, il terrorismo, la corruzione, la mafia... debbono scontrarsi con un nemico che forse non avevano mai messo nel conto, presi com’erano da amore e strategie: la vecchiaia. Agli inizi del terzo millennio, l’esigenza di un impellente passaggio di consegne fa così il giro delle coscienze più avvertite e responsabili. E arriva la svolta. Nel 2006, durante il Congresso di Chianciano, con una modifica statutaria si delibera che possono iscriversi all’ANPI anche coloro che non hanno partecipato alla Resistenza. E migliaia di giovani non si fanno ripetere l’invito due volte. Giugno 2008, Gattatico (RE), Casa Cervi: Prima Festa Nazionale dell’Associazione. Il tema portante, «Antifascismo e/è democrazia». Ad organizzarla, un gruppo formato per lo più da persone tra i 25 e i 40 anni. Il colpo d’occhio su questo primo, ufficiale prodotto di un’operazione rischiosa agli occhi di non pochi partigiani è del tutto sorprendente. Volti ed espressioni delle ragazze e dei ragazzi appaiono esattamente e naturalmente provenienti da lontano... Il 2009 conferma il bene dei nuovi ingressi, rilanciando, ma anche puntualizzando. Dal Documento programmatico della Conferenza Nazionale di Organizzazione di Chianciano: «Decisivo per una nuova stagione dell’ANPI è che nell’Associazione il rapporto tra i partigiani e gli antifascisti sia scevro da rotture generazionali, da giovanilismi paternalistici e da piaggerie opportunistiche o reverenziali, e si fondi invece sulla consapevolezza della reciproca indispensabilità e della comune funzione oltre che sulla parità di diritti e doveri. L’imperativo è lavorare insieme affinché sulla memoria dell’antifascismo e della Resistenza si fondi il futuro della democrazia italiana». Un lavoro che ad oggi ha procurato all’Associazione importanti benefici - in termini anche di rinnovamento della comunicazione, viaggiante su canali obbligatoriamente fuori dall’abituale “artigianato” partigiano - qua e là interrotti da fisiologiche incomprensioni, ma anche tensioni all’abuso per fini d’altra “missione” per così dire. Ma l’ANPI riesce ad avere continue risorse di radicamento in una sola identità date proprio da quell’antico principio di senso e sentimento. E a perderlo perderemmo un po’ tutti, in azione e riflessione. In particolare, ultimamente, quest’ ultima, e aggiungo: responsabile. Per non parlare dell’amore... Per lo più infilato in un angolo di narrazioni scaltre e “innocue”. Ancora 70 anni, cara ANPI. E più. Magari.


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:11 Pagina 4

4

settembre 2014

il fiore del partigiano

Quintino Di Vona, professore partigiano

INZAGO - IL 7 SETTEMBRE 1944 IL PROFESSORE VENIVA CATTURATO, INTERR OG

Fu un grande studioso e combattente Quest’anno ricorre il 70° anniversario del martirio del professor Quintino Di Vona, ucciso a Inzago il 7 settembre del 1944. Lo ricordiamo pubblicando ampi stralci dell’intervento del Presidente dell’ANPI Provinciale di Milano Roberto Cenati, tenuto due anni fa in sua commemorazione.

I DI

ROBERTO CENATI

l professor Quintino Di Vona veniva da una modesta famiglia di lavoratori, tanto modesta che il padre dovette emigrare per mantenere la famiglia. L’amore per lo studio che il ragazzo manifestava venne sostenuto con grande sacrificio dai genitori, ed egli riuscì a laurearsi in Lettere a Salerno nel 1921. Da questo modo di vivere, dalle condizioni nelle quali si trovava allora la gente che lo circondava, nacquero in una mente critica e appassionata come la sua, le convinzioni politiche che lo accompagnarono per tutta la vita. Partecipò alla guerra 1914-1918 e fu mutilato. Quintino Di Vona valorizzò, poi, la sua qualità di mutilato di guerra per eludere la tessera fascista e le manifestazioni di regime. Si iscrisse al Partito Socialista e collaborò con Matteotti.

Nello stesso tempo approfondiva la sua cultura letteraria e fu autore di numerosi saggi su autori latini. Amante dello studio, di una cultura conquistata con fatica materiale e intellettuale, vuole capire, vuole sapere e sceglie. Sceglie i valori, valori sociali e politici, nella prospettiva di una società che avrebbe difeso le categorie più deboli. Il fascismo che aveva preso il potere, non era portatore di quei valori, anzi ne era la negazione. «Uno dei lati caratteristici, e forse il più dannoso, del fascismo – ricorda la moglie Lina Di Vona Caprio nel libro Colloquio con un martire – è quello di avere instillato nell’animo della nostra gioventù l’arroganza, la prepotenza, l’odio, la ferocia e di avere armato i ragazzi». Come tutti gli antifascisti capì che il popolo italiano sarebbe stato travolto da una grande catastrofe. Perché non iscritto al PNF, gli fu preclusa la

Uomo di valore. Di Vona eccelleva non solo negli studi e nell’insegnamento, ma anche nella militanza attiva, come divulgatore e dirigente partigiano


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:11 Pagina 5

il fiore del partigiano RR OGATO, PERCOSSO E UCCISO IN PIAZZA via ad ogni miglioramento di carriera. Come insegnante di ruolo dovette adattarsi all’insegnamento dei primi rudimenti del latino nelle prime classi del ginnasio Carducci e, da ultimo, nella scuola media di via Sacchini in Milano, benché fosse stimato dai più come un grande latinista. In quel liceo di periferia, così era definito il Carducci, venivano mandati per punizione i docenti sgraditi al regime. Lì si era formato un gruppo importante guidato da Di Vona e costituito, fra gli altri, dai professori Cabibbe, Augusto Massariello, Maria Arata (deportata per la sua attività nel lager femminile di Ravensbrück), Mario Bendiscioli, don Vincenzo Locati. Attorno a questi insegnanti si costituirà un nucleo di studenti contrari al regime, tra cui Armando Cossutta, Gianfranco Maris, Enzo Capitano, giovane studente deportato nel lager di Mauthausen, dal quale non è tornato. Al liceo Carducci Di Vona ha anche l’aiuto impareggiabile della segretaria Antonia Palazzo, che gli batte a macchina manifesti, articoli per i giornali clandestini e nasconde il materiale scottante negli archivi della scuola. Due donne straordinarie che ci hanno recentemente lasciato, Alba Rossi Dell’Acqua e Concettina Principato, ci hanno fornito bellissime testimonianze su Quintino Di Vona. «Lo possiamo immaginare – osserva Concettina Principato in un commosso ricordo di Quintino Di Vona del 22 settembre 1991 – spiegare ai ragazzi il sapere senza retorica, senza inneggiare al nascente impero, adempiendo al suo dovere di educatore e di intellettuale per una formazione diversa dei suoi alunni, pur trasmettendo tutti gli elementi validi del latino, dell’italiano, della storia. E lo immaginiamo nei momenti liberi dal suo lavoro, immerso in un’attività politica clandestina di grande impegno. Collaborò alla stampa di opposizione finché ne fu vietata la pubblicazione e continuò con la stampa clandestina». Dell’attività di Di Vona racconterà anche Alba Rossi Dell’Acqua, sua stretta collaboratrice e partigiana in Valsesia con Cino Moscatelli: «L’8 settembre 1943 il professor Di Vona, dopo essersi adoperato presso le autorità di Milano perché non si lasciassero entrare i tedeschi nella città senza opporre resistenza, risultato vano ogni tentativo, organizzò un servizio di recupero di armi abbandonate da reparti dell’esercito che si sbandavano. Io collaborai per questo servizio: raccoglievo informazioni circa il recupero di armi, viaggiando continuamente sui treni delle Nord; una volta sicuri del nascondiglio, accompagnata da una persona munita di furgoncino, andavo a prelevarle e le portavo a casa del professore. Un altro servizio organizzato dal professor Di Vona fu quello delle informazioni militari. Fu possibile una volta avvisare il comandante Mo-

scatelli di un rastrellamento che i tedeschi avrebbero effettuato a Gattinara. Il professore mi informò, ordinandomi di partire per la Valsesia allo scopo di portare la notizia: così il rastrellamento, privo del fattore sorpresa, costò ai nazisti perdite notevoli. Un altro aspetto dell’attività del professore fu quello di riunire in casa sua amici e compagni di lavoro per discutere e chiarire gli scopi della nostra lotta, lotta che non avremmo considerata finita il giorno della sconfitta del tedesco e del fascista, ma che avremmo continuato finché il nostro Paese non avesse avuto un governo democratico, puro dalle scorie del passato regime, appoggiato dalle forze del lavoro». Dopo l’armistizio Di Vona si collega con il Partito Comunista Italiano, diffondendone la stampa clandestina. Contribuisce alla nascita del CLN della scuola milanese. La casa milanese dell’insegnante divenne punto di riferimento per la Resistenza: vi si stampavano volantini, vi si raccoglievano armi, vi si ospitavano ebrei e partigiani. «Tu passavi lontano da noi tutto il giorno, a Milano – ricorda la moglie Lina Di Vona Caprio nel libro Colloquio con un martire - e tornavi in seno alla famiglia soltanto la sera. Subito sedevi a tavola e spesso quello era l’unico pasto della giornata, perché il tuo gran da fare t’impediva, il più delle volte, di prepararti la colazione frugale». Quintino Di Vona, inoltre, inquadrato con lo pseudonimo di "Lanzalone" nella 119a Brigata Garibaldi (che dopo la sua morte gli sarebbe stata intitolata), partecipò a numerosi atti di guerriglia. Avvisato di essere già nella lista nera (come si soleva dire), gli fu offerto di fuggire in Svizzera, ma rifiutò: “Bisogna stare qui. È qui che si lotta e si vince» rispondeva. Catturato in seguito a delazione da militi della Brigata Nera di Monza (che giunsero a Inzago all’alba del 7 settembre), Di Vona fu, per ore ed ore, picchiato a sangue. Dalle sue labbra non uscì una parola che potesse danneggiare la Resistenza. Nel primo pomeriggio i fascisti, al comando di un sottufficiale delle SS germaniche, trasportarono con un camion l’insegnante nella piazza principale del paese. Qui Di Vona fu fucilato da un manipolo di imberbi militi in camicia nera. I passanti atterriti dovettero anche assistere allo scempio che fu fatto del cadavere, lasciato sulla piazza per il resto della giornata e per tutta la notte. Prima di essere fucilato disse ai suoi assassini: «Col mio sacrificio l’Italia non sarà vostra lo stesso». Grazie al sacrificio di Quintino Di Vona, e di tanti altri, l’Italia fu liberata dai nazifascisti. Non dobbiamo dimenticarcelo mai.

5

settembre 2014

GLI APPUNTAMENTI DA SETTEMBRE A NOVEMBRE

Di Vona: Inzago non dimentica nella ricorrenza del 70° anniversario del martirio del prof. Quintino di Vona e del 120° anniversario della sua nascita, il Comune di inzago e la locale sezione anPi organizzano: Domenica 7 settembre 2014 CERIMONIA DI COMMEMORAZIONE

Ore 10,15: dalla sede anPi in via Piola n. 10, partenza del corteo verso il cimitero con accompagnamento della banda s. Cecilia di inzago. deposizione corona d’alloro alla cappella dei Caduti e sosta sulla tomba del prof. Quintino di Vona.

Ore 11,00: Piazza maggiore Deposizione corona d’alloro sulla lapide del prof. Quintino di Vona. discorsi commemorativi del sindaco di inzago, benigno Calvi e di un rappresentante anPi. lettura di un brano tratto dalla testimonianza storica La fisarmonica rotta.

Ore 11,30 presso il Centro de andré in via Piola n. 10 “dedicato a di Vona”, inaugurazione della mostra di opere pittoriche ispirate dal libro Colloquio con un Martire di lina Caprio, a cura del gruppo Pittori inzaghesi. seguirà aperitivo.

Lunedì 8 settembre 2014 ore 21,00 auditorium del Centro de andré in via Piola, n. 10 Presentazione del video sul prof. Di Vona realizzato dalla sezione anPi di inzago. a seguire tavola rotonda sul tema: “gli uomini e le donne della nostra storia” con interventi di dario riva (“la figura del professor Quintino di Vona ed i suoi giorni ad inzago”) e Filippo gorla (“1943. insegnare in quegli anni: le difficoltà, le contraddizioni”). iniziativa organizzata a cura della sezione anPi di inzago. Mercoledì 12 novembre 2014 ore 11,00 sala alessi di Palazzo marino – milano Presentazione del libro La dalia rossa del coraggio antifascista con interventi dell’autore dario riva, del Presidente del Consiglio Comunale di milano basilio rizzo, del sindaco di inzago benigno Calvi, del sindaco di Cassano d’adda roberto maviglia e di un rappresentante anPi. Domenica 30 novembre 2014 ore 16,00 auditorium del Centro de andré in via Piola n. 10 Presentazione del libro La dalia rossa del coraggio antifascista di dario riva, con interventi delle autorità comunali, proiezioni di enzo motta, letture recitate e musiche a cura del gruppo rouseto Folk.


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:12 Pagina 6

6

settembre 2014

il fiore del partigiano

La sfida della dalia rossa raccolta dai ragazzi di oggi

CASSANO D’ADDA - IL 9o CONCORSO L. RESTELLI DECRETRA IL SUCCESSO PER LO SPETTACOLO TE

V

enerdi 30 maggio sera, l’Auditorium del Liceo Scientifico Giordano Bruno di Cassano d’Adda è strapieno; più di duecento persone, adulti e ragazzi, si accalcano sulle gradinate rossicce che scendono verso il palco. Si tiene la 9a edizione del Concorso Luigi Restelli, che anche quest’anno è stato organizzato dall’ANPI con la collaborazione dell’ANPC, il patrocinio della Città di Cassano d’Adda e, soprattutto, con la partecipazione delle 3e medie dell’Istituto comprensivo locale e dei loro docenti. Il percorso della memoria questo anno ha assunto un aspetto molto diverso: le varie classi non presentano più in modo separato i propri lavori ed elaborati su aspetti o personaggi della lotta antifascista o sulla Costituzione repubblicana, come nelle scorse edizioni, questa sera presentano ed agiscono in un lavoro corale. Quasi 40 ragazze e ragazzi di circa 13 anni portano in scena Una dalia rossa e una fisarmonica rotta, un lavoro teatrale tratto da un racconto del professor Dario Riva sulla fucilazione del partigiano e martire della Resistenza antifascista prof. Quintino Di Vona, avvenuta ad Inzago il 7 settembre 1944 per rappresaglia da parte dei nazifascisti. Il racconto si svolge per lo più nell’osteria del Gallo Rosso e vede un’ambientazione della dura e sofferta quotidianità dei tempi della 2a guerra mondiale: l’Italia del Nord è ancora sotto l’occupazione dell’esercito della Germania nazista e le prepotenze dei fascisti italiani, in un regime ormai agonizzante e per questo più crudele e pericoloso, si fanno sentire. La storia si sviluppa fino alla scena della fucilazione dell’organizzatore partigiano Quintino Di Vona in piazza a Inzago, davanti a tutta la popolazione atterrita, poi il dileggio della salma da parte di un fascista inzaghese, a cui in

L’auditorium del Giordano Bruno la sera dello spettacolo del Concorso Restelli. Sul palco i giovanissimi attori rivivevano la vita di paese ai tempi del nazifascismo (a sinistra) e i suoi drammi, come la fucilazione di Quintino Di Vona (a destra). Ad assistere, un pubblico numeroso e partecipe (sotto). Foto enzo motta

Le sensazioni provate nei panni della Storia

PatriCK motta (oste mario): «Ho scoperto che recitare mi piace tanto, non vedo l’ora di ripetere ancora questo bello spettacolo. A volte mi trovo con i miei amici in oratorio e ci cimentiamo nel recitare e rivivere il dramma del prof. Di Vona, il cui sacrificio ricorderò sempre». simona Carotenuto (moglie di mario): «Che bello rivivere l’ambiente di osteria! Le nostre prof. sono state mitiche, attente anche a darci una dritta su come le donne a quei tempi si vestivano».

contraltare splende la misericordia ed il rispetto portato dall’oste Mario con la dalia rossa posata tra le mani del partigiano ucciso. La vicenda teatrale continua con le minacce all’oste da parte dei fascisti, la ritirata dei tedeschi - che piuttosto di vendere la loro fisarmonica con cui all’osteria andavano a bere e suonare (Lili Marleen...) la rompono prima di scappare - e finalmente la fine della guerra e la libertà portata dall’arrivo degli Alleati e dei partigiani. Per rigore storico dobbiamo aggiungere che alla tomba di Quintino Di Vona altri inzaghesi, ancora nel 1944-1945, avevano posto in essere episodi di grande considerazione e misericordia, con fiori, quadretti e addirittura una bandiera italiana senza stemma Savoia. La partecipazione morale dei ragazzi è evidente, l’attenzione, la tensione in sala potente, l’arricchimento scenografico ha un

Viola rigHini (capocomica): «Vestita con un velo nero, ho anche interpretato la Morte quando Quintino era ormai a terra senza vita, ho volteggiato attorno al suo corpo e compiuto acrobazie, ma ero tristissima». FranCesCo berardi (Quintino): «Sentivo su di me una grande responsabilità, ma poi con il pubblico davanti ho avuto la mia grande occasione. Quando sono morto e il mio corpo è stato omaggiato della dalia rossa, con il mio amico Patrick siamo riusciti a far piangere il pubblico».

maria Paini (truccatrice e costumista): «I miei amici in divisa sartoriale erano perfetti; quasi quasi i due tedeschi, così alti, intimorivano anche me. Ho disegnato i baffetti ai camerati inzaghesi per rendere più duri i loro lineamenti. Anche i ragazzi dell’aula Girasole (sostegno) hanno contribuito all’allestimento, costruendo la mitica fisarmonica in cartone e la credenza saccheggiata dal “Micin”, terribile fascistello di Inzago». (Commenti raccolti dalla professoressa Piera de maestri)


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:12 Pagina 7

7

il fiore del partigiano LO TEATRALE DELLE 3E MEDIE

settembre 2014

vengo anch’io... INZAGO

“tre passi verso l’inclusione sociale” 3 edizione “i nuovi esclusi” chi sono, dove vanno, cosa fanno a

momento topico nelle evoluzioni allegoriche della “Morte” che arriva, attraversa aerea lo spazio temporale del proscenio e si accascia a terra… tutta nera. Durante la rappresentazione, curata molto bene nei particolari, nei dialoghi, nell’ambientazione storica e nei costumi (divise, armi, insegne, musiche d’epoca, persino una bicicletta con i freni a bacchetta), vengono proiettate slide con testate di giornali, fotografie, titoli di proclami dell’epoca per rafforzare il senso del periodo storico, mettendo a frutto un lavoro di ricerca storica e non solo di rappresentazione teatrale. Complimenti a tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione di questo evento: ANPI, ANPC, ACLI, Comitato soci COOP, Lions Club, Assessorato alla Cultura di Cassano d’Adda, l’amico Anacleto e la sartoria Bianchi, ma soprattutto i ragazzi delle 3e medie e le loro insegnanti Piera De Maestri, Silvia Dimitri, Anna Francia, Maura Cantù (che hanno lavorato con passione civica alla sceneggiatura e alle coreografie), senza dimenticare i musicisti. Alla serata erano presenti i sindaci di Cassano ed Inzago con i rispettivi assessori alla Cultura, il dirigente scolastico, prof.ssa Valentina Marcassa, che ha definito questo bel lavoro della scuola media “Alessandro Manzoni” di Cassano d’Adda uno di quei preziosi percorsi carsici che la Scuola pubblica sa donare a tutti noi, sorprendendoci sempre. La distribuzione dell’edizione speciale per la Scuola della Costituzione, fatta stampare dalla zona ANPI Martesana - Divisione Fiume Adda, gli applausi del pubblico ed il tripudio dei ragazzi-attori hanno chiuso questa bella serata. Già stiamo pensando e programmando gli interventi per l’anno prossimo, 70° anniversario della Liberazione e sconfitta del nazifascismo. Giancarlo Villa ANPI di Cassano d’Adda Sezione Bonifacio Colognesi

Venerdì 19 settembre 2014 Ore 21:00 Cinema Teatro Giglio proiezione del film

“Io rom romantica” Regia di Laura Halilovic

Venerdì 03 ottobre 2014

Ore 21:00 Auditorium “Fabrizio De André” via Piola, 10 Inzago MI

“Tutta la vita in un giorno”

Introduzione Rita Catanzariti A.N.P.I.

• Introduzione Vittorio Caglio Cooperativa Sociale Punto d’Incontro

Centro Culturale “Fabrizio De Andrè” Mostra Fotografica

Conduce la serata Diego Motta, Giornalista

19 settembre - 3 ottobre “Perché non mi guardi?”

a cura della “Fondazione Somaschi”

Venerdì 26 settembre 2014 Ore 21:00 Auditorium “Fabrizio De André” via Piola, 10 Inzago MI

“Il Futuro che verrà”

• Introduzione Carlo Barzaghi Cooperativa Sociale Granellino di Senapa • Saluti dell’Amministrazione Comunale

• Lucio dell’Arciprete “ArchèTipo Solidale” Cooperativa Sociale Arché • Erminio Fusi Presidente Team Work

• Equipe Drop-In Fondazione Somaschi

Con la partecipazione di Don Gino Rigoldi

Conduce la serata Alessandro Braga Giornalista CON IL PATROCINIO DEL

COMUNE DI INZAGO

• Francesca Barra, scrittrice, presenta il suo libro“Tutta la vita in un giorno”

ORGANIZZATO DA:


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:12 Pagina 8

8

settembre 2014

il fiore del partigiano

Al dolore della guerra non si può rimediare

A BELLINZAGO LOMBARDO LA PREMIAZIONE DEL 3° CONCORSO “25 APRILE”

B

ello, lo spettacolo organizzato dall’ANPI per la festività del 25 aprile. Il gruppo musicale “I Lavoranti” ha fornito la voce musicale al lavoro Dalla guerra alla pace (Ci ragiono e canto) curato dall’Associazione La Comune Luigi Bottasini che sabato 10 maggio ha incantato il pubblico accorso all’oratorio della nostra parrocchia. Al termine, dopo l’intervento di Antonio Rolla, presidente dell’ANPI, sono stati proiettati i disegni dei vincitori del 3° Concorso ANPI 25 aprile dal titolo “1914-2014 Cento anni dall’inizio della Grande Guerra: riflessioni sulle guerre”. La premiazione vera e propria è invece avvenuta a scuola il 13 maggio, davanti alla platea entusiasta di tutti gli studenti della scuola secondaria di primo grado. Quest’anno i disegni presentati sono stati fatti veramente bene, precisi e ben colorati; chi più a tema, chi meno, e i disegni delle prime e seconde sono stati ritenuti più vicini al tema del concorso. Vista la quantità di elaborati meritevoli di essere premiati, l’ANPI ha deciso di rimodulare l’ammontare delle singole borse di studio in modo da premiare più studenti e incrementando anche il totale complessivo. Pubblichiamo qui di seguito l’elenco dei 19 premiati e la motivazione del premio: 1) Barletta Andrea, 3a E - Premio Abilità con borsa di studio da € 30 Una trincea perfettamente rappresentata. 2) Brambilla Giorgi, 3a E - Premio Abilità con borsa di studio da € 30 - Gli eserciti alleati con i nazisti contrapposti a una scritta contro le guerre. 3) Tirloni Sara, 3a F - Premio Idea con

Qui sopra, il presidente Rolla a scuola per la premiazione. Qui a sinistra e a destra nella pagina a fronte, nell’ordine i lavori di: Arrigò Matteo 2a E primo premio, Comi Flavio premio ANPI, primi premi di Ledda Alessandro 3a E e Todesco Chiara 1a E. Nella pagina a fronte in alto, un’istantanea dello spettacolo dalla guerra alla pace. In basso, i giovani vincitori durante la premiazione

borsa di studio da € 30 - Una scritta su un reticolato e la faccia di una ragazza tagliata a metà su uno sfondo grigio-verde, a sottolineare il concetto dei bambini invisibili nelle guerre. 4) Ronchi Laura, 3a E - Premio Idea con borsa di studio da € 30 - Il progresso nella tecnologia militare non è evoluzione, ma solamente la ricerca di nuove modalità di guerra. 5) Comi Luigi, 3a F Secondo Premio con borsa di studio da € 70 - Doppia tavola. Nella prima, inviti alla pace ruotano attorno alla descrizione degli ef-

fetti della guerra. Nella seconda, un momento di una battaglia navale. 6) Ledda Alessandro, 3a E - Primo Premio con borsa di studio da € 100 - Un soldato abbraccia e porta in salvo un bambino ferito: è un messaggio contro le guerre. 7) Carano Martina, 2a E - Premio Idea con borsa di studio da € 30 - Un muro color sangue su cui si proietta un’ombra nera, è il testimone muto dell’uccisione di un bambino. Non bisogna uccidere i bambini. 8) Bonora Simone, 2a F - Premio Idea con borsa di studio da € 30 - Un tappeto volante della pace guidato da dei ragazzi percorre il mondo in guerra sperando di pacificarlo. 9) Baccaro Laila, 2a E - Premio Idea con borsa di studio da € 30 - Le armi si trasformano in giocattoli per giocare finalmente alla pace. 10) Zanoni Cecilia, 2a F - Terzo Premio con borsa di studio da € 50 - Il cannone spara la


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:13 Pagina 9

9

il fiore del partigiano

settembre 2014

Seminare l’antifascismo nelle scuole

S

di

pace e la sua bandiera contro le guerre. 11) Bruno Alessia, 2a F - Secondo Premio con borsa di studio da € 70 - La trincea della sofferenza in contrasto con l’arcobaleno della pace. 12) Arrigò Matteo, 2a E - Primo Premio con borsa di studio da € 130 - Disegno e tema. È rappresentata graficamente la fine della guerra e nel retro della tavola il disegno è spiegato con personali considerazioni. Così conclude il tema: «… le orme sul sentiero della speranza significano che coloro che hanno camminato su quel sentiero lasciano della guerra un vivo ricordo ma un morto desiderio di guerra».

