Il Fiore del Partigiano - aprile 2015

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anno 6 numero 16

GRAZIE ANCORA, PARTIGIANI! umberto grati

1945-2015

Settant’anni di democrazia Ora tocca a noi pedalare!

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ono passati settant’anni da quel 25 aprile del 1945, quando Milano e l’Italia poterono gioire per la riconquistata libertà e la dissoluzione del giogo nazi-fascista. Settant’anni di democrazia ritrovata, anche se sempre di salute un po’ gracile. Anni in cui non sono mancati pericoli diretti o striscianti -, come i tentati golpe, le stragi fasciste, gli attentati eversivi e poi - sempre più negli ultimi decenni - lo continua a pagina 2 ➔


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il fiore del partigiano

Ora tocca a noi pedalare!

SULLE ORME DEI COMBATTENTI PER LA LIBERTÀ

Domenica 19 aprile ci ritroviamo da tutta la Zona Fiume Adda, in bicicletta - mezzo di trasporto molto usato dai combattenti partigiani e dalle loro staffette - per celebrare il 70° della Liberazione, ripercorrendo le tappe che ne videro le azioni. Sono molte le iniziative che in ogni paese le sezioni della nostra associazione hanno preparato per festeggiare degnamente questo importante anniversario

Basiano e Masate

L’Assessorato alla Cultura dell’Unione Lombarda dei Comuni di Basiano e Masate, in collaborazione con l’ANPI - Sezione “G. Alberganti” Basiano-Masate, organizza, in occasione delle celebrazioni per il 25 aprile, 70° anniversario della Festa della Liberazione

• Sabato 18 aprile, ore 10.30 Piazza della Repubblica - Masate Deposizione della corona d’alloro al cippo commemorativo e concerto del Corpo Bandistico di Burago Molgora Saluto del Sindaco di Masate e intervento dell’On. Vinicio Peluffo • Sabato 25 aprile, ore 11.00 Cappella dei Caduti - Basiano Deposizione della corona d’alloro e benedizione Saluto del Sindaco di Basiano e intervento del Presidente dell’ANPI - Sezione “G. Alberganti” Basiano-Masate

Bellinzago

L’ANPI e l’Amministrazione Comunale di Bellinzago Lombardo invitano la popolazione alle iniziative per il 70° anniversario della Liberazione • Sabato 25 aprile, ore 10,30 Presso il Comune

Breve saluto ai partecipanti, alzabandiera e deposizione di una corona d’alloro. Musica a cura della Filarmonica la Concordia, la nuova Banda di Bellinzago. ore 14 Tutti in manifestazione a Milano. In occasione del 70° anniversario della Liberazione sarà donata una copia della nostra Costituzione alle ragazze e ai ragazzi della Scuola Secondaria di primo grado. continua a pagina 4 ➔

Settant’anni di democrazia

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svilimento dei valori civili e della stessa convivenza sociale, perseguito dall’insana accoppiata malgoverno e malavita, uniti dagli stessi inconfessabili interessi. Contro queste degenerazioni, oggi tocca a noi opporci, senza tregua e coinvolgendo chi da questo sistema è schiacciato, cominciando dai giovani. Così come hanno fatto ieri loro, i nostri liberatori. Che per questo non finiremo mai di ringraziare e ricordare.


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Cerbottane e bussolotti

SEMPRE PIÙ ARDUO COMBATTERE CONTRO IL “VOLUME DI FUOCO” DEL POTERE

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di

FRANCO SALAMINI*

ono passati ormai 70 anni da quel 25 aprile del 1945. È bello che, nonostante sia trascorso tanto tempo e la memoria non sia un bene diffuso, siano fiorite numerose iniziative a cura dell’ANPI, di altre associazioni, di istituzioni e del mondo della comunicazione e della cultura in generale. Una memoria che con tenacia si prova a trasmettere soprattutto ai giovani perché diventi consapevolezza e condivisione. Non è certo facile comunicare a un giovane, sommerso quotidianamente da una montagna di informazioni sempre al superlativo ma già vecchie il giorno dopo, che quella storia così lontana lo riguardi ancora da vicino. Ci si prova utilizzando i mezzi di comunicazione moderni, ma anche quelli più tradizionali, come il teatro, il cinema, la testimonianza orale, una mostra, il viaggio nel campo di sterminio che riporti a rivivere quei tragici destini, provando a trasmettere emozioni capaci di superare il muro dell’indifferenza e dell’apatia. Il primo passo, l’impatto emotivo, è certo importante e ne resterà traccia nella memoria di chi l’ha vissuto, ma determinante è sicuramente il passo successivo: far crescere l’esigenza di sapere come sia stato possibile che nel cuore dell’Europa si siano imposte dittature, prima con la violenza e poi con un consenso diffuso, a dispetto delle leggi razziali e della sospensione delle libertà; come i popoli si siano distratti e non abbiano avuto coscienza della tragedia della Shoah e solo la guerra abbia riportato i più alla realtà. In questa Storia è facile indicare chi fossero allora i cattivi, più complicato è individuare chi siano quelli di oggi. Lo sono sicuramente le nuove destre, razziste e xenofobe, presenti in Italia e in molti Paesi europei che inneggiano a un becero nazionalismo, che cavalcano le paure legate alla crisi economica, all’immigrazione di massa e ai fanatismi religiosi. I nuovi razzismi, come i vecchi, si nutrono di insicurezze, individuano il nemico nel prossimo più diseredato e disperato, proponendo soluzioni semplicistiche dal facile impatto mediatico, che in realtà fanno crescere altro odio e altre paure. Fanno credere che si pos-

sano trovare soluzioni semplici a questioni complesse. Come ANPI, come cittadini pensanti dobbiamo invece avere la consapevolezza che i problemi sono difficili e per alcuni versi inediti e le soluzioni non possono che essere complesse e richiedono tempi lunghi, anche semplicemente per limitare i danni. Al pensiero “debole” dobbiamo contrapporre un disegno di ampio respiro, faticoso, di lunga lena, senza la certezza di essere nel giusto. Se le nuove destre sono un “nemico” visibile e identificabile, ne esiste uno più subdolo, meno percepibile, che non porta camicia nera o di altro colore. Pasolini lo definiva “nuovo fascismo”. È l’omologazione, che oggi definiamo “pensiero unico”, un modello a cui tutti dovremmo tendere e identificarci, non imposto con la forza, ma attraverso il consenso, utilizzando mezzi di comunicazione sempre più sofisticati e invasivi, atti ad abbassare il livello culturale e di consapevolezza, semplificando in maniera ossessiva ogni messaggio trasformato in slogan. Ad altri si delega la fatica di pensare, di coltivare un dubbio e di porre domande. Viviamo una passiva accettazione dello stato di fatto, a cui ci si adatta, spesso per non sentirsi esclusi o apparire sfigati. I diritti individuali e collettivi presenti nella nostra Costituzione si trasformano in “elargizioni” fatte dal potente di turno o nel premio ai vincenti, una sorta di

“nuovi ariani” frutto di una competizione permanente ed esasperata che promuove pochi a scapito dei molti. Si potrebbe obiettare che non c’è nulla di nuovo, che chi detiene il potere ha sempre usato le armi della violenza e della repressione, ma anche della seduzione e del consenso. Allora dobbiamo prendere atto che le dittature che insanguinarono il secolo scorso non sono state un incidente della storia o il sonno della ragione, ma un modello culturale da cui facciamo fatica a liberarci e, quando viene riproposto in forma aggiornata, senza il volto feroce della violenza, è più difficile da identificare, soprattutto per generazioni mutilate della Memoria.

Può essere l’ANPI l’unico vaccino contro tale epidemia? I mezzi a disposizione sono maledettamente impari. Tuttavia non siamo soli, ci sono altre associazioni, le organizzazioni sindacali, quello che rimane della Sinistra politica, insegnanti, uomini e donne del mondo della cultura e dell’informazione che condividono le nostre stesse preoccupazioni, con identiche sensibilità, idealità e obiettivi comuni. Non è facile, ma neppure impossibile costruire un fronte comune, senza che nessuno perda la propria specificità, un fronte che sia capace di trasformare tante soggettività in un progetto condiviso, diffuso e partecipato, che sappia unire alla concretezza del fare la battaglia culturale. Si verrebbe così a determinare un equilibrio tra le forze in campo. Ma se così non fosse, dovremmo rassegnarci alla resa incondizionata? la vignetta di FOGLIAZZA Oppure resistere e apparire inguaribili “acchiappa nuvole” sconfitti dalla realtà, paragonabili a una Brigata partigiana che decidesse di opporsi alle divisioni corazzate naziste, con cerbottane e bussolotti, destinati a un’inesorabile sconfitta? Col tempo forse, tra l’indifferenza di molti, qualcuno potrebbe provare simpatia per quei quattro vecchietti dell’ANPI che si oppongono con innocue cerbottane oppure altri più acuti potrebbero iniziare a chiedersi il perché di tanta temerarietà. Già, perché? Perché? I perché sono contagiosi. A quel punto saremmo noi a incominciare a vincere. *Sezione «Riboldi-Mattavelli» di Cernusco sul Naviglio


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il fiore del partigiano • Martedi 28 aprile, ore 21.00 Cineteatro Agorà Spettacolo “L’importante è non cadere dal palco” di e con Paolo Rossi. Abbiamo optato per un ingresso al prezzo “politico” di 5 euro, nella convinzione che molti compagni possano fare uno sforzo anche maggiore per sostenerci nella gestione delle spese… I biglietti sono in vendita presso: CGIL-SPI in via Briantea 18, il lunedì e giovedì ore 9.00 – 12.00 e presso la Libreria del Naviglio in via Marcelline in orario di apertura della libreria.

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Cassano

L’ANPI, l’ANPC e il Comune di Cassano d’Adda invitano tutta la cittadinanza a partecipare alle iniziative nell’ambito del 70° anniversario della Liberazione

• Giovedì 16 aprile, ore 21.00 Biblioteca Civica Inaugurazione della mostra fotografica “Le donne della/nella Resistenza” aperta fino al 25. aprile

Inzago

• Domenica 19 aprile, ore 09.00 Biciclettata partigiana Cassano d’Adda - Inzago - Gorgonzola - Pessano con Bornago. Partenza dal cippo 5 martiri

L’ANPI di Inzago, sezione Quintino Di Vona, e il Comune invitano a celebrare il 25 Aprile 2015 70° anniversario della Liberazione

• Giovedì 23 aprile, ore 20.45 Auditorium Liceo G. Bruno “Partisane: le donne tra antifascismo e Resistenza”, lettura scenica a cura di Colpo d’Elfo - Ingresso gratuito

• Domenica 19 aprile Biciclettata antifascista Partenza da Cassano d’Adda alle ore 9.00, arrivo a Pessano alle ore 11,30. Per Inzago l’appuntamento è alle ore 9,30 in Piazza Maggiore

Festa della Liberazione

• Sabato 25 aprile, ore 09.00 S. Messa nella chiesa di S. Zeno

• Domenica aprile, ore 15.00 Auditorium del Centro de André Presentazione del libro: “Un tragico pomeriggio di storia” di Gianfranco Bruschi

ore 09.45, p.zza Matteotti Concentramento, corteo e alzabandiera ore 10.15, Piazza Garibaldi Corteo al cimitero di Cassano d’Adda e orazioni ufficiali.

• Giovedì 23 aprile, ore 10.30 Auditorium del Centro de André “Antifascismo a Inzago. Testimonianze orali e scritte” Incontro con gli studenti dell’Istituto Bellisario di Inzago

Cernusco

L’ANPI di Cernusco sul Naviglio, sezione “Riboldi-Mattavelli" e il Comune ricordano le manifestazioni in programma per celebrare il 70° della Liberazione

ore 17.00 Auditorium del Centro de André – sala esposizioni 2 Inaugurazione della mostra “Uscendo dal guscio. Verso la prima alba allegra” a cura di Roberta Cologni Apertura mostra dal 23 al 28 aprile dalle 15.00 alle 18.00.

• Mercoledì 15 aprile, ore 21.00 Biblioteca Civica sala Camerani Conferenza “Storie di Resistenza in Martesana”, con Giorgio Perego, Mauro Raimondi e Luigi Borgomaneri, storico della Fondazione ISEC e uno dei massimi conoscitori e studiosi della Resistenza nel Milanese.

• Giovedì 16 aprile, ore 21.00 Casa delle Arti Spettacolo teatrale “Alza la testa! Dalle lettere della Resistenza europea” a cura di Arianna Scommegna (ATIR Teatro Ringhiera). Lo spettacolo è il prodotto finale del laboratorio teatrale che per il terzo anno consecutivo l’ANPI, in collaborazione con l’attrice Arianna Scommegna, ha condotto all’interno delle scuole medie. Il progetto è nell’ambito del Piano degli interventi per il diritto allo studio. • Dall’11 aprile al 24 aprile all’interno della Biblioteca Civica

ore 21.00 Auditorium del Centro de André “La Storia siamo noi” un pezzo di vita di Francesco Cerea

Mostra fotografica “La Resistenza a Cernusco - 70 anni dalla Liberazione". La mostra già inaugurata con enorme successo per la Fiera di San Giuseppe, ha permesso all’ANPI di conservare e raccogliere un preziossimo ed emozionante archivio della memoria. • 25 aprile, ore 9.45 Corteo cittadino da Piazza Conciliazione. Quest’anno i discorsi delle autorità saranno in Piazza Matteotti, in concomitanza con l’inaugurazione del pannello che racconta la Liberazione di Cernusco.

