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Gennaio 2015
anno 6 numero 15
QUANDO LA STORIA SEMBRA TORNARE AL PASSATO
Esercizi di memoria
È di
FRANCO SALAMINI
impegnativo scrivere della Giornata della Memoria con l’ansia e il dolore per quanto accaduto a Parigi nei primi giorni dell’anno: la strage nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo e i tragici eventi dei giorni successivi. Ma c’è altrettanta emozione per la ferma e matura risposta di quel popolo con l’oceanica manifestazione a Parigi e in altre città della Francia, con l’auspicio che da qui a quando uscirà questo articolo non si verifichino altri fatti luttuosi. Mi assale un senso di inadeguatezza e smarrimento. La memoria della deportazione, quasi un tentativo di parlare d’altro, una memoria che non ci può dare strumenti o chiavi di lettura per affrontare i problemi dell’oggi. Un fanatismo religioso che insanguina varie parti del pianeta, una crisi che impoverisce ed emargina. L’emigrazione di milioni di esseri umani che alimenta tensioni, rabbia e rancori, che nell’Europa, culla della democrazia, nutre il sorgere e lo sviluppo di una nuova destra oltranzista e xenofoba, non solo nei Paesi più arretrati, ma anche in quel Nord Europa con
«l’umaniTà
è nuda» mauro biani
(per
il manifesTo)
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Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. (art. 21 Costituzione Italiana)
LA VERGOGNA DEL GIUSTO A settant’anni dalla rivelazione dell’orrore dei campi di sterminio nazisti, in Europa di nuovo monta la marea degli identitarismi nazionalisti e razzisti. Che nega la lezione della Storia sulle responsabilità del dramma e scarica le colpe sulle vittime
S
e Primo Levi oggi fosse vivo, sarebbe un piccolo, puntuto signore torinese di 95 anni e parteciperebbe alle grandiose commemorazioni per il settantesimo anniversario della liberazione del campo di sterminio Auschwitz-Birkenau da parte di un reparto dell’Armata Rossa, la mattina del 27 gennaio 1945. Lui lo vide e così scrisse all’inizio de La tregua: «La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di S0mogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro soldati a cavallo, che
procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi... Non salutavano, non sorridevano: apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funebre. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da continua a pagina 3 ➔