13) Comi Flavio, 1a F - Premio ANPI con libro. Riassume i temi del nostro concorso e ne esprime la sua opinione. Sarà utilizzato come logo di questo concorso sul nostro sito www.anpi-bellinzagolombardo.com. 14) Girelli Enrico, 1a E - Premio Abilità con borsa di studio da € 30 - Un momento della battaglia in trincea splendidamente disegnato. 15) Brioschi Sara, 1a F - Premio Idea con borsa di studio da € 30 - Una donna soldato, un’icona insolita nella rappresentazione militare, è invitata a gettare le armi. 16) Meroni Vittoria, 1a E - Premio Idea con borsa di studio da € 30 - Le armi che in modo ironico si ribellano alla guerra. 17) Toffetti Rachele, 1a F - Secondo Premio alla pari con borsa di studio da € 50 - Guerra e pace a confronto: le case. 18) Sala Alessia, 1a F - Secondo Premio alla pari con borsa di studio da € 50 - Guerra e pace a confronto: il campo di battaglia. 19) Todesco Chiara, 1a E - Primo Premio con borsa di studio da € 130 - Doppia tavola. Il grigio della tavola racconta i momenti del dolore, della morte e della guerra. Un viso di donna piange e rivede nello stesso momento l’amato. E ricorda i momenti felici ripetendo a se stessa: «Perché sei andato in guerra?». Giorgio Cervino ANPI di Bellinzago Lombardo Sezione 25 aprile

DINO VERDERIO

abato 10 maggio a Bellinzago Lombardo abbiamo presentato lo spettacolo Dalla Guerra alla Pace (ci ragiono e canto) composto da musica, canzoni, immagini, letture, poesie. La sala dell’oratorio era piena e questo fa capire che i valori della storia italiana sono ancora vivi nella memoria della gente. È stato molto bello, nel seguito della serata, vedere i disegni del “Concorso 25 aprile” fatti dai ragazzi della scuola media. Dobbiamo credere fino in fondo nei valori della Resistenza: Costituzione, libertà e democrazia. È fondamentale portare questi valori nelle scuole di ogni ordine e grado della nostra Zona. L’ANPI è l’associazione che più di altre ha nel suo DNA i valori fondatori della patria italiana, fatta col sangue di molti giovani, uomini e donne che hanno combattuto e difeso il Paese dal fascismo e dal nazismo. È molto importante opporsi alle nuove destre che infestano e brulicano in diversi settori della società italiana. Crediamo che l’ANPI possa coordinarsi a livello di Zona per creare una commissione, con lo scopo di creare una struttura di persone e un programma da portare nelle scuole. Sappiamo che diversi paesi già entrano nelle scuole portando i valori della Resistenza, ma è importante che in ogni scuola questo avvenga e che i ragazzi e le ragazze abbiano la possibilità di conoscere la storia della Liberazione dal fascismo, che conoscano quanto sia importante difendere libertà e democrazia, proprio per assicurare a loro un futuro di dignità. Oggi i nostri ragazzi vivono una situazione di disagio sociale, sono considerati dei clienti a cui vendere non solo merci, ma anche l’ideologia del disimpegno. Un Paese che non prepara i suoi giovani è destinato ad essere ruota di scorta di poteri forti. I ragazzi, i giovani, hanno il diritto di conoscere la storia del Paese in cui vivono; non è vero che i temi di giustizia, uguaglianza, lavoro, diritti, li annoiano, come dice qualcuno. Certo c’è un problema di pedagogia, di capacità di portare ai ragazzi temi e valori con un linguaggio adeguato, concreto e che sappia affascinare nella narrazione: sono importanti le immagini, gli esempi di chi ha vissuto la guerra, la liberazione e la ricostruzione. Nelle scuole è importante portare anche il messaggio contro la guerra e per la pace. Padre David Maria Turoldo diceva: «Le continua a pagina 10 ➔


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:13 Pagina 10

10

settembre 2014

il fiore del partigiano

I nomi indelebili del museo di Carpi L

IL GRUPPO DI BELLINZAGO ANCHE A FOSSOLI

➔ segue da pagina 9 armi sono il fragore che uccide ogni parola, sono la morte della parola, sono la fine di ogni dignità umana, la sconfitta di ogni uomo. La guerra è la sconfitta della politica, non è vero che la guerra è la politica con altri mezzi, in questo caso avremmo solo il diritto del più forte, nulla di più pericoloso che confondere il diritto con la forza. La politica è sempre ricerca di convivenza». La Costituzione italiana nei suoi primi 12 articoli afferma i principi per la vita del popolo italiano; con il primo articolo, sul diritto al lavoro, garantisce a tutti la dignità di vivere con i proventi del proprio lavoro. Rispetto alla guerra, la Costituzione dichiara che «ripudia la guerra». Per i ragazzi e i giovani delle nostre scuole è importante che questi valori siano seminati ogni anno perché solo così possiamo avere un raccolto di pace e di impegno tra le nuove generazioni. Le Sezioni ANPI non devono vivere solo in occasione del 25 aprile, devono avere un ruolo sul territorio, nelle Amministrazioni, nelle scuole, nell’associazionismo, tra i cittadini, con attività che non siano solo di “memoria storica”, ma anche di riattualizzazione del passato, che dalla memoria del passato sappiano vivere dentro alla società attuale, con lo scopo di far vedere ai giovani un possibile futuro di pace, con loro come protagonisti, per eliminare le paure e l’indifferenza. La società attuale vuole i giovani inermi e disponibili al consumismo e al disimpegno, ma questa società profondamente malata ha bisogno di promuovere la “resistenza attiva” contro il degrado culturale, morale, etico, politico ed economico. Ogni arma non violenta è buona per seminare idee di progresso e di pace, di partecipazione alle scelte che interessano la vita della gente. In molti pensano che l’ANPI sia una associazione di vecchi che ricordano solo il loro passato, bisogna sconfiggere questa malsana idea perché l’ANPI è passato, storia, ricordi , memoria che non va dimenticata, ma è anche portatrice di sementi di libertà, democrazia, militanza, cultura e dignità. In Italia c’è una grande necessità di aria fresca, le istituzioni e i partiti sono incapaci di sintonizzarsi con le popolazioni, il disinteresse per la cosa pubblica dilaga e questo favorisce la corruzione, l’evasione, gli intrighi e i poteri forti. Chi può portare il cambiamento, chi può far fischiare il vento contro le ipocrisie? Noi crediamo che i giovani siano la forza che può rompere il sistema per dare la speranza che un altro mondo è possibile. Dobbiamo crederci, credere nei giovani, per questo è necessario dare a loro gli strumenti della conoscenza storica e attivarli ad essere i paladini della Costituzione italiana. Dino Verderio

ANPI di Carugate

a partenza da Bellinzago Lombardo era fissata per l’8 giugno: destinazione Carpi e Fossoli. Abbiamo raggiunto Carpi per la visita al Museo del Deportato, collocato nelle sale che furono un tempo del Palazzo dei Pio, signori di Carpi. Il luogo dei fasti di un tempo è stato trasformato nel museo a memoria dei deportati dei lager per l’iniziativa dell’Amministrazione cittadina. Vi si accede attraversando il Cortile delle Stele, dove si trovano sedici alte stele in cemento armato su cui sono iscritti i nomi dei principali campi di concentramento attivi in Europa durante la seconda guerra mondiale. Di solito un museo raccoglie oggetti relativi ad uno o più settori della cultura: questo no, è stato istituito per far riflettere, pensare e ricordare le sofferenze e le atrocità cui furono sottoposti i deportati. Le tredici sale sono arredate con frasi incise sulle pareti tratte dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza europea e alcuni graffiti di grandi artisti quali Longoni, Picasso, Guttuso, Cagli e Léger che hanno espresso nelle loro opere l’orrore della deportazione. La “Sala Nomi” è l’ultima: vi si trovano incisi i nomi di oltre 13.000 italiani morti nei campi di concentramento europei. E forti sono i sentimenti che quel luogo suscita nei visitatori… Il gruppo dell’ANPI di Bellinzago si è poi trasferito al Campo di Fossoli, a circa sei chilometri da Carpi. Il Campo fu costruito nel 1942 dal Regio Esercito per i prigionieri di guerra. Nel dicembre del 1943 il sito fu trasformato dalla Repubblica Sociale Italiana in Campo di concentramento per ebrei. Dal marzo del 1944 divenne Campo poliziesco e di transito utilizzato dalle SS come anticamera dei lager nazisti. I circa 5.000 internati politici e razziali che passarono da Fossoli ebbero come destinazioni i campi di AuschwitzBirkenau, Mauthausen, Dachau, Buchen-

Il Cortile delle Stele e, qui sotto, la Sala dei Nomi. In basso, il gruppo organizzato dalla Sezione di Bellinzago (Foto giorgio CerVino)

wald, Flossenburg e Ravensbrück. Da qui partì Primo Levi, che ricorda la sua esperienza in questo campo nel suo libro Se questo è un uomo e nella poesia Tramonto a Fossoli. Giorgio Cervino ANPI di Bellinzago Lombardo Sezione 25 aprile


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:13 Pagina 11

11

il fiore del partigiano

settembre 2014

CONTADINI, INTELLETTUALI E COMBATTENTI: UN MITO FONDATIVO DELLA RESISTENZA ITALIANA

Sette sogni spezzati

La famiglia Cervi fotografata nell’aia di casa

Il 28 dicembre ‘43 i fascisti fucilavano i fratelli Cervi

S di

da l’Unità del 28 dicembre 2013

GIANFRANCO PAGLIARULO

ettant’anni fa. 28 dicembre 1943. Sette fratelli: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore. Fucilati dai fascisti della Repubblica Sociale nel poligono di tiro di Reggio Emilia. Con loro, anche Quarto Camurri. Poco più di un mese prima erano stati catturati. La milizia repubblichina aveva circondato la loro cascina a Gattatico, presso Reggio Emilia. Dopo una breve ma violenta battaglia e dopo l’incendio della stalla e dell’abitazione, i fratelli, col padre Alcide Cervi, si arrendono per salvare le mogli e i bambini. Vengono reclusi nel carcere politico dei Servi a Reggio Emilia. Ne escono il 28 dicembre. Il giorno prima in un paese vicino il segretario del fascio era stato ucciso. Ecco la rappresaglia. “Avevamo vent’anni e oltre il ponte / oltre il ponte che è in mano nemica / vedevam l’altra riva, la vita. Tutto il bene del mondo oltre il ponte”. Così Italo Calvino. Fra i tanti che “vedevano oltre il ponte” c’erano quei sette fratelli partigiani che avevano costituito la “banda Cervi”. Dall’8 settembre 1943 si avvia simbolicamente la storia complessa di quella che poi fu chiamata Resistenza. Mentre gli Alleati risalivano la penisola, i partigiani combattevano nel Centro-Nord. Dopo meno di due anni di aspre battaglie, si giunse alla cacciata dei tedeschi, alla sconfitta della Repubblica Sociale, al 25 aprile. La Liberazione. Così gli italiani sconfissero il nazifascismo e,

per la prima volta dall’unità nazionale, scelsero la natura dello Stato, la Repubblica, diventando popolo di cittadini e non più di sudditi, e conquistarono, dopo i lavori dell’Assemblea Costituente, la Costituzione. I Cervi erano una famiglia di contadini con una tradizione antifascista e una propensione verso l’approfondimento culturale. Appassionati alla lettura e al sapere, come si legge sul sito dell’Istituto Alcide Cervi, avevano scommesso sulla modernità: furono fra i primi a procurarsi un trattore e a praticare tecniche innovative per l’agricoltura e per la produzione di latte. Erano perciò parte integrante del mondo rurale, ma guardavano oltre l’esistente. La ragione è spiegata da papà Cervi nella sua biografia I miei sette figli: «Da noi trovate famiglie unite come le dita di una mano, e sono unite perché hanno una religione: il rispetto dei padri, l’amore al progresso, alla patria, alla vita e alla scienza. E soprattutto noi contadini emiliani amiamo la patria e il progresso».

Figli della terra, dallo sguardo lungo La “patria”: la terra dei padri, col suo irripetibile portato di passato, memoria, storia, lingua comune e perciò di sedimentazione di valori. Il “progresso”: il futuro, la speranza e il progetto che si incarnano nella fiducia di una continua possibilità d’avanzamento umano. Può stupire oggi l’immagine di un casale di una famiglia contadina ove si trovi un grande mappamondo. Eppure lo si osserva, assieme a quel trattore “Balilla”, nel Museo Cervi a Gattatico. Dunque i figli erano contadini che stu-

diavano, a cominciare da Aldo che, come scrive papà Alcide, «era la testa della famiglia». Diverso tempo prima Aldo era andato per più di due anni ad una particolarissima scuola: dietro le sbarre a Gaeta aveva conosciuto esponenti dei movimenti antifascisti ed intellettuali. Si dice che la vicenda dei Cervi costituisca un mito fondativo della Resistenza italiana. Ed è vero, dato il carattere emblematico della loro vita, della loro lotta, della loro morte. Si dice anche che i Cervi, pur legati alle strutture clandestine del Partito Comunista, fossero “indisciplinati”. Alcuni, non sempre disinteressati, cercano di contrapporre la storia al mito. Come se occorresse contrastare i sacerdoti di una ortodossia. La storia/mito dei fratelli Cervi fa parte non di una ortodossia, ma di una visione laica e critica, per cui i fatti della storia sono sempre incarnati in modo contraddittorio e perfettibile. Basti pensare al Risorgimento ed alle sue stesse figure-icona, Mazzini, Garibaldi, Cavour. Il sacrificio dei fratelli Cervi è una bandiera della Resistenza italiana, che fu tempo di straordinarie privazioni e di valori generosi; negli anni successivi su quella base si misurarono visioni del mondo critiche, progetti e idealità. Un bagaglio di pensiero, di vita e di politica che sembra smarrito e qualche volta irriso. Eppure dopo la notte del nazifascismo e della guerra rinacque l’Italia, perché ci fu chi, come quei sette fratelli, guardò “oltre il ponte” con ineffabile modernità e con oramai dimenticato rigore morale. Ci si chiede se qualcuno oggi riesca a guardare così lontano.


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:13 Pagina 12

12

settembre 2014

il fiore del partigiano

Così Napoli aprì la Resistenza

L’INSURREZIONE PARTENOPEA TRA IL 27 SETTEMBRE E L’1 OTTOBRE 1943 FU LOTTA DI POP OL

Quattro giornate cruciali per spiegare il biennio 1943-45

«N

di

da l’Unità del 26 settembre 2013

A a « n l a l G M

BRUNO GRAVAGNUOLO

on furono quattro, ma molte di più quelle giornate. Sono precedute da scontri reiterati coi tedeschi e da una battaglia a sud di Napoli che dura venti giorni...». Sfata un luogo comune Abdon Alinovi, 90 anni, vecchio leone togliattiano, segretario napoletano del PCI, deputato e presidente della commissione antimafia negli anni ‘80. E il luogo comune è che la rivolta - dal 27 settembre al 1 ottobre 1943 - sia stata puro tumulto. Episodico. Mentre, sostiene Alinovi, «aveva ragione Longo: dopo Napoli la parola insurrezione acquista valore e senso e diventa la direttiva di marcia per la Resistenza». Alinovi, nato a Eboli, è testimone indiretto. Ma stava nel cuore del teatro più vasto degli eventi: lo sbarco alleato a Salerno dell’8-9 settembre. Operazione «Avelange». Di lì, dalla piana del Sele, segue gli accadimenti l’allora giovane studente di legge a Napoli. Conquistato nel 1941 al comunismo da Mario Garuglieri, operaio fiorentino amico di Gramsci. Su quei fatti Alinovi tornerà. Coi resoconti dei compagni dal cuore dello scontro e l’approfondimento storiografico. Questo il quadro: gli Alleati combattono da Paestum alla Costiera amalfitana, scontrandosi con una resistenza tedesca via terra che durerà venti giorni, tra Salerno e Nocera Inferiore. Immani distruzioni in quei 50 chilometri da sud verso nord, con il rischio che lo sbarco sia ricacciato in mare. Da Eboli - dove stava Alinovi - fino a Cava de’ Tirreni e Nocera, le fiamme della battaglia si vedono benissimo: artiglieria alleata che devasta e contrattacco tedesco. Con una testa di ponte sul Sele gli Alleati passano e iniziano la risalita. Coperti da mare dal fuoco amico. Frattanto Napoli - dice Abdon - «è stremata, sgarrupata, da 104 bombardamenti e 25.000 vittime. E dopo l’8 settembre i tede-

Una scena da le quattro giornate di napoli (1962), regia di Nanni Loy

schi imperversano: i generali italiani fuggono. E civili e militari sono oggetto di rastrellamenti e uccisioni». Prime reazioni popolari (prima dei fatti di Boves nel Cuneese) tra il 9 e il 12 settembre, quando il comandante Scholl proclama lo stato d’assedio. Eccole. Manifestazioni studentesche. Attacco a una autoblindo tedesca in Via Foria, con cattura di 20 soldati. Scontro armato al Palazzo dei Telefoni. Assalto popolare a Piazza Plebiscito, per impedire il transito di una colonna occupante e liberare civili prigionieri. Ancora. Tre marinai e tre tedeschi morti. E rappresaglia: incendio della Biblioteca Nazionale. E uccisione di decine di militari italiani in strada, con sequestro di 4000 civili. E siamo allo stato

d’assedio del 12, seguito da un proclama del 13 che si chiude così: «Tedeschi vilmente assassinati, feriti e vilipesi in modo indegno da un popolo incivile». Sì, annota Alinovi: «Hitler voleva fare fango e cenere di Napoli, e come i suoi ufficiali pensava che Napoli fosse una città di “lumpen”. Di sottoproletari da annientare». Solo odio e razzismo? «No - prosegue Abdon anche strategia. Far trovare Napoli distrutta agli Alleati che risalivano da sud. Un enorme problema civile e logistico che avrebbe danneggiato l’avanzata. Invece la rivolta salvò la città, preservando le fabbriche e Bagnoli». E siamo al cuore delle Quattro Giornate. Il popolo «incivile» insorge e «si leva gli schiaffi


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:13 Pagina 13

il fiore del partigiano OP OLO, NON TUMULTO CASUALE dalla faccia», per dirla in dialetto. Dà una lezione militare ai tedeschi, con un miracolo, spontaneo e strategico al contempo. Dopo l’ennesima uccisione di militari italiani - 8 prigionieri in via Console e 4 marinai e finanzieri al Palazzo della Borsa - e una retata di 8.000 uomini - il 27 settembre cinquecento napoletani armati aprono i combattimenti. Al Vomero, a Castel Sant’Elmo, a Porta Capuana, a Capodimonte. Prima e durante il 27 vengono saccheggiati importanti depositi di armi. A Materdei, Vasto, Monteoliveto, e Maschio Angioino, ci sono scontri e posti di blocco armati. Dalle case piove di tutto sui tedeschi: dalle bombe alle suppellettili. Una resistenza grandiosa e formicolare, quasi impossibile, tosta e «organizzata». Ma come e da chi? «La lotta spiega Alinovi - cresce in progressione su se stessa. Si moltiplica ed è fatta da tante componenti Abdon Alinovi (90 distinte, che si mescolano: studenti e anni) ricorda: mi«Le quattro giornate professionisti, litari, operai già napoletane anticipano antifascisti, popolo, donne, scugnizla valanga di lotta zi». Sono tante appenninica, e danno figure locali - ecco il punto - che assul’esempio a Firenze, mono il comando Genova, Ravenna, delle operazioni Milano, Torino nei vari quartieri della città. Capipopolo che si coordinano e comunicano veloci tra di loro. In prima linea al comando, ci sono i militari che non hanno mollato, «come il tenente Enzo Stimolo, che a capo di 200 insorti saccheggia l’armeria di Sant’Elmo e impone la liberazione di numerosi ostaggi internati al Vomero». Una scena divenuta famosa col film di Nanni Loy del 1962 (tratto da un bellissimo libro di Aldo De Jaco). Il 30 settembre - racconta sempre Abdon - i tedeschi «sgombrano e il professor Tarsia in Curia si proclama capo dei ribelli. Escono dalla città con la bandiera bianca, ma faranno stragi nel Casertano e dopo aver appiccato il fuoco alle carte dell’Archivio di Stato nella Villa Montesano di San Paolo Belsito». Il primo ottobre arrivano gli Alleati. E i fascisti dov’erano? «Spariti in quei giorni oppure delatori, dopo che Scholl per un giorno fece riaprire il PNF da un avvocato che si dileguò. Isolati e disprezzati!». Conclusione di Alinovi: «Le Quattro Giornate aprono ufficialmente la Resistenza dentro la fine della guerra europea. Anticipano la valanga di lotta appenninica, e danno l’esempio a Firenze, Genova, Ravenna, Milano, Torino». Conclusione nostra: quella fu la Resistenza nel suo nucleo più vero: guerra di Liberazione contro la guerra ai civili nazifascista. E fu Napoli a suonare la campana.

13

settembre 2014

CALAMANDREI CONTRO LA DOPPIEZZA DELL’AUTOCRAZIA

Il significato e il valore della legalità

S di

da il Fatto Quotidiano del 9 luglio 2014

MAURIZIO VIROLI

critto con tutta probabilità nell’estate del 1944, quando Piero Calamandrei fece ritorno nella sua Firenze liberata, il saggio che Laterza ha pubblicato in questi giorni nasce dall’esigenza che l’autore ebbe fortissima di spiegare a chi cercava faticosamente di fare nascere un’Italia libera, il significato e il valore della legalità. Lo rivela Calamandrei stesso in una pagina, condita di fine arguzia fiorentina, che Silvia Calamandrei ha ritrovato fra le carte del padre e ha saggiamente riproposto nella sua bella “Nota editoriale”, dove chiarisce che il saggio può essere un esempio del metodo della prova a contrario, consistente nell’illustrare i caratteri della legalità e i suoi benefici trattando di un regime che rappresenta in maniera tipica la sua antitesi: «se in mezzo a tanto dolore fosse ancora lecito sorridere, verrebbe a proposito la sbrigativa risposta colla quale un giornalista spiritoso si liberò di quel seccatore che insisteva a chiedergli come è fatta una macchina linotipo: “Ora te lo spiego subito: l’hai mai vista una macchina da cucire? Certo. Ecco: la linotipo è tutta differente”. Allo stesso modo si potrebbe rispondere a chi volesse farsi un’idea esatta della legalità: “L’hai mai visto il fascismo? Ahimè sì. Ecco: la legalità è tutta differente”». Il regime fascista, spiega Calamandrei, era caratterizzato da una doppiezza o ipocrisia costitutiva. Il potere fascista nasceva infatti dalla combinazione di due ordinamenti giudiziari l’uno dentro l’altro: quello ufficiale, che si esprimeva nelle leggi, e quello ufficioso, che viveva in una pratica politica sistematicamente contraria alle leggi. C’era dunque una burocrazia di Stato e una burocrazia di partito, pagate entrambe dagli stessi contribuenti, e unite al vertice in colui che domina l’una e l’altra. Dal saggio emergono altri due caratteri distintivi della storia del fascismo, sui quali è bene riflettere. Il primo è l’incoerenza e l’eterogeneità dei suoi obiettivi politici, un vero e proprio «accozzo di idee vaghe e generiche accattate alla rinfusa nei campi più disparati e più contrastanti» che tuttavia non indebolirono, ma rafforzarono, il movimento e il regime. Il secondo è la gravità degli errori commessi

Calamandrei in un ritratto

dagli antifascisti, primo fra tutti quello di ritenere che la lotta dovesse essere condotta, nella stampa e in parlamento, sul terreno della legalità, alimentata «dalla generosa illusione […] della libertà che si difende da sé, come una forza di natura, senza bisogno di guardie armate». Una volta consolidato grazie al suo potente apparato di coercizione e di propaganda, il regime che si proponeva di «attuare la perfetta fusione del cittadino nella patria ed esaltare nell’individuo il sentimento del dovere e della dedizione al bene pubblico» ha rafforzato nell’animo degli italiani il secolare sentimento di diffidenza e di ostilità verso lo Stato. Imponendo il marchio “fascista” su tutte le istituzioni che erano semplicemente italiane (lo “Stato fascista”, la “patria fascista”, la “scuola fascista”, la “guerra fascista”, quando addirittura non si parlava della “guerra di Mussolini”) il fascismo confermò nel popolo la convinzione che «chi non era fascista non aveva più ragione di sentirsi affezionato a istituzioni e a imprese, diventate, da italiane, proprietà esclusiva di quel solo partito o di quel solo personaggio». Dare vita a regimi caratterizzati da una doppiezza costitutiva che genera e conferma la diffidenza verso le istituzioni, è specialità italiana. Silvio Berlusconi, con il suo stuolo di cortigiani e cortigiane, per citare un esempio dei giorni nostri, ha potuto per anni fare i propri interessi e affermare la sua volontà serbando le apparenze della Repubblica democratica. Matteo Renzi e i suoi sodali, se riusciranno a realizzare il loro progetto di devastazione costituzionale, creeranno un’autocrazia, vale a dire un governo di pochi senza freni e contrappesi degni del nome, sotto le apparenze, anche in questo caso, di un regime democratico. Ancora una volta istituzioni piegate al potere di un uomo, e non uomini che servono le istituzioni: l’esatto contrario dei principi repubblicani. E poi dicono che la storia non serve.