• Sabato 25 aprile, ore 8.30 S. Messa in Chiesa Parrocchiale a suffragio di tutti i caduti

ore 9.45 Ritrovo presso il Palazzo Comunale Corteo verso il cimitero Deposizione di una corona d’alloro alla Cappella dei Caduti. Accompagnamento musicale della Banda Parrocchiale S.ta Cecilia di Inzago ore 10.45 Deposizione di una corona d’alloro sulla lapide del prof. Quintino Di Vona in continua a pagina 6 ➔


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In decine di foto i volti e i luoghi che vissero la Resistenza

CERNUSCO SUL NAVIGLIO: SUCCESSO DI UNA MOSTRA “PARTECIPATA”

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omenica 22 marzo, in occasione dell’annuale festa di San Giuseppe, negli spazi della banca Credicoop in pieno centro cittadino abbiamo inaugurato la mostra La Resistenza a Cernusco. 70 anni dalla Liberazione, un’iniziativa che si inserisce in una più ampia rassegna di eventi pensati dalla nostra sezione, in collaborazione con altre associazioni e realtà locali, per celebrare il traguardo dei 70 anni dalla Liberazione. La risposta della gente è stata eccezionale, al di sopra delle nostre aspettative: centinaia di cernuschesi, ma non solo, hanno visitato la mostra, hanno riconosciuto volti, luoghi, si sono emozionati. L’idea di costruire questa mostra è nata dall’esigenza di mettere in comune e rendere pubblico il materiale resistente che in questi anni abbiamo raccolto, e in parte pubblicato sul sito www.memoriarinnovabile.org, grazie al coinvolgimento e alla sensibilità di molte famiglie di Cernusco, che hanno intuito l’importanza di trasmettere e fare memoria insieme. La mostra è composta da 26 pannelli, corredati da bellissime fotografie, e parla della Resistenza di Cernusco, di coloro che furono arrestati in seguito agli scioperi del 1943-44, dei partigiani che fecero la Resistenza a Cernusco e dei partigiani cernuschesi che fecero la Resistenza altrove, dei deportati nei campi di sterminio, dei com-

Una vera folla di visitatori attenti ha riempito lo spazio espositivo della mostra sulla Resistenza cernuschese. Grande la soddisfazione degli organizzatori (in basso)

battenti sul fronte russo e greco, degli internati militari, dei luoghi che videro episodi importanti della storia della nostra comunità. Due pannelli sono dedicati anche alla storia della Resistenza nei dintorni di Cernusco, con particolare riguardo ai paesi in cui avvennero eccidi (Pessano, Cassano, Inzago) e ad alcune figure di spicco, come Quintino di Vona e Alberto Gabellini. Il percorso della ricerca è stato intenso, coinvolgente e vivo e ci ha portato quasi a condividere le esistenze dei nostri resistenti, che abbiamo provato a raccontare con responsabilità e delicatezza, ma anche con un pizzico di tenerezza. Di grande impatto visivo ed emotivo le pagine in cui la storia locale s’incontra con la Storia con la S maiuscola. Tre ringraziamenti sono obbligatori: a Giorgio Perego che da anni, con passione e serietà, si occupa di storia locale e che ha raccolto materiale sensibile in tempi in cui la memoria era non solo bistrattata ma ritenuta addirittura una zavorra inutile di cui liberarsi; al fotografo Marco Cavenago che ci ha messo a disposizione tutta la sua perizia tecnica, oltre che diverso materiale fotografico... e tanta pazienza; a tutti i familiari dei protagonisti che, con grande disponibilità e coinvolgimento, hanno accettato di far dono alla comunità di memorie e ricordi personali, dimostrando un grande senso di responsabilità, in primis nei confronti delle generazioni a venire. Per chi desiderasse visitarla, la mostra sarà esposta dall’11 al 24 aprile negli spazi della Biblioteca civica di Cernusco. Giovanna Perego Sezione «Riboldi-Mattavelli» di Cernusco sul Naviglio


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il fiore del partigiano Gorgonzola - Pessano con Bornago. Ad ogni monumento porteremo dei fiori e leggeremo articoli della Costituzione della Repubblica. Al termine coro dell’ANPI Provinciale e punto di ristoro in collaborazione con l’associazione socio-culturale Trecella Pozzuolo.

➔ segue da pagina 4 Piazza Maggiore. Discorso del Sindaco e di un rappresentante ANPI. Al termine, inaugurazione mostra presso la sala consiliare del Municipio, a cura della Sezione ANPI di Inzago in collaborazione con Associazione Studi Storici della Martesana

• Venerdì 24 aprile, ore 20.30 Chiesa San Francesco in Pozzuolo Martesana presentazione del libro su Quintino Di Vona "La dalia rossa del coraggio antifascista” con l’autore Dario Riva, il Coro dell’ANPI di Cassano d’Adda e le musiche dei Rouseto Folk (in collaborazione con l’Associazione Cardinal Peregrosso).

• Martedì 28 aprile, ore 21.00 Auditorium del Centro de André “La prima alba allegra” – Recital da una novella di Dario Riva. A cura di Associazione Theao ore 11.00 Riservato agli alunni delle classi terze della scuola secondaria di primo grado Auditorium del Centro de André “La prima alba allegra” – Recital da una novella di Dario Riva. A cura di Associazione Theao

• Sabato 25 aprile

Truccazzano mattina: manifestazione per il 25 aprile palazzo Comunale Mostra su “Truccazzano e la Resistenza”, un progetto di Silvia Giugno. La mostra rimane aperta tutto il giorno;

Pioltello

• Sabato 25 aprile

Pozzuolo Martesana pomeriggio: corsa campestre non competitiva “Corsa per il 25 aprile” con i ragazzi delle scuole e con i genitori (lo scorso anno erano più di trecento), in collaborazione con il Comune di Pozzuolo Martesana Celebrazione del 25 aprile e rinfresco nei giardini del Comune.

L’Amministrazione Comunale e l’ANPI invitano la popolazione a festeggiare il 25 aprile 2015 70° anniversario della Liberazione

• Venerdì 24 aprile, ore 15.30 Posa della corona d’alloro alla lapide ai Caduti presso Villa Opizzoni in via Aldo Moro n. 22

sera: serata musicale e danzante con i Numantini e punto di ristoro con l’associazione socioculturale Trecella Pozzuolo si balla si canta e si mangia nei giardini del Comune per festeggiare i 70 anni dalla Liberazione (dalle ore 20.30 in avanti)

Ore 16.00 Omaggio floreale ai defunti che l’ANPI, riconoscente, ricorda presso il Cimitero di Pioltello

• Sabato 25 aprile, ore 10.20 Piazza della Repubblica Ritrovo con le autorità comunali e istituzionali, le associazioni cittadine e il corpo musicale S. Andrea

ore 10.30 Corteo lungo le vie cittadine, omaggio floreale al Monumento ai Caduti in Piazza Giovanni XXIII, proseguimento verso il Monumento ai Martiri della libertà in via Don Carrera, posa della corona d’alloro, discorsi celebrativi delle Autorità. Conclusione presso il cortile della Cooperativa del Popolo di via Bozzotti ore 14.30 Manifestazione nazionale a Milano Ritrovo ore 14.00 in Porta Venezia

• Giovedì 7 maggio, ore 20.45 Biblioteca Comunale, P.zza dei Popoli 1 "Quelli che dissero no: la Resistenza dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945" Relatore: Ivano Granata, docente di Storia dell’Italia Contemporanea - Università degli di Studi di Milano Festa ANPI nel cortile della Cooperativa di via Bozzotti

• Lunedì 27 aprile

Pozzuolo Martesana Sala del Consiglio Comunale: Daniele Biacchessi presenta “I carnefici”, il suo ultimo libro sulle stragi nazifasciste.

Pozzuolo-Truccazzano

La Festa della Liberazione nel suo 70° anniversario quest’anno si svilupperà con molti appuntamenti

• Domenica 19 aprile Biciclettata partigiana ci troviamo direttamente a Cassano d’Adda presso il cippo dei partigiani fucilati (di fronte alla Casa di Riposo) alle ore 09,00 da dove partiremo per Inzago - Bellinzago -

Ci vediamo alla biciclettata e a Milano, alla manifestazione nazionale. Buon 25 aprile a tutti!

Ad agosto si festeggia la Divisione Fiume Adda la seconda Festa della Divisione Fiume Adda si terrà a truccazzano a fine agosto, dal 27 al 31, presso gli spazi della Cooperativa très bien. anche quest’anno, dopo il successo della prima edizione, sarà questa l’occasione per un grande ritrovo di tutte le sezioni anpi della Zona adda, martesana, brianza.


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Aprile 1945: un paese liberato negli atti del CLN

INZAGO: IN MOSTRA IL 25 E IL 26 APRILE, IN SALA DEL CONSIGLIO COMUNALE

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el 70° anniversario della Festa della Liberazione dal regime nazifascista l’Amministrazione Comunale di Inzago, la sezione Quintino Di Vona dell’ANPI e l’Associazione studi storici di Inzago e della Martesana hanno curato l’esposizione di documenti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) di Inzago custoditi nell’archivio comunale dal 1945. Si tratta di lettere da parte di cittadini usciti dalla guerra con la vita sconvolta, bisognosi di beni primari; di antifascisti che, particolarmente vessati dal regime, chiedevano aiuti e riconoscimenti per la loro attività di combattenti. Decine di queste lettere saranno esposte in mostra, insieme agli atti del CLN, che regolarono la transizione dalla caduta del fascismo alla elezione delle nuove strutture democratiche. La mostra sarà ospitata nella Sala del Consiglio Comunale, nel Palazzo Piola, nei giorni 25 e 26 aprile 2015. Qui a fianco riproduciamo la lettera-appello che il CLN di Inzago rivolge il 12 maggio alla cittadinanza per esporre la necessità dello sforzo per la ricostruzione e la ripresa di una vita normale, secondo le proprie possibilità e disponibilità. Salta all’occhio la civiltà del contenuto e dei toni usati. Il fascismo era davvero finito. Di seguito diamo la trascrizione della lettera-appello. COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE INZAGO Cittadini, Se le nostre officine, le nostre case, i nostri campi non sono stati ridotti a un cumulo di macerie, come era nell’intenzione dei nazifascisti, dobbiamo profonda gratitudine ai Partigiani che, dopo una lunga passione e una vita di stenti, insorsero e trascinarono il Popolo in cinque giornate epiche. Emulando i Patrioti del I848, liberarono Milano e la Lombardia dalla coalizione avversaria che la Nazione avevano portato al baratro e alla esasperazione. È dovere di questo Comitato di dare un segno tangibile della nostra riconoscenza ai partigiani, ai perseguitati e internati politici. Epperò rivolge appello a tutti i cittadini perché concorrano in questa opera versando un contributo

che varrà anche a soccorrere i nostri fratelli bisognosi che rientrano dalla guerra e dalla prigionia. Ognuno sentirà il dovere di partecipare a questa sottoscrizione e in modo speciale coloro che, approfittando della situazione artificiosamente e illegalmente creata dall’8 settembre in poi, trassero lauti guadagni e benefici. Non volendo ricorrere a mezzi di coercizione o di tassazione forzata seguiti in altri paesi, si invita ciascuno a interrogare la propria coscienza e rispondere entro il 14 corrente in modo adeguato all’appello di questo Comitato. Inzago 12. maggio I945 IL COMITATO firmato: Giovanni D’Adda

IL NOSTRO APPELLO, OGGI

Raccontami una storia...

l’anpi di inzago, sezione “Quintino di vona”, chiede a tutti i cittadini di raccontare il loro 25 aprile di settant’anni fa attraverso uno scritto, una fotografia, un ricordo, una testimonianza, sia diretta che raccolta da parenti e amici che hanno vissuto l’avvenimento. tutte le testimonianze saranno in seguito raccolte in una pubblicazione. Ci auguriamo che l’iniziativa sia accolta con entusiasmo perché ogni contributo servirà a tenere sempre viva la memoria. la sede della sezione è aperta tutti i sabati dalle ore 10.30 alle 12.00. anpi Sezione Quintino di vona via piola 10 - inzago anpinzago@gmail.com


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Cesare “Rino” Bescape ̀, in azione fra Pioltello e Milano

PIOLTELLO: GLI UOMINI CHE FECERO LA RESISTENZA (1a PUNTATA)

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esare – detto Rino – Bescapè nacque a Milano il 6 settembre 1920 da una famiglia socialista e antifascista che durante il regime – prima della seconda guerra mondiale – si trasferì a Pioltello. Dopo la scuola dell’obbligo iniziò a lavorare, acquisendo la qualifica di operaio specializzato (attrezzista). Nel 1940, a seguito dell’entrata in guerra dell’Italia, fu chiamato alle armi e prestò servizio militare nel corpo dei “Granatieri di Sardegna” in Jugoslavia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, per sfuggire alla cattura da parte dell’esercito tedesco riuscì a rifugiarsi per un breve periodo in Svizzera, da dove presto rientrò in Italia. Di fede politica comunista, entrò nella Resistenza nelle file della 3a brigata GAP (Gruppi di Azione Patriottica), formazione partigiana di città che operò a Milano e provincia dalla fine del 1943 alla liberazione (25 aprile 1945). La 3a GAP fu protagonista nei 20 mesi della Resistenza di numerose azioni, comandata da eroiche figure di partigiani: all’inizio, dal leggendario Giovanni Pesce già giovane, eroico combattente delle Brigate Internazionali nella Guerra di Spagna; in seguito, nel periodo settembre/dicembre 1944, da Gigi Campegi; infine, dall’inizio del 1945 all’insurrezione, di nuovo da Giovanni Pesce. Nel suo libro Quando cessarono gli spari (Feltrinelli, Milano, 1977, pag. 223), Pesce ricorda fra gli altri partigiani «…Cesare Bescapè, Alfredo Galasi, che erano sempre fra i primi a offrirsi per un’azione rischiosa…». Anche Luigi Borgomaneri, storico della Resistenza nel Milanese, rileva che «i nuclei più attivi della brigata, quelli a cui è da attribuirsi la maggior parte delle azioni compiute, sembrano essere due, entrambi guidati da Gino Rossi (“Gino”), uno nella zona di Ponte Lambro, con il caposquadra Paolo Testa (“Tito”) e l’altro a Pioltello, formato da Rino Bescapè, Carlo Dolci, Antonio Milanesi, Guido e Armando Rossi e qualche altro…)» (cfr. Luigi Borgomaneri, Due inverni un’estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia, Franco Angeli, Milano 1995, pag. 238). La vicenda della 3a Brigata GAP fu molto travagliata, essa fu oggetto di diverse rior-

Primo maggio 1945. Il giovane Cesare Bescapè sfila per le strade di Pioltello alla testa del corteo dei partigiani vittoriosi (al centro della prima fila). Sotto, durante la cerimonia in ricordo dei caduti (il primo a destra, davanti)

ganizzazioni per la perdita di numerosi uomini, caduti o catturati anche a causa di delazioni e tradimenti. Nei mesi di novembre e dicembre del 1944 la Brigata subì un ennesimo grave colpo a seguito dell’arresto di diversi suoi componenti, fra i quali Bescapè e il comandante

Luigi Campegi, che fu fucilato con altri quattro partigiani (Volpones, Mantovani, Resti, Mandelli) nel febbraio 1945 al Campo Giuriati di Milano. Rino Bescapè con altri due membri della brigata – Carlo Dolci e Carla Dorigo – convinti a presentare domanda di grazia per la loro giovane età, eb-


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il fiore del partigiano bero commutata la condanna a morte in 30 anni di reclusione e furono liberati durante l’insurrezione del 25 aprile. Lettere dal carcere di Bescapè , Dolci e di Mariuccia Dorigo - staffetta della 3a GAP, sorella di Carla, anche lei condannata a 30 anni di reclusione - testimoniano la dignità di questi giovani partigiani durante il periodo della loro dura detenzione, l’attaccamento agli ideali resistenziali, la solidarietà con gli altri compagni detenuti e con quelli che all’esterno continuavano la lotta. Come ricorda Borgomaneri, alcuni gappisti di Pioltello, privi di collegamenti e sbandati dopo l’arresto di Bescapè e di Campegi, contattati dal comandante delle formazioni socialiste “Matteotti” Corrado Bonfantini entrarono nella 11a Brigata Matteotti. Fra questi si distinse Giacomo “Nino” Cibra, che aveva iniziato a collaborare con uomini della 3a GAP a soli 17 anni nel 1944; all’inizio del 1945 Nino divenne comandante del distaccamento di Pioltello della 11a che operava anche a Cernusco S/N, Carugate, Brugherio e in altri comuni della bassa Martesana – sotto il comando di Vittorio “Ivo” Galeone. Dopo la guerra, Bescapè svolse un’intensa attività politica e sociale come amministratore locale, sindacalista e dirigente dell’ANPI. Nei diversi impegni assunti, ebbe modo di dimostrare notevoli capacità unite alla generosità e alla sollecitudine nei confronti dei lavoratori e delle persone in stato di bisogno e, in particolare, dei compagni della guerra partigiana. Con il giovanissimo partigiano Giacomo “Nino” Cibra di Pioltello ebbe rapporti quasi fraterni durante la Resistenza e dopo. In una lettera del 1952 Bescapè rassicura Cibra, in ospedale per una seria malattia, informandolo delle iniziative prese per garantirgli i suoi diritti assistenziali e previdenziali. Morì prematuramente nel 1966 per un infarto; la sua salute era stata indebolita anche dalle torture e i maltrattamenti subiti durante i sei mesi di detenzione nel carcere di San Vittore (novembre 1944-aprile 1945). Il ricordo di Cesare Bescapè è ancora molto vivo a Pioltello; a lui fu intitolata la sezione del Partito comunista italiano di Pioltello vecchia, intestazione conservata anche dopo lo scioglimento del PCI, prima dal Partito democratico della sinistra e in seguito dal Partito democratico. Altre notizie storiche sulla figura di Rino Bescapè si possono trovare nel libro di G. Calcavecchia-D. Milanesi-F. Pistocchi-M. Spanu I sbarbà e i tosànn che fecero la Repubblica – Fatti, storie, documenti dal primo dopoguerra alla Liberazione a Pioltello, Lupetti, Milano, 2006. Pierino Rossini Presidente Sezione di Pioltello

aprile 2015

IN MOSTRA DALL’8 MARZO AL 26 APRILE 2015 LA PARTECIPAZIONE DELLE DONNE ALLA LIBERAZIONE

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Donne Resistenti

a Fondazione Franco Fossati considera da sempre l’8 marzo una data significativa e importante da celebrare, per ricordare i traguardi che le donne hanno fin qui conquistato e quelli per cui dovranno ancora lottare. Quest’anno, desiderando celebrare anche il 70° anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, WOW Spazio Fumetto, in collaborazione con il Consiglio di Zona 4 di Milano, propone la mostra-evento speciale Donne Resistenti, a ingresso libero: un omaggio a tutte le donne che, con coraggio e determinazione, percorrendo strade diverse, hanno partecipato alla lotta contro i fascisti e i nazisti per riconquistare la libertà. Sono esposte le pagine della graphic novel Bruna e Adele 70 anni dopo, realizzata dal fumettista Reno Ammendolea con la collaborazione di Marsia Modola per la sceneggiatura, che ripercorre la storia dei GDD – Gruppi di Difesa della Donna – da cui è nata l’UDI (Unione Donne Italiane) attraverso gli occhi di una diciassettenne che, incuriosita dai racconti della nonna sulla guerra, scopre assieme alla sua amica la storia della Resistenza femminile. Le ragazze intraprendono un percorso di consapevolezza, restando colpite dalla diversità di vita di quelle donne, molte giovani, adolescenti

Una tavola dalla graphic novel bruna e adele 70 anni dopo di Reno Ammendolea e Marsia Modola

Omaggio a Miriam Mafai di Marilena Nardi

proprio come loro, che hanno avuto anche il coraggio di sacrificare la vita per contribuire alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Le immagini (già esposte da ottobre a novembre 2014 al Museo Emilio Greco di Catania) dall’8 marzo al 25 aprile sono contemporaneamente in mostra presso WOW Spazio Fumetto (in viale Campania, 12, a Milano) e presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria (organizzazione dell’UDI di Reggio Calabria): due mostre gemelle uniranno il Sud e il Nord dell’Italia per testimoniare un sentire comune, proprio come è stato durante la lotta partigiana! Il percorso della mostra milanese è arricchito da opere realizzate appositamente per l’evento dalle disegnatrici Giuliana Maldini, Elena Terrin, Mariagrazia Quaranta e Marilena Nardi. Le loro opere sono ritratti in omaggio a notissime figure femminili della Resistenza, come Onorina Brambilla Pesce o Tina Anselmi, ma anche a donne meno conosciute eppure altrettanto fondamentali per la lotta partigiana nel loro territorio, come l’abruzzese Iride Imperoli. Queste opere, riprodotte, fanno parte anche della mostra gemella di Reggio Calabria.


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il fiore del partigiano

RICORDI DI RACCONTI SULLA LIBERAZIONE

La storia e la vecchia strada

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di

LUCIANO GORLA

icordo alcuni racconti, relativi al 25 aprile e alla Liberazione, che da ragazzino ebbi modo di ascoltare da alcuni miei parenti; racconti che ebbero come sfondo la vecchia strada per Trecella. Si potrebbe osservare: «Cosa può centrare la vecchia strada per Trecella con il 25 aprile e la Liberazione»? Forse può centrare pochissimo, o nulla, se si vuole, ma si sa che lungo le strade è passata e passa anche la storia, e sulla vecchia strada per Trecella passò pure una briciola della storia del 25 aprile e della Liberazione inzaghese. Importante avvenimento vissuto dalla nostra Comunità, i cui fatti principali sono narrati dai documenti ufficiali e del quale, il ricordare alcuni piccoli episodi che non sono entrati nell’ufficialità, può comunque contribuire ad arricchirne il mosaico storico. Ciò che desidero narrare rimanda ai racconti ascoltati un 25 aprile di molti anni fa; quando la festa nazionale che celebra la fine della Seconda Guerra Mondiale e del fascismo era sentita e vissuta con particolare emozione, perché ricordava, alla maggioranza delle persone, la fine di una tragedia che avevano sperimentato direttamente. Erano, infatti, persone che avevano combattuto sui vari fronti, a motivo della politica belligerante di Mussolini. Erano persone che avevano fatto l’esperienza dei campi di prigionia. Erano persone che erano state nelle formazioni partigiane. Erano stati giovanissimi che, consapevoli delle estreme conseguenze, si erano rifiutati di arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana, ultimo colpo di coda del fascismo morente che mirava alla guerra civile. Questi ultimi erano stati figli coraggiosi di altrettanti genitori coraggiosi; come lo furono le mogli dei combattenti richiamati per la guerra. Donne meravigliose che mentre i mariti erano al fronte, seppero badare alla casa, all’economia domestica, a crescere i figli e lavorare in condizioni pericolose, per sostituire gli uomini negli opifici e negli uffici di città, dove il tutto era orientato alla produzione bellica. La curva del posto di blocco Fu per l’appunto un 25 aprile di oltre cinquant’anni fa, quando alcuni miei parenti si ritrovarono dai miei genitori per il pranzo, che raccolsi alcuni loro ricordi. Il locale dove ci trovavamo riuniti aveva una finestra che si apriva proprio sulla vecchia strada per Trecella; strada che in un certo senso fu protagonista dei racconti che avrei ascoltato. Ricordo che in quella occasione i discorsi

degli adulti caddero spesso sui loro ricordi di guerra. Io, ragazzino, ascoltavo attentamente e, quando mi riusciva, chiedevo ulteriori notizie e precisazioni, con quella curiosità che è tipica di quell’età. Mentre ascoltavo, cercavo anche, mediante l’immaginazione, di rendere ancora più vivi quei racconti che riferivano di esperienze vissute al fronte, di privazioni patite nei campi di concentramento, di navigazione sull’incrociatore Giuseppe Garibaldi, di bombardamenti, di mitragliamenti e di siluri in mare. Poi, venendo alle vicende locali del 25 aprile, uno dei miei zii, nell’intento di rendere più concreto il suo racconto, mi invitò a guardare dalla finestra che era aperta al tepore primaverile, dicendomi: «Vedi lì, proprio lì sulla curva della strada - curva che distava da noi pochi metri - il 25 aprile del ’45 ero lì di guardia, con alcuni compagni in armi, dove avevamo organizzato un posto di blocco per presidiare la strada per Trecella». Quella polverosa strada era allora uno degli accessi al paese che bisognava sorvegliare, perché a Trecella c’era un distaccamento tedesco in collegamento con quello che in Inzago si era installato nello stabile della scuola elementare. Questo contingente che, come sappiamo, si era asserragliato nell’edificio scolastico in attesa degli eventi, si arrese il 27 aprile 1945 senza gravi conseguenze per la nostra Comunità, grazie ad una saggia condizione di resa, proposta ai tedeschi dal Comitato di Liberazione locale. Il contingente del presidio di Trecella, invece, dove i tedeschi avevano installato una postazione di contraerea, dopo aver subito un attacco partigiano, nella notte tra il 28 e il 29 aprile tentò la fuga verso Cassano d’Adda dove fu definitivamente bloccato.

I segreti di un asino testardo A questo racconto se ne aggiunse un altro narrato da un altro mio zio, il quale, in una caserma di Milano, si era sottratto in modo rocambolesco all’arruolamento nell’esercito repubblichino e aveva vissuto, come tanti altri "renitenti alla leva fascista", per qualche tempo alla macchia, sfuggendo ai frequenti rastrellamenti effettuati da tedeschi e dalla milizia repubblichina. Questi giovanissimi erano confluiti nella categoria dei cosiddetti "sbandati" collaborando spesso con le organizzate formazioni partigiane. Il suo racconto verteva, invece, su un trasporto clandestino di armi avvenuto proprio sulla strada per Trecella, alcune settimane prima della Liberazione; quando cioè alcune armi nascoste in un casotto della campagna inzaghese dovettero essere trasferite in paese, dove si stava preparando l’insur-

rezione ormai imminente. Il carretto con le armi infilate in sacchi di canapa (quelli che si usavano per insaccare le granaglie) e nascoste sotto a delle fascine, era trainato da un asino che a detta di mio zio era di ottima struttura: alto, slanciato e bello di mantello, ma bizzarro, testardo e imprevedibile a non finire. Lungo la strada per Trecella tutto filò liscio; ma, dopo aver deviato per la Cascina Santa Croce per attraversare la Strada Statale 11 e raggiungere "La Campagna" (oggi via Matteotti), dove le armi dovevano essere depositate in una struttura rurale, accadde l’imprevisto. L’asino con il carretto posto di traverso sulla Statale, si impuntò davanti alle rotaie del tram che la fiancheggiavano. Mio zio ricordava che vi furono attimi comici e drammatici nello stesso tempo; perché con il tram che stava sopraggiungendo in lontananza da Cassano d’Adda, fischiando ripetutamente, c’erano pure due automezzi tedeschi che si stavano avvicinando fiancheggiando il tram. Una "energica incitazione" al testardo animale sbloccò la situazione: il carretto traballante, con il suo carico segreto, liberò la carreggiata e le rotaie pochi istanti prima che sopraggiungessero i mezzi. L’autoblindo tedesca nel fosso Ricordo poi il racconto della resa della colonna motorizzata tedesca in ritirata che si era asserragliata alla cascina Pirogalla, dove abitavano i miei nonni. Ecco ancora la strada per Trecella, a pochi metri da dove eravamo riuniti quel 25 aprile di tanti anni fa, che aveva pure visto transitare i carri armati americani diretti alla Pirogalla per sbloccare una difficile resa, già mediata coraggiosamente dai responsabili delle formazioni partigiane locali. E poi ancora la strada per Trecella, dove finì in un fosso irriguo che la fiancheggiava e dove rimase per qualche tempo ribaltata, l’autoblindo che i tedeschi, durante l’occupazione della cascina, avevano piazzato, minacciosamente puntata verso la strada, sotto l’androne del portone d’ingresso. Testimonianze raccolte molti anni fa, riferite al 25 aprile e alla Liberazione, che si sono fissate indelebili nei miei ricordi. Oggi, quando mi capita di percorrere in bicicletta, in direzione della cascina Pirogalla, ciò che resta della vecchia strada per Trecella e parte del suo nuovo tracciato, quei racconti mi pare di risentirli. Alcune volte, lo confesso, mi fermo e guardandomi attorno nel silenzio della campagna cerco di assaporarne meglio il ricordo; sullo sfondo dei luoghi che quei fatti narrati li videro svolgersi.