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:13 Pagina 14

14

settembre 2014

il fiore del partigiano

UNA VICENDA D’UMANITÀ SULLO SFONDO CUPO DELLA GUERRA

Il fieno per i tedeschi

D

Sullo sfondo, foto d’epoca della Cascina Pirogalla innevata

di

LUCIANO GORLA

urante la seconda guerra mondiale, gli anni dal 1943 al 1945, come si apprende dalla storia, ma anche dalle cronache locali e dai racconti di coloro che vissero quel periodo, furono senza dubbio quelli più difficili del conflitto. Dopo la caduta del fascismo nel luglio 1943 e l’arresto di Benito Mussolini, capo del Governo e comandante, “per delega", delle Forze Armate coinvolte nel conflitto mondiale a fianco della Germania nazista, l’Italia cadde nel caos. Con lo sbarco degli Alleati nel meridione della Penisola, la fuga dalla capitale del re Vittorio Emanuele III e l’armistizio con gli Alleati, firmato nel mese di settembre, la nazione fu di fatto divisa in due. Da una parte la difficile e cruenta avanzata verso Nord delle truppe alleate di liberazione, dall’altra la massiccia presenza delle truppe tedesche; le quali, sentitesi tradite dall’alleato italiano, si trasformarono nel settentrione in forze di occupazione repressive. Dietro la facciata della Repubblica Sociale Italiana, l’ultimo colpo di coda del fascismo in rovina e avviato alla tragedia finale. Fu il periodo in cui, nell’Alta Italia, si formarono le prime coraggiose compagini partigiane; nelle quali confluirono molti di quei giovanissimi che, in età di leva, avrebbero dovuto essere arruolati nelle formazioni della RSI. La presenza delle truppe di occupazione e della milizia repubblichina, fiancheggiati dagli ultimi fascisti irriducibili, furono spesso motivo, anche nella nostra zona, di tensioni, soprusi, rappresaglie e violenze. Per fortuna, però, non fu sempre così. Anche in quei momenti di buio e di violenze ci furono episodi d’umanità e di sentita presa di coscienza, anche da parte del cosiddetto "nemico", dell’assurdità della guerra. Situazioni, forse poco conosciute e non documentate, che hanno dimostrato come il desiderio e l’aspirazione alla pace siano in fondo radicati nel cuore degli uomini. L’episodio che di seguito descrivo, frutto di una testimonianza che da ragazzino ebbi modo di raccogliere da un parente (mio zio Ambrogio, classe 1925, che ne fu il protagonista) lo dimostra, eccome. Durante gli ultimi anni di guerra, ad Inzago fu presente un presidio tedesco, installato presso la scuola elementare (oggi sede della Biblioteca Civica e del Centro Culturale Fabrizio de André), la quale, costruita negli anni ‘30 del ‘900, era intitolata al patriota Fabio Filzi, giustiziato dagli austriaci nel castello del Buon Consiglio di Trento, durante la prima guerra mondiale.

Il presidio di Inzago era collegato ad un altro presidio tedesco situato a Trecella, dove le truppe della Wehrmacht avevano installato delle batterie di contraerea a difesa dalle incursioni aeree alleate mirate a bombardare i ponti sul vicino fiume Adda. I due presidi comunicavano tra di loro mediante una linea telefonica da campo il cui cavo, all’esterno dell’abitato d’Inzago, era stato teso sugli alberi che fiancheggiavano la strada comunale per Trecella. Tale linea telefonica era costantemente sorvegliata da pattuglie armate, che percorrevano a piedi la strada per scoraggiare eventuali iniziative di sabotaggio.

Nel presidio di Trecella c’erano pure dei cavalli, il cui governo, durante l’inverno, necessitava di fieno. Fu appunto in un mattino dell’inverno 1944 che una camionetta militare imboccò la strada per Inzago. Il rumore del veicolo era quasi completamente attutito dalla leggera nevicata che aveva imbiancato la campagna e ricamato gli alberi e le siepi che fiancheggiavano la carreggiata. L’automezzo transitava silenzioso, apparendo e scomparendo da dietro le sagome scure degli alberi avvolti dalla foschia. A bordo del veicolo c’erano tre militari, tra cui il comandante del presidio, i quali erano in cerca di fieno. Entrati nel cortile della Cascina Pirogalla, la prima cascina che s’incontra provenendo da Trecella, colsero di sorpresa il giovane Ambrogio; il quale, intento in un lavoro nel cortile e non accortosi del sopraggiungere dell’automezzo, non fece in tempo a dileguarsi. Per essere più preciso, i militari lo bloccarono, per così dire, nella fossa del letame (nel dialetto locale "la fopa del rú”) che stava svuotando dallo stallatico utilizzato come concime. Ci furono interminabili attimi di suspense e di paura. Il graduato della Wehrmacht, sceso lentamente dal sedile posteriore di una Kübelwagen telonata, scrutò a lungo il giovane, cogliendo evidentemente appieno la sua posizione di renitente alla leva. Rivolgendosi, quindi, al padre di Ambrogio che nel mentre era sopraggiunto in preda ad una forte agitazione, chiese se avessero disponibilità di fieno. Alla risposta affermativa, il militare dispose che, l’indomani, fosse proprio Ambrogio a trasportare il fieno nella guarnigione di Trecella. Per tutto quel giorno in casa di Ambrogio non si parlò d’altro: il fieno per i tedeschi fu l’argomento principale. I genitori di Ambrogio lo consigliarono di desistere da quell’incarico. Continuarono a ripetergli: «I tedeschi voglio ingannarti, ti stanno tirando in una trappola. Ti arresteranno, ti manderanno in Germania o peggio ti consegne-

ranno ai repubblichini». Non c’era, infatti, da scherzare: per i renitenti alla leva era prevista l’applicazione immediata della legge marziale. Correvano, inoltre, allarmanti voci sui pestaggi e le torture compiuti dai fanatici repubblichini, durante gli interrogatori degli "sbandati" arrestati che, come nel caso di Ambrogio, erano spesso fiancheggiatori dei partigiani. Circolava, a tale proposito, il nome temuto di una funesta sede inquisitoria della polizia fascista, detta "La villa triste di Monza". Il giovane Ambrogio, contro il parere dei genitori e soprattutto del padre, intenzionato a sostituirlo in tale lavoro, condusse coraggiosamente a Trecella due carretti di fieno che sistemò diligentemente nel fienile della guarnigione, come da istruzioni ricevute. Il comandante del presidio non perse d’occhio il giovane, dai folti capelli biondicci, che lavorava di lena; forse gli ricordava qualcuno: forse un figlio, un fratello, un nipote, chissà. A lavoro ultimato, in un italiano stentato, si congratulò con Ambrogio e, lasciandosi andare ad una confidenza, fece capire al giovane di avere famiglia. Una famiglia della quale, dalla Germania, non aveva da tempo notizie. Infine, soggiunse: «Bravo biondo, bravo ragazzo, continua ad aiutare il padre nei lavori dei campi; la guerra sta per finire e le cose cambieranno». Anche il graduato tedesco non vedeva dunque l’ora che quell’assurda guerra finisse per tornare a casa, con la speranza di poter riabbracciare i propri cari. Poi, appoggiando con atteggiamento paterno una mano sulla spalla di Ambrogio, lo introdusse nel proprio ufficio, dove pagò con generosità il fieno ricevuto ed offrì al lavorante un "cognachino". Ambrogio, ovviamente, tornò a casa contento, tenendosi ben stretto il denaro ricevuto, mentre seduto sul carretto incitava di tanto in tanto l’asino che lo trainava stancamente: «Dèm, dèm, va là, va là, üa!». A metà strada, mentre iniziava a diventare buio, la pattuglia di guardia alla linea telefonica, che precedeva di pochi passi il carretto di mio zio, incrociò la pattuglia tedesca che, proveniente da Inzago, era pure addetta a tale controllo. Tra i commilitoni tedeschi dai lunghi pastrani, stretti da cinturone e giberne, ci fu uno scambio di battute per mio zio incomprensibili. Nel suo racconto le loro parole suonarono così: «Sfrai, sfrai, sfrai». Correva, come scritto, l’inverno 1944 e la previsione del comandante del presidio tedesco di Trecella si sarebbe presto avverata: la primavera successiva avrebbe infatti visto la fine del conflitto.


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:13 Pagina 15

il fiore del partigiano

Il Palio della libertà

15

settembre 2014

LE TRUPPE FRANCESI ENTRAVANO IN CITTÀ E I TEDESCHI USCIVANO DA UN’ALTRA PORTA

A Siena quest’anno si è ricordato il 3 luglio 1944

C’ di

da l’Unità del 1 luglio 2014

MAURIZIO BOLDRINI

era un intenso silenzio, quella mattina, in Piazza del Campo. Le truppe francesi entravano in città da sud, da Porta San Marco, mentre, quasi contemporaneamente, quelle tedesche la abbandonavano uscendo da nord, da Porta Camollia. Era la mattina del 3 luglio del 1944 e Siena era finalmente libera. Ci sarà, come ogni Palio, lo stesso intenso silenzio quando, nel tardo pomeriggio di questo 2 luglio, i cavalli delle dieci contrade usciranno dall’Entrone di Palazzo pubblico per contendersi il Palio. Eppure questa volta il silenzio si connoterà di segni particolari, riportando alla memoria collettiva quei giorni lontani di settanta anni fa; così come il drappellone rimarrà, per la Contrada che potrà gioirne, come un prezioso e tangibile segno d’arte di questa storica ricorrenza. «Siena non dimentica che da quel giorno è una città libera: la ricorrenza sarà celebrata con molte iniziative, ma il Comune ha voluto subito accogliere la proposta dell’Associazione Nazionale Partigiani, così questo Palio commemora uno dei periodi più importanti per la storia della nostra città», ha detto il sindaco Bruno Valentini, presentando alla città il drappellone dipinto dall’artista Rosalba Parrini. Un drappellone o «cencio», come affettuosamente lo chiamano i senesi, che ha fatto discutere. Non sono mancate voci critiche. D’altra parte era difficile legare l’iconografia paliesca e le immagini di un tema così forte come la Liberazione. Ma Roberto Barzanti, a lungo sindaco di Siena e lettore attento delle vicende senesi, non ha dubbi: «Il drappellone di Rosalba Parrini è uno dei più compiuti ed eleganti dipinto da anni a questa parte. Serrata e compatta ne è la tessitura, tutta ritmata con calcolatissima geometria. Originalmente si rifà ad una cifra futuristica. E ricomprende ogni elemento in una costruzione aerea di suprema vivezza. Anche i simboli sono come alleggeriti. I cavalli sono ritagliati in un gioco di incastri e sembrano preludere ad una partita a scacchi. Il riferimento alla lotta di Liberazione è dato con una carta geografica della provincia (non a caso) in rosso, punteggiata di stelle che segnalano i luoghi ora venerati di atti di coraggio quando non di generoso sacrificio da ricordare e onorare con devozione». Torniamo, quindi, al silenzio di quella mat-

tina del 3 luglio del ‘44. Si è molto scritto - e anche un po’ fantasticato - sulla liberazione dolce della città avvenuta senza scoppio di cannonate, crepitìo di mitragliatrici e fucilate di cecchini. Come fu possibile tutto ciò? Lo storico Sandro Orlandini, in un suo recente saggio, ha fatto i conti con questi temi (una città con salvacondotto per il suo patrimonio artistico oppure da non bombardare in quanto città ospedaliera) che a forza di essere trattati avevano finito per divenire senso comune. Si tratta, invece, di un grosso equivoco di carattere consolatorio e giustificatorio. La speranza dei senesi «di essere immuni dalle bombe sorreggeva, in qualche modo, lo spirito pubblico. Aiutava a trascorrere i giorni e le notti». Nella sua ricostruzione, Sandro Orlandini

Il “Cencio” realizzato per il Palio di quest’anno dall’artista Rosalba Parrini, ispirato al 70° anniversario della liberazione di Siena dall’esercito nazista (Foto andrea lensini siena)

sostiene che i fattori che determinarono questa anomala liberazione furono almeno tre. Primo: i tedeschi decisero di non difendere la città, perché inadatta a costituire il perno di una delle linee di contrasto che predisposero laddove la topografia le consigliava, dall’Amiata ai Monti del Chianti. E laddove, non a caso, ci furono i più aspri scontri con le stesse formazioni partigiane. Secondo: il CLN, nel quale prevalse la componente favorevole a un compromesso con le autorità fasciste, contrastò l’ipotesi di un’insurrezione, peraltro inficiata da un forte rastrellamento germanico nella zona di Tegoia ai danni di un distaccamento della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini. «Infine, la ventura volle - riconosce Sandro Orlandini - che il comandante delle truppe francesi che si apprestavano all’assalto fosse un estimatore del gotico senese e desse ai suoi subalterni l’ordine impossibile di tirare cannonate soltanto al di là del XVIII secolo, confortato, in questa sua decisione, da un ufficiale del Raggruppamento patrioti Monte Amiata, il quale, attraversate le linee, lo informò che i tedeschi se ne stavano andando». Gli effetti di quel passaggio furono attutiti e quindi servirono a qualcosa le grandi croci rosse, disegnate in Piazza del Campo e sul tetto della chiesa di Sant’Agostino. Ma non impedirono di subire spezzonamenti e mitragliamenti e sei bombardamenti - da gennaio ad aprile - sugli obiet-

tivi strategici della stazione ferroviaria e del comando tedesco in via Ricasoli, con l’uccisione di tredici cittadini e la distruzione della chiesa dell’Osservanza. Se poi lo sguardo si allarga alla provincia, molto più dolorosi furono gli strazi subiti dagli antifascisti e più duri gli scontri tra le formazioni partigiane e i nazifascisti: basta andare con la memoria a eccidi come quello di Montemaggio, più volte raccontato dal partigiano Vittorio Meoni (unico sopravvissuto), agli scontri che dall’Amiata a Monticchiello, alla Montagnola si susseguirono in quell’anno di lotta, di dolore e di speranza.


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:13 Pagina 16

16

settembre 2014

il fiore del partigiano

Bruno Buozzi, fu omicidio n

LA RICOSTRUZIONE DELLA MORTE DEL SINDACALISTA E L’OMBRA DI PRIEBKE

Tempo di anniversari. Come quello che ricorda l’assassinio, 70 anni fa, il 4 giugno del 1944, da parte dei nazisti di Bruno Buozzi, socialista, tra i fondatori della CGIL, accanto a Grandi e Di Vittorio. Un episodio, quello della sua morte, narrato come «l’eccidio della Storta», una località nei pressi di Roma, e avvenuto proprio nelle ore in cui i tedeschi fuggivano e arrivavano gli Alleati americani. Attorno alla orribile fine del capo sindacale, tra i padri del riconoscimento delle “Commissioni interne”, gli organismi operai di base, sono nati molti interrogativi. Tra questi, quelli relativi a un «traditore», forse anche di appartenenza comunista. Sulla sua vita e sul tragico epilogo fa luce il volume di Gabriele Mammarella Bruno Buozzi (1881-1944) Una storia operaia di lotte, conquiste e sacrifici (Ediesse, in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio, diretta da Carlo Ghezzi). Ne pubblichiamo alcuni stralci, ripresi da l’Unità del 3 giugno 2014 GABRIELE MAMMARELLA

P

di

(...)

rovando a ricostruire le ultime vicende della vita di Bruno Buozzi, il primo elemento che balza all’attenzione è la causa del suo arresto. Al riguardo non c’è alcun dubbio. Nelle parole dell’ex capitano delle SS Erich Priebke, fondamentali, dati i suoi diretti rapporti con i delatori al libro paga del reparto della Gestapo di Roma, «Buozzi fu arrestato grazie ad una spia infiltrata nell’organizzazione che il sindacalista aveva creato. Si trattava di una persona insospettabile che faceva il doppio gioco». (...) Secondo i fautori del complotto, invece, non può che esserci un militante comunista che esegue nientemeno che gli ordini impartitigli dalla Direzione del partito. Constatando l’assoluta mancanza di un fondamento documentario in questo genere di illazioni, non rimane che investigarne l’origine, i sospetti e le voci che le hanno ispirate (...) Già nel ‘44 si scoprono nel movimento socialista dei profondi malumori dettati dal repentino accostamento al Partito comunista; malumori che con il tempo si trasformeranno in una dissidenza esplicita nei riguardi delle scelte politiche di Nenni e che, a distanza di quattro anni, porteranno alla nota scissione di Palazzo Barberini, la cosiddetta «scissione socialdemocratica».

Esponenti della dissidenza sono i socialisti più avversi al regime sovietico, molti dei quali si richiamano al moderatismo di Buozzi e che, tra l’altro, sono stati molto vicini al capo sindacale durante l’esilio: Saragat ne è un esempio. Ma campioni della battaglia ideologica contro i comunisti sono gli «amici americani», Luigi Antonini in testa.

Un rapporto “confidenziale” A Roma appena liberata, intanto, monta un altro tipo di malumore, molto più viscerale e intimo, ed è quello della vedova Buozzi e delle persone che, in questo frangente, le sono più vicine, come Vasco Cesari. Rina Buozzi non solo è profondamente addolorata per la tragica perdita subita, ma deve probabilmente sentirsi amareggiata verso chi, fino all’ultimo, l’ha tenuta all’oscuro della sorte del marito, non sapendo che a volerle risparmiare la verità è il marito stesso appena entrato nel carcere di via Tasso. Infatti, nell’intento di evitarle ulteriori sofferenze, prima della liberazione di Roma, le è stato fatto credere che il marito non è stato catturato dai nazisti, ma che è riuscito a passare le linee nemiche e a dirigersi verso sud, proprio come lui stesso, prima di svanire nel nulla, le aveva anticipato che avrebbe fatto. Evidentemente, questo insieme di cose, unite alla consapevolezza che è stata una delazione a condurre i nazisti dal marito e, ancora di più, alla frustrazione di vedersi negata, prima

Bruno Buozzi nel 1924 a Roma

dal Partito socialista e poi anche dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, un’inchiesta sulle dinamiche dell’arresto di Bruno e della sua morte, non faranno altro che esacerbare il suo stato d’animo e instillarle una serie di dubbi e di sospetti. Forse - deve essersi domandata la donna i tedeschi sono stati solo gli esecutori dell’omicidio di Bruno. Forse è stato qualcun altro che lo ha voluto levare di mezzo. E forse quello stesso qualcuno vuole impedire che la verità venga a galla. Ma chi allora? Cui prodest? È ipotizzabile che a suggerirle una riposta sia Vasco Cesari. Un rapporto confidenziale «for government use only» inviato da John Clarke Adams (negli Stati Uniti in seguito a una missione effettuata in Italia dopo la liberazione di Roma) da una rappresentanza dell’American Federation of Labor guidata da Luigi Antonini recita: «During Antonini’s visit Vasco Cesari, the head of the electrical workers’ union, told Antonini in the presence of the Labor Attache that Buozzi was murdered on Communist and not on German orders». Niente di più di una illazione, per di più contro ogni evidenza. Tuttavia sufficiente a gettare sui comunisti, e sui socialisti filocomunisti come Lizzadri e Nenni, un alone di colpevolezza. Entrato in rotta di collisione con Lizzadri e l’Unità, Antonini proverà persino a fare di questa insinuazione un capo di accusa utile a influenzare lo scenario politico italiano (...).


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 17

o nazista

17

il fiore del partigiano

La lista di Franz Müller Perché dunque Priebke, come dimostra nella sua autobiografia, è così informato sulla cattura di Buozzi? Presto detto. Tra le risorse che Kappler e Priebke annoverano tra i loro collaboratori vi è un ragazzo molto giovane «completamente sbarbato» che opera come staffetta «nelle file dei partigiani socialisti di Trastevere». Si tratta di un certo «Franz Müller», arrestato da tre sottufficiali tedeschi e «trasportato all’ufficio di Priebke a via Tasso». Durante l’interrogatorio, vuoi sotto la pressione di pesanti ritorsioni, vuoi con la promessa di lauti guadagni, Müller offre a Priebke i suoi servigi, fornendogli «una lista completa» dei membri del Partito socialista. Di questi, «un gran numero furono immediatamente arrestati e molti (...) uccisi». Buozzi fa parte della lista (...) Ancora una volta, la testimonianza riportata da Guido Rossi fornisce un prezioso riscontro, tramandandoci, contemporaneamente, il racconto delle fasi dell’arresto del vecchio sindacalista: «Venne la Pasqua. Buozzi la trascorse fuori casa, presso la moglie. Il giorno successivo, il 10 aprile, egli era nuovamente con noi. (…) Fu una giornata di serena allegria: la quiete prima della tempesta. Trascorsero ancora due giorni col ritmo normale e giungemmo al giovedì 13. (...) Fino alla sera, quando cioè me ne tornai a casa, come di consueto, dall’ufficio. Poco prima del mio caseggiato la strada fa una svolta a destra. Giunto a questo punto, mi avvidi che davanti al portone sostavano due macchine, una di grosse dimensioni e l’altra assai più piccola. Ebbi istintivamente, non dirò un sospetto cosciente, ma piuttosto un presentimento vago ed oscuro. Entrai, i portinai che mi videro forse mi guardarono con speciale interesse. (Ma perché non osarono avvertirmi fosse pure con un gesto?). Salii le scale leggendo il giornale e, arrivato all’uscio di casa mia, introdussi la chiave nel buco della serratura... Veder aprirsi e sentirmi precipitare addosso un qualche cosa di simile ad un orangutang scatenato, fu tutt’uno. Abbozzai un tentativo di fuga giù per le scale, riuscii per un attimo a divincolarmi, poi inciampai, il mio aggressore mi fu addosso, mi ricoprì di una scarica di pugni e, aiutato da altri, mi portò a forza nell’abitazione. Dentro mi attendeva uno spettacolo agghiacciante: col viso rivolto verso una parete e con le mani in alto stava Buozzi sotto la minaccia di un mitra, attorno un quadro spaventoso di devastazione: tutto è stato messo a soqquadro. (...) Buozzi viene rinchiuso insieme ad altre sette persone al secondo piano, nella cella n. 6, un piccolo stanzino non più grande di 7,50 metri quadrati e completamente spoglio, il cui unico giaciglio è costituito dal pavimento. Una piccolissima presa d’aria, ricavata solo recentemente da una finestra murata, lascia passare una quantità d’ossigeno appena sufficiente ai bisogni di un uomo solo (...).

settembre 2014

LA GERMANIA RIAPRE IL PROCESSO SU SANT’ANNA

Una vittoria contro l’oblio La corte federale di Karlsruhe ha riaperto il processo sull’eccidio delle SS. Rompendo un silenzio "costruito dalle opportunità politiche". Parla Franco Giustolisi, il giornalista dell’Espresso che fece luce sui dossier della strage.

«S di

da l’Espresso del 6 agosto 2014

PIER VITTORIO BUFFA

ì, è una vittoria, una vittoria tardiva ma una vittoria. Una vittoria della giustizia sull’oblio costruito dalle opportunità politiche». Franco Giustolisi commenta così la sentenza della corte federale di Karlsruhe che, in Germania, ha sostanzialmente riaperto il processo per la strage di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944. Da quasi vent’anni Giustolisi si batte perché sia fatta giustizia per quella che definisce «la più grande tragedia del popolo italiano». I 15-20 mila morti della guerra dei nazifascisti contro la popolazione civile italiana, le stragi che insanguinarono la penisola dal 1943 fino alla fine della guerra. Donne, bambini e anziani trucidati, famiglie annientate, interi paesi dati alle fiamme. Su quelle stragi gli americani e gli inglesi, insieme ai carabinieri italiani, prepararono voluminosi dossier in cui i responsabili venivano indicati con nome, cognome e grado, i singoli atti criminali ricostruiti nei dettagli. Ma, celebrati i processi per due stragi-simbolo (Marzabotto e Fosse Ardeatine), tutto cadde nel silenzio. Un silenzio durato fino a metà degli anni ‘90, quando fu proprio Giustolisi, insieme ad Alessandro De Feo, a denunciare sull’Espresso il ritrovamento di tutti quei fascicoli riempiti cinquant’anni prima. Era quello che lo stesso Giustolisi definì “l’Armadio della vergogna”: 695 fascicoli “archiviati provvisoriamente” nel 1960 in seguito a un tacito accordo tra l’Italia e la Germania federale e chiusi in un armadio della procura generale militare. «Una vergogna assoluta», dice Giustolisi, «chiudendo quei fascicoli nell’armadio è come se si fosse voluto negare un pezzo di storia drammatica del nostro Paese, cancellare una serie infinita di crimini di guerra». Da allora, grazie anche al continuo, incessante lavoro di Giustolisi, di strada ne è stata fatta. La magistratura militare, e soprattutto l’attuale procuratore di Roma Marco De Paolis, ha istruito molti processi per i quali c’erano ancora imputati in vita. Molti sono andati in dibattimento e a sentenza. I tribunali e le corti di appello militari hanno assolto e condannato: più di quaranta ergastoli com-

minati ad altrettanti ex militari delle forze armate tedesche, ufficiali e sottufficiali. «Di tutte queste condanne», dice Giustolisi, «nessuna, dico nessuna, è stata però eseguita. Nessuno è andato a bussare alla porta di questi criminali di guerra per dir loro che da quel momento erano agli arresti domiciliari. Colpa dell’Italia, colpa della Germania, colpa di tutti quelli che pensano che la giustizia non sia il bene più prezioso, un bene da difendere a tutti i costi e contro tutti. Un’ingiustizia nell’ingiustizia». Adesso la sentenza di Karlsruhe. A Sant’Anna di Stazzema le SS della 16a divisione, la stessa di Walter Reder, il maggiore condannato all’ergastolo per la strage di Marzabotto, uccisero 560 persone. Ma è un numero approssimativo perché non è mai stato possibile contarle con esattezza. Guidate dai fascisti locali, le SS andarono per i borghi di Sant’Anna uccidendo e bruciando. Sulla piazzetta della chiesa vennero accatastati almeno cento corpi, il prete ucciso, tutto dato alle fiamme. I tribunali italiani avevano comminato, per quella strage, dieci ergastoli. C’è anche Gerhard Sommer tra gli “ergastolani italiani”, lo stesso SS contro il quale adesso può procedere la magistratura tedesca. «Probabilmente», dice adesso Giustolisi, «non sono cadute nel vuoto le parole pronunciate dal presidente della Repubblica tedesca e dal ministro della Difesa di Berlino. Il primo, proprio a Sant’Anna di Stazzema, nel 2013, disse, insieme a Giorgio Napolitano, che i tribunali non avevano fatto il loro dovere. Il secondo, il 29 giugno di quest’anno, ha presenziato, insieme al nostro ministro degli Esteri Federica Mogherini, alle celebrazioni per i 70 anni di un’altra terribile strage, quella di Civitella in val di Chiana, compiuta da reparti dell’aviazione tedesca. E ha detto di vergognarsi. “Mi inchino - ha detto - di fronte a questi morti”. La nostra ministra, invece, è stata zitta… Ecco, in Germania qualcosa si sta muovendo, in Italia è il silenzio assoluto». «Spesso», conclude Giustolisi, «mi chiedono perché mi batto per cose di 70 anni fa, che senso ha chiedere che ultranovantenni vengano condannati. Io rispondo prendendo in prestito le parole del diritto: l’azione penale in Italia è obbligatoria, e seguendo la straordinaria indicazione del presidente della Repubblica di Germania: quando i tribunali non fanno il loro dovere è il popolo che deve andare avanti. Ecco io sono il popolo, e vado avanti. Anche se ho 89 anni e qualche acciacco. Vorrei che il popolo italiano raccogliesse questa triste eredità. E andasse comunque avanti nella ricerca della verità che, come diceva Gramsci, è rivoluzionaria».