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il fiore del partigiano

Uomini in barca

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UNA STORIA DIMENTICATA, RIPORTATA ALLA RIBALTA DEL TEATRO

Nel giugno del 1944 quindici pescatori del lago Trasimeno sotto controllo militare tedesco, insieme ai partigiani liberarono, su due barche, 26 ebrei imprigionati dai fascisti nel castello dell’Isola Maggiore

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da il manifesto del 29 aprile 2014

CHIARA CRUCIATI

a Storia è passata per il lago Trasimeno, 70 anni fa, e nelle notti tra il 19 e il 21 giugno 1944 la gente ha saputo cosa fare. Il 20 giugno Perugia veniva liberata dalle forze alleate sostenute dal fondamentale intervento delle brigate partigiane umbre. Poco più a nord, sulle sponde del lago Trasimeno, protagonisti di un’azione riscoperta da poco tempo dagli storici erano i pescatori dell’Isola Maggiore. «Tra il febbraio e l’aprile del 1944, le leggi del regime fascista contro gli ebrei si inasprirono, – ci spiega Giovanni Dozzini, autore del libro L’uomo che manca e ora impegnato in un romanzo di prossima pubblicazione che racconta l’azione dei pescatori. – Molti ebrei di Perugia erano riusciti a darsi alla macchia o a nascondersi. Ventisei erano invece stati catturati e internati prima all’istituto magistrale di Perugia, e poi nel castello sull’Isola Maggiore su ordine del prefetto fascista Rocchi. Il lago era ancora sotto il controllo tedesco». Un castello ormai abbandonato, convento francescano trasformato in maniero dal marchese Guglielmi nel XIX secolo: «A guardia c’erano fascisti guidati da Luigi Lana. All’epoca l’isola non era certo un covo di partigiani o cospiratori, anzi, erano molti i fascisti che risiedevano nella zona. I tedeschi erano di stanza a Tuoro, cittadina lungo il Trasimeno, e non erano a conoscenza della presenza dei 26 ebrei. Fino al giugno 1944: la linea del fronte stava salendo velocemente, l’avanzata alleata costringeva i tedeschi a spostarsi verso Nord. Il 14 giugno i soldati tedeschi uccisero tre isolani per puro sfregio. Il timore che di lì a breve ci sarebbero state rappresaglie delle SS contro gli ebrei internati stava montando». Aumentavano i rastrellamenti, gli isolani erano certi che di lì a poco gli ebrei prigionieri sarebbero stati deportati. «Il 19 giugno 15 pescatori si organizzano: rotti gli indugi, decidono di intervenire per liberare gli ebrei, – continua Dozzini.

– A bordo di due imbarcazioni i pescatori, aiutati da don Ottavio Posta, parroco dell’isola, organizzano la traversata. Partiti dall’Isola Maggiore, trasportano gli ebrei liberati nella zona di Castiglione del Lago, sulla sponda già liberata dagli alleati». Tra loro il giovane Bruno Meoni, futuro sindaco comunista di Castiglione del Lago, militante negli anni dell’occupazione nazi-fascista della piccola brigata partigiana Macchie-Sanfatucchio. «A tal proposito le fonti si contraddicono: la morte di tutti i protagonisti di quella vicenda e l’interesse tardivo degli storici non permette di avere informazioni chiare. – ci spiega Dozzini – I contorni della storia restano fumosi: c’è chi dice che l’azione fu organizzata dai partigiani, chi dal solo parroco che da novembre del ’43 faceva la spola tra Perugia e il Trasimeno per portare in una bottega del centro i messaggi delle famiglie ebree nascoste. Ciò che è certo è il ruolo dei pescatori che, per pura solidarietà umana, decisero di mettere a rischio le loro vite». Due anni fa l’ultimo pescatore ancora in vita, Agostino Piazzesi, è morto. In una video-intervista rilasciata poco prima ricorda quella notte: «Eravamo 220 anime, tutti pescatori, sull’Isola Maggiore. C’era tanta miseria. Quei 26 ebrei arrivavano dalle famiglie più ricche di Perugia, i Coen, i Levi, i banchieri, i petrolieri. Sapevamo che i tedeschi li avrebbero cacciati, iniziava a avvicinarsi il fronte. Ci furono battaglie, tanti morti. Cominciarono le rappresaglie delle SS sull’isola, non ho mai visto un tedesco senza pistola. Noi avevamo preso dei fucili al castello Guglielmi, reagimmo. Era già troppo che vivevamo in quelle condizioni. Notte tempo con don Ottavio decidemmo: ‘Facciamolo’. Sapevamo chi vogava meglio e scegliemmo i pescatori. Cinque barche aspettavano sotto al castello. Ne caricammo tre per ogni barca e iniziammo il viaggio. Erano tutti sdraiati, la paura era tanta. Sentivamo i colpi di mitragliatrice e bazooka, le pallottole passavano vicino alla testa. La scena più bella è stata quando abbiamo toccato terra, il lago si era un po’ ritirato e c’era fango:

Stefano Baffetti nello spettacolo teatrale l’isola degli uomini

tutti a saltare, saltare in mezzo a quel fango. L’emozione più bella, per loro era la liberazione. Lo facemmo con la volontà di salvare delle persone anche se era pericoloso. Ho guardato sull’elenco telefonico tante volte, per curiosità: ancora esistono? Non li ho mai chiamati, abbiamo solo fatto il nostro dovere. Era un dovere». A raccontare l’eroismo dei pescatori dell’Isola Maggiore è anche uno spettacolo teatrale del 2013, L’Isola degli Uomini, del regista e attore Stefano Baffetti: si tratta di un monologo di un’ora nel quale si narrano le gesta di persone semplici, di un piccolo borgo sull’acqua, che sfidano quasi con ingenuità un regime disumano. Tra le testimonianze utilizzate da Baffetti quella del pescatore Agostino Piazzesi. Nello spettacolo, la voce fuoricampo di Agostino fa da sfondo al monologo a tratti comico, a tratti tragico, di Baffetti. «Questa storia è rimasta nell’oblio per troppo tempo e quando è final mente emersa molti dei suoi protagonisti erano morti, – ci spiega il regista. – Ma al di là di tutto, ciò che resta è l’atto eroico di persone semplici, di 15 pescatori che decisero di mettere a repentaglio la loro vita per salvare degli sconosciuti. L’Isola Maggiore era all’epoca un piccolo borgo, improvvisamente attraversato dalla storia. Quelle persone non batterono ciglio quando si trattò di agire. È questo il messaggio che intendo mandare: il fascismo può tornare in qualsiasi momento, spetta a noi assumerci la responsabilità che quei 15 pescatori si presero senza timore». Tra il 19 e il 22 giugno 2014, a 70 anni esatti da quella notte, lo spettacolo L’Isola degli Uomini, sarà riproposto durante il Festival «Music For Sunset», in programma all’Isola Maggiore (www.musicforsunset.it). Un’occasione per ricordare un atto semplice, eroico, di solidarietà umana e sfida all’oppressione.


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il fiore del partigiano

COSA TRASFORMA PERSONE PERBENE IN FEROCI AGUZZINI? LA DOMANDA ASSILLA TU

Quei cinque corpi appesi, i Ritrovate in un cassetto alcune foto perfetto e

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da il Fatto Quotidiano del 8 gennaio 2012

ROBERT FISK

live Burrage mi ha scritto parlandomi di suo cognato, Harry Leeks, pilota di un bombardiere della Raf negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale e poi di stanza a Colonia nei primi mesi dell’occupazione della Germania a opera delle forze alleate. «Mentre cercava dei mobili, per caso ha trovato queste foto in un cassetto», mi ha detto Clive quando gli ho telefonato. In una foto si vede Hitler che cammina nella strada di una città che sembra Varsavia, probabilmente nel 1939. In un’altra si vedono Hitler e Goering che giungono in una base aerea. La terza foto è agghiacciante: in una strada buia e fredda – soldati e civili indossano pesanti cappotti – si intravede l’insegna di un negozio verosimilmente in polacco mentre dal balcone del primo piano penzolano i cadaveri di cinque uomini impiccati. Le mani sono legate dietro la schiena. Sulla sinistra dell’immagine si scorge un soldato tedesco che scatta una foto dei cadaveri. Non avevo mai visto questa foto. Sembra il souvenir di un militare tedesco che probabilmente spedì la fotografia alla sua famiglia, cui apparteneva la credenza nel cui cassetto Harry Leeks la trovò quattro o cinque anni dopo. Questa foto racconta una storia, mi ha scritto Clive Burrage, quella dell’homo homini lupus (l’uomo è un lupo nei confronti dei suoi si-

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mili). La lettera di Clive è arrivata insieme alla lettera di un lettore, T.J. Forshaw, che – come Clive – è rimasto colpito dalla fotografia che abbiamo pubblicato poco tempo fa sull’Independent: ritraeva un ufficiale dell’Einsatzgruppen nazista mentre, nel 1942, sparava ad alcuni ebrei a Ivangorod, in Ucraina. «È possibile che in alcune circostanze quasi chiunque – compreso chi Le scrive – possa diventare un feroce assassino? », mi ha chiesto il lettore. «E se la risposta è affermativa, queste belve come possono dormire sonni tranquilli nei loro comodi letti senza sognare di suicidarsi?». Nemmeno a farlo apposta sempre lo stesso giorno mi è arrivato un biglietto di Wies de Graeve dell’Istituto Fiammingo per la Pace, che tre anni fa mi aveva invitato a tenere a Ypres una conferenza in occasione delle celebrazioni per l’armistizio.

Quest’anno il discorso a Ypres lo ha fatto Lakhdar Brahimi, lo statista algerino cui si deve il cessate il fuoco in Libano dopo 15 anni di sanguinosa guerra civile. Brahimi, che è una mia vecchia conoscenza ed è inoltre una persona molto per bene, parlando a Ypres ha sollevato lo stesso identico interrogativo che Clive e Forshaw sollevano nelle loro lettere: «I libanesi sono considerati da tutti – e si considerano – persone sofisticate, raffinate, dotate di un gran senso degli affari, amanti dell’arte, pacifiche e inclini a godersi la vita. Tuttavia a partire dai primi anni ’70 sorpresero il mondo, e se stessi per primi, combattendo con inaudita violenza e ferocia tra loro e contro l’invasore israeliano». Naturalmente una cosa è

combattere contro un invasore straniero, altra cosa è combattere contro i propri fratelli in una guerra civile. «A questa come a molte altre domande non sono riuscito a trovare risposte adeguate e pienamente soddisfacenti», ha detto Brahimi. «Non ho trovato risposte né nei libri degli studiosi né nell’esperienza di vita. Forse la verità è più semplice di quanto siamo indotti a pensare: probabilmente noi esseri umani non siamo poi così diversi gli uni dagli altri sia individualmente che collettivamente; nel senso che, a seconda dei casi, siamo capaci del meglio come del peggio. Sono le circostanze a renderci in un modo un

La vecchiaia serena delle ex SS in patria con la

da Il Fatto Quotidiano del 21 aprile 2014

uardiani dei campi di concentramento, ex SS, aguzzini che rasero al suolo il ghetto di Varsavia: tutti con la pensione pagata dal governo degli Stati Uniti, dietro l’accordo, mai divulgato prima, chiamato “Nazi dumping”. Lo svela una inchiesta elaborata dall’Associated Press che ha consultato documenti ottenuti tramite il Freedom of Information Act, la legge che dà diritto ad accedere ad informazioni protette dal governo Usa; almeno 38 su 66 persone sospette di aver avuto ruoli operativi nei reparti nazisti, pur essendo costrette a lasciare gli Usa dopo essere state scoperte, hanno incassato gli emolumenti – circa

375 mila dollari a persona - alla faccia dei contribuenti americani che magari in famiglia avevano avuto uno o più parenti stretti caduti sul fronte europeo durante la Seconda guerra mondiale. Di quei 38 solo 4 sono ancora vivi, come ricorda il Daily Mail. Jakob Denzinger era una guardia ad Auschwitz, è morto il 28 luglio di quest’anno: dopo la guerra si era trasferito in Ohio mentendo sulla sua carriera, e lì aveva vissuto sino al 1989; quando venne a sapere che il suo passato stava divenendo pubblico ed era imminente un procedimento per revocare la cittadinanza, accettò l’accordo; Denzinger partì per la Croazia e sino a qualche mese fa trascorreva le sue giornate in un appartamento sulla riva del

fiume Drava, a Osijek. Denzinger ha sempre rifiutato di discutere ciò che aveva fatto nel campo di concentramento ma il figlio, che vive ancora negli Stati Uniti, ha confermato che il genitore riceveva la pensione dal Social Security , e che quei 18 mila dollari all’anno erano comunque meritati. Anche Martin Bartesch era una guardia in campo di concentramento, a Mauthausen, con la divisa delle SS: dopo le prime avvisaglie di guai in America , tornò in Europa per vivere in Austria con la pensione concessa sino alla sua morte, nel 1989: altri beneficiari ancora in vita risultano Peter Mueller, 90, ex guardia al campo di Natzweiler in Francia e Wasyl Lytwyn, 93, che ha militato nelle SS e partecipò alla battaglia del ghetto di Varsavia, con lo

ste et sta ve nu pe tio to ch da ra pe er ten Ic


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il fiore del partigiano LA TUTTORA LE SOCIETÀ OCCIDENTALI

, incubo di Varsavia

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ECHI DI MEMORIA

L’ultima lettera del partigiano

o esempio della banalità del male certo giorno e nel modo opposto un altro giorno». È una spiegazione che non mi soddisfa. I soldati britannici, i soldati americani, i soldati “alleati” hanno fatto cose tremende, terribili, durante la seconda guerra mondiale, in Corea, in Malesia, in Indonesia durante la dominazione olandese, in Algeria e – sì! – in Afghanistan e in Iraq. La crudeltà di questi soldati era il prodotto della cultura dell’impunità, del colonialismo e del razzismo ispirato dai vari governi. La storiella ridicola e ingannevole delle “poche mele marce” ripetuta pappagallescamente da George W. Bush e da Tony Blair è una colossale sciocchezza.

Ma i nazisti avevano qualcosa di intrinsecamente terribile: appartenevano a un regime irrecuperabilmente malvagio, a una società nella quale ogni singolo individuo poteva essere giudicato cattivo. Avner Less, consulente della pubblica accusa nel processo contro Adolf Eichmann celebrato in Israele, era convinto che Eichmann potesse essere prodotto solo da una dittatura, mai da uno Stato democratico. Ma nemmeno questa spiegazione mi convince del tutto. Stando alle esperienze degli ultimi decenni possiamo tranquillamente giungere alla conclusione che noi occidentali incoraggiamo, spingiamo e

n la pensione Usa udi gli va ila he nlle a, ntri er, ae arlo

sterminio di 13.000 ebrei: scappò nel 1957, e tornò in Ucraina solo nel 1995. Nulla è stato casuale, ma frutto di un patto fra il governo degli Stati Uniti e gli ex nazisti che rinunciavano alla cittadinanza, ma non alla pensione: l’OSI (Office of Special Investigation) – in alcuni casi aiutato dagli investigatori di Simon Wiesenthal, l’ingegnere ebreo che dedicò la vita a smascherare i nazisti dalla doppia identità in tutto il mondo – durante le sue inchieste scoprì circa 10.000 persone che smessa la divisa nazista, si erano mescolati ai cittadini americani, mentendo sul loro ruolo in divisa nazista. I crimini erano però avvenuti in Europa,

induciamo altri a commettere atti orribili senza assumercene alcuna responsabilità morale. Certo non si tratta di atti e comportamenti paragonabili a quelli di cui si macchiarono i nazisti. Ma il trasferimento di prigionieri verso Paesi totalitari nei quali dovevano essere torturati, le prigioni segrete, la tortura sistematica e di massa, le esecuzioni per mano dei nostri alleati (in Afghanistan, in Marocco, a Damasco su mandato della Cia e in Libia con la complicità britannica) sono vergognose manifestazioni di una inclinazione alla ferocia che appartiene a noi tutti. Forse non siamo più capaci di sporcarci le mani da soli. Il diritto internazionale – per lo meno ciò che ne è rimasto dopo i comportamenti criminali di George W. Bush e Tony Blair – continua a impedirci di trasformarci in nazisti. E temo proprio che tutti – nessuno escluso – dormiamo sonni profondi e senza incubi. Una cosa è tendere una mano amichevole ai musulmani – come ha fatto Barack Obama al Cairo due anni fa – e a quanti si battono contro le dittature, altra cosa è fornire armi ai tiranni. Al Cairo ho avuto modo di vedere alcune cassette di granate sparate dalla polizia di Mubarak contro i dimostranti di piazza Tahrir. Sapete dove sono state fabbricate? A Jamestown, in Pennsylvania. © the independent - traduzione di Carlo antonio biscotto

dunque Denzinger, Bartesch e gli altri non potevano essere processati: come allontanarli dalle strade degli Stati Uniti? Si trovò una scappatoia anche per evitare le lungaggini dei tribunali che si sarebbero protratte per anni prima di cacciare i criminali di Hitler: gli ex nazisti avrebbero rinunciato alla cittadinanza evitando la deportazione, ma il governo Usa avrebbe assicurato ugualmente la pensione maturata durante gli anni di vita americana: tutto messo nero su bianco, secondo interviste e documenti governativi che sino all’inchiesta della AP erano classificati come materiale “interno”. Valerio Cattano

Gianfranco Mattei. La sua ultima lettera dal carcere di via Tasso ai genitori

da La Stampa del 9 aprile 2015 la rubrica -16 giorni. Diario d’Aprile, dal nostro inviato nel 1945

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PAOLO DI PAOLO

erte storie passano di bocca in bocca, sussurrate appena, come segreti. L’eco di una voce si somma a un’altra eco, e diventa impossibile risalire alla fonte, ma questo non conta, conta più la paura. O meglio, qualcosa che somiglia alla paura, ma non è solo paura, e però come la paura si propaga, cresce, fa sentire in assedio. Il dolore viene dopo, viene sempre alla fine, con intensità diverse ma sempre senza riscatto. Ti raccontano, per esempio, di una lettera passata per le mani di un prete, qualche settimana o qualche mese fa - il tempo in questi casi si quantifica difficilmente. Il prete è riuscito a farla avere ai parenti, in tempo perché sapessero che il figlio stava per essere ammazzato dai tedeschi. Fucilato, o forse - dicono - impiccato. In tempo per sapere che lui sapeva di dover morire: questo ragazzo nemmeno venticinquenne, si era fatto già buttare fuori dal suo liceo per le sue idee antifasciste, era entrato in un gruppo comunista, arrestato e poi liberato, entrato in una banda partigiana - sue notizie arrivavano prima da Genova, poi da Milano, poi da più lontano, catturato e infine processato vicino a Torino. Disgraziate circostanze, pare che abbia scritto. Per disgraziate circostanze sono caduto prigioniero. Sicuramente sarò fucilato, pare che abbia scritto. Sono tranquillo e sereno, ho amato sopra tutto i miei ideali, non so che altro dire, sono tranquillo e sereno perché sento di aver fatto tutto il mio dovere d’italiano e di comunista. E poi anche questo, dicono che abbia scritto: mia cara mamma, ho combattuto per la liberazione del mio Paese, ti mando il mio abbraccio e il mio addio. E poi ancora: mia carissima Ines, non mi pento di quanto ho fatto. Non cambierei la mia vita neanche se mi fosse possibile tornare indietro. Spero che la brevità della nostra conoscenza diminuisca il tuo dolore e ti auguro, pare che abbia scritto, di avere presto dalla vita quella felicità che avrei voluto darti io. Il mio ultimo bacio: dicono che la sua lettera finiva così.


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Questo è stato

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Vita di Piera Sonnino, unica superstite di una famiglia ebrea genovese di otto persone, sterminata dal nazismo. Il ritorno, il dolore del ricordo, la necessità della memoria

➔ segue dal numero scorso

IL RACCONTO - SECONDA PARTE

Mi chiamo Piera Sonnino

Q

da Diario del mese del 24 gennaio 2003

uel giorno, ed era la prima volta che accadeva, Paolo fu invitato a Novi Ligure dai dirigenti della ditta presso cui lavorava. Assolto il suo incarico venne a trovarmi e quando entrò nel mio ufficio ero così poco preparata a una sua visita che stentai perfino a riconoscerlo. Al termine dell’orario lo presentai al mio collega e uscii con lui. Ero veramente contenta di questo incontro tanto inaspettato e solo preoccupata che Paolo chiedesse di vedere come ero sistemata a Novi Ligure dove si erano trasferiti gli uffici della S.A.I.C. a causa dei bombardamenti che si susseguivano su Genova. Avevo dovuto insistere non poco presso mio padre perché mi autorizzasse a seguire i signori Morelli e Ginepro. Da qualche tempo la mia famiglia era sfollata a Sampierdicanne, a pochi chilometri da Chiavari e io ero costretta a trascorrere tutta la settimana lontana dai miei. Partivo da Chiavari il lunedì all’alba e vi tornavo la sera del sabato successivo. Papà nelle ore che trascorrevo in famiglia si industriava a convincermi che avrei dovuto rinunciare all’impiego e starmene a casa. Era per lui un fatto straordinario che due delle sue figlie lavorassero, ma era addirittura inconcepibile che una di esse fosse lontana sei giorni su sette. Papà da tempo era stato costretto a interrompere ogni attività e si sottoponeva a qualsiasi sacrificio pur di non aggravare, con la sua, la situazione della famiglia. Non era più l’uomo che ricordavo nel passato: non aveva perduto nulla della sua fisionomia di un tempo, ma era invecchiato al di là dei suoi anni. A noi pareva che nostra madre anziché sei avesse adesso sette figli e che uno di essi fosse nostro padre. Sarei stata ben lieta di poter evitare di lavorare e vivere da sola a Novi Ligure, ma non potevo far mancare il mio stipendio alla mia famiglia che già si dibatteva in gravi difficoltà. Mi era sufficiente, del resto, l’atteggiamento di mamma, quando papà insisteva nelle sue fatiche, a farmi comprendere quanto fosse necessario che continuassi a lavorare. Un poco alla volta ero riuscita a tranquillizzare papà facendogli credere che a Novi ero sistemata decentemente e che nulla mi mancava. In verità tutto il personale impiegatizio della S.A.I.C. era rappresentato a Novi da un mio collega, il signor Mantelli, e da me. Il signor Mantelli si era trasferito con la famiglia e a lui era toccata una camera necessariamente spaziosa. Io ero finita in una stanzetta ricavata nell’abbaino, una stanzetta minuscola dal soffitto basso e obliquo secondo l’inclinazione del tetto. Non me ne lamentavo certo perché, in fondo, godevo di un’indipen-

denza che mai avevo avuto e, superato lo shock dell’adattamento, avevo finito per trovare piacevole perfino la strana disposizione del letto da cui vedevo il progressivo discendere del soffitto. Nessuno, neppure Paolo, sarebbe stato in grado di apprezzare quelle che definivo le mie comodità. Per questo motivo temevo che, data un’occhiata all’abbaino, mio fratello sarebbe tornato a casa scandalizzato provocando il mio immediato richiamo. Ricordo tutto ciò perché rappresentò il mio cruccio in quelle ultime ore dell’8 settembre 1943. Riuscii a evitare che Paolo si interessasse troppo al mio alloggio e insieme andammo a cenare in una piccola trattoria. Avevamo appena iniziato a mangiare quando la radio dette l’annuncio del comunicato dell’armistizio. Era ancora giorno per le vie di Novi e la gente andava e veniva. A un tratto fu come se una paralisi avesse colpito la cittadina e i suoi abitanti: il silenzio calò mentre lo speaker procedeva alla lettura del comunicato. Io stavo attenta ma comprendevo soltanto che la guerra era finita e già pensavo che all’indomani non avremmo più dovuto aver paura del cielo e che i bombardamenti sarebbero cessati e con essi anche l’incubo si sarebbe dissolto. Non riuscivo a comprendere l’atteggiamento di Paolo seduto dinanzi a me, il cui volto andava facendosi sempre più teso e preoccupato. Quando lo speaker tacque, nell’osteria e per le strade si levarono grida. Un tumulto. Paolo respinse il piatto e si alzò. «È necessario che tu venga via subito con me», mi disse. «Dobbiamo tornare immediatamente a casa». Gli chiesi il perché. «Ci sono guai in vista», rispose. «La guerra è finita...», ripetevo. «Non per i tedeschi», disse ancora mio fratello. Ebbi l’impressione che sapesse qualcosa di cui non intendeva mettermi al corrente. Sentivo dentro di me la voglia di cantare e di gridare come vedevo fare alla gente per le strade. Paolo mi chiese dove avremmo potuto trovare a quell’ora i miei principali. Andammo in ufficio e vi era solo, ancora intento al lavoro, il signor Morelli. Anch’egli aveva appreso dalla radio la notizia dell’armistizio. In pochi giorni gli alleati avrebbero occupato l’Italia e cacciato via i tedeschi, disse. Mio fratello gli annunciò la sua decisione di ricondurmi a casa. La commentò definendola esagerata. «Qualsiasi cosa possa accadere, la signorina Sonnino non corre alcun pericolo fino a quando rimane con noi». Mio fratello insistette. Ripeté che per i tedeschi la guerra non era finita e che significava non conoscerli credere che avreb-


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il fiore del partigiano bero abbandonato così facilmente la partita in Italia. Morelli ribatté che c’erano in Italia sufficienti divisioni di soldati nostri in grado di fronteggiare qualsiasi minaccia da parte germanica. Paolo gli augurò e si augurò che le cose andassero secondo le sue previsioni. Ci accomiatammo dal mio principale che, dopo quel giorno, non avrei più rivisto. Raccolsi le mie poche cose e partimmo alla volta di Sampierdicanne. Lungo il viaggio frammenti di conversazioni colti tra i passeggeri, l’atmosfera stessa regnante nel convoglio, la confusione che notavo nelle stazioni e l’apparizione di divise tedesche in luoghi dove mai ne avevo notate cominciarono a convincermi che mio fratello non aveva esagerato affatto nel presagire il pericolo. Quando giungemmo a Sampierdicanne trovammo la nostra famiglia in allarme. Da Chiavari e da Genova continuavano a giungere notizie sui minacciosi movimenti delle truppe tedesche e sui primi sbandamenti dei reparti italiani. Prima di giungere a casa avevamo incontrato numerosi militari che chiedevano abiti borghesi. Uno di essi aveva detto che gli alti ufficiali avevano cominciato a dileguarsi. Nel cuore della notte si sparse la voce che le caserme di Genova erano già sotto controllo tedesco e che i soldati italiani che non erano riusciti a fuggire venivano fatti prigionieri. Era impossibile avere conferma della fondatezza di tante notizie e di tante voci anche perché spesso le une contraddicevano le altre. Si parlava di divisioni di alpini in marcia di avvicinamento e si aspettava da esse la liberazione. Già da quella notte, però, la sensazione generale era di una dissoluzione pressoché totale degli schemi che fino allora ci avevano aiutato a vivere e sui quali ci eravamo modellati. Mio padre e i miei fratelli discussero fino all’alba e conclusero che era necessario abbandonare subito Sampierdicanne e trovarci un rifugio sicuro. Ho l’impressione, mentre scrivo queste