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 18

18

settembre 2014

il fiore del partigiano

C’è un altro modo per riformare il Senato

UN INTERVENTO DI SMURAGLIA SULLE MODIFICHE COSTITUZIONALI ALLA VIGILIA DE

I di

da l’Unità del 2 luglio 2014

CARLO SMURAGLIA

n questa settimana dovrebbe cominciare la discussione sul testo e sugli emendamenti della riforma del Senato. Mi piacerebbe che si trattasse di una discussione serena, approfondita e libera, come richiesto dalla delicatezza della materia (costituzionale). Ma non so se sarà così. È sempre lecito sperare, tuttavia, che non tanto e solo prevalga il buon senso, quanto che venga riconosciuta quell’esigenza di rispetto dei valori costituzionali e di attenta considerazione della delicatezza della posta in gioco, su cui mi sono già più volte soffermato. In realtà, a forza di incontri, sembrano essere stati concordati aggiustamenti che, tuttavia, non mutano la sostanza e non rendono accettabile la riforma del Senato così come proposta. Noi continuiamo a ritenere che ci siano alcuni aspetti fondamentali, da cui non è consentito allontanarsi: l’opportunità (la necessità) di differenziare il lavoro delle due Camere; l’esigenza di mantenere comunque un valido sistema bicamerale, rinnovato, ma sempre con due Camere che hanno uguale prestigio; l’esigenza di risolvere, prima di tutto, alcuni problemi fondamentali: la necessità di mantenere al Senato il connotato di autorevolezza di una Camera elettiva; la necessità di attribuire al Senato alcune funzioni fondamentali (a titolo esemplificativo, la partecipazione effettiva alla formazione delle leggi in materia costituzionale ed elettorale, in tema di trattati e rapporti internazionali, in tema di

principi generali in materia di autonomie ed in tema di diritti fondamentali); l’utilità di individuare i modi più opportuni per assicurare la presenza della voce delle autonomie nonché quella di specifiche competenze, culturali e scientifiche; l’attribuzione al Senato di seri e severi poteri di controllo sull’esecutivo, sull’amministrazione pubblica e sulla concreta applicazione ed efficacia delle leggi approvate. Se si realizzassero questi obiettivi, come più volte abbiamo detto, si otterrebbe il risultato di eliminare il «bicameralismo perfetto» (se non altro per l’attribuzione alla Camera della parte più rilevante del potere legislativo e per l’attribuzione alla sola Camera del voto di fiducia); e nel contempo si terrebbe fermo quel sistema di garanzie, di pesi e contrappesi che, con intelligenza e sensibilità costituzionale, fu costruito dal legislatore costituente e che deve essere mantenuto. Se poi si procedesse all’unificazione di alcuni servizi delle due Camere e alla equa diminuzione del numero dei parlamentari, sia della Camera che del Senato, si avrebbe una soluzione complessivamente ragionevole, comprensibile per i cittadini e fedele, nello spirito, alla Costituzione, alla nostra tradizione ed alle esperienze realizzate in questo dopoguerra. Capisco che una soluzione come quella che ho prospettato (a prescindere dagli aspetti particolari, sui quali è giusto che si intrattenga il Parlamento) può sembrare troppo razionale per i tempi che corrono. Ma forse, con un po’ di buona volontà, si potrebbe riuscire a capire che in materia costituzionale servono le modifiche, ma non gli spericolati azzardi. È per questo che mi rivolgo soprattutto ai senatori, perché riflettano bene su quello che

fanno e faranno, rendendosi conto che l’art. 67 della Costituzione è stato scritto per renderli liberi e che questa libertà costituisce la ragione stessa per la quale si è stati eletti e la ragione per cui (art. 54 della Costituzione) bisogna agire - nell’esercizio della funzione - con «disciplina e onore». Si dice che avendo l’Europa permesso un’apertura verso la flessibilità, adesso bisogna meritarla facendo «le riforme». Ma davvero c’è chi pensa che l’Europa sia particolarmente interessata alla riforma del Senato? Io penso di no e credo, anzi, che gliene importi (e forse ne sappia, addirittura) ben poco. In Europa ci sono diversi Paesi che hanno apportato modifiche al loro sistema parlamentare e questo è avvenuto nel disinteresse generale degli altri Paesi, che lo hanno (giustamente) ritenuto un problema interno. Per lo più, comunque, è stato confermato un sistema di bicameralismo “differenziato” nelle funzioni; ed anche di questo non si è accorto né entusiasmato nessuno. Ci sono studi e processi di revisione sulle istituzioni parlamentari, in corso, in Belgio, Irlanda, Spagna e Regno Unito. Ma nessuno, in Europa, è apparso interessato a questi processi, e tanto meno li si è collegati alla tematica del rigore, dell’austerità e della flessibilità. Più in generale, è ovvio che il Paese che volesse dare buona prova di sé, per ottenere qualcosa sul piano di una maggiore elasticità delle regole economiche e finanziarie, dovrebbe dimostrare di avere modificato la sua burocrazia, i suoi livelli di corruzione, la presenza della criminalità organizzata e di avere in corso piani concreti di rilancio delle attività produttive, del lavoro, dei consumi.

Firmato il Protocollo MIUR-ANPI per promuovere la Costituzione e la Resistenza nelle scuole

S

24 luglio 2014 iglato questa mattina al senato il Protocollo di intesa fra il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e l’anPi, l’associazione nazionale Partigiani d’italia. l’accordo, siglato dal ministro stefania giannini e dal Professor Carlo smuraglia, Presidente nazionale anPi, punta a promuovere e sviluppare progetti didattici nelle scuole per divulgare i valori della Costituzione repubblicana e gli ideali di democrazia, libertà, solidarietà e pluralismo culturale. il miur e

l’anPi, in particolare, realizzeranno iniziative per le celebrazioni del 70° della resistenza e della guerra di liberazione, promuovendo processi tematici di riscoperta dei luoghi della memoria e la divulgazione dei valori fondanti la Costituzione repubblicana. «Questo accordo - ha sottolineato la ministra giannini - è uno strumento fondamentale per far comprendere a tutti gli studenti il valore della nostra Costituzione e l’importanza della memoria della resistenza raccontata anche da chi l’ha vissuta in prima persona».

«ritengo – ha aggiunto il presidente smuraglia – che questa firma assuma una grandissima importanza, rispondendo ad una esigenza profonda che emerge dal mondo della scuola e che assicura un’attività continuativa in favore della cittadinanza attiva». il testo integrale del Protocollo è disponibile sul sito nazionale dell’anPi: http://www.anpi.it/media/uploads/files/2014 /07/Protocollo_miur_anPi_240714 .pdf

U v a m m r c c l D q t n u c z l m d s r a S l c n S s c l d d c e l p d p s d c c m p d l b


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 19

il fiore del partigiano

19

settembre 2014

IA DELLA DISCUSSIONE PARLAMENTARE. E UN SUCCESSIVO COMMENTO DI AZZARITI disegno di marilena nardi

o

Capolavoro in vendita

Un imprenditore che fosse interessato ad investire in Italia non chiederebbe, penso, se abbiamo o meno il bicameralismo perfetto, ma domanderebbe meno vincoli burocratici, meno lungaggini, meno balzelli, più sicurezza nei confronti della mafia e meno concorrenza sleale fondata sulla corruzione e sui comportamenti di coloro che non rispettano le regole. Dovremmo, dunque, rassicurare l’Europa su questi piani e su questi punti essenziali, piuttosto che pensare ad una riforma istituzionale, che può essere utile ma non così urgente quanto l’abbattimento del deficit, la crescita, il rilancio dell’economia, la creazione di nuovi posti di lavoro. Se davvero l’Europa si convincerà e adotterà comportamenti concreti di maggior elasticità, avrà il diritto di chiederci di dimostrare di aver rassicurato i potenziali investitori e di aver dato reali speranze (se non addirittura certezze) ai milioni di giovani in cerca di lavoro. Su questi aspetti, bisogna dire la verità e parlare chiaro, spiegando bene ai cittadini di che cosa si tratta; a meno che si voglia sostenere che togliendo di mezzo lo scoglio del Senato, si assicurerà la governabilità e questo rassicurerà i Paesi che ci guardano ancora con sospetto, come (nonostante tutto) la Germania. Ma allora bisognerebbe ricordarsi che intanto, per avere la Camera dei deputati in mano, bisogna vincere (e c’è ancora da risolvere il problema di una legge elettorale avversata da molti) e in secondo luogo che la «stabilità» politica non è tutto, perché c’è sempre il problema degli assetti e degli equilibri fra gli organi istituzionali, e prima ancora c’è il problema della rappresentanza, che deve essere garantita ai cittadini e non imposta nelle forme preferite da chi vuole governare indisturbato. Insomma, consiglierei a tutti la formula di manzoniana memoria («adelante, Pedro, con juicio») e poi di far prima di tutto scelte e assumere decisioni che vadano nella direzione dell’equità sociale, dell’uguaglianza e della libertà (anche dal bisogno).

Costituzione manomessa. Un delitto, tanti autori

stati maggiori dei rispettivi partiti. Una lacerazione costituzionalmente insopportabile. Se non si garantisce (o non si esercita) la libertà di coscienza sui temi di GAETANO AZZARITI costituzionali il principio del libero mandato serve ven’infinita tristezza. È questo il sentimento che ramente a poco. E tutto è stato fatto, invece, per vincoprevale nel momento in cui si assiste alla vota- lare i rappresentanti alla disciplina di partito. Ancora zione del Senato sulla modifica della Costitu- un colpo all’autonomia del Parlamento inferto - più zione. Domani riprenderemo la lotta per evitare il che dal Governo o dai partiti - da quegli stessi senatori peggio: perché la legge costituzionale concluda il suo che non si sono voluti opporre palesemente a ciò che iter dovranno passare ancora molti mesi e altri pas- pure non condividevano. S’è discusso e polemizzato saggi parlamentari ci aspettano, poi - nel caso - il re- sulla conduzione dei lavori, sull’interpretazione dei referendum oppositivo. Dunque, nulla è ancora perdu- golamenti e dei precedenti. Quel che lascia basiti è però altro. Ciò che è mancato è la consapevolezza che si to. Salvo, forse, l’onore. In pochi giorni il Senato non ha approvato una ri- stesse discutendo di una riforma profonda del nostro forma costituzionale (buona o cattiva che si possa ri- assetto dei poteri e degli equilibri complessivi definiti tenere), bensì ha distrutto il Parlamento sotto gli occhi dalla Costituzione. Se si fosse partiti da questo assunto degli italiani. Nessuno dei protagonisti è stato esente non si sarebbe potuto accettare, in nessun caso, un anda colpe. Si è assistito a una sorta di omicidio seriale, damento che ha sostanzialmente impedito ogni seria ciascuno ha inferto la sua pugnalata. Alcuni con mag- discussione su tutti i punti della revisione proposta. gior vigore, altri con imperdonabile inconsapevolezza, Non si sarebbe dovuto assistere allo spettacolo surreale che ha visto prima esaurire nella rissa e nel caos altri ancora non trovando altre vie d’uscita. Il maggior responsabile è certamente stato il Governo il tempo della discussione, per poi procedere a un’inche ha diretto l’intera operazione, senza lasciare nes- terminabile serie di votazioni, con un’Assemblea muta suno spazio all’autonomia del Parlamento. Le pro- e irriflessiva che meccanicamente respingeva ogni emendamento dei senatori di opposigressive imposizioni e l’ininzione e approvava la riforma definita terrotta invasività dell’azione dagli accordi con il Governo. Spetta al del Governo in ogni passaggio Il maggior presidente di Assemblea dirigere i laparlamentare hanno annulvori garantendo la discussione. Non lato di fatto il ruolo costituzioresponsabile credo possa affermarsi che ciò sia avnale del Senato. Non s’è è il Governo, che venuto. Anche in questo caso per il trattato solo dell’anomalia ha diretto concorso di molti. Persino dell’opposidella presentazione di un disegno di legge governativo in l’intera operazione zione, la quale ha dovuto utilizzare l’arma estrema dell’ostruzionismo una materia tradizionalmensenza lasciare che, evidentemente, ostacola una dite non di sua competenza. scussione razionale e pacata. Ciò non Ma anche nell’aver costretto la nessuno spazio toglie che non si doveva accettare nesCommissione - in modo poco all’autonomia suna forzatura sui tempi, nessuna intrasparente - a porre questo del Parlamento terpretazione regolamentare restritcome testo base, nonostante la tiva dei diritti delle opposizioni, nesdiscussione avesse fatto emersuna utilizzazione estensiva dei precegere altre maggioranze. E poi, ancora, nell’aver voluto controllare tutto il lavoro dei denti. Si doveva invece ricercare il dialogo, la relatori - è la presidente della Commissione che ha ri- trasparenza, il concorso di tutti i rappresentanti della conosciuto che il Governo ha “vistato” gli emenda- nazione. Era compito di tutti creare un clima “costitumenti presentati appunto dai relatori - con buona pace zionale”, idoneo alla riforma. Nessuno lo ha ricercato. dell’autonomia del mandato parlamentare e del ri- E temo non sia solo una questione di temperatura, ma - ahimè - di cultura costituzionale che non c’è. spetto della divisione dei poteri. Non solo i relatori, ma ogni senatore ha dovuto con- La conclusione di ieri ha sancito la dissolvenza del Parfrontarsi non tanto con l’Assemblea bensì con la vo- lamento. La delegittimazione dell’organo titolare del lontà governativa, e molti si sono piegati. Mi dispia- potere di revisione della Costituzione è alla fine stata ce doverlo dire, ma l’andamento dei lavori ha dimo- sanzionata dagli stessi suoi componenti. Il rifiuto di strato come un certo numero degli attuali senatori non partecipare al voto conclusivo da parte di tutti gli optengano in nessun conto non solo la Costituzione, ma positori rende palese che non si può proseguire su queneppure la responsabilità politica, di cui ciascuno di sta strada. Vedo esultare la maggioranza accecata dal loro dovrebbe essere titolare dinanzi al corpo eletto- successo di un giorno, mi aspetto qualche rozza batrale. I pochissimi voti segreti concessi su questioni del tuta rivolta alla opposizione “che fugge”. Ma spero che, tutto marginali hanno fornito la prova di quanto fos- oltre la cortina dell’irrisione, qualcuno si fermi per sero condizionati e insinceri i voti palesi. È stato così pensare a come rimediare. La Costituzione non può possibile evidenziare l’esteso numero dei rappresen- essere imposta da una maggioranza politica senza tanti della nazione che hanno votato con la maggio- una discussione e contro l’autonomia del Parlaranza solo per timore di essere messi all’indice dagli mento.

U

da il manifesto del 9 agosto 2014


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 20

20

settembre 2014

il fiore del partigiano

ANTICORPI NELLA CRISI SOCIALE, LE NOSTRE SEZIONI SONO IN CRESCITA

FRANCO SALAMINI*

ezione… sezione, questa parola mi rammenta qualcosa. In questo tempo digitale, di piazze e luoghi virtuali, di facebook, parlare di una sezione dell’ANPI è come raccogliere un vecchio volume impolverato da un’antica libreria. L’edizione rivela il suo tempo, le pagine ingiallite, eppure… se uno volesse prendersi la briga di leggere ecco chi si apre un mondo, piano piano quelle pagine ti prendono per mano e ti portano chissà dove. La sezione dell’ANPI di Cernusco è un luogo fisico dove si ritrovano diverse associazioni, persone reali di diversa cultura, di età diverse ma anche con diverse modalità e finalità, accomunate dalla volontà di essere protagonisti nel tessuto vivo della comunità a cui appartengono, di partecipare, di dare un contributo. Una sezione ha anche dei costi economici che, con la riduzione dei trasferimenti dallo Stato agli enti locali, vengono scaricati sulle associazioni, su magri bilanci che, invece di essere utilizzati per iniziative, vengono usati per coprire i costi di gestione. Nella visione miope di parecchie Amministrazioni (senza troppa distinzione tra destra e sinistra) la «spesa per le associazioni» viene considerata un costo e non un investimento. I luoghi di aggregazione, di cultura di massa, diventano i centri commerciali. Eppure in una società come la nostra, disgregata (alcuni la definiscono liquida), individualista, a basso livello culturale, dove sono scomparse le ideologie, ma pure le idealità, il ruolo delle associazioni diventa vitale e insostituibile. Un’associazione come l’ANPI, che fa politica al di fuori dei partiti, che aggrega su principi e ideali che dovrebbero essere condivisi, perché sono quelli sanciti nella nostra Costituzione, che fa cultura e memoria, è un valore da tutelare. Presidi democratici diffusi La crisi dei partiti di massa e lo stravolgimento del mondo del lavoro hanno messo ai margini le organizzazioni sindacali. Partiti e sindacati per anni sui territori, all’interno dei luoghi di lavoro, sono stati le palestre in cui centinaia di migliaia di cittadini si sono allenati alla partecipazione, alla democrazia, perché la democrazia è partecipata, o non è. Le associazioni con i loro ritardi, le loro difficoltà, la loro parzialità rimangono uno degli ultimi presidi democratici diffusi.

Tra tante difficoltà, la nostra sezione, come l’ANPI in generale, è cresciuta in modo graduale ma costante. Abbiamo utilizzato nuove tecnologie, abbiamo cercato un modo accattivante, attraverso un sito, facebook ed il teatro, di interessare e trasmettere alle nuove generazioni il valore della memoria, cosa è stato il nazifascismo, la Resistenza, la Costituzione. Un grande lavoro che ci impegna da settembre a luglio, che coinvolge centinaia di cittadini, sicuramente più di mille in un anno di lavoro.

disegno di matteo arigò

S

di

Nel vuoto della rappresentanza un nucleo di nuova Resistenza

L’impegno contro il pensiero unico Questo grande impegno di forze, di tempo e di intelligenze, che inorgoglisce i compagni della sezione, se volessimo valutarlo in termini percentuali sarebbe ben poca cosa: mille/millecinquecento persone su una popolazione di più di trentamila abitanti, come quella di Cernusco, è una percentuale che va dal 3 al 5%. Certo non siamo gli unici attori in campo, altre associazioni, altre realtà provano a umanizzare la nostra società, nei centri urbani, nelle periferie, cercando di intervenire sulle solitudini, sugli abbandoni. A me pare che l’impegno, soprattutto delle istituzioni, non sia commisurato alla gravità della situazione, che vi sia una sotto-

valutazione o una accettazione dell’esistente, che non si avverta il pericolo, per me incombente, di un irreversibile tramonto della possibilità di una società coesa e solidale. Una Patria senza padri è di riflesso una Patria senza figli, non un’estinzione fisica, ma un venir meno del patto sociale tra generazioni, senza responsabilità individuali e collettive, senza memorie condivise da trasmettere, ma neanche da conoscere e riconoscere. Esiste solo un eterno presente, il passato è da rottamare, è vecchio, è scaduto. Il futuro non è programmabile perché incombe inquietante il presente. Ognuno individualmente, perché l’io ha sostituito da tempo il noi, il prossimo è nemico, l’aggregazione al massimo è il “branco”. Le regole e le leggi valgono per i “coglioni”. L’orizzonte è l’immediato successo e il a Cura di MAURIZIO GHEZZI denaro. Siamo già a questo? «L’uomo crede di volere la libertà. In realtà Probabilmente esistono ne ha una grande paura. Perché? Perché la ancora efficaci anticorpi e libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, l’ANPI è uno di questi. Si e le decisioni comportano rischi». levano ancora voci di disErich Fromm senso, ci sono forze che si oppongono, anche se la - L’ho sempre detto, io, che la noia è controlotta è impari. rivoluzionaria. Chi detiene il potere, anche - Non la noia: gli annoiati. Garzo, diffida di se non è facile identifichiunque si lamenti della noia che patisce. carlo, non sono più i goChi ti dice che si annoia è uno stronzo, semverni nazionali, non più i pre, uno che ti vuol mettere il gioppino nel classici “padroni”, chi proretro. Questiquà ce l’avevano a morte coi fessa il pensiero unico ha sanculotti, e coi giacobini, e con la qualunormai, a me pare, segnato que, purché fosse a sinistra dei cazzi loro. la strada. Aspettavano solo il momento di farcela paEcco, io penso che l’ANPI gare, per aver osato salire sul palco e blocpossa diventare il catalizcare la recita, e intanto vivacchiavano nel zatore di chi si oppone, per foyer, sognavano chissà cosa, vivevano di dare inizio a una nuova borsa nera. Resistenza. Wu Ming (da L’armata dei sonnambuli)

*ANPI di Cernusco s.N.