Padre affettuoso. Ettore con una delle figlie

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righe, che in quella notte, sia pure senza il concorso di una volontà consapevole, noi giungemmo alla conclusione di un processo che dentro di noi era ormai maturato. Senza esserne consci noi avevamo sempre saputo, dopo il 1938 e forse anche prima, fin da quando l’antisemitismo nazista inviò fino a noi le sue prime testimonianze, che sarebbe venuto il momento in cui avremmo dovuto fuggire e in fondo ci eravamo preparati a esso come a una sorte ineluttabile. L’indomani la catastrofe si presentò in tutte le sue dimensioni. Le truppe naziste dominavano ormai la situazione. Nelle stazioni e lungo le vie davano la caccia ai militari italiani. Chiavari, in poche ore, aveva mutato aspetto. Maria Luisa tornò alla sera da Genova con notizie ancora più drammatiche. La nostra città era invasa e vi regnava la più grande angoscia. La nostra situazione appariva disperata. Paolo e Roberto perché ebrei erano stati esentati dal servizio militare ma avrebbero potuto essere catturati dai tedeschi come soldati sbandati e in questo caso dovevano attendersi ben più che la prigionia. Avremmo avuto bisogno di carte d’identità con generalità false, ma né nostro padre né i miei fratelli sapevano come procurarsele. Ci trovammo all’improvviso come una lepre che la muta dei cani ha scacciato dal bosco e che si sorprende allo scoperto, senza difesa. Il tempo delle illusioni era tramontato per sempre e ormai, con i tedeschi padroni della nostra terra e quindi della nostra sorte sapevamo, almeno in parte, ciò che ci attendeva. Per il momento decidemmo che i ragazzi sareb*Si tratta dell’unico bero rimasti nascosti in casa mentre noi donne passaggio non chiaro. ci saremmo date da fare per scoprire una coL’ipotesi più plausibile è che la signora Sonnino si mune via di salvezza. Per due volte nei giorni riferisca a Terni, in Umbria, successivi sperimentammo concretamente la che venne liberata dagli solidarietà umana che fino allora ci aveva soralleati il 13 giugno 1943. retto; per due volte ci vennero offerte soluzioni Bice Parodi, una delle due che avrebbero potuto salvarci la vita. figlie di Piera, ricorda Maria Luisa continuava ad andare e venire da vagamente che la madre Genova ed era la sola che avesse conservato il raccontava di un lavoro, proprio lavoro. Alla fine di settembre apparve appunto a Terni, che il padre impedì alle figlie di indispensabile il nostro allontanamento da accettare. Sampierdicanne perché la zona ormai era diveAltre ipotesi: esiste un nuta particolarmente pericolosa per i nostri fraTermini in Campania telli. Maria Luisa fu perciò consigliata di dalle parti di Sorrento licenziarsi. L’avvocato Sciarretta si rese perfete un Termine, in Abruzzo, tamente conto delle nostre preoccupazioni e cioè abbastanza vicino disse a mia sorella che, se lo avessimo voluto, alla seconda soluzione avrebbe potuto procurarci un rifugio sicuro. Ocprospettata dall’avvocato Sciarretta. Il modo anche correva raggiungere Termini* e là rivolgersi a linguistico esclude un suo fratello che avrebbe provveduto a ospiche il riferimento sia alla tarci. Egli, che era a conoscenza della nostra difstazione Termini di Roma. ficile situazione economica, era anche disposto Improbabile che si tratti a metterci a disposizione i mezzi per il viaggio. del paesino di Termini Quando Maria Luisa tornò a casa e ci riferì la di Roverano, sul Monte proposta tirammo tutti un sospiro di sollievo. Si Bracco, in Liguria, apriva dinanzi a noi uno spiraglio di luce che, non lontano da Chiavari. Una destinazione seppure esile, rappresentava però qualcosa di tanto prossima meno incerto delle condizioni in cui vivevamo. non avrebbe posto Cominciammo a discutere con entusiasmo del tanti dubbi alla famiglia viaggio e di ciò che avremmo trovato a Termini. Sonnino. La mamma ci stette ad ascoltare poi ci fece notare, con la sua voce sempre tranquilla, che per i nostri fratelli sarebbe stato un grosso rischio. Paolo, Roberto e Giorgio correvano il pericolo di essere catturati dai tedeschi appena avessero messo piede fuori di casa. Paolo e Roberto ammisero che quanto diceva mamma era vero e proposero di dividerci. I nostri genitori e noi tre sorelle saremmo partiti per Termini e Paolo, Roberto e Giorgio avrebcontinua a pagina 16 ➔


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➔ segue da pagina 15 bero cercato di raggiungere la Svizzera. I ragazzi erano come tutti noi a conoscenza che fin dall’indomani dell’8 settembre era sorta come dal nulla, o forse si era messa in attività anche nell’Italia occupata, un’organizzazione particolarmente efficiente per il trasferimento degli ebrei sul territorio elvetico. Il centro dell’organizzazione era a Milano. Naturalmente occorrevano dei denari per poter sconfinare e altro denaro occorreva per vivere in Svizzera. Noi non ne possedevamo e pur conoscendola non avevamo neanche preso in considerazione quella via di fuga. Ma più ancora della mancanza del denaro continuava ad agire in noi l’influsso del cerchio magico della famiglia e del luogo a cui ci eravamo abituati. Andare in Svizzera prendeva l’aspetto di un’avventura al di là del possibile, di uno sradicamento inconcepibile. Io credo che questa sia la verità perché, per un anno, girammo in tondo rimanendo sempre sostanzialmente allo stesso punto di attesa che il nostro destino si compisse. Oggi ciò può apparire quasi assurdo, senz’altro puerile, ma è quanto accadde. Paolo e Roberto erano certi che in Svizzera se la sarebbero cavata anche senza quattrini. Con Giorgio erano sei braccia, disse Roberto, a disposizione di tre stomaci. La mamma e il babbo si opposero decisamente a questa soluzione. La mamma sostenne che il rischio che i nostri fratelli avrebbero dovuto correre per raggiungere la Svizzera non era inferiore a quello che si presentava lungo il percorso da Genova a Termini. Forse era maggiore. Disse che non si sarebbe mai perdonata di essersi messa lei al sicuro e di avere lasciato i suoi tre figli in balia del caso. Cominciò a piangere come se già si immaginasse lontana dai ragazzi a tormentarsi sulla loro sorte. Papà, dal canto suo, dichiarò che se c’era pericolo dovevamo affrontarlo assieme. Ovunque. Paolo e Roberto insistettero. Da qualche anno si era aggiunta a noi una sorella della mamma, zia Anna Milani; eravamo una famiglia di nove persone, un esercito, la definiva Roberto. Tentare di viaggiare tutti assieme, egli affermava, è una follia. È un secondo esodo che non può passare inosservato. Noi cinque donne guidate da papà avremmo avuto tutte le possibilità di arrivare incolumi a Termini e là attendere la fine della guerra. Continuammo a discutere e a discutere e finalmente la mamma ebbe il sopravvento: avremmo tentato tutti assieme il viaggio per Termini. Maria Luisa tornò dall’avvocato Sciarretta per comunicargli la nostra decisione. L’avvocato la interruppe a metà discorso: Termini era stato occupato il giorno avanti dalle truppe alleate. L’avvocato allargò le braccia e disse che ci aveva offerto a tempo debito quella possibilità. Ripiombammo nella disperazione. Sampierdicanne e tutta la zona del Chiavarese era in permanenza battuta dalle truppe naziste e dai fascisti. I nostri fratelli vivevano in imminente e continuo pericolo. Maria Luisa tornò dall’avvocato Sciarretta. Questi si dimostrò comprensivo e suggerì un convento nell’Abruzzo di cui egli conosceva il priore. Ancora una volta ci offrì del denaro. Ricominciammo a discutere e stavolta, in base alla prima esperienza, sull’evenienza che quel tratto dell’Abruzzo che ci era stato indicato potesse essere occupato prima che noi vi giungessimo. In questo caso – se l’occupazione ci avesse colto in viaggio – che cosa avremmo fatto?

Finimmo per scartare definitivamente anche questa seconda possibilità di salvezza. Alla fine di settembre e ai primi di ottobre fu chiaro che se avessimo tardato anche di un solo giorno la nostra partenza da Sampierdicanne avremmo corso il rischio di farci intrappolare dai tedeschi. Più di uno in quella località era a conoscenza che eravamo ebrei. Roberto decise di chiedere aiuto a una propria collega di ufficio, la signora Maria Luisa Bancalari. Vincendo le riluttanze della mamma, preoccupata per il suo viaggio a Genova, andò a trovarla e tornò dicendo che la signora Bancalari avrebbe provveduto, a mezzo della sua domestica, a trovarci un alloggio in Val Trebbia e più precisamente in un paesello nei pressi di Rovegno. Attendemmo con ansia qualche giorno e finalmente la signora Bancalari ci informò che erano a nostra disposizione alcune camere nell’unico alberghetto di Pietranera di Rovegno, chiuse da mesi, e che un contadino era disposto a fornirci una cucina. Un mattino radunammo le nostre cose su un carretto e, a piedi, partimmo alla volta di Chiavari. Attorno a noi si raccolse un bel po’ di gente tra curiosa e compassionevole per vedere andare via «la famiglia ebrea». Ci guardarono con qualcosa negli occhi che non dimenticherò più. Se i miei fratelli lo avessero chiesto sono certa che ci avrebbero aiutato a mettere le valigie sul carretto e avrebbero stretto la mano a tutti purché, per primi, l’avessimo tesa. Mentre ci allontanavamo non potemmo fare a meno di pensare a quella gente e al fatto che, seppure ognuno di noi valeva una taglia di duemila lire, nessuno ci aveva denunciato. Gente umile, gente sconosciuta, poverissima, quella che lasciavamo alle spalle, gente che non possedeva assolutamente nulla e che ci aveva donato altri mesi di vita. Il viaggio fino a Pietranera di Rovegno fu pieno di allarmi, pauroso. Ovunque soldati tedeschi e repubblichini. Ore di spasimo per noi e più ancora per i nostri fratelli che potevano essere catturati da un momento all’altro. Pietranera era già stata investita dall’autunno. Le foglie degli alberi erano gialle e i prati mostravano tracce opulente di verde frammiste a chiazze grigie e marroni. La vallata del Trebbia era percorsa dai primi venti freddi. L’alberghetto era assai più modesto di quanto avevamo immaginato. Pareva abbandonato e deserto da secoli. Ci sistemammo alla meglio nelle camere che ci furono indicate. Iniziammo un’esistenza del tutto diversa da quella cui eravamo usi. Non avevamo assolutamente nulla da fare. Fino a quando potemmo, trascorrevamo le giornate passeggiando per i boschi, sempre vigili e attenti per non richiamare su di noi l’attenzione di estranei. Alla sera andavamo a letto assai presto e io ricordo i miei lunghi pesanti sonni senza sogni. Noi ragazze preparavamo i pasti nella cucina che era lontana un centinaio di metri dall’albergo. Erano pasti che non esigevano molte cure: polenta, castagne secche o appena cadute dagli alberi, farina di castagne. Le patate erano un lusso e dovevamo a Roberto, che girava per le cascine e per i paeselli vicini, se potevamo mangiarne di tanto in tanto. La signora Bancalari più di una volta ci inviò pacchi contenenti pasta e altre vettovaglie e in quei giorni per noi era festa. La nostra tensione non era però diminuita. Eravamo in continuo stato d’allarme. La zona era percorsa quasi quotidianamente da reparti tedeschi che si dirigevano verso le montagne. A ogni loro apparire abbandonavamo l’albergo o la cucina e ci disperdevamo per i boschi. Un giorno fuggimmo per l’avvicinarsi di un gruppo di uomini in divisa e al nostro ritorno apprendemmo che si trattava di militari inglesi evasi dai campi di prigionia. Nessuno ci disse perché erano transitati da Pietranera. Per oltre un mese vivemmo ai margini di una zona controllata in buona parte dai partigiani e lo ignorammo. Avevamo la salvezza a portata di mano senza saperlo. Soltanto al mio ritorno appresi che cosa racchiudessero allora i monti che avevamo attorno. E appresi anche quali legami ci fossero tra quei monti e i contadini che protessero anche noi con il loro silenzio.


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un altro paese dove rifugiarci e il maresciallo aveva finito per accordarglielo. Roberto pranzò e partì immediatamente alla ricerca di un nuovo rifugio. Aveva detto che si sarebbe presentato come uno sfollato da Genova in cerca di alloggio per la propria famiglia. Il primo contadino cui si rivolse gli disse che non avrebbe saputo dove ospitarlo. A un tratto abbassò il tono della voce e confidò a Roberto che quella zona era pericolosa per tutti. Roberto ne chiese la ragione e il contadino lo guardò a lungo prima di rispondergli. Finalmente gli disse che nelle vicinanze si nascondeva una famiglia di ebrei e che sicuramente un giorno o l’altro i tedeschi avrebbero finito per saperlo e allora sarebbero stati guai per tutti. Per gli ebrei, disse, e per noi che ce ne siamo stati zitti. Roberto si affrettò ad allontanarsi. Girovagò per tutto il pomeriggio inutilmente. I contadini non avevano posto per gli sfollati. Erano vaghi, circospetti, diffidenti. Più di una volta dalle loro parole affiorò il senso di pericolo in cui la zona viveva sia per la vicinanza delle montagne, sia per altre cause. L’accenno alla famiglia di ebrei egli lo ascoltò altre volte. Nei giorni successivi Roberto tentò ancora di trovarci un rifugio e finalmente dovette arrendersi. Non c’era posto per gli estranei tra quelle colline e sui monti. In quei giorni di affannose ricerche egli aveva potuto rendersi conto della verità che era nelle parole del maresciallo di Rovegno e di un altro fatto assai più importante: come già a Sampierdicanne, anche qui a Pietranera noi eravamo stati protetti e salvati dal silenzio della gente. Scaduto il termine che ci era stato accordato, fummo costretti a prepararci per la partenza.

Due sorelle. Maria Luisa, a sinistra, e Piera Sonnino nel 1934. Maria Luisa aveva 14, Piera 12 anni. Nella pagina a fronte, i genitori: Giorgina Milani, ed Ettore Sonnino. Dalla loro unione nacquero sei figli in sette anni. Il primo, Paolo, nacque nel 1917, il più piccolo, Giorgio, nel 1925.

L’inverno sopraggiunse rigido. Nell’albergo non era possibile accendere fuochi e così ci abituammo a vivere nella cucina dove ininterrottamente una grande stufa borbottava arroventata. Ci consideravamo assai fortunati per il modo in cui le cose si erano messe. L’invito del maresciallo della stazione dei carabinieri di Rovegno ci colse alla sprovvista. Chiedeva che qualcuno di noi si recasse a un colloquio con lui. Sulle prime restammo terrorizzati ma Roberto ci fece osservare che se si fosse trattato di ciò che temevamo sarebbero venuti a catturarci senza invito e senza preavviso. Egli disse che probabilmente si trattava di una richiesta di informazioni visto che, da tempo, eravamo a Pietranera e non avevamo denunciato la nostra presenza. Fu deciso che lo stesso Roberto si sarebbe incontrato con il maresciallo dei carabinieri. Partì un mattino di buonora mentre nevicava e tornò intorno a mezzogiorno. Ogni traccia di ottimismo era scomparsa dal suo viso. Ci raccogliemmo attorno a lui in cucina ed egli ci narrò come erano andate le cose. Il maresciallo si era dimostrato assai gentile. «Invitandola a venire qui, gli aveva detto, io espongo me stesso e i miei uomini a un rischio che lei può benissimo misurare. Noi sappiamo da tempo che la sua famiglia è ebrea. Purtroppo non siamo soltanto noi a saperlo. La voce è corsa. Se qualcuno dovesse fare la spia ai tedeschi anche noi ci andremmo di mezzo per non avervi segnalato tempestivamente. Certo è che non saremo noi a consegnarvi al comando germanico. È necessario, però, che abbandoniate subito Pietranera nel vostro e nel nostro interesse. Tutto ciò che io posso fare per voi è consigliarvi di andarvene». Roberto gli aveva chiesto qualche giorno di tempo per trovare

Abbandonammo Pietranera nel cuore della notte, dividendoci in due gruppi e scivolando lungo i sentieri fradici di acqua dei boschi ormai spogli per l’inverno. Il freddo era intensissimo. Il cielo era gelido. Come la luna che ci rischiarava il cammino. La corriera ci portò fino a Prato*, all’estrema periferia della città. Avevamo preferito scendere in quella località piuttosto che procedere fino al *Si riferisce al quartiere genovese di Prato, sulla centro ignorando ciò che vi avremmo trovato. sponda destra del Bisagno Eravamo tornati al punto di partenza. Ci trovavamo, con le poche cose portate con noi da Pietranera, in un luogo sconosciuto, alle soglie di una città che non era più la nostra, che ci appariva come un’enorme trappola entro cui, ineluttabilmente, eravamo condannati a tornare. La nostra fuga, e ancora non lo sapevamo, si era conclusa. Adesso, appoggiati alla spalletta del Bisagno, ignoravamo dove andare e che cosa fare. Se fossimo sbarcati su una terra sconosciuta, naufraghi, la nostra condizione non sarebbe stata diversa. La differenza consisteva nel fatto che qui il pericolo era immediato. La gente ci guardava con una certa curiosità. C’erano numerosi militari in circolazione: sarebbe stato sufficiente che uno di essi ci avesse chiesto le carte d’identità. Non ricordo quanto tempo rimanemmo a dibattere, più entro noi che tra noi, quella situazione angosciosa e paradossale. Maria Luisa finalmente decise di telefonare a una collega dell’ufficio degli avvocati Sciarretta e Medina, la signorina Perla Moroni. Cercammo un bar munito di telefono e attendemmo nostra sorella. Non ci nascondevamo la precarietà del tentativo: l’amica di Maria Luisa poteva essere assente proprio quel giorno dal lavoro, oppure poteva anche non volersi mischiare alla nostra vicenda per il pericolo che essa comportava. Era anche possibile che, nonostante tutta la sua buona volontà, ella non sapesse dove indirizzarci e come aiutarci. Aspettare il ritorno di Maria Luisa fu snervante. Avevamo perfino timore di guardarci l’uno con l’altro. Finalmente nostra sorella uscì dal bar. Agitò una mano nella nostra direzione: la signorina Moroni l’attendeva in ufficio. Ci avrebbe dato le chiavi di un appartamento sfitto in un caseggiato sinistrato di via Archimede. continua nel prossimo numero


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La macchina del con il fiore del partigiano

«NON CONTA CIÒ CHE SONO OGGI», AFFERMA MUSSOLINI, «CONTA L’IMMAGINE CHE DI ME

N di

da il manifesto del 24 maggio 2013

MARCO DOTTI

el secondo dopoguerra, osserva Mimmo Franzinelli, i settimanali popolari hanno contribuito in modo determinante a riadattare al contesto la figura di Benito Mussolini, limando ogni spigolatura che fuoriuscisse da una precisa cornice rassicurante. Per un ventennio la sua immagine «era stata somministrata agli italiani a senso unico, secondo precise direttive ministeriali scandite dalle ‘veline’ recapitate ai direttori di quotidiani e periodici, col risultato di inculcare nella popolazione una visione del dittatore destinata, almeno in parte, a sopravvivergli». È la macchina della costruzione del consenso, non meno spaventosa rispetto a quella di repressione del dissenso che lo storico Franzinelli ha studiato in un volume chiave, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista (Bollati Boringhieri, 1999) e proseguito in un lavoro decennale, con Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime (Mondadori, 2001) o Il Duce proibito (Mondadori, 2003). Crollato il regime, con il ritorno della libertà di stampa, ricorda Franzinelli, il testimone è passato alle riviste popolari di ampia tiratura, come Oggi o Gente su cui scriveva l’ex repubblichino Giorgio Pisanò. Attraverso queste riviste, con articoli dal tono deliberatamente divulgativo e basso si affermano o si riaffermano quelle «verità» a bassa frequenza che, filtrate dalla «memoria indulgente» degli italiani, hanno stratificato l’immagine collettivamente condivisa di un «dittatore risoluto ma bonario, disinteressato ad arricchirsi, capace di grande generosità verso i suoi nemici e i loro familiari». Abbiamo incontrato Franzinelli a Gorizia, a margine del Festival «È Storia» che lo vedrà impegnato in un dibattito titolato Achtung Banditen?, dedicato alla guerra partigiana e alla critica dei revisionismi «sottotraccia». Sul piano della vulgata i conti con Mussolini sembra non si chiudano mai. C’è sempre una polemica, un commento benevolo, un articolo all’apparenza ben informato o, peggio, un «documento» che crediamo di saper codificare nelle sue linee più elementari e riapre non certo la questione storiografica ma qualcosa di cui il fare dello storico non può comunque non tener conto. Viviamo in

giorni in cui la decontestualizzazione rere i canali informativi che hanno portato a banalizzante è la norma. Eppure, que- questo cortocircuito storico. Risalendo dai sto processo arriva da lontano e segue giornali popolari – chiamiamoli così – e di una linea precisa, che va affrontata. costume, dalle dispense di storia che di tanto Soprattutto oggi, in un contesto edito- in tanto ancora fanno bella mostra di sé in riale sempre più effimero e privo di qualche edicola non è difficile discendere alla memoria. Dal suo primo libro, Il stampa di regime e all’immensa macchina di riarmo dello spirito (1991) fino al Pri- costruzione del consenso articolata da Musgioniero di Salò. Mussolini e la trage- solini e dai suoi. dia italiana del 1943-1945 (Mon- Mi sono reso conto con sconcerto che esiste dadori, 2012) lei si è interrogato su un vero e proprio filo nero che parte dall’imquesta sottile linea nera, per citare il ponente organizzazione propagandistica che titolo di un altro suo lavoro dedicato Mussolini mise all’opera (pensiamo al Minial neofascismo e ai presupposti della stero della Stampa e della Propaganda o al Strage di Piazza della Loggia a Bre- Ministero della Cultura popolare, per esemscia. Sempre attenendoci a una certa pio) e all’uso molto professionale che questa vulgata, gli storici non dovrebbero oc- macchina fece della fotografia. Questo uso cuparsi del presente. È un ragiona- spesso indiscriminato e altrettanto spesso mento banale, ma ha spregiudicato delle immauna sua efficacia se gini oggi trova una sua apha consegnato gran pendice, quando in certe Un’intervista con parte del discorso pubblicazioni si ripresenMimmo Franzinelli. tano le stesse immagini, desulla Repubblica Sociale di Salò a una contestualizzandole. Certe «Il Mussolini memorialistica e a fotografie di miliziani e mirassicurante una polemica che, in litari a suo tempo pubblied eroico? fondo, non si discocate da Pisanò, tanto per sta troppo dalle tesi È nato sulla stampa fare un esempio, servivano autoassolutorie sulla per dare l’idea che «erapopolare, grazie «repubblica necessavamo forti, eravamo tanti». ria» espresse da due Sappiamo che non è così, a un giornalismo ex ministri come nella RSI non ci fu solo il che ha replicato Piero Pisenti e Gratanto decantato fascino dei quello di regime» ziani... vinti e dei volontari, ci fuNel mio lavoro parto rono, come ben sappiamo sempre dal presente. ma altrettanto spesso diParto, intendo dire, da un interrogativo che il mentichiamo, costrizioni di massa ed esecupresente mi pone, dalle questioni lasciate zioni per i renitenti. Purtroppo a questa aperte e da quelle chiuse male. Nel caso del situazione hanno contribuito anche storici e Prigioniero di Salò, l’interrogativo posto dal giornalisti antifascisti – chiamiamoli così per presente è semplice e al tempo stesso disar- semplicità, poi ci sarebbe da problematizzare mante: come è possibile che ancora oggi, nel la definizione – che nei decenni scorsi hanno 2013, tra i nostri ragazzi ci sia un’apertura di amplificato una dimensione retorica oppofiducia verso quel Mussolini che, d’altronde, sta a quella di cui stiamo parlando. non conoscono? Qual è, allora, il Mussolini Una dimensione che non regge a un serio che conoscono? Che cosa è stato loro tra- esame delle fonti e delle situazioni. Inconsasmesso? È la stessa immagine trasmessa a pevolmente, in questo modo, hanno aperto suo tempo da un antifascista pentito come la strada a un revisionismo a bassa frequenza Carlo Silvestri, che scrisse di un Mussolini ma ad alta intensità di consumo. Giusto per patriota, talmente patriota da spingere il fare un esempio, ricordiamo Giampaolo proprio eroismo fino a immolarsi per gli ita- Pansa che in giovane età fu uno tra i costrutliani? Che immagine hanno i nostri ragazzi tori di una certa vulgata antifascista e, anni di lui? Di un uomo che fa da argine, attra- dopo, ha smontato la vulgata che lui stesso verso la cosiddetta «repubblica necessaria» aveva contribuito a costruire con grande sucall’avanzata del mostro tedesco? cesso di pubblico e spesso, ahinoi, anche di Assistiamo a un evidente cortocircuito, per- critica. Su ben altro fronte critico dovremmo ché da un lato la ricerca storiografica pro- ricordare l’affermazione di Gramsci, che la cede, dall’altro arretra la consapevolezza verità è rivoluzionaria. Ma lo si è spesso dicritica di molti operatori della comunica- menticato, sacrificando tutto a tatticismi e a zione e dei saperi tutti, intesi in senso lato. egocentrismi anche questi amorali e dagli efProcedendo a ritroso ho cercato di ripercor- fetti demoralizzanti.


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onsenso

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DI ME SAPRÒ PROIETTARE»

Nella villa di Gargnano, con il Mussolini che interpreta una parte in cui non crede e che lo distacca sempre più dalla realtà – la «grande realtà politica» di cui parlava la Petacci – c’è però un Mussolini che crede ancora in qualcosa: nell’immagine che proietterà di sé, in un futuro per noi è il presente… Al crollo fragoroso e sanguinoso del fascismo sono sopravvissute certamente due cose che io vedo in contatto tra loro. La prima è il «mito» di Mussolini e la seconda è lo stereotipo di propaganda che il regime aveva creato. Dopo di che ho avuto una straordinaria fortuna. All’Archivio Centrale dello Stato mi sono imbattuto nell’Archivio di Claretta Petacci. Un archivio rimasto «sigillato» fino a pochi anni fa e di cui Renzo De Felice non ha potuto tener conto. Lettere, note, diari di straordinaria importanza relativi al periodo tra il 1943 e il 1945. Attraverso quel materiale si tratta – e questo ho cercato di fare – di rivisitare i «personaggi» a partire da quella realtà che è la loro autodescrizione. Coglierli nel vivo, da dentro, ponendo l’accento su ciò che dai documenti emerge: l’estrema contraddittorietà e l’estremo distacco dalla realtà di un dittatore sempre più consegnato alla maschera del proprio egocentrismo. Ho quindi messo a raffronto queste di immagini, quella del mito e quella dello «stereotipo», ovvero la costruzione diciamo così «utopica» del «grande padre» e la realtà miserevole di un uomo allo sbando che illude e manda allo sbaraglio i giovani. Li manda a morire per una causa in cui lui per primo non crede. Con un piccolo particolare: Mussolini non crede alla causa, o almeno non ci crede più a partire da un dato momento, ma con lucidità infernale proietta la propria immagine nell’avvenire. In una sua lettera alla Petacci non a caso afferma che ciò che conta davvero non è «ciò che sono oggi» - Mussolini sa e dichiara di non essere nulla, di essere al massimo lo zimbello dei tedeschi che «gira a folle» attorno a una stanza -. Conta però, questo afferma Mussolini, «l’immagine che di me saprò proiettare». In questo è riuscito. E ci è riuscito, ecco la cosa ancor più sconcertante, attraverso un comportamento che è senz’altro quello di un codardo. Pensiamo alla fuga vestito da tedesco e all’uccisione, secondo la sua «logica», tutt’altro che dignitosa. Tutto questo non dico non sia conosciuto, dico che nella vulgata che segna i nostri tempi è un fatto messo tra parentesi e talvolta sopraffatto dall’immagine di un Mussolini coerente e coraggioso, quello del «se avanzo seguitemi» via con le chiacchiere. La vulgata storica si è inserita, amplifican-