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 21

21

il fiore del partigiano

L’esplosiva profezia del benecomunismo

settembre 2014

IL 26 GIUGNO 1967 MORIVA DON MILANI, “RIBELLE OBBEDIENTE”, MODELLO SCOMODO

P

di

da il manifesto del 23 giugno 2012

LUCA KOCCI

oco prima di essere trasferito dalla parrocchia di San Donato a Calenzano – un centro operaio tessile alle porte di Firenze – nella sperduta Barbiana – un gruppo di case sparse sul monte Giovi, nel Mugello – don Lorenzo Milani scrisse una lettera appassionata alla madre: «Ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno 50 anni sotto il sedere dei miei vincitori». Era il 1954, lo scontro DC-PCI era aspro, il decreto con cui il Sant’Uffizio nel ‘49 aveva scomunicato i comunisti restava pienamente in vigore, e quel giovane prete – che comunista non era, ma aveva più volte confessato come errore il voto alla DC il 18 aprile del 1948 («è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta», scrive a Pipetta, un giovane comunista calenzanese) – non allineato agli ordini della Curia, di Piazza del Gesù e della Confindustria, andava reso inoffensivo: esiliato sui monti, priore di una chiesa di cui era già stata decisa la chiusura, «parroco di 40 anime», come disse egli stesso. Eppure, nonostante il confino imposto dall’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit, la «superba convinzione» di Milani pare essersi realizzata: le «cariche di esplosivo» piazzate «sotto il sedere» dei vincitori, a 45 anni dalla sua morte (il 26 giugno 1967), continuano a «scoppiettare». Non hanno avuto la forza d’urto in grado di sovvertire il sistema, ma alcune intuizioni, per lo più inattuate, e molte denunce, inascoltate, conservano intatta la loro dirompenza. Per cui, se è vero che il valore di una vicenda si misura anche con la capacità di anticipare i tempi della storia, allora quella di Lorenzo Milani resta un’esperienza “profetica” che ancora parla alla società, alla politica e alla Chiesa di oggi. La scuola rimane l’ambito principale, ma non l’unico. Insieme ai suoi “ragazzi” ne denunciò il classismo in Lettera a una professoressa e la sperimentò come prassi liberatoria, sia nella scuola popolare serale per gli operai di Calenzano, 20 anni prima delle “150 ore” conquistate con lo Statuto dei lavoratori del ‘70, sia nella scuola di Barbiana per i piccoli montanari del monte Giovi. I ministri, sia politici che tecnici, che

negli anni si sono avvicendati a viale Trastevere, con qualche eccezione, si sono mostrati devotissimi all’idea milaniana di una “scuola per tutti” – il 26 giugno è in programma l’ennesimo convegno al ministero: “Salire a Barbiana 45 anni dopo” – e contemporaneamente abilissimi ad ignorarla nella prassi. Magari immaginando una didattica multimediale 2.0 in istituti con classi di 30-35 alunni o inventando premi speciali a pochi studenti apparentemente meritevoli – l’ultima idea di Profumo –, mentre si tagliano risorse, maestre, prof, insegnanti di sostegno e ore di lezione per tutti, così da trasformare la scuola in «un ospedale che cura i sani e respinge i malati», «strumento di differenziazione» piuttosto che ascensore sociale, si legge in Lettera a una professoressa. E «se le cose non vanno, sarà perché il bambino non è tagliato per gli studi», anche in prima elementare, come i cinque alunni bocciati nella scuola elementare di Pontremoli, pochi giorni fa. È dimenticata la lingua, «la lingua che fa eguali», e le lingue che, in un’ottica “internazionalista”, consentono agli oppressi di tutto il mondo di unirsi: a Barbiana studiamo «più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre». Milani mandava all’estero i giovanissimi studenti del Mugello, bambine comprese, vincendo paure e resistenze delle famiglie: ne è testimonianza vivente Francesco Gesualdi, ex allievo di Barbiana, a 15 anni spedito in Nord Africa ad imparare l’arabo, oggi infaticabile animatore del Centro nuovo modello di sviluppo per i diritti dei popoli del Sud del mondo. Ci sono anche i beni comuni Non c’è solo la scuola. Ci sono anche i beni comuni: acqua e casa. È poco nota, ma di grande significato, la lotta fatta insieme ai montanari barbianesi per la costruzione di un acquedotto che avrebbe dovuto portare l’acqua a nove famiglie. Una battaglia persa, perché un proprietario terriero rifiutò di concedere l’uso di una sorgente inutilizzata che si trovava nel suo campo, mandando così all’aria, scrive Milani in una lettera pubblicata nel ‘55 dal Giornale del Mattino di Firenze (allora diretto da Ettore Bernabei) «le fatiche dei 556 costituenti», «la sovranità dei loro 28 milioni di elettori

Don Milani tra i suoi ragazzi a Barbiana

e tanti morti della Resistenza», madre della Costituzione repubblicana. Di chi è la colpa? Della «idolatria del diritto di proprietà». Quale la soluzione? Una norma semplice, «in cui sia detto che l’acqua è di tutti». E la casa, col piano INA-Casa di Fanfani che avrebbe dovuto assicurare un tetto ai lavoratori, ma che venne realizzato solo in minima parte, mentre continuavano gli sgomberi di chi occupava le ville di ricchi borghesi che di abitazioni ne avevano due o tre, tenute vuote «per 11 mesi all’anno». «La proprietà ha due funzioni: una sociale e una individuale», e «quella sociale deve passare innanzi a quella individuale ogni volta che son violati i diritti dell’uomo», scrive Milani nel ‘50 su Adesso, il giornale di don Mazzolari. Queste parole «domenica le urlerò forte. Vedrete, tutti i cristiani saranno con voi. Sarà un plebiscito. Faremo siepe intorno alla villa. Nessuno vi butterà fuori». Ma non succederà nulla, noterà Milani, che ripeterà: «Mi vergogno del 18 aprile». La guerra e la storia, attraversate dalla responsabilità individuale – «su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I care», ovvero «me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”» –, altri temi forti dell’esperienza di Milani: la difesa dell’articolo 11 della Costituzione, l’obiezione di coscienza agli ordini ingiusti soprattutto se militari («l’obbedienza non è più una virtù, continua a pagina 22 ➔


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 22

22

settembre 2014

il fiore del partigiano

➔ segue da pagina 21 ma la più subdola delle tentazioni»), l’opposizione alla guerra e alla guerra preventiva, 40 anni prima di Bush, perché «in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa». E una rilettura della storia che prende le distanze da ogni suo “uso pubblico” nazionalista e patriottardo, passando in rassegna le italiche guerre, tutte «di aggressione»: da quelle coloniali di Crispi e Giolitti, al primo conflitto mondiale, fino a quelle fasciste di Mussolini, passando per il generale Bava Beccaris, decorato da re Umberto, che nel 1898 prese a cannonate i mendicanti «solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare le tasse». Ma «c’è stata anche una guerra giusta (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana». Quindi, scrive ai cappellani militari che avevano chiamato «vili» gli obiettori di coscienza, se voi avete diritto «di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto». Noi Chiesa abbiamo solo dormito Non è stato un “cattolico del dissenso” Milani – il ‘68 era ancora lontano –, ma un “ribelle obbediente”, forse proprio per questo guardato con ancora maggiore ostilità dall’istituzione ecclesiastica a cui il prete fiorentino rimproverava di aver perso di vista il Vangelo per inseguire il potere: «Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi Congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare», si legge nella visionaria Lettera dall’oltretomba di un «povero sacerdote bianco della fine del II millennio» ai «missionari cinesi» che nel futuro arriveranno in un’Europa senza più preti, uccisi dai poveri, pagina conclusiva di Esperienze pastorali, il volume di Milani giudicato «inopportuno» dal Sant’Uffizio nel ‘58 e non ancora riabilitato. «Insegnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 non parlate loro dunque del nostro martirio. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringrazino Dio. Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato».

L’APPELLO PER CAMBIARE LE POLI TI CHE EUROPEE SULLE MIGRA ZIONI E L’ASILO

L’Europa diventi terra d’accoglienza dal quotidiano on-line controlacrisi del 1 agosto 2014

Pubblichiamo di seguito il testo dell’appello lanciato da Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale che auspica un radicale cambiamento delle politiche europee sulle migrazioni e l’asilo. tra i primi firmatari: Alexis Tsipras; Stefano Rodotà; Luigi Manconi; Andrea Camilleri; Umberto Eco; Curzio Maltese; Maurizio Ferraris; Moni Ovadia; Don Luigi Ciotti; Ermanno Rea. Per adesioni: corridoio.umanitario@gmail.com

Garantire il diritto di fuga - Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone. sulle coste meridionali del nostro continente giungono persone — uomini, donne, bambini — che si lasciano alle spalle Paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo, di cui molto spesso le politiche occidentali — connesse a un modello economico e biopolitico di spartizione — sono direttamente o indirettamente responsabili. i rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato. ma una guerra planetaria, che distingue tra soggetti di diritto e corpi marginali in balia di eventi decisi altrove, non può rendere l’europa un filo spinato. l’europa che vogliamo deve essere un luogo di accoglienza, di rispetto, di dignità. Fermare i respingimenti - il numero dei migranti forzati è aumentato, nel 2013, di ben sei milioni. uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste — e a sangatte, Ceuta, melilla — in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati. trovano invece spesso respingimento, inferiorizzazione giuridica, economica e sociale, privazione della libertà. molti di loro trovano la morte durante il viaggio, così che il mar mediterraneo si è trasformato in un cimitero dove si compie il naufragio di quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie. (…) l’unione europea che, incapace di disegnare una vera politica comune, la affida alle proprie agenzie, come Frontex o europol, ha di fatto ab-

dicato alla missione che si è data con il trattato di lisbona e con la Carta dei diritti. non è questa l’europa che vogliamo, né è Frontex che i cittadini europei hanno votato lo scorso maggio. noi, cittadini europei, diciamo che l’europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito. Corridoi umanitari - nel frattempo si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza — in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche. (…) occorre approntare canali di ingresso legale dove un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare, e istituire postazioni dell’onu e dell’unione europea nei principali porti di partenza e nei campi di transito, dove identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori. occorre dotare l’european asylum support office (easo) di poteri di coordinamento delle attività degli stati membri, alla stregua di quanto fatto con Frontex in materia di controllo delle frontiere; occorre smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l’accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie; occorre far cessare l’insostenibile pressione patita dagli abitanti degli attuali luoghi d’arrivo degli scafisti, primo tra tutti lampedusa, che spesso si trovano, con grande generosità, a supplire l’abissale assenza dello stato e dell’unione europea. Più in generale, l’italia e tutti i popoli del sud europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare, che ci riguarda tutti, come cittadini d’europa.

Libertà di movimento - urge rendere permeabili i confini interni dell’unione europea, abrogando le norme nazionali e le prassi amministrative che nello spazio schengen limitano la libertà di movimento delle persone, così come la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti. Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti, così come chiede la Carta di lampedusa, cui facciamo riferimento. Per questo chiediamo la chiusura di tutti i centri di detenzione, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem. urge il riconoscimento di una cittadinanza europea basata sullo ius soli. benché questo dipenda dalla competenza dei singoli stati, adeguati studi e raccomandazioni delle istituzioni europee potrebbero favorire il conseguimento di tale obiettivo.


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 23

il fiore del partigiano

23

settembre 2014

La reinvenzione del fascismo

IL POTERE PASSA NELLE MANI DEL NUOVO “COMPLESSO MILITARE-FINANZIARIO”

JOHAN GALTUNG*

e atrocità della seconda guerra mondiale hanno lasciato dietro di sé danni permanenti, abbassando i nostri standard su quello che è accettabile. La guerra è male; ma se non è una guerra nucleare, non siamo oltre il limite. Il fascismo è male; ma se non è accompagnato dalla dittatura e dall’eliminazione di un’intera categoria di persone, non siamo oltre il limite. Hiroshima, Hitler e Auschwitz sono profondamente radicati nelle nostre menti, deformandole. La bomba di Hiroshima ci porta a trascurare il terrorismo di Stato contro le città tedesche e giapponesi, che ha ucciso cittadini di ogni età e genere. Hitler e Auschwitz ci fanno trascurare il fascismo, inteso come il perseguimento di obiettivi politici attraverso la violenza e la minaccia della violenza. Ci vogliono due soggetti per fare la guerra, di qualunque tipo. Ma ne basta uno per realizzare il fascismo, contro il proprio popolo e/o contro gli altri. Qual è l’essenza del fascismo? La definizione è il connubio tra il perseguimento di obiettivi politici e l’uso di una violenza smisurata. Proprio per evitare questo abbiamo la democrazia, un gioco politico in cui si perseguono obiettivi politici attraverso mezzi nonviolenti, in particolare attraverso l’ottenimento della maggioranza da parte di un soggetto politico, in elezioni libere e giuste o nei referendum. Un’innovazione meravigliosa, con una conseguenza logica: l’utilizzo della nonviolenza quando la stessa maggioranza oltrepassa i limiti, come è ad esempio scritto nei codici dei diritti umani. Lo Stato forte, capace e disposto a mostrare la sua forza, anche nella forma della pena di morte, appartiene all’essenza del fascismo. Questo vuol dire un monopolio assoluto del potere, anche quello che non viene dalle armi, incluso il potere nonviolento. E vuol dire una visione della guerra come un’attività ordinaria dello Stato, rendendola normale, eterna addirittura. Vuol dire una profonda contrapposizione con un nemico onnipresente, come gli ariani contro i non ariani, la cristianità contro l’Islam, glorificando il primo e demonizzando il secondo. Ovunque, il fascismo fa del dualismo, del manicheismo e di Armageddon – la battaglia finale – un tutt’uno. Va da sé che tutto questo vuol dire una sorveglianza illimitata sul proprio popolo e sugli altri; la tecnologia postmoderna rende tutto

ciò possibile, o almeno plausibile. Quello che conta è la paura; conta che le persone abbiano timore e si astengano dalla protesta e da azioni nonviolente, per la minaccia di essere individuate per la punizione estrema: l’esecuzione extragiudiziale. Che ci sia davvero un controllo su e-mail, attività su internet e telefonate, è meno importante rispetto al fatto che le persone credano che ciò stia accadendo sul serio. Il trucco è farlo in maniera indiscriminata, non concentrandosi solo sugli individui sospetti, ma facendo sentire ciascuno un potenziale sospetto; spingendoli a stare al sicuro per la paura, trasformando i potenziali attivisti in cittadini passivi sottomessi al governo. E lasciando così la politica nelle mani dei Big Boys – gli uomini di potere con i muscoli, sia in patria che all’estero. Il trucco più semplice è rendere il fascismo compatibile con la democrazia. Una recente notizia colpisce: «Ammettendo che le forze inglesi torturarono i kenyoti che combatterono contro il dominio coloniale negli anni ’50, il governo risarcirà 5.228 vittime» (International Herald Tribune, 7 giugno 2013). Un numero drammatico, più di 5.000 – ma sicuramente il numero delle vittime è maggiore. Dov’era la “Madre dei Parlamenti” durante una simile manifestazione di fascismo? Si avverte una formula: «era per la sicurezza degli inglesi in Kenya», dove sicurezza è la parola-ponte tra fascismo e democrazia, sostenuta da quella paranoia istituzionalizzata a livello accademico che sono gli “studi sulla sicurezza”. Ci sono anche altri modi. Innanzitutto ridurre la definizione di democrazia alla presenza di elezioni nazionali con più partiti. In secondo luogo, far diventare i partiti praticamente identici sulle questioni della “sicurezza”, pronti all’uso della violenza a livello nazionale o internazionale. Terzo, privatizzare l’economia nel nome della libertà, l’altra parola-ponte, lasciando al potere esecutivo essenzialmente le questioni giudiziarie, militari, e di polizia, sulle quali già esiste un consenso manipolato. Arrivare a una crisi permanente, con un nemico permanente e pronto a colpire, è utile, ma ci sono anche altri modi. Proprio come una crisi che viene definita “militare” catapulta al potere i militari, una crisi definita “economica” catapulta al potere il capitale. Se la crisi è che l’Occidente ha perso la competizione nell’economia reale, allora al potere arriva l’economia finanziaria, le grandi banche, che gestiscono migliaia di miliardi in nome

disegno di elena Cinguino

L di

da www.sbilanciamoci.info. del 02 luglio 2013

della libertà. Corrompere alcuni politici finanziando le loro campagne elettorali è roba da niente, e può perfino non essere necessario, dato il consenso generale. Una via d’uscita c’è, e prima o poi verrà presa. Le persone pagano intorno al 20% di imposte – negli Stati Uniti è la metà – quando acquistano beni o servizi di consumo nell’economia reale. La finanza invece fa ogni pressione con le sue lobby per non pagare l’1%, o neanche lo 0,1%. Un compromesso al 5% (di tassazione della finanza) basterebbe a risolvere il problema dei paesi occidentali: l’economia reale non produce un surplus sufficiente per governare uno Stato se non con la forza. Se la libertà è definita come la libertà di utilizzare denaro per guadagnare più denaro, e la sicurezza come forza per uccidere il nemico designato ovunque esso sia, allora abbiamo un “complesso militare-finanziario”, il successore del “complesso militare-industriale”, nelle società in via di deindustrializzazione. I movimenti pacifisti e ambientalisti sono i loro nemici: una minaccia alla sicurezza e alla libertà non solo perché mettono in dubbio le uccisioni, la ricchezza e la disuguaglianza, ma perché vedono gli effetti opposti di tutto questo: la produzione di insicurezza e dittatura. I movimenti operano alla luce del sole, sono facilmente infiltrati da spie e provocatori, le voci indispensabili sono facilmente eliminate. Siamo a questo punto. La tortura come metodo rafforzato per le indagini, i campi di concentramento de facto come a Guantánamo, la cancellazione dell’habeas corpus. E un presidente americano che racconta a chi vuol crederci favole progressiste che non diventano mai realtà, che sia un ipocrita o un velo messo da qualcuno su una realtà fascista. Chi quel velo lo strappa, un Ellsberg, un Assange, un Manning o uno Snowden è considerato un criminale. Non coloro che costruiscono il fascismo. Un antico adagio: quando c’è più bisogno di democrazia, aboliscila. * Professore di studi sulla pace, rettore della Trascend Peace University, autore di 150 libri sulla pace e questioni collegate; il suo ultimo libro è 50 Years-100 Peace and Conflict Perspectives (transcend media service, www.transcend.org/tms/?p=30956, traduzione dall’inglese di alessandro Castiello d’antonio)


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 24

24

il fiore del partigiano

settembre 2014

Gaza l’indomita, culla del nazionalismo

LA TRADIZIONE DI RESISTENZA DELLA POPOLAZIONE PALESTINESE SI PERDE NELLA

P

di

da il manifesto del 11 agosto 2014

ALAIN GRESH

rivato della sua forza da Dalila che gli aveva tagliato i capelli, Sansone cadde nelle mani dei filistei – popolo dal quale nasce il nome «Palestina» –, che lo accecarono. Un giorno, lo fecero venire fra loro per deriderlo: «Sansone cercò a tastoni i due pilastri centrali che reggevano l’edificio. Si puntò contro di essi, con la destra e con la sinistra, urlando: “Muoia Sansone con tutti i filistei!” e poi spinse con tutta la sua forza. L’edificio crollò, travolgendo i capi dei filistei e tutti gli altri. Così, Sansone uccise più persone con la sua morte che in tutta la sua vita». Questo famoso episodio riferito dalla Bibbia si svolge a Gaza, capitale dei filistei, popolo nemico degli ebrei. Gaza è stata sempre un crocevia nelle rotte commerciali fra Europa e Asia, fra Medioriente e Africa. La città e il territorio si sono dunque trovati, fin dall’antichità, al centro delle rivalità fra le potenze dell’epoca, dall’Egitto dei faraoni all’Impero bizantino passando per Roma. Là, nel 634 della nostra era, avvenne la prima vittoria accertata sull’Impero bizantino da parte degli adepti di una religione ancora sconosciuta, l’islam; il profeta Maometto era morto due anni prima. Gaza rimase sotto il controllo musulmano fino alla prima guerra mondiale, con alcuni interludi più o meno lunghi: regni crociati; invasione mongola; spedizione di Bonaparte. «Facile da prendere, facile da perdere», spiega JeanPierre Filiu nel suo libro Histoire de Gaza (Fayard, Parigi, 2012), il più approfondito dedicato a questo territorio. Il generale britannico Edmund Allenby strappò Gaza, porta della Palestina, all’Impero ottomano il 9 novembre 1917, aprendosi così la strada verso Gerusalemme, dove entrò l’11 dicembre. Per Londra, non si trattava solo di battere il sultano, alleato della Germania e dell’Impero austro-ungarico, ma di assicurarsi il controllo di un territorio strategico e garantire la protezione del fianco est del canale di Suez, vena giugulare dell’impero, via di comunicazione vitale fra il viceregno delle Indie e le metropoli. I britannici dunque sconfiggono le ambizioni francesi in Terra santa. Nel 1922, ottengono il mandato della Società delle Nazioni (Sdn) per amministrare il territorio che da allora viene chiamato «Palestina», e al quale Gaza appartiene. Hanno anche il compito di applicare la «dichiarazione di Bal-

Gaza, dopo la tregua, ritorno tra le macerie a Sejaia (reuters)

four», cioè aiutare a creare una patria nazionale ebraica e incoraggiare l’immigrazione sionista; lo fanno con zelo fino al 1939. Gaza e la sua regione prendono parte a tutti i combattimenti dei palestinesi, musulmani e cristiani, contro la colonizzazione sionista e contro la presenza britannica. Contribuiscono alla grande rivolta palestinese del 1936–1939, schiacciata infine dai britannici. Una sconfitta che priva a lungo i palestinesi di una qualsivoglia direzione politica, lasciando ai governi arabi il compito – se così si può dire – di difendere la loro causa. Il 15 maggio 1948, all’indomani della proclamazione dello Stato di Israele, gli eserciti arabi entrano in Palestina. Prima guerra, prima disfatta araba. Il territorio previsto per lo Stato di Palestina dal piano di spartizione votato all’Assemblea generale delle Nazioni unite, il 29 novembre 1947, va in frantumi. Israele annette una parte, la Galilea. La Giordania assorbe la riva occidentale del Giordano, conosciuta come Cisgiordania. La striscia di Gaza – un territorio di 360 chilometri quadrati che comprende le città di Gaza, Khan Younis e Rafah – passa sotto l’amministrazione militare egiziana; resta

l’unico territorio palestinese sul quale non viene esercitata alcuna sovranità straniera. Agli ottantamila abitanti autoctoni si sono aggiunti oltre duecentomila rifugiati espulsi dall’esercito israeliano, i quali vivono miseramente e sognano solo il ritorno a casa. Questa massiccia presenza di rifugiati e lo status particolare del territorio faranno di Gaza uno dei centri del rinascimento politico palestinese. Malgrado il controllo da parte del Cairo – esercitato prima dal re, poi da Gamal Abdel Nasser e dagli «ufficiali liberi» che nel 1952 hanno rovesciato la monarchia –, i palestinesi si organizzano in modo autonomo, effettuano azioni di guerriglia contro Israele, manifestano contro ogni tentativo di insediare definitivamente a Gaza i rifugiati. Già allora, Israele compie pesanti rappresaglie, nelle quali si distingue per la sua brutalità un giovane ufficiale ancora sconosciuto: Ariel Sharon. Il 28 febbraio 1955, Sharon comanda un raid contro Gaza che fa trentacinque morti fra i soldati egiziani (oltre a uccidere due civili) e otto fra gli israeliani. Il primo marzo, su tutto il territorio si tengono grandi manife-


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 25

il fiore del partigiano

25

settembre 2014

Quella coazione a ripetere

ELLA NOTTE DEI TEMPI. CONTINUERÀ FINCHÉ AVRÀ UNO STATO INDIPENDENTE stazioni di protesta contro la passività egiziana. Questo produce una svolta nella politica estera dell’uomo forte dell’Egitto, Nasser. Fino ad allora considerato da molti suoi concittadini piuttosto vicino agli Stati uniti, egli decide, in piena guerra fredda, di avvicinarsi a Mosca. Mentre si reca alla conferenza di Bandung che, nel marzo 1955, segna la nascita del Movimento dei non allineati, Nasser incontra il ministro degli esteri cinese Ciu en Lai, anch’egli in procinto di recarsi alla conferenza; gli chiede se i sovietici accetterebbero di dare armi al suo paese. La risposta si fa attendere, ma infine il 30 settembre 1955 è annunciato l’accordo per la consegna di armamenti cecoslovacchi. Così, l’URSS spezza il monopolio occidentale della vendita di armi al Medioriente, ed entra in modo eclatante sulla scena regionale. Inoltre Nasser lascia ai palestinesi di Gaza maggiore libertà di organizzarsi in gruppi combattenti. Il 26 luglio 1956, il rais nazionalizza la compagnia del canale di Suez. Ne segue l’aggressione tripartita contro l’Egitto da parte di Israele, Francia e Gran Bretagna, che si conclude con la conquista del Sinai e della Striscia di Gaza. Questa rimane sotto il controllo israeliano fino al marzo 1957. La resistenza clandestina si organizza. Il bilancio umano dell’occupazione è particolarmente pesante, con molti massacri di civili compiuti dall’«esercito più etico del mondo». Ad esempio, a Khan Younis, decine di persone vengono allineate contro un muro e uccise a mitragliate; altre sono abbattute a colpi di pistola. Il bilancio è fra duecentosettantacinque e cinquecento persone uccise. Quando Israele, soprattutto su pressione statunitense, libera il Sinai e Gaza, Nasser e il nazionalismo arabo rivoluzionario sono all’apice della popolarità. Nei campi di rifugiati, la nuova generazione palestinese in esilio vi vede la risposta alla sconfitta del 1948–49. Milita in organizzazioni come il Movimento dei nazionalisti arabi, creato da George Abbash, nel partito Baath o nei vari movimenti nasseristi.Per questi giovani, l’unità araba è la strada per la liberazione della Palestina. Dalla loro esperienza a Gaza, un gruppo di uomini trarrà invece la lezione opposta. Essi hanno affrontato direttamente Israele e misurato come il sostegno arabo, anche da parte di Nasser, sia condizionato – del resto, alcuni di loro conosceranno anche le prigioni egiziane. Per questi militanti, la liberazione della Palestina può avvenire solo a opera degli continua a pagina 26 ➔

A

da il manifesto del 28 luglio 2014

lcuni giorni fa, dall’archivio smisurato del mio computer è sbucata una specie di poesia, titolata Gaza, datata 9 gennaio 2009. Certo, ricordavo di averla scritta e in pieno «Piombo fuso». Tre giorni prima un raid dell’esercito israeliano aveva colpito una scuola dell’UNRWA e ucciso quaranta persone, delle trecentocinquanta sfollate dal campo profughi di Jabaliya. La ricordavo, quella specie di poesia, ma non l’avevo mai più riletta. L’ho fatto e la sua attualità mi ha provocato un senso d’angoscia quasi insostenibile. «Disperanti/ i corpicini avvolti/ in candidi sudari/ che la calcolatrice impazzita della strage/ moltiplica giorno dopo giorno./ Disperanti/ i pianti senza lacrime/ di donne orfane di prole/ che al cielo gridano/ maledizioni e strazio./ Disperanti/ perpetui fuochi d’artificio/ arricchiti da fosforo bianco/ apogeo della festa macabra/ di un demone perverso./ Più d’ogni cosa/ disperanti/ questi signori/ magari un tempo ribelli/ che discettano compunti/ le ragioni degli uni e degli altri/ - degli uni più che degli altri -/ impermeabili al dolore/ allo scempio dei corpi/ ai cadaveri insepolti/ ai feriti senza speranza/ alle case e alle moschee/ alle scuole e agli ospedali/ ridotti in polvere./ E voi palestinesi/ come pretendete di chiamarvi/ arabi pezzenti/ incivili/ bigotti/ integralisti/ voi che credete ancora/ che i bambini sono bambini/ che la fame è sempre fame/ che la sete è sempre sete/ che la guerra è sem-

la Vignetta di

FOGLIAZZA

pre guerra/ che la morte è sempre morte/ piegatevi infine/ al nuovo ordine mondiale/ oppure perdio/ non inceppate/ la macchina del massacro». Attuale è non per qualità dei versi, né per lungimiranza mia, ma per l’automatismo ripetitivo della macchina bellica israeliana e per l’impotenza colpevole della «comunità internazionale», capace solo d’imporre qualche effimera tregua nel lungo ciclo dell’assedio della Striscia di Gaza e dell’occupazione dei territori palestinesi. Da «Inverno caldo» a «Piombo fuso», fino a «Margine protettivo», lo schema è lo stesso, una coazione a ripetere che ha del patologico: un osceno replay, lo ha definito Robert Fisk, di ciò che è già successo in passato, ma del quale non si conserva memoria. Molti articoli del gennaio 2009 sono perfettamente sovrapponibili a quelli di oggi. E non solo perché, oggi come ieri, si bombardano ospedali, campi-profughi, interi quartieri, e le scuole dell’UNRWA sono tra i bersagli prescelti. Non solo perché, oggi come ieri, il sistema sanitario di Gaza è al collasso e gli abitanti sono ormai quasi privi d’elettricità e d’acqua. Ma anche perché identico è lo schema della narrazione dominante, cosicché gli autori di quei vecchi articoli avrebbero potuto - forse lo hanno fatto - limitarsi ad aggiornare le date e qualche dettaglio. Io stessa, in fondo, per quanto tutt’altro che mainstream, sono vittima della coazione a ripetere, se è vero che in un articolo per Liberazione del 20 gennaio 2009, a proposito di «Piombo fuso», denunciavo «la sconcertante coazione a ripetere».E simili sono il ruolo e il comportamento di Hamas, se non fosse per il nuovo regime egiziano, che l’ha resa ancor più debole politicamente. Perfino i numeri sono comparabili: «Piombo fuso» fece 1417 morti in 22 giorni; «Margine protettivo» ha ucciso finora non meno di 1031 palestinesi in una ventina di giorni. In un articolo sul manifesto di alcuni giorni fa, ottimo come tutti i suoi, Angelo d’Orsi denunciava «il silenzio degli intellettuali». Angelo, potrei dirgli, certi/e intellettuali non mediatizzati, perciò ignorati o svalutati perfino in ambienti della sinistra detta radicale, forse non hanno più parole che non siano consunte. E se mai ne avessero, di nuove e incisive, esse non avrebbero alcuna risonanza. E perciò si limitano a partecipare a cortei e a sottoscrivere appelli, anche per non rischiare di diventare, pure loro, maschere d’una tragica commedia dell’arte. Anna Maria Rivera


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 26

26

settembre 2014

➔ segue da pagina 25

il fiore del partigiano ziali. Ma, se la resistenza militare viene schiacciata, le iniziative politiche si moltiplicano, e soprattutto i contatti con la Cisgiordania, molto limitati prima del 1967. Le élite si uniscono all’OLP, che riconoscono come «unico rappresentante del popolo palestinese». Gli unici a rifiutare sono i Fratelli musulmani. Essi si radicano profondamente grazie alle loro reti sociali e alla tolleranza delle autorità di occupazione, che vedono in loro un contrappeso rispetto al nemico principale, l’OLP. Fondata nel 1973 dallo sceicco Ahmed Yassin, la mujama’ islamiya («centro islamico») viene legalizzata dall’occupante. Ma questo attendismo – l’ora della resistenza non sarebbe ancora arrivata – suscita proteste fra i Fratelli; agli inizi degli anni ’80 una scissione porta alla nascita della Jihad islamica. Nel dicembre 1987, è a Gaza che scoppia la prima Intifada, la «rivolta delle pietre». Con due conseguenze importanti. Da una parte, i Fratelli imprimono una svolta significativa alla propria strategia creando il Movimento della resistenza islamica (Hamas), che partecipa all’Intifada ma rifiuta di formare un fronte unico con le altre organizzazioni. D’altra parte, l’OLP utilizza la rivolta per rafforzare la propria credibilità e negoziare gli accordi di Oslo, guidati da Arafat e dal primo ministro israeliano Itzhak Rabin il 13 settembre 1993 a Washington. Il 1° luglio 1994, Arafat apre a Gaza la sede dell’Autorità nazionale palestinese. Il seguito è noto: fallimento degli accordi; sviluppo della colonizzazione; seconda Intifada (a partire dal settembre 2000); vittoria di Hamas alle prime elezioni democratiche te-

nutesi in Palestina nel 2006; rifiuto dei paesi occidentali di riconoscere il nuovo governo, e alleanza fra una fazione di Fatah e Stati uniti per porvi fine; arrivo al potere di Hamas a Gaza nel 2007; blocco israeliano imposto da allora a un milione e mezzo di abitanti. La Striscia di Gaza, malgrado l’evacuazione dell’esercito israeliano nel 2005 – senza alcun coordinamento con l’Autorità nazionale palestinese –, continua a essere occupata. Tutti i suoi accessi dal mare, dalla terra e dal cielo continuano a dipendere da Israele, che vieta ai palestinesi importanti porzioni del territorio (il 30% delle terre agricole) e il mare al di là delle sei miglia nautiche (ridotte a tre a partire dall’inizio dell’operazione militare in luglio). Gli israeliani continuano a gestire lo stato civile. Il blocco che mantengono dal 2007 soffoca la popolazione, malgrado le condanne unanimi – unicamente verbali, è vero – da parte della «comunità internazionale», compresi gli Stati Uniti. Dopo il suo ritiro, Israele ha condotto tre operazioni di grande portata contro i territori: nel dicembre 2008-gennaio 2009; nel novembre 2012; infine nel luglio 2014. Finché il blocco non sarà tolto, finché i palestinesi non avranno uno Stato indipendente, ogni nuovo cessate il fuoco sarà solo una tregua. Il generale de Gaulle lo aveva predetto, in una celebre conferenza stampa tenuta il 27 novembre 1967 dopo la guerra arabo-israeliana: «Non ci può essere occupazione senza oppressione, repressione, espulsioni»; le quali provocano «la resistenza [che Israele]chiama terrorismo». (Traduzione di Marinella Correggia) © Le Monde diplomatique/il manifesto

stessi palestinesi. Nel 1959 si radunano intorno a Yasser Arafat, egli stesso rifugiato a Gaza nel 1948, per fondare Fatah, che è l’acronimo arabo, al contrario, di «Movimento nazionale palestinese». Fra i militanti gazawi della prima ora, destinati a giocare un ruolo centrale negli anni ’70–80, vi sono Salah Khalaf (Abu Iyad), Khalil el Wasir (Abu Jihad), poi diventato il numero due di Fatah e assassinato dagli israeliani a Tunisi nel 1988, e Kamal Adwan, assassinato da un commando israeliano a Beirut nel 1973. Il loro giornale, Falistinouna («La nostra Palestina»), pubblicato a Beirut negli anni fra il 1959 e il 1964, proclama: «Tutto quello che vi chiediamo, è che voi [i regimi arabi] circondiate la Palestina con una cintura difensiva così da circoscrivere la guerra fra noi e i sionisti». E anche: «Tutto quello che vogliamo, è che voi [i regimi arabi] togliate le mani dalla Palestina». In quell’epoca, all’apice dell’influenza di Nasser, ci vuole un certo coraggio per dichiarare simili eresie. Eppure, già alla metà degli anni ’60, con il fallimento del tentativo di unione fra Egitto e Siria (1958–1961), che rivela l’impotenza dei paesi arabi di fronte al corso degli eventi, il vento comincia a girare. La lotta di liberazione algerina, che si conclude con la vittoria nel 1962, funge da modello. Nel gennaio 1965, Fatah lancia le prime azioni militari contro Israele e vede affluire militanti da altre organizzazioni, stanche di aspettare un’unità araba sempre più improbabile. La sconfitta del giugno 1967, con la guerra dei sei giorni, consente a Fatah di diventare una forza significativa e di assumere, con l’avallo di Nasser, il controllo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Nel febbraio 1969, Arafat diventa presidente del comitato esecutivo dell’OLP. I palestinesi sono tornati a essere un grande attore nella politica regionale, e Gaza ha contribuito notevolmente a questo rinnovamento. Che cosa succede al territorio in questo periodo? Occupato da Israele, vede organizzarsi una resistenza militare che raggruppa una quantità di organizzazioni, salvo i Fratelli musulmani che si rifugiano nell’azione sociale. Il primo attacco contro l’esercito di occupazione si verifica l’11 giugno 1967, ovvero all’indomani del cessate il fuoco firmato dall’Egitto e dai Paesi arabi con Israele. Con alti e bassi, gli attacchi continuano fino al 1971. Per venirne a capo, occorrerà la brutalità dei carri armati di Sharon e di innumerevoli esecuzioni extragiudi- La disperazione di un giovane palestinese durante un funerale di bambini vittime dei raids israeliani


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:14 Pagina 27

il fiore del partigiano

27

Gaza: a che serve l’Europa?

settembre 2014

da il manifesto del 30 luglio 2014

Angelo d’Orsi ha denunciato con giusto sdegno il silenzio e il «rovescismo» degli intellettuali (il manifesto del 22/7), su cui pedi PIERO BEVILACQUA sano gravi responsabilità, avendo il compito di spiegare le ragioni complesse del conflitto. Ma anche le opinioni pubbliche che serve questa Europa? Ce lo siamo chiesti in tanti, in del vecchio continente appaiono come narcotizzate. Gli europei questi ultimi anni, nei momenti di scoramento, di fronte osservano in tv le immagini del massacro – quelle pietosamente all’ottusa rigidità con cui i vertici di Bruxelles affrontano depurate da ciò che è inguardabile – le case distrutte, le donne i problemi economici e finanziari dell’Unione sotto l’imperver- vestite di nero pietrificate dal dolore, i bambini sanguinanti tra sare della crisi. Ce lo siamo chiesto di fronte le braccia dei padri disperati. E tacciono. Che cosa all’atteggiamento della Germania, che torna è accaduto? Quale sguardo di medusa ha gelato le a perseguire con altri mezzi una politica di loro menti? A che serve questa Europa? Deserto morale. supremazia, nonostante abbia alle spalle la Forse una parziale spiegazione è alla nostra porL’impotenza, peggio tata. I dirigenti di Israele sono riusciti a imporre disfatta di due guerre mondiali, la responsabilità recente del più grande massacro grazie ai media occidentali – rare volte capaci di l’indifferenza, dello storia. parola di verità – l’immagine di un conflitto dei gruppi dirigenti una Continuiamo a chiedercelo avendo rinunalla pari, di due contendenti in lotta con uguali dell’Unione europea, torti e ragioni. Addirittura la propaganda militare ciato alla moneta e a tanta parte della nostra sovranità nazionale, senza aver conseguito ragionieri ingobbiti dell’esercito israeliano viene trasformata in verità un più solidale e includente governo del autorevole da prestigiosi intellettuali, i quali, per a fare i conti del PIL, mestiere, dovrebbero pensare alle parole prima di continente. Ma in questi giorni torniamo a chiedercelo liberarle nell’aria. In una intervista apparsa su Le di fronte al per una ben più tragica ragione. L’impoe ripresa da la Repubblica (27 luglio) il fimassacro del popolo Figaro tenza, peggio l’indifferenza, dei gruppi dirilosofo francese Alain Finkielkraut rammenta palestinese genti dell’UE, ragionieri ingobbiti a fare che «se la civiltà dell’immagine non stesse dii conti del PIL, di fronte al massacro del postruggendo la comprensione della guerra, nespolo palestinese. suno sosterrebbe che i bombardamenti sono Non una parola, una proposta, un tentativo di soluzione è stato rivolti contro i civili. No, gli israeliani avvertono gli abitanti di balbettato dagli uomini di Stato dei vari Paesi europei, che da Gaza dei bombardamenti che stanno per fare». decenni tengono in deposito i loro cervelli presso la Segreteria Siamo dunque ai bombardamenti umanitari. Nessuna considedi Stato di Washington. Ma non sono sufficienti i mille morti di razione per la distruzione delle case di tanta misera gente, delle Gaza, in grandissima maggioranza civili incolpevoli, fra cui tante infrastrutture idriche, delle strade, degli elettrodotti, delle scuole, donne e bambini, per sollevare gli occhi dagli affari e guardare in degli ospedali, del poco bestiame, dei poveri orti. Nessun ramfaccia la tragedia? A che serve questa Europa senza pietà? marico per centinaia di migliaia di esseri umani gettati in pochi giorni in una distesa informe di rovine. Ma il filosofo non sa e probabilmente non vuol saper che gli sms annunciano i bombardamenti con pochi minuti di anticipo, che spesso le famiglie sono immerse nel sonno, che i bambini dormono ignorando la ferocia degli adulti e tardano a svegliarsi, che i disperati non sanno dove rifugiarsi una volta roma, 25 luglio 2014 di seguito, la dichiarazione del Presidente lasciate le loro case. E tuttavia il filosofo ha una risposta smuraglia, pubblicata su anPinews n. 129 a questa obiezione: «E quando mi dicono che queste pera segreteria nazionale, confermando e del 22 luglio scorso: sone non hanno un posto dove andare, rispondo che i sotfacendo propria la dichiarazione formuterranei di Gaza avrebbero dovuto esser fatti per loro. Oggi lata dal Presidente nella newsletter 129 del «Che si può dire ancora di tragedie come ci sono delle stanze di cemento armato in ogni casa quella della Palestina e della morte, nel me22 luglio, qui di seguito riportata, a propod’Israele». A che serve questa Europa se i suoi intellettuali sito di quanto sta accadendo in medio diterraneo, di tante persone (anche donne si mettono il doppiopetto di tanta incosciente ferocia? e bambini) che tentano di uscire da Paesi in oriente, nella striscia di gaza: Forse qualcuno dovrebbe ricordare a Finkielkraut un po’ manifesta la deplorazione più viva per guerra o in crisi, cercando una qualunque di storia. Dovrebbe ricordare che i palestinesi non sono un prospettiva migliore e incappando invece, gli attacchi violenti e indiscriminati da parte moderno Stato, come Israele, dotato di uno dei più effiassai spesso, in un destino fatale? non si di israele (l’ultimo ieri contro una struttura cienti eserciti del mondo, sostenuto con ingenti aiuti da può rimanere inerti di fronte a tanto orrore. dell’onu), che vanno a colpire tragicatutto l’Occidente. Sono un popolo disperso di rifugiati, cacmente la popolazione civile con un numero ma le parole non bastano più. ciati dalle loro terre, perseguitati talora dai popoli vicini, Ci vogliono iniziative serie, di pace e di acormai elevato di vittime, anche fra donne e umiliati dalla violenza quotidiana dell’occupante. I tunnel sotterranei sono serviti ai palestinesi per ricevere cibo coglienza “vera”; ci vuole un impegno degli bambini; e medicinali e per attivare un mercato clandestino, visto ricorda la dichiarazione dell’ONU che stati, dell’onu, dell’europa, per far finire che ben presto Gaza è stato trasformata dai governanti questi massacri e tornare almeno ad un lidenuncia anche crimini contro l’umanità; israeliani nel più grande ghetto della nostra epoca. Certo, chiede che l’ue e, in primo luogo, il governo vello accettabile di civiltà e di diritti. anche le armi passano nei sotterranei, ma ci si può stupire italiano, assumano una posizione precisa in e forse ci vuole meno indifferenza da parte di questo? Israele dispone di un armamento atomico e si di tutti, perché quelle morti, quelle tragefavore: a) di un immediato cessate il fuoco, levano strida al cielo perché gruppi e fazioni di un popolo die, ci riguardano da vicino e ci impongono duraturo, da entrambe le parti; b) per il rimartoriato da otre 60 anni tenti la carta disperata conoscimento dello stato della Palestina al non solo di esprimere commozione ed delle armi? pari di quello di israele; c) contro ogni forma emozioni, ma di manifestare concretaI palestinesi dovevano dunque investire in bunker per dimente una seria volontà di pace e di ricodi violazione dei diritti umani, di chiunque, in

A

Dalla Segreteria Nazionale ANPI

L

quella delicatissima area.

noscimento dei diritti umani».

continua a pagina 29 ➔


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:15 Pagina 28

28

il fiore del partigiano

Trent’anni di solitudine

settembre 2014

BEIRUT - DAL 16 AL 18 SETTEMBRE 1982, LA STRAGE NEI CAMPI PROFUGHI DI SA

da il manifesto del 18 settembre 2012

«F

di

MICHELE GIORGIO

urono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti». Comincia così il lungo racconto scritto trent’anni fa da Robert Fisk, uno dei primi giornalisti stranieri ad entrare nei campi profughi di Sabra e Shatila dopo il massacro di 3mila palestinesi. Il lungo e penoso resoconto di un giro tra case e strade colme di cadaveri che Fisk e i suoi colleghi non dimenticheranno mai. Sono passati trent’anni da quella strage compiuta dal 16 al 18 settembre 1982 da miliziani cristiano- falangisti agli ordini (ma non solo) di Elie Hobeika, sotto gli occhi compiacenti delle truppe d’invasione israeliane. I ricordi sono ancora vivi per chi scampò a quella mattanza. Molto meno tra i libanesi immersi nella loro vita frenetica. Non ha più memoria invece la «comunità internazionale», pronta a processare e condannare vecchi e nuovi criminali di guerra, che ha scelto però di dimenticare esecutori e mandanti di quel massacro. Uomini, donne, bambini. Civili inermi e non combattenti armati, uccisi in ogni modo possibile per vendicare la morte in un attentato, qualche giorno prima, del neo-eletto presidente della repubblica Bashir Gemayel, il falangista messo al potere dalle truppe di occupazione agli ordini di Ariel Sharon, a quel tempo ministro della difesa di Israele e stratega dell’operazione militare «Pace in Galilea». Lo ricorda bene Aziza Khalidi che qualche giorno fa ha rivissuto nei racconti fatti ai giornalisti le varie fasi del massacro, dall’incredulità dei primi momenti all’orrore della scoperta del bagno di sangue. La donna a quel tempo era direttrice amministrativa dell’ospedale Gaza, costruito ai margini del campo di Shatila con fondi messi a disposizione dell’OLP. Quel trauma non lo ha mai superato. «E non ci riuscirò mai – ha detto – perché quei tre giorni (di massacro) hanno segnato la mia vita, fui costretta a lasciare il Libano per molti anni per riprendermi da ciò che accadde».

Sabra e Shatila. L’orrore e la pietà dopo la strage. Sotto, il generale Ariel Sharon

Per tre giorni i miliziani cristiano-falangisti, sotto gli occhi compiacenti delle truppe israeliane, uccisero 3mila palestinesi: uomini, donne, bambini. Civili inermi, e non combattenti armati I dieci piani dell’«edificio» Gaza, come è conosciuto adesso, non accolgono più l’ospedale. Il palazzo fatiscente alloggia in minuscoli appartamenti a basso costo famiglie palestinesi, lavoratori siriani, migranti. In queste stanze trent’anni fa si tentò, spesso invano, di curare i superstiti della carneficina. C’era anche il dottor Ben Alofs, un medico olandese. «Il nostro obitorio si riempì di cadaveri in pochissimo tempo – ha scritto e raccontato in più di una occasione – Ricordo un bambino di 10 anni che fu trasportato agonizzante all’ospedale. Era vivo e aveva trascorso tutta la notte sotto i cadaveri dei suoi

genitori, fratelli e sorelle. Gli assassini venivano aiutati dagli israeliani, che illuminavano i campi... Sabato mattina 18 settembre fummo arrestati dai miliziani falangisti che ci costrinsero ad abbandonare i feriti e a lasciare Sabra e Shatila. Passammo attraverso centinaia di donne, bambini ed uomini fatti a ciambella. Vedemmo corpi nelle strade e negli stretti vicoli... Appena prima di uscire dal campo un’immagine che resterà per sempre nella mia mente: un grosso cumulo di terra rossa da cui fuoriuscivano braccia e gambe. Fuori da Shatila vi era un bulldozer dell’esercito israeliano». Domenica 19 settembre, aggiunge Ben Alofs «tornai a Sabra e Shatila accompagnato da due giornalisti danesi e un olandese... Tutti eravamo atterriti dalla ferocia degli assassinii... Quando le piogge autunnali iniziarono a cadere, alla fine di novembre, le fogne congestionate inondarono Sabra e Shatila. La congestione era causata in parte dai cadaveri gettati nelle fogne». Le premesse del massacro sono nell’imposizione di Israele e dei suoi alleati libanesi dell’allontanamento da Beirut e dal Libano di 15mila guerriglieri palestinesi e tutto il gruppo dirigente dell’OLP, i soli protettori dei profughi in un Paese che già da sette anni viveva nella guerra civile. Fu perciò formata la Forza multinazionale di interposizione (FMI, con soldati statunitensi, francesi e italiani) incaricata nella seconda metà di agosto di garantire l’ordine durante il ritiro delle forze dell’OLP e l’incolumità dei civili palestinesi rimasti. Il 23 agosto il Parlamento libanese


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:15 Pagina 29

ne

DI SABRA E SHATILA

elesse all’ombra dei carri armati israeliani Beshir Gemayel a capo dello stato. La Fmi, invece di rimanere a presidio della zona musulmana (Ovest) di Beirut fino al ritiro delle truppe israeliane, si imbarcò in anticipo sulla data stabilita. Il 9 settembre partirono i marines USA, l’11 i bersaglieri italiani e il 13 settembre salparono i francesi. I falangisti libanesi alleati di Israele intanto insistevano sulla presenza nei campi palestinesi di «terroristi», guerriglieri che a loro dire non avevano lasciato Beirut. Voci che si fecero più insistenti quando il 14 settembre una potente bomba esplose nella roccaforte delle Forze libanesi, ad Ashrafieh, provocando 21 morti, tra i quali Beshir Gemayel. Subito dopo le truppe israeliane occuparono Beirut Ovest e circondarono i campi profughi. Alle 5 di sera di giovedì 16 settembre iniziò «l’operazione di pulizia dai terroristi» con le belve agli ordini di Elie Hobeika che penetrarono nei campi palestinesi per avviare la strage di civili, ai quali poi si aggiunsero i libanesi dell’Esercito mercenario del Sud del Libano, alleato di Israele. Si dice che alla mattanza parteciparono anche miliziani sciiti. Furono uccisi in ogni modo possibile i profughi palestinesi ma anche cittadini siriani e libanesi, colpevoli di vivere o simpatizzare con i «nemici». Il rastrellamento dei «terroristi» avvenne casa per casa con i comandi israeliani che seguivano cosa accadeva dalla terrazza della vicina ambasciata del Kuwait abbandonata dai diplomatici del paese arabo. Da parte loro i soldati di Tel Aviv sparavano razzi illuminanti durante la notte, aiutando gli assassini. Dall’ospedale Gaza furono cacciati i medici e il personale straniero. Coloro che vi avevano cercato rifugio furono portati via e assassinati. Il bagno di sangue si fece più intenso nelle ultime ore del 17 settembre, quando cominciò a diffondersi la notizia della strage. Alle prime luci del 18 settembre i miliziani falangisti si ritirarono, lasciandosi dietro le spalle un fiume di sangue: 3mila tra assassinati o scomparsi nel nulla. Nessuno dei responsabili diretti e indiretti di quella strage è mai stato portato davanti a una corte internazionale per essere giudicato per crimini di guerra e contro l’umanità. La «Commissione d’inchiesta Kahan» in Israele concluse che uniche colpevoli del massacro di Sabra e Shatila erano state le milizie falangiste di Hobeika e si limitò a rilevare la responsabilità indiretta di Ariel Sharon per non averlo saputo prevenire o fermare. Elie Hobeika morì nel 2002 a Beirut in un attentato che gli chiuse per sempre la bocca, mentre a livello internazionale partivano iniziative per portare i colpevoli libanesi e israeliani davanti alla giustizia.

29

il fiore del partigiano UNA VOCE DAL FRONTE

Niente di nuovo

N

di

dal trimestrale Emergency del giugno 2014

CECILIA STRADA

el 2001, alla vigilia dell’invasione dell’Afghanistan, l’avevamo detto: la guerra non porta la pace. I diritti non si costruiscono con le bombe. La “guerra al terrorismo” aumenterà il terrorismo, perché è questo che fa la violenza: alimenta altra violenza. Oggi siamo alla vigilia del ritiro delle truppe e, in Afghanistan, i nostri Centri chirurgici per vittime di guerra sono sempre pieni. Ogni anno aumentano i feriti. Un terzo sono sempre bambini. Non sappiamo cosa succederà quando i soldati stranieri si saranno ritirati. Dov’è tutta quella pace, dove sono tutti quei diritti in nome dei quali si sono giustificati tredici anni di guerra? Nel pronto soccorso dei nostri ospedali, nei registri delle ammissioni, nelle sale operatorie sempre piene non vediamo pace. Non vediamo diritti. Nel 2003, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, lo avevamo detto: la guerra non porta la pace. I diritti non si costruiscono con le bombe. La violenza alimenterà altra violenza: funziona così. Oggi, undici anni dopo l’invasione, che cosa vediamo in Iraq? Ancora morti, feriti. Ancora attentati, sparatorie. Ancora sfollati, a centinaia di migliaia. Dov’è tutta quella pace, tutta quella democrazia che l’invasione e la guerra dovevano portare? Sulle facce dei profughi non vediamo democrazia, non vediamo pace. Solo dolore e paura. Non sappiamo cosa succederà in Iraq nelle prossime settimane. Ma sappiamo che, purtroppo, avevamo ragione anche su questo. Non è una grande consolazione aver avuto ragione. Non c’è consolazione possibile davanti a tutto questo. È molto triste doversi trovare a ripetere, da anni e anni, le stesse cose. Cose semplici, cose che risultano ovvie a chiunque abbia il coraggio di guardare in faccia la guerra. Banalità: come il fatto che la guerra non risolve i problemi, ne genera di nuovi. Che non c’è pace senza giustizia. Che la guerra significa grandi affari per pochi e miseria infinita per tutti gli altri. Che tra i vincitori e tra i vinti è sempre la povera gente a fare la fame. Guardiamoci attorno: dall’Afghanistan alla Libia, dall’Iraq alla Somalia, esiste una guerra che abbia prodotto pace e giustizia? Eppure, c’è ancora chi lo sostiene. A chi toccherà la prossima volta? Qual è il nome del prossimo Paese in cui, qualcuno ci dirà, dobbiamo andare a portare pace e democrazia a colpi di fucile? Non lo sappiamo. Sappiamo che succederà. Per questo non possiamo, non ancora, smettere di ripetere le nostre ovvietà. Le nostre banalità.

settembre 2014

➔ segue da pagina 7 fendersi dall’immancabile castigo dal cielo, dal mare e dalla terra come già è accaduto con la carneficina della campagna «Piombo fuso» del 2008-09? Con quale onestà, con quale dignità intellettuale si possono mettere sullo stesso piano due opposti estremismi? Possibile che nessun commentatore, nessun giornalista ricordi che sono stati i governanti di Israele, è stato Ariel Sharon a lavorare alacremente per sconfiggere l’Autorità nazionale palestinese e gettare il popolo palestinese in braccio ad Hamas? Chi ha disfatto gli accordi di Oslo, chi ha inaugurato la pratica di sparare dal cielo con gli elicotteri Apache e con i caccia F-16, chi ha esteso gli insediamenti dei coloni nei territori palestinesi, chi ha avviato nel 2002 la costruzione del «muro di sicurezza» in Cisgiordania, chi ha risposto ad ogni provocazione terroristica proveniente da Hamas con una violenza dieci volte superiore, ma rivolta contro le forze e gli edifici di Yasser Arafat? Chi ricorda le immagini del vecchio leader umiliato davanti al suo popolo, reso impotente agli occhi del mondo, rifugiato nelle rovine del suo quartier generale nel settembre del 2002? Chi ricorda le cronache quotidiane di quell’inizio di millennio con l’altalena di attentati terroristici da una parte – che sembravano ispirati dallo stesso Israele, tanto gli tornavano vantaggiosi — e bombardamenti arei, la «punizione esemplare» dall’altra? Sharon e la destra israeliana hanno perseguito sistematicamente la distruzione delle rappresentanze moderate del popolo palestinese per far trionfare l’estremismo indifendibile di Hamas. Come avrebbe potuto questa formazione vincere le elezioni del gennaio 2006, se non dopo l’umiliazione di un intero popolo, se non dopo che Israele ha mostrato ad esso che le politiche di mediazione dell’ANP non portavano a nulla? Ma questo è uno dei maggior delitti compiuti dai governanti israeliani negli ultimi anni: l’avere fatto identificare agli occhi del mondo i diritti violati e le immani sofferenze di un popolo con le velleità impotenti di Hamas. A che serve questa Europa se i suoi intellettuali non sanno pensare con sguardo storico, se si fermano all’oggi, se non gettano luce sulle cause vicine e lontane dei problemi, se sono così proclivi a credere alla favola del lupo, costretto a bere l’acqua sporcata dall’agnello? Guardando al mondo dissipatore e violento costruito dai potenti negli ultimi decenni, George Steiner si è lasciato sfuggire, pochi anni fa, un timore apocalittico. «Può darsi — ha scritto — che tutto finisca in un massacro» Un bagno di sangue generale e definitivo. A questo desolato timore noi oggi, di fronte al deserto morale di un intero continente, possiamo associare una eventualità certa: in quel caso gli intellettuali europei, prima di sparire, troveranno una rassicurante spiegazione per tutto. A che serve questa Europa?


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:15 Pagina 30

30

settembre 2014

il fiore del partigiano

RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA

L’alba della guerra fredda contro la Resistenza

F

massimo recchioni - Francesco Moranino, il comandante “Gemisto” derive approdi - 190 pagine, € 17,00

da il manifesto del 16 maggio 2013

a bene alla memoria leggere Francesco Moranino, il comandante "Gemisto" di Massimo Recchioni (Derive Approdi, pp. 190, euro 17), con prefazioni di Pietro Ingrao, Lidia Menapace e Alessandra Kersevan. Il libro ricostruisce in modo meticoloso e con fonti di prima mano un episodio del dopoguerra italiano che apparve subito «un processo alla Resistenza», come recita il sottotitolo del volume. Francesco Moranino (1920-1971), nome di battaglia Gemisto, comandante partigiano, comunista, in carcere a Civitavecchia e a Castelfranco Emilia dal 1941 alla caduta del fascismo, già deputato della Costituente nel 1946, sottosegretario alla difesa nel terzo governo De Gasperi (1947), eletto alla Camera nel 1948 e nel 1953, sposato con Bianca Vidali (figlia di Vittorio Vidali, il mitico comandante Carlos), venne accusato nel 1953 di aver ucciso cinque persone a Portula, Biella, perché ritenute spie al servizio dei nazifascisti in un controverso episodio della guerra di Liberazione. L’inchiesta fu aperta alla vigilia delle elezioni del 1948. Il tipo di reato di cui fu imputato Moranino non faceva parte di quelli contemplati nell’amnistia firmata da Palmiro Togliatti, guardasigilli nel primo governo seguito alla fine della guerra guidato da Ferruccio Parri (giugno 1945) e nel primo governo di Alcide De Gasperi (dicembre 1945).

In continuità con il fascismo L’episodio che coinvolge Moranino va inquadrato nel clima di restaurazione che accompagna e segue le elezioni del 1948 perse dal Fronte popolare. Recchioni cita il libro del 1984 di Guido Neppi Modona Giustizia penale e guerra di Liberazione, scritto con Luigi Bernardi e Silvana Testori, in cui si citano 1486 casi di partigiani rinviati a giudizio. L’avvio della cosiddetta «guerra fredda» cercava agli inizi degli anni ’50 di mettere nell’angolo chi aveva partecipato alla Resistenza nelle fila di organizzazioni legate al PCI come le Brigate Garibaldi. L’autore inquadra correttamente il «caso Moranino» nel più ampio contesto della transizione dal fascismo alla formazione dello Stato repubblicano. Lo sguardo parte dal 25 luglio 1943, quando il re affida a Pietro Badoglio il compito di formare il governo. Agli Interni, al Ministero della Guerra e agli Esteri furono nominati tre fascisti non pentiti: Umberto Ricci, Antonio Sorice, Raffaele Guariglia. Gli episodi di «continuismo», come si sa, furono molteplici sia negli apparati ministeriali, sia in quelli periferici. Recchioni, come paradosso esemplare, cita la carriera di Gaetano Azzariti, responsabile dell’Ufficio legislativo del Ministero di Grazia e giustizia dal 1927 al 1949, presidente del Tribunale della Razza, ministro di Grazia e giustizia del primo governo Badoglio, poi entrato a far parte della Corte costituzionale nel 1957

di cui diventerà addirittura presidente. Il 27 gennaio 1955, durante il governo guidato dal democristiano Mario Scelba, la Camera - con una maggioranza di centrodestra - vota a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Moranino su richiesta della Procura di Torino che aveva indagato sui fatti di Portula. Va annotato che quella nei confronti di Moranino fu la prima autorizzazione all’arresto di un parlamentare della Repubblica e restò l’unica fino al 1976. Relatore di maggioranza contro Moranino, piccola curiosità, già nel 1950 fu Oscar Luigi Scalfaro, futuro presidente della Repubblica, che motivò la richiesta dell’autorizzazione a procedere riscontrando nella ricostruzione dei fatti «l’assenza di ogni sospetto di persecuzione politica». Sconfitti nel 1950, gli accusatori di Moranino riproposero la richiesta di autorizzazione a procedere nel 1953 e l’ebbero vinta due anni dopo. Fa impressione leggere gli interventi di Giancarlo Pajetta e Riccardo Lombardi nel corso del dibattito nell’Aula della Camera in cui si chiede l’autorizzazione a procedere nei confronti di Moranino. I due leader antifascisti del PCIe PSI difendono il comandante partigiano. Dice Pajetta, dopo aver ricostruito alcuni episodi della guerra partigiana: «Complice e istigatore, dunque, io sono di Franco Moranino, perché, fin dall’autunno 1943, fui ad Ivrea, a Biella e salii per le sue stesse montagne». Lombardi parla delle circostante eccezionali in cui si svolsero gli avvenimenti sotto accusa: «Non possiamo trascurare il fatto che l’onorevole Moranino è imputato di fatti commessi non in qualunque guerra, ma nel corso di quel particolarissimo tipo di guerra che è la guerra partigiana». Il 22 aprile 1956, mentre Moranino si era rifugiato all’estero (trascorse un periodo anche a Cuba), il processo svoltosi in contumacia a Firenze decise la condanna all’ergastolo. La sentenza fu confermata dalla Corte d’Assise d’Appello nel 1957. Nel 1958 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi decretò la commutazione della pena in dieci anni di reclusione. Il «caso Moranino» si concluse definitivamente il 27 aprile 1965, quando Giuseppe Saragat concesse la grazia all’ex comandante partigiano (le cronache del 1964 raccontano che il PCI fece confluire i propri voti sulla candidatura di Saragat al Quirinale dopo aver ricevuto assicurazione sull’atto di clemenza). Moranino è rieletto parlamentare a Vercelli nelle elezioni del 1968. Muore nel 1971 a causa di un infarto. Il libro di Recchioni, riproponendo il «caso Moranino», riapre la discussione sulla transizione italiana dal «regime reazionario di massa» (come Togliatti amava definire il fascismo per segnalarne l’ampia base di consenso) alla democrazia. Non si tratta di rispolverare la vecchia querelle sulla «Resistenza tradita» perché non fu seguita dalla «rivoluzione proletaria». Il volume in questione aiuta più modestamente a porsi il problema di come fu possibile che alcuni protagoni-

sti della Resistenza diventassero pochi anni dopo degli «imputati». Cosa accadde nel periodo della transizione? Perché ancora oggi, per esempio, fascismo e Resistenza non si studiano nelle scuole superiori? La moralità rimossa Il libro di Recchioni rimanda infine a questioni di enorme rilevanza teorica nello studio sulla Resistenza: il problema della violenza nel contesto bellico, il rapporto tra politica e morale, la commistione tra guerra patriottica e guerra di liberazione, il codice d’onore di chi partecipò a quella guerra da una parte e dall’altra della barricata. Temi tuttora aperti e sui quali latita la cultura di sinistra lasciando ampi varchi al revisionismo storico. Da questo punto di vista, resta punto di riferimento imprescindibile il libro di Claudio Pavone Una guerra civile, uscito nel 1991 per le edizioni Boringhieri, che aveva come sottotitolo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. In quell’occasione si aprì un dibattito di grande interesse nella sinistra italiana per le tesi storiografiche non scontate che Pavone proponeva. È giusto avere nostalgia per quel confronto. Aldo Garzia

Ceti sociali al bivio

Hans Fallada - E adesso, pover’uo

ans Fallada (ma il suo vero H nome è Rudolf Ditzen) nasce il 21 Luglio 1893 da famiglia dell’alta

borghesia (il padre è magistrato) in Pomerania. La sua sarà una vita segnata da salute cagionevole (un incidente stradale lo porterà perfino a rischiare la vita), sofferenze psichiche, ossessioni, fughe nella morfina e nell’alcool. Conosce anche la prigione, in seguito ad un duello (che avrebbe dovuto essere solo simulato) in cui uccide un amico, tentando poi il suicidio. Riconosciuto incapace di intendere e di volere viene condannato solo a due anni di reclusione, scontati i quali si dedica ai primi esercizi letterari di scarso successo. Volontario nella prima guerra mondiale viene rimandato subito a casa per inidoneità. Dopo alcuni anni di lavoro come assistente agricolo, ripiomba nella dipendenza da morfina e si sottopone a cure di disintossicazione. Assunto come contabile si appropria di diverse somme dell’azienda in cui lavora: scoperto, passa altri due anni in carcere. Sopravvive nella miseria più nera scrivendo indirizzi per una ditta di esportazioni, ma in quei giorni incontra anche il suo unico amore, nonché musa ispiratrice per il romanzo che stiamo analizzando: si tratta di una magazziniera figlia di operai che egli chiamerà sempre Suse e di cui dirà sempre di doverle tutto. Grazie a lei Fallada passerà alcuni anni di relativa tranquillità, divenendo anche padre di tre figli. È in questi anni che inizia a scrivere, prima per un giornale locale, poi producendo il suo primo romanzo (Bifolchi, bonzi

eb cu zio (p Be din La dr Fa su di pie su (A fet pr toc ra da sco d’a zio be me di vo la ma cli in


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:15 Pagina 31

il fiore del partigiano

31

settembre 2014

Le battaglie di strada del nuovo antifascismo

T

Valerio gentili - Antifa. Storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo red star Press - 173 pagine, € 14,00

da il manifesto del 8 giugno 2013

ra la fine degli anni ’80 e per tutti i ’90 fu combattuta per le strade di diverse metropoli europee una dura battaglia antifascista. Alla caduta del muro di Berlino l’estrema destra riorganizzò le proprie fila, tentando lo sfondamento politico. In questo passaggio epocale, insieme alla crisi del comunismo novecentesco, la trasformazione di diversi paesi europei, destinatari di consistenti flussi migratori, in società sempre più multietniche e multiculturali, consentì anche lo scatenamento di una vera e propria battaglia contro l’«invasione straniera». Da qui l’onda lunga di una crescita delle destre populiste e radicali, fino ai giorni nostri, con la conquista di consensi impensabili nel secondo dopoguerra, raccolti nelle fila dei ceti medi impoveriti e tra una classe operaia ormai resa orfana di riferimenti politici e ideali da una sinistra in piena crisi di identità. Da qui la comparsa di un nuovo squadrismo, di inedite formazioni razziste e neonaziste, come di nuovi aspiranti führer. Da allora prese però anche corpo una nuova stagione antifascista, volta a contrastare questi fenomeni attraverso la pratica militante e lo scontro diretto, messa in campo inizialmente da gruppi sparuti di giovani, di-

versi fra loro, che ben presto si strutturarono in reti organizzate. Una pagina poco studiata se non rimossa dalla memoria di una sinistra sempre più perbenista, ingenuamente legalitaria e proprio in quegli anni incapace di confrontarsi con la violenza dell’estrema destra nelle strade e nelle periferie delle metropoli. Di questo tema tratta Antifa. Storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo di Valerio Gentili (Red Star Press, euro 14, pp. 173), seguito ideale di Bastardi senza storia (Castelvecchi), che era invece incentrato sulla ricostruzione della resistenza organizzata, dagli «Arditi del popolo» in Italia, fino alle diverse formazioni della sinistra tedesca, dalla Rfkb («Lega dei combattenti rossi di prima linea») all’«Antifaschistische Aktion», che tentarono negli anni Venti e Trenta di sbarrare la strada, armi alla mano, a fascismo e nazismo.

La strage di Rostock Nel contesto di un’Europa alle prese, a partire dagli anni ’80, con l’economia globalizzata e il dilagare del radicalismo di destra, vengono ora presi in esame tre casi di antifascismo militante dell’epoca recente, quello tedesco, quello inglese e quello francese. Centrale fu la Germania, dove, dopo la liquidazione del «socialismo reale», si affacciarono da un lato pulsioni da grandeur nel contesto europeo; dall’altro, nelle regioni dell’Est, segnatamente nella classe opeover’uomo? - sellerio ed. - 577 pagine, € 15,00 raia, il panico sia per la perdita ero e bombe, 1931) il cui successo fu cospi- machen c’è un figlio comunista e un delle garanzie sociali assicurate e il cuo: ha come argomento un’occupa- padre socialdemocratico che si insultano dal vecchio regime sia per l’invalta zione di terre di uno junker prussiano tutti i giorni e un commesso nazista che sione straniera con la sua mano in (proprietario terriero) nei dintorni di passa il tempo libero nelle birrerie e a d’opera a basso costo. Si apriseBerlino da parte di un gruppo di conta- bastonare comunisti e ebrei nelle strade. rono gli spazi per un’estrema decidini e del processo che ne segue. In generale è descritto il bivio a cui oa La letteratura prende il posto della erano arrivate le diverse classi sociali in stra violenta e xenofoba. hidroga e dell’alcool e tra il 1931 e il 1932 quell’epoca: tra la rivoluzione comuniVennero rispolverati i colori ae Fallada scrive il romanzo, opera della sta e la regressione-reazione nazista nero-bianco-rosso del Terzo un sua vita: E adesso pover’uomo?. Si tratta molti stettero a lungo indecisi, come i coReich, si registrò uno sviluppo ucdi una storia d’amore tra Pinneberg, im- niugi Pinneberg che meditano di votare senza precedenti di gruppi e capiegatuccio che cambia mille lavori, e la “rosso” ma poi ci ripensano. Ma sopratbande composte spesso da giodue sua giovane moglie Laemmachen tutto c’è in queste pagine la descrizione vanissime teste rasate, comincizi (Agnellina, nell’edizione italiana Ciuf- dell’ambiente sociale che permise l’avciarono le aggressioni contro gli fetto): ansioso e onestissimo lui, anche se vento del nazismo. Vi è una galleria di immigrati. Un’escalation imato pronto alla ribellione quando vengono personaggi di ogni ceto: commercianti, pressionante, fino agli attacchi ro toccati i propri diritti, tenera e innamo- industriali, commessi, operai, e dietro di da rata lei, ma animata da una fierezza e essi si profila la croce uncinata del naziincendiari dell’ostello di Ronto da una dignità che ne fanno una minu- smo che l’anno dopo prenderà il potere. stock, stipato di rifugiati vietnada scola eroina. Ma, più che la storia Anche il destino di Fallada non sarà miti, tra gli applausi della d’amore, nel romanzo conta la descri- dolce: egli non era certo un eroe e, pur popolazione e la benevolenza per zione veridica e puntale del clima plum- non aderendo al nazismo, fece con esso della polizia locale, nell’agosto che beo del declino economico delle classi diversi compromessi, mentre nella vita 1992, e la strage di Bergisch nzo medie negli anni finali della Repubblica privata lasciò la moglie Suse e ricadde Gladbach, il 29 maggio del 1993, lia di Weimar: l’arrabattarsi tra mille la- nella droga e nell’alcool. Dopo la guerra dove morirono nel rogo della pre vori di Pinneberg, l’ansia per il domani, aderì al Partito Comunista, ma le sue loro abitazione due donne e tre di la mancanza di soldi, percorrono il ro- condizioni peggiorarono sempre più e in manzo dall’inizio alla fine, così come il morì in miseria nel 1947 a Berlino. bambine turche. Sei mesi prima, loclima politico di quegli anni è presente a Moelln, in un incendio simile, Pietro Tagliabue nzi in ogni pagina. Nella famiglia di Laemerano perite un’altra donna e

bivio tra rivoluzione e reazione

altre due bambine turche. In questo clima, grazie all’iniziativa di diversi gruppi dell’Autonomia, maturò una risposta che diede vita all’«Antifaschistische aktion/Bundeswite organisation», meglio nota come Antifa. Si riafferrò il vessillo delle squadre di autodifesa, che nel biennio precedente la vittoria nazista si erano scontrate con le camicie brune, con le due bandiere sovrapposte in un cerchio, ora non più entrambe rosse, ma una rossa e una nera, in omaggio alla corrente libertaria. Si passò ai fatti. Centinaia furono le azioni che vennero portate a termine contro i neonazisti. Molte vincenti sul piano dello scontro fisico. A fronte di un antifascismo tradizionale, assolutamente inefficace a contrastare l’estrema destra nelle strade, anche alcune comunità di immigrati, kurdi e turchi in particolare, approntarono le loro squadre di autodifesa. Il tratto comune In Germania l’esperienza fu più politica rispetto a quelle decisamente più di strada dell’AFA inglese (Anti fascist action) e dei Chasseurs (i Cacciatori) francesi, con le loro gang giovanili, tra devianza e ribellismo, e il look con bomber, anfibi, cinte borchiate e crani parzialmente rasati, assai simile a quello del nemico, proprio per contendergli influenza e simpatie. Il tratto comune fu l’opposizione al neofascismo risorgente e l’accettazione del confronto fisico con esso, con il conseguente abbandono di un atteggiamento vittimistico. Riempirono un vuoto. Indubbi furono i successi, l’estrema destra subì cocenti sconfitte. Parigi fu letteralmente ripulita «a forza» dagli squadristi, ma più in generale, in Inghilterra e in Germania i neofascisti e i neonazisti furono contrastati nelle periferie metropolitane e fatti regredire. Ciò che accadde in Europa negli anni ’80 e ’90 ci riporta all’oggi. A quanto avviene in Ungheria, dove riemergono i fantasmi di chi collaborò coi nazisti, incarnati da Jobbik con i suoi gruppi paramilitari, attivi nel colpire ebrei e zingari, o in Grecia, dove in uno scenario di crisi senza paragoni in Europa, «Alba dorata», con una propria polizia parallela, fuori e al di sopra della legge, risfodera il manganello contro gli avversari. Il libro di Valerio Gentili (ricchissimo di foto, manifesti e giornali dell’epoca) risulterà forse un po’ scomodo se non decisamente scorretto per i dettami classici della sinistra italiana. Ma una riflessione, magari anche una ricostruzione, sull’antifascismo di quegli anni, anche da noi si impone. Basterebbe ricordare quando, nel novembre 1992, a Roma, dopo che furono incollate stelle gialle su alcuni esercizi di commercianti ebrei, un centinaio di giovani provenienti dal ghetto assaltò con spranghe e catene la sede di via Domodossola del Movimento politico di Maurizio Boccacci. O quando, in anni recenti, la notte del 12 aprile 2007, prima dell’inaugurazione, andò a fuoco la sede di «Cuore nero» a Milano. Non proprio un antifascismo tradizionale o da «carta bollata». Saverio Ferrari


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:15 Pagina 32

32

il fiore del partigiano

settembre 2014

Il funerale di Neruda

DAL TEATRO ALLA STORIA. LE ESEQUIE DEL POETA CILENO, A POCHI GIORNI DAL GOLPE

L’unica e più grande manifestazione spontanea e di massa che sfidò il regime di Pinochet da il manifesto del 15 maggio 2013 Pubblichiamo un estratto del testo teatrale Garofani rossi per Pablo. Il funerale di Neruda edito da Claudiana (postfazione di Gabriele Romagnoli). La scena è il ricordo del funerale.

di

LUIS SEPÚLVEDA

e

RENZO SICCO

Omero: Martedì 25 alle nove di mattina attraversammo un’altra volta il fango e l’acqua che inondava l’entrata con la cassa che conteneva Pablo. I giornalisti stranieri, di fronte a quella scena, non potevano credere ai loro occhi. Un’amica di Pablo: Riuscirono a portare fuori la bara. Si era radunato un considerevole gruppo di operai e studenti e sentii il grido: «¡Camarada Pablo Neruda!». tutti: «¡Presente!». Un’amica di Pablo: Tanto lì come al cimitero, più tardi, furono molti, anche tra i giornalisti, a non poter trattenere le lacrime. Omero: La colonna aumentava. C’erano molte donne con fiori, c’erano studenti e anche bambini con i loro genitori. Da molte finestre si affacciavano persone per un saluto silenzioso con un fazzoletto o semplicemente alzando la mano, erano donne di casa, alcuni vecchi. Un giovane militante: Non era cosa da poco perché chiunque apprezzasse la vita in quel momento non doveva mostrare simpatia verso null’altro che il golpe. Alcuni aprivano la finestra e non si muovevano, semplicemente restavano fermi guardando con gli occhi fissi, inscrutabili. Bastava perché non era un resi-

duo di prudenza! Era rischiare tutto per dire addio al poeta. Un giornalista: C’era qualcosa di particolare in quel corteo, nessuno guardava in faccia nessuno, tutti guardavano dritto davanti a sé. Sentivamo che il corteo stava crescendo. Vidi una donna che Il funerale di Pablo Neruda piangeva. Prese un velo, se lo (Foto daVid burnett) grande Poeta delmise in testa come in segno di In basso, donne in lacrime l’Amore - e lo è lutto e si unì alla fila. Credo che (Foto marCelo monteCino) dimenticando però anche la polizia si mescolò in che la sua opera è mezzo a noi, molti giravano attellurica, attaccata torno confusi, con un atteggiamento tra l’aggressivo e lo sconcertato, senza alla terra come le radici delle vetuste piante sapere che fare mentre il corteo procedeva. della sua patria australe. C’era anche molta tensione come quando in- La prima volta che ho visto Neruda io avevo crociammo un gruppo di soldati con i mitra- quattordici anni e lui aveva già la sua età. Nel gliatori in mano puntati contro di noi. Ma ciò vecchio cinema Nacional insieme ad altri ranonostante procedevamo. Sembrava impossi- gazzi e ragazze, ricevetti dalle sue mani la tesbile; pareva un sogno e a un certo punto qual- sera di militante della Gioventù Comunista e cuno iniziò a cantare l’Internazionale. In quel fu allora che, con la sua voce stanca di uomo momento l’Internazionale! Erano frasi poi del Sud, ci invitò a sognare, a essere grandi somorivano nel silenzio. Ma riprendeva in altre gnatori, e a rendere possibili questi sogni che parti del corteo. C’era come un mormorio del- erano i sogni di tutta l’umanità. l’Internazionale. Qualcuno iniziò a recitare Per quelli della mia generazione, Neruda è versi di Neruda a voce alta. All’inizio erano stato prima di tutto un cilenissimo Cyrano de solo poche file di persone. Adesso il corteo Bergerac. Nascosto dietro la luce dei suoi versi, continuava a crescere in modo imponente, ci sussurrava all’orecchio le parole magiche per accecare d’amore le ragazze. Poi ci ha dato fino a darci la sensazione della massa. Tutti i personaggi si alzano contemporanea- le basi di un orgoglio necessario: l’orgoglio di essere latinoamericani e di intravedere una mente in piedi. Un amico di Neruda: Più volte, qualche identità che ancora oggi si dibatte fra la granstudioso di letteratura si è consumato gli occhi dezza e la miseria, fra la gioia e il disastro, fra consultando cartine per scoprire dove fosse il tradimento e la speranza. quel posto dai tramonti prodigiosi, davanti a Nel suo cuore di Poeta palpitavano con forza quale mare, a quale latitudine terracquea, in il Cile, l’America Latina e la Spagna. Fu grache paese si trovasse «Maruri», i cui tramonti zie al suo interessamento che un giorno, dal tanto avevano affascinato il poeta, e più porto francese d’uno non ha voluto credere che Maruri di Trompeloup, fosse una strada modesta di case proletarie salpò una nave Da questo spettacolo sulla riva nord del fiume Mapocho, un che trasportava l’esumazione della salma magro corso d’acqua che taglia in due la un meravigliodopo aver visto questo spettacolo, città di Santiago come un’orrenda cica- so carico umal’autista di neruda manuel araya ha no: più di duetrice. raccontato a renzo sicco, direttore Neruda ci ha insegnato a ricavare bellezza mila sconfitti artistico della compagnia assemblea teatro, i suoi sospetti sul possibile e poesia da persone, luoghi e cose appa- repubblicani, omicidio del poeta. dalle sue parole è un’emigrazione rentemente semplici. nata l’inchiesta che ha portato a esuFiglio di ferroviere, ha avuto la vita segnata forzata, come mare la salma. luis sepúlveda e renzo sicco si sono conosciuti grazie dal movimento, un andare e venire in un tutte, che però a una zuppa di pesce cucinata a territorio - l’unico - che sentiva veramente significò per il Puerto natales. sepúlveda scrisse suo e nel quale era sempre a suo agio. Quel Cile il più granche quella zuppa meritava un viaggio alla «fine del mondo». e l’italiano, territorio ha molti nomi, ma io preferisco de apporto culquando ci andò, mandò una cartolina turale della sua definirlo «della responsabilità solidale». allo scrittore confermando. i due si Molti si riferiscono a Neruda come al storia. sono conosciuti poi nelle langhe e

nel 2009, come «hermanos», hanno collaborato a questo testo.


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:15 Pagina 33

33

il fiore del partigiano

settembre 2014

TEMUTA DAI REGIMI ANTI DEMOCRATICI, LA CANZONE È ESPRESSIONE DI LIBERTÀ

I giorni cantati

Joan Baez e Bob Dylan, già giovani star, con le loro canzoni divennero ben presto icone dell’impegno civile

Memoria e flessibilità: ecco perché la canzone popolare sopravvive e continua, nel tempo, a parlarci

da Diario del mese del 25 gennaio 2002

P di

ALESSANDRO PORTELLI

oche cose trasmettono la memoria come una canzone. Aiuta la memoria il linguaggio musicale, che viene ricordato su livelli percettivi profondi, più istintivi e corporei che analitici. Aiuta la memoria la forma metrica, dove la rima e il ritmo aiutano a collocare le parole al posto giusto e a tenercele. Sappiamo quanto è difficile liberarci di una canzone, una volta che ci è entrata in testa. E sappiamo quanto è difficile liberarsi di una canzone per i censori, i controllori del linguaggio del pensiero. Ricordo la ragazza cilena che incontrai a Santiago qualche anno fa, che era nata dopo il golpe, ma sapeva tutte le canzoni di Victor Jara e di Violeta Parra, anche se sua madre per sicurezza aveva fatto a pezzi tutti

i dischi, ma gliele aveva insegnate lo stesso, e quelle canzoni stavano al sicuro dentro di lei. Per vent’anni il regime fascista è andato a caccia di sovversivi che il primo maggio, nei prati e nelle osterie, aspettavano il momento di attaccare «Bandiera rossa» – ne presero tanti e li spedirono al confino, ma furono di più quelli che gli scapparono. E soprattutto, non riuscirono ad arrestare e confinare la canzone. Perché le canzoni abitano uno spazio interno alle persone, lo spazio dove stanno i pensieri e da dove vanno e vengono le parole, lo spazio dell’oralità, che è fatto d’aria. Fermarle è un po’ come fermare il vento. Quando i fascisti sbarcarono per la prima volta a Roma, allo scalo di San Lorenzo, e si scontrarono con il quartiere e con i ferrovieri (ne ammazzarono uno con una pistolettata), gli Arditi del popolo fe-

cero una canzone (fra l’altro, adoperando l’aria del Piave: facendo di una canzone patriottica una canzone sovversiva, ma ancorandosi al potere che la canzone patriottica aveva sulla memoria): «’Sti quattro delinquenti co’le facce come er sego \ portavano la morte e er me ne frego \ puro noi ce ne saressimo fregati \ se il governo come a lor ciavesse armati...». E finiva, un po’ ottimisticamente: «Roma è stata sempre bolscevìca \ trionfa sempre sì martello, falce e spiga». Ora, questa canzone non ebbe certo canali di diffusione ufficiali (gli Arditi, oltretutto, erano visti con qualche perplessità dai partiti della sinistra), né ebbe il tempo di radicarsi prima della marcia su Roma dell’anno dopo. Perciò la sua vita fu tutta dentro il tempo del fascismo, come quella della mia amica cilena nel tempo di Pinochet. Bene: continua a pagina 34 ➔


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:15 Pagina 34

34

settembre 2014

il fiore del partigiano

➔ segue da pagina 33 quasi cinquant’anni dopo, Maurizio Gnerre e Stefano Lepre la sentono cantare alla borgata Finocchio, alla periferia di Roma; e tre anni dopo, me la ricanta Dante Bartolini, aedo partigiano della Valnerina ternana. Qui contano sia il tempo, sia lo spazio: la canzone non era solo sopravvissuta al fascismo, ma aveva circolato fra Roma e Terni negli anni del regime, ed era stata trasmessa (a Terni gli Arditi del popolo erano stati presenti e alcuni di loro, con il leader Carlo Farini, avevano partecipato alla resistenza di San Lorenzo e di Trionfale all’arrivo dei fascisti. Però Dante Bartolini, che me la cantò nel 1972, era troppo giovane per aver partecipato a quegli avvenimenti: qualcuno gliel’aveva insegnata). Però la memoria non è solo un posto dove le cose si conservano e si trasmettono, relativamente intatte (c’era qualche piccola variante fra i versi cantati da Bartolini e quelli della borgata Finocchio – se non altro, il romanesco si era contaminato con il ternano). La memoria è un posto dove le cose si trasformano, in modo da essere sia un messaggio che viene dal passato, sia un discorso che avviene nel presente e nel presente funziona. Fra le canzoni che mi cantarono Dante Bartolini e gli altri compagni della Valnerina all’inizio degli anni ’70, c’era uno stornello che diceva: «Io dormo fra le pecore e li cani \ pe’ fa’ magna’ l’agnelli a li padroni». Bartolini e l’altro grande cantore Amerigo Matteucci erano operai (rispettivamente, metallurgico ed edile). Ma insieme con loro suonava l’organetto Pompilio Pileri, un personaggio più anziano, che per tutta la vita aveva fatto il pastore. Pileri aveva un’altra versione dello stornello: «Io dormo fra le

Víctor Jara, figlio di Amanda IL CANTORE DEGLI OPPRESSI

I di

da il manifesto del 28 settembre 2012

DIMITRI PAPANIKAS*

n quell’estate del 1967 il mondo sembrava implodere su se stesso. I cieli del Vietnam si tingevano di nero, le sue strade, le campagne e villaggi del sangue di milioni di vite falciate dai bombardamenti di una nuova sciagurata guerra, al sapore ustionante del napalm. Mentre la periferia dell’Impero cercava la sua difficile via alla decolonizzazione, le strade delle capitali dell’Occidente si popolavano di migliaia di studenti e lavoratori, sindacalisti e operai, disoccupati, artisti e intellettuali non più disposti ad accettare di buon grado l’ordine imposto dai propri padri. Poche settimane dopo in terra boliviana se ne andava per sempre Ernesto «Che» Guevara.

pecore e il cani \ pe’ fa’ magna’ l’agnelli a li signori». Ora, c’è mezza storia delle classi popolari italiane, in quel passaggio da «signori» a «padroni»: l’arrivo calato dall’alto della grande fabbrica siderurgica in un territorio essenzialmente rurale come era a fine Ottocento l’Umbria del Sud; quindi la trasformazione di contadini e pastori in operai; la memoria dei rapporti feudali (nelle fiabe e nelle storie orali di quei posti spicca una mitica figura di signorotto) che non spariscono di colpo solo perché è arrivata la fabbrica. Perciò lo stornello ha due dimensioni: la sostituzione e l’intertestualità. La sostituzione di una parola invece di un’altra (padroni al posto di signori) accompagna la storia; l’intertestualità – la relazione fra le due varianti, entrambe contemporaneamente presenti alla memoria e ancora cantate – la storia la contiene. C’è di più. Il pezzo forte di Pompilio Pileri era un componimento in ottave (che poi entrò anche nel repertorio di Giovanna Marini, che lo incise in disco) intitolato «Carbognano». Carbognano è un paese del Viterbese, e proprio a Carbognano io avevo registrato questo componimento, opera di un poeta popolare locale di nome Giuseppe Paoleschi, un paio d’anni prima. Come erano arrivate queste ottave, dalla piana di Carbognano fino a Polino, in cima ai monti della Valnerina? Semplice: i pastori umbri, come Pompilio Pileri, andavano a fare la transumanza da quelle parti, e ne ritornavano riportando a casa le pecore e portandosi dietro le canzoni. Ecco, intanto, da dove veniva il primo verso dello stornello – «fra le pecore e li cani» dorme il pastore transumante, che trascorre le notti all’aperto in mezzo al gregge. Dentro allo stornello dunque c’era anche la

memoria di un altro modo di produzione, quello pastorale, accanto alla memoria del bracciantato («li signori») e della fabbrica («li padroni»). E infatti a Carbognano (ma poi lo ricordò anche Pompilio Pileri) lo stornello era ancora diverso: «Io dormo fra le pecore e li cani \ pe’ fa’ magna’ l’agnelli a li romani». La versione pastorale originaria, dunque, aggiunge tutta un’altra fetta di storia sociale: l’opposizione fra città e campagna, che solo indirettamente (gli agnelli se li mangiano i romani che se li possono permettere) implica una tensione di classe. Vorrei fare un altro esempio, attraversando l’Oceano. Dopo l’11 settembre, abbiamo letto – anche su giornali che dovrebbero sapere meglio certe cose – che il motto dell’America che si riprende dall’aggressione è «We shall overcome», espressione dell’incrollabile spirito americano – come se quel «noi» rappresentasse l’America intera contrapposta ai suoi nemici esterni. Ora, questa interpretazione è anche possibile, ma a un patto: quello di cancellare la memoria che invece è incorporata dentro la canzone e che rappresenta la fiducia, la speranza, la forza di alcuni americani in lotta contro le resistenze, i boicottaggi, le violenze e i pregiudizi di altri americani: quando a Selma, a Birmingham, nella marcia su Washington i militanti dei diritti civili (da Martin Luther King a Pete Seeger e Joan Baez) cantavano We shall overcome, parlavano di una tensione tutta interna all’America – un’America non unificata da un nemico esterno, ma drammaticamente lacerata da violenze interne (dopo l’11 settembre, più di una voce afroamericana ha ricordato che per i neri il terrorismo non è una novità: dai linciaggi al Ku Klux Klan agli incendi delle chiese nere negli anni ’90

In questo contesto, a pochi mesi dalla morte di un’altra grande icona del Novecento latinoamericano, la cantautrice cilena Violeta Parra in un’isola dell’arcipelago cubano, significativamente chiamata «Isla de la Juventud», nasceva ufficialmente la Canzone di protesta latinoamericana. Protest songs of Latin America secondo il titolo di un famoso disco pubblicato nel 1970 dalla storica Paredon Records e registrato dal vivo nel luglio del 1967 durante il Primer Encuentro internacional de la Canción protesta di Cuba. Secoli di risentimento nei confronti di un endemico colonialismo, e delle sue moderne derive neoliberali, spinsero la nuova generazione di cantautori latinoamericani a sposare la causa della Rivoluzione cubana. Un movimento di liberazione nazionale che, a partire dalla entrata trionfale di Fidel Castro a Santiago di Cuba nel capodanno del 1959, nel giro di pochi anni cercò di trascendere, almeno nelle intenzioni, i propri confini geografici e temporali. Quel sogno gioioso, anche se rapidamente frustrato, di emancipazione da ogni alienante sfruttamento del Capitale sul Lavoro, divenne presto il nucleo principale intorno al quale si consolidò il

nascente movimento della canzone popolare latinoamericana. Nascevano così alcune tra le esperienze musicali più interessanti e significative dell’epoca. Dalla Nueva trova cubana, al Cancionero popular argentino, dalla Nueva canción uruguaiana al Tropicalismo brasiliano, fino ad arrivare a quello che si convertí immediatamente nel principale fenomeno discografico dell’epoca: la Nueva canción cilena. Dopo la prematura scomparsa di Violeta Parra nel febbraio del 1967, sarà proprio Víctor Jara, nato un 28 settembre di ottant’anni fa, ad assumere simbolicamente le redini del movimento cantautorale cileno, insieme ad una nuova generazione di artisti come Quilapayún, Inti-Illimani, Isabel e Ángel Parra, Patricio Manns e Osvaldo «Gitano» Rodríguez. Musicisti che nel 1970 parteciparono attivamente alla campagna elettorale dell’allora candidato presidenziale Salvador Allende, nella convinzione di trovare nella coalizione politica della Unidad Popular un’originale via cilena al socialismo. Curioso ed eclettico, sensibile e responsabile, dopo gli studi in seminario Víctor Jara decise di intra-

pre di mo no me inc zio mé sin Víc lom fon (19 l’u mo com da lap ric


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:15 Pagina 35

il fiore del partigiano vanta, sanno benissimo che cosa vuol dire). Anche We shall overcome è una canzone che arriva a noi attraverso una storia di trasformazioni. C’è una canzone religiosa, I’ll be all right, che esprime quella endurance, quella capacità afroamericana di durare e sopravvivere che non è solo sopportazione (come sembrano pensare artisti del Sud come William Faulkner), ma è anche speranza e coscienza dell’ingiustizia – una coscienza e una speranza che si esprimono in un linguaggio religioso, ma che non rinviano solo all’aldilà. Infatti questa canzone religiosa diventa una canzone di lotta quando i braccianti delle piantagioni di tabacco del North Carolina

Joan Baez canta nel corso di una manifestazione contro la guerra del Vietnam. Sotto, Víctor Jara

tipeve ioruare inva nel un male sti gel rívaora lla ica sopo ra-

prendere il cammino del teatro, firmando la regia di alcuni interessanti allestimenti con cui avrà modo di farsi conoscere lungo il continente latinoamericano. Ma sarà nella canzone, orgogliosamente imparata in forma autodidatta, che incontrerà la propria strada. Dopo una collaborazione di otto anni con il gruppo folclorico Cuncumén, nel 1965 debuttava come solista con un singolo intitolato El cigarrito. Il suo primo disco, Víctor Jara, del 1966, contiene classici come Paloma quiero contarte e El arado. Seguiranno opere fondamentali come Pongo en tus manos abiertas… (1969), Canto libre (1970), La población (1972) e l’ultimo Canto por traversura (1973). Ad ogni modo l’interesse per il folclore continuerà ad accompagnarlo durante tutta la vita, come mostrato dalla collaborazione con la storica formazione Quilapayún nel disco Canciones folklóricas de América (1967).

l’adottano durante uno sciopero degli anni ’40, cambiandola in «I’ll overcome someday». È durante questo sciopero che la sente e la registra Zilphia Horton, organizzatrice politica e culturale del centro di Highlander del Tennessee (una scuola di base per sindacalisti e attivisti dei diritti politici nel mezzo del Sud più razzista e classista). Molti anni dopo, quando a Highlander si tengono i workshop del nascente movimento dei diritti civili (ci viene Martin Luther King, ci viene anche Rosa Parks, che poi rifiutando di sedersi nel fondo dell’autobus darà inizio al boicottaggio di Birmingham), un giovane musicista bianco californiano, Guy Carawan – che conduce il settore culturale di Highlander – la ritira fuori dall’archivio e la insegna ai partecipanti. Con un cambiamento: la prima persona singolare diventa una prima persona plurale, la speranza e la resistenza non sono più quelle di ciascun individuo, ma sono diventate finalmente quelle di un movimento. Qualche tempo dopo, l’ascolta Pete Seeger, che la porta al Nord, e da quel momento (specie da un memorabile concerto di Pete Seeger alla Carnegie Hall nel 1963) la canzone spicca il volo. Mi ricordo un momento emozionante, alla fine degli anni ’80. Avevo organizzato una visita di Guy e Candie Carawan a Piadena, dove la Lega di cultura da più trent’anni tiene in piedi un lavoro culturale che è la più radicale e irriducibile resistenza e alternativa politica. La Lega di cultura organizzò un concerto dei due musicisti americani, nella cantina del municipio, un posto con un’acustica fantastica. Il pubblico era quasi tutto proletario, quasi nessuno sapeva l’inglese. Ma quando Guy e Candie attaccarono We shall overcome, istintivamente tutti si alzarono in piedi. Non

Quelle di Víctor Jara sono storie d’amore eterne, senza patria, tempo né bandiera. I suoi protagonisti sono lavoratori tessili e contadini, operai e minatori, i cui amori, sogni e delusioni sono raccontati sempre in forma delicata e discreta, con un lirismo responsabile e cosciente, nato dall’empatia di chi nutre un profondo rispetto per le persone. Sono personaggi che hanno sempre un nome… come Amanda e Manuel (chiamati come i suoi genitori contadini), protagonisti della struggente storia d’amore ai tempi della fabbrica e al ritmo del lavoro di Te recuerdo Amanda (1969). Formatosi nell’epoca dei grandi movimenti per i diritti civili, con figure come Malcolm X e Martin Luther King, passando per il riformismo cattolico del Concilio Vaticano II, fino ad arrivare all’effimera esperienza della Teologia della liberazione, affossata definitivamente nei primi anni ’80 da Giovanni Paolo II a causa del suo sogno frustrato di emancipazione reale dell’individuo, Víctor Jara continua a essere un cantautore imprescindibile nella storia della canzone latinoamericana. Due anni dopo aver firmato nel 1969 la versione spagnola del celebre If I had a hammer di Pete Seeger

35

settembre 2014

credo che l’avrebbero fatto per l’inno di Mameli. In un’altra lingua, dall’altro lato del mondo, quella canzone era loro, parlava di loro e per loro. Non credo che possiamo permettere che venga scambiata per un incoraggiamento a superare il trauma dell’11 settembre prevalendo a forza di bombe. Ora, lo stornello umbro-laziale e lo spiritual afroamericano diventato inno di pace e uguaglianza in tutto il mondo hanno in comune anche un altro aspetto: quella flessibilità e modularità che permette alla tradizione orale di cambiare osmoticamente restando se stessa, continuando a essere memoria nel momento stesso in cui si aggiorna. Lo stornello vive sostituendo una parola nuova in ogni fase della storia del mondo a cui appartiene, grazie al fatto che restano più o meno immutate tutte le altre. Anche lo spiritual si trasforma sia con la sostituzione («be all right» diventa «overcome», e «io» diventa «noi»), sia so- prattutto aggiungendo: la semplicità modulare delle strofe – una base fissa («We… someday – deep in my heart \ I do believe… someday), dà il tempo per inserire negli spazi che ho segnato con le parentesi qualunque cosa venga in mente e sembri adeguata al momento in cui viene cantata. Perciò, mentre le varianti dello stornello umbro si avvicendano nel tempo, le strofe nuove di We shall overcome si aggiungono a quelle precedenti, le strofe puramente d’occasione vengono cantate una volta e poi lasciate cadere mentre altre vengono riprese e fissate nella memoria. La relazione fra l’identico e il mutevole, fra la permanenza della memoria e l’agilità dell’innovazione sta tutta qui: nella capacità che ha la tradizione orale di restare se stessa diventando qualcosa di nuovo. Come tutte le cose vive, in fondo. e Lee Hays, nel 1971 pubblicherà quello che diventerà la propria summa esistenziale, ma anche, al tempo stesso, il testamento spirituale di un uomo destinato a morire troppo giovane. Sono i famosi versi di El derecho de vivir en paz, dedicato alla resistenza delle truppe del presidente Ho Chi Minh sul fronte vietnamita. Un album che canta con la collaborazione di Ángel Parra, Inti-Illimani e Patricio Castillo (dei Quilapayún) e che di fatto contribuirà in forma determinante a portare a piena maturazione il movimento della Nuova canzone cilena. Una rivoluzione anche in senso musicale, considerando che si trattava della prima volta che nella musica popolare cilena venivano inseriti i suoni della chitarra e dell’organo elettrici. Molte delle sue canzoni furono registrate dal vivo nella Peña de los Parra, spazio culturale autogestito in forma di cantina, fondato da Ángel e Isabel, figli di Violeta, nel 1965 e chiuso nel 1973, con la dittatura militare di Pinochet. *Storico della canzone latinoamericana e critico musicale


Fiore_2014-n14.qxp_ANPI_1 26/08/14 16:15 Pagina 36

36

settembre 2014

il fiore del partigiano

Roberto Franceschi giovane studente

I NUOVI PARTIGIANI E LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA

N

di

LUIGI GATTI

el momento in cui la Costituzione Repubblicana nata dalla lotta alla dittatura fascista sembra messa seriamente in pericolo nei suoi punti fondamentali, e nuovi e più pericolosi attori politici sorgono a protagonisti stravolgendo il patto di convivenza sancito dai costituenti, è utile ricordare quanti, singoli e gruppi, si sono battuti per l’attuazione della Carta Costituzionale. La Costituzione italiana, recependo l’art. 26 del 1948 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, sancisce all’art. 34 commi 3 e 4 che «la scuola di ogni ordine e grado è aperta a tutti e lo Stato deve garantirne l’accesso». Il 23 gennaio 1973 il Movimento Studentesco, con altre organizzazioni politiche e sindacali, organizza una assemblea per il diritto allo studio presso l’Università Bocconi, con la partecipazione di studenti e lavoratori; cosa abbastanza consueta in quel periodo, anche perché molti lavoratori erano pure studenti serali. Già in altre occasioni vi erano state assemblee in università senza che vi fosse stato alcun problema, ma questa volta no: il rettore Giordano D’Amore decide di non concedere l’accesso all’università e allerta la polizia. Per ottemperare alla richiesta del rettore, la polizia circonda l’edificio universitario impedendo l’accesso a tutti. Nascono tafferugli, la polizia carica lavoratori e studenti, si sentono colpi secchi d’arma da fuoco, i manifestanti fuggono, lo studente Roberto Franceschi viene colpito alla testa e morirà senza riprendere coscienza dopo pochi giorni; uno studente lavoratore, Piacentini, viene colpito alla schiena e riuscirà a sopravvivere. Roberto Franceschi aveva 20 anni. La

sua famiglia era di idee progressiste e, come molti esponenti della borghesia intellettuale milanese, riteneva la Resistenza un secondo Risorgimento e l’attuazione della Carta Costituzionale un dovere civile imprescindibile dell’Italia repubblicana. La nascita, nella seconda parte degli anni ‘60, di un movimento di contestazione all’autorità sia istituzionale che sociale, esploso nel movimento studentesco del ‘68 e con le lotte operaie del ‘69, era visto dagli intellettuali progressisti milanesi (Giorgio Bocca, Camilla Cederna e altri) come un’occasione formidabile per il rinnovamento sociale e morale della società, fino ad allora fortemente condizionata da posizioni conservatrice e bigotte. Roberto Franceschi si era distinto fin dal liceo per serietà ed impegno nello studio, come testimoniano studenti e docenti che l’hanno conosciuto. Con la frequentazione dell’Università Bocconi era arrivato l’impegno politico nel Movimento Studentesco di Mario Capanna, divenendone ben presto un leader riconosciuto. Come molti studenti impegnati nel Movimento, egli riteneva che l’attività politica non sorretta da una continua analisi della situazione sia sterile e cieca, per questo rifiutava la contrapposizione radicale tra politica e studio. Ai funerali di Franceschi vi fu una grande partecipazione di popolo. Il sindaco di Milano, il partigiano Aldo Aniasi, con la sua presenza volle rappresentare il sentimento di costernazione dell’intera società democratica e antifa-

il fiore del partigiano

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE DIVISIONE

NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA FIUME ADDA Redazione: presso la sede della Sezione Quintino di Vona di Inzago (MI) in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Direttore responsabile:  Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)

Il murale degli studenti dell’ITIS di Gallarate, che ottennero di intitolare la propria scuola a di Roberto Franceschi

scista milanese. Il presidente della Camera dei deputati, Sandro Pertini, inviò una corona di fiori. La famiglia Franceschi fece più volte causa alla polizia e agli agenti Gallo e Puglisi, accusati di essere gli autori della sparatoria, e contro il questore Paolella; tutti però furono assolti in Cassazione per non aver commesso il fatto. Nel 1999 la famiglia Franceschi intenta un processo civile per risarcimento danni contro il Ministero dell’Interno e, questa volta, dopo tre processi e a distanza di 26 anni dal tragico evento, il tribunale riconosce la colpevolezza della polizia e condanna lo Stato italiano. Con i seicento milioni di risarcimento la famiglia ha finanziato la fondazione nata nel 1996 e che porta il nome del figlio e che ha come scopo lo studio della Costituzione, dei diritti civili dell’Uomo, della Donna, dei Bambini, dei popoli Indigeni e dei Rom e Sinti. In ricordo di Roberto Franceschi, nel 1977 fu realizzato, da vari artisti milanesi, un monumento posto fra via Bocconi e via Sarfatti. Roberto Franceschi riposa nel piccolo cimitero di Dorga, nella conca di Castione circondata dalle innevate vette della Presolana, dal Monte Pora e dalla cima dello Scanapà. Negli anni ‘90 l’amministrazione progressista di Castione della Presolana volle dedicare una via in memoria del giovane studente.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.