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Mascellone. L’immagine del comandante sicuro nascondeva le sue reali debolezze

dola e arricchendola, in questa linea nera, anzi nerissima che giunge fino a noi. Questa linea nera torna anche nella vicenda della pubblicazione dei diari «veri o presunti», in realtà clamorosamente falsi, di Mussolini. Lei dedicò un volume a questo, Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (Bollati Boringhieri, 2011)… Quando entriamo in un’edicola – ne accennavo prima – o in certe librerie si trovano dispense, libri, libretti che se guardati con occhio attento altro non sono che una prosecuzione della propaganda fascista. Libri, libretti e dispense che vanno in mano non certo allo storico o al critico, ma a persone che non hanno strumenti per decodificarli. Oggi, questa frontiera è sguarnita. Gli storici, tranne rare eccezioni, sono molto distratti rispetto a questa situazione. Dobbiamo invece smontare questo materiale, disinnescarlo. La critica del nostro presente fa parte del nostro lavoro. Paradossale e vergognosa è stata la

situazione di falsi acclarati come i cosiddetti diari di Mussolini. Paradossale e vergognosa perché questi falsi sono stati avvalorati non tanto da Marcello Dell’Utri, che si presenta per quello che è e non si nasconde nemmeno, ma da una casa editrice prestigiosa che presta il proprio catalogo alla pubblicazione di cinque, ripeto cinque volumi di falsi presentati in forma «prestigiosa». Mi pare che di materia per cui indignarsi ce ne sia. Ho l’impressione che anche tra i responsabili delle nostre case editrici manchi non solo consapevolezza, ma addirittura coscienza civile. La scommessa di Marcello Dell’Utri si basava d’altronde su questo assunto: non potrò dimostrare che i diari sono veri, ma voi non potrete mai dimostrare che sono falsi. Ma gli è andata male. Questo atteggiamento è però segno di una dimensione amorale e di un cinismo di fondo che si incrocia, però, con quello che è il «dio» mercato. Molti editori, sedotti dal marketing e dalle ricerche del setcontinua a pagina 20 ➔


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➔ segue da pagina 19 tore vendita, capiscono che c’è spazio per Mussolini. Se il pubblico «chiede» Mussolini – questa è la loro logica – allora devi dare al pubblico ciò che chiede, perché l’editoria è in crisi, perché da che mondo è mondo devi intercettare una domanda per sostenere l’offerta e via discorrendo. Ma il pubblico che cosa vuole? Vuole questa immagine rassicurante del «buon padre». La dinamica è elementare, persino banale e ridicola, ma è questa. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Tra queste conseguenza c’è anche la comprensione di che cosa sia un archivio… Oggi, storici a parte, chi sa che cos’è un archivio? Forse, come prevedeva Talleyrand, la storia la faranno solo gli storici e gli agenti dei servizi di sicurezza. Agli altri non rimarrà che galleggiare in un mare di scorie mediatizzate e rivestite da verità ufficiali… Partiamo da un dato di fatto: il fascismo ha costruito archivi enormi perché come tutte le dittature pensava di essere eterno e non prefigurava un uso contraddittorio dei documenti rispetto alle sue finalità. Oggi, però, le difficoltà sono altre. Da un lato, in Italia a differenza degli Stati Uniti dove i documenti vengono periodicamente desegretati, c’è una gestione che definirei «mafiosa» degli archivi. Noi storici dobbiamo lottare con gli archivisti, con le normative, con la legge sulla privacy. La storia contemporanea probabilmente dà fastidio. Dall’altro lato, però, c’è il problema non minore e non meno sconcertante della consapevolezza critico-storica di chi accede a quegli archivi. Penso a molti giornalisti camuffati da storici che, dinanzi a un documento, ragionano banalmente in questi termini: un documento «è» un documento e quindi nel documento c’è la verità. In realtà, proprio gli archivi fascisti ci mostrano che al loro interno ci sono documenti autofalsificati o tendenziosi o con finalità ricattatorie. La sfida che l’archivio pone allo storico è quella della contestualizzazione e del distacco critico. Bisogna capire che tipo di documento si ha in mano, non basta averlo in mano. Le verità ufficiali, oggi, sono verità banali, pericolosamente banali. Dovremmo recuperare la pratica della controinformazione che è fortemente demistificante e demitizzante. Quando la memoria si ufficializza c’è infatti un processo di trasformazione per creare una forma nuova di vulgata. Il compito dello storico è di essere sempre in posizione critica rispetto al potere, altrimenti suoni la fanfara di chi è al potere, anche qui vediamo – su fronti opposti – con quali eccelsi risultati. Marco Dotti

COSTITUZIONALISTI E POLITICI DISSIDENTI: «QUESTA LEGGE 2613 A È MOLTO PEGGIO DI QUELLA DI CALDEROLI»

La più brutta Costituzione del mondo

I

di

da libertaegiustizia.it del 10 marzo 2015

SANDRA BONSANTI*

n un tripudio di abbracci e di “cinque”, di tweet e Sms, la maggioranza di governo si è votata la legge numero 2613 A. Esulta la ministra Boschi, esulta con lei il regista della nuova Costituzione Denis Verdini. La dichiarazione di voto del Partito Democratico, fatta da Lorenzo Guerini, è zeppa della più vieta propaganda con la quale Renzi pensa di aver venduto agli italiani la Costituzione del ’48. I deputati di SEL stringono in mano vecchie copie della Costituzione . Più che a un momento solenne pare di assistere allo spettacolo di un circo, nel quale molti, i più, gioiscono e gli altri osservano attoniti le esibizioni di belve e pagliacci. Cupe, cupissime le voci dei PD dissenzienti che però votano ancora una volta, ma la prossima no se il testo (ma quale? Quello della legge elettorale o della riforma?) non cambia, se il governo non accetta di dialogare. Brunetta attacca il Parlamento delegittimato e accusa la maggioranza fatta di deputati eletti con un premio dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale. Ma fino a stamani, dov’era? Incredibile ma vero, tanto per spiegare la buffonata che si è svolta in quell’aula dove si è fatta la storia d’Italia, anche quella drammatica e violenta della dittatura, Brunetta cita condividendoli i severi giudizi di Stefano Rodotà e di Gustavo Zagrebelsky. Il più interessante, nel gran circo di Montecitorio, è Danilo Toninelli dei 5 Stelle, unico rimasto in aula, tira fuori dagli stenografici della Camera un discorso del 20 ottobre del 2005. «Oggi voi del governo della maggio-

ranza vi state facendo la vostra Costituzione, avete escluso di discutere con l’opposizione, siete andati avanti solo per non far cadere il governo, ma le istituzioni sono di tutti, della maggioranza e dell’opposizione.» Un’accusa firmata Sergio Mattarella. Dieci anni fa. Contro il governo Berlusconi. Ma questa legge 2613 A è molto peggio di quella di Calderoli. Nel salone della Regina alla vigilia del voto lo hanno detto e ripetuto costituzionalisti e politici dissidenti. Vannino Chiti definisce il sistema introdotto dalla legge Boschi come un «premierato assoluto, senza contrappesi». Dice che la rappresentanza è mortificata e che su questi temi c’è una responsabilità individuale. Nega che si possa scambiare la riforma con ritocchi alla legge elettorale: non c’entra nulla sono piani diversi. L’avvocato Bisostri, quello che fece il ricorso alla Corte e lo vinse, sostiene che si introduce l’elezione diretta del capo del governo e dice: «Renzi non riforma ma deforma la Costituzione». Gaetano Azzariti pensa già a come affrontare il referendum: non sulla difensiva, ma all’attacco, sulla concezione di democrazia e sui diritti dei cittadini. Raniero La Valle, storico ispiratore dei comitati Dossetti, afferma che «questa è la Costituzione più brutta del mondo». Ma eravamo nella Sala della Regina, tra gufi e professoroni. E la casta ha fatto in aula il suo dovere di obbedienza al potere occulto: quello a cui non andavano bene le Costituzioni nate dopo il fascismo e ha chiesto ai capi di Stato di cambiar verso. Questa era davvero la volta buona. Non poteva che finire così questo primo tempo. Dopo si vedrà. *Presidente di Libertà e Giustizia


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NOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE

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La legge elettorale sia dei cittadini, non dei “nominati”

CARLO SMURAGLIA*

che finalmente i cittadini si rendano conto della reale posta in gioco, capiscano che la legge elettorale li riguarda direttamente, che si tratta dell’esercizio di un potere costituzionale fondamentale; e dunque facciano sentire la loro volontà, in tutte le forme possibili, compreso il richiamo dei loro rappresentanti in Parlamento a seguire i princìpi costituzionali di fondo, dando vita finalmente a un legge elettorale rispettosa dei princìpi e dei valori costituzionali e dei diritti dei cittadini e delle cittadine. L’ANPI continuerà a impegnarsi a fondo perché prevalga la ragionevolezza e si arrivi a un a legge elettorale valida e rispettosa soprattutto di quella che dovrebbe essere la sua funzione: consentire ai cittadini di esprimere liberamente e consapevolmente la propria volontà.

mauro biani

i torna a parlare di legge elettorale. Secondo il governo, l’iter dovrebbe essere ripreso in questo mese (forse in questi giorni) e concludersi rapidamente e definitivamente alla Camera. Senza alcuna modifica e senza ulteriori discussioni, al punto che si fa balenare persino l’idea della fiducia. Siamo sempre stati contrari a questa legge, che non restituisce la parola ai cittadini, che mantiene in vita l’aberrante soluzione di un numero elevatissimo di “nominati”, che conserva un premio di maggioranza ancora idoneo a distorcere l’espressione della volontà popolare. Non possiamo che ribadire con forza la nostra contrarietà e invocare fino all’ultimo la ragionevolezza e l’aderenza allo spirito e al contenuto di ciò che ha dettato la Corte Costituzionale e vuole la democrazia. Continuiamo, inoltre a denunciare la “stravaganza” di una legge elettorale proposta dal governo in forma diversa, approvata un anno fa per la prima volta, rimasta a lungo giacente e poi ripresa al Senato per un esame tanto rapido quanto inconcludente, anche se sono state apportate alcune positive modifiche rispetto al testo originario. Un testo che ora dovrebbe essere approvato senza correzione alcuna, eventualmente con un’al-

tra cosa, del tutto inusitata in questa materia, come la fiducia. Si noti che quest’anno è trascorso, non già perché ci siano state resistenze e opposizioni, ma perché - all’interno della stessa maggioranza - ci sono stati ripensamenti, contrasti, contraddizioni. Tutto questo su una legge importante come quella elettorale, così “importante” che - ironia estrema! - il testo ne differisce ad altra epoca, l’entrata in vigore, per motivi che rimangono tuttora contradditori e oscuri. Una legge, infine, sulla quale pesa l’ombra della Corte Costituzionale che – con ogni probabilità – dovrà occuparsene, quando sarà stata definitivamente approvata e non sappiamo con quali esiti, anche se il pensiero della Corte, in materia, è già stato espresso con chiarezza con la sentenza n. 1 del 2014. Tutto questo preoccupa ed inquieta, perché ancora una volta è della democrazia che si tratta, degli spazi che debbono essere riservati ai cittadini, alla rappresentanza, all’esercizio della sovranità popolare. La speranza che ci sia un ravvedimento, che qualcuno batta finalmente un colpo, è flebile, ma esiste sempre. Ma non ci affidiamo solo a quella. Confidiamo

Chi ha deciso di dare una medaglia a un ufficiale fascista?

H

o appreso dalla stampa la notizia della consegna di una medaglia, in una sala della Camera dei deputati, dove si trovavano anche il Presidente della Repubblica e la Presidente della Camera, a un fascista della Repubblica di Salò: Paride Mori. La notizia appariva così incredibile (e grave) che sono stato lieto di apprendere, da una dichiarazione emanata dalla Presidenza della Camera, che la Presidente Boldrini non aveva dato alcun premio, né aveva in alcun modo concorso a individuare il nome del “premiato” tra quelli meritevoli di onorificenza (sono parole pressoché testuali del comunicato della Presidenza della Camera). Altrettanto credo sia accaduto per il Presidente Mattarella, ma non è possibile anticipare nulla al riguardo, finché non ci sarà qualche comunicazione da parte del Quirinale. Di certo, un’onorificenza è stata consegnata dal Sottosegretario Del Rio e dunque a nome della Presidenza del Consiglio. Anche il Sottosegretario ignorava tutto? Sembrerebbe impossibile; comunque, chi ha proposto e deciso quella onorificenza proprio nell’anno del 70° anniversario della Resistenza? A quali criteri ha obbedito la spe-

ciale Commissione che valuta per la Presidenza del Consiglio le onorificenze? È veramente difficile accontentarsi della prospettazione di un “errore”, a fronte di situazioni che imporrebbero una vera sensibilità democratica. Pensiamo che su questo debba essere fatta chiarezza assoluta e al più presto. Altrimenti dovremmo pensare che la Presidenza del Consiglio, che si propone di celebrare il 25 aprile e il 70° è disponibile, al tempo stesso, a riconoscere “i meriti” di chi militò dalla parte della dittatura, del fascismo, della persecuzione degli ebrei, degli antifascisti e dei “diversi”. Davvero, tutto questo appare inconcepibile; l’ANPI attende, comunque, chiarimenti precisi e definitivi e, soprattutto, che ognuno si assuma le responsabilità che gli competono. Dopo di che, prenderemo – a ragion veduta – le nostre posizioni di antifascisti e di combattenti per la libertà, che non conoscono né tentennamenti né ambiguità, ma si riconoscono nella vera storia del nostro Paese e nella Costituzione che lo regola e pretendono che altrettanto facciano le istituzioni. *Presidente nazionale ANPI


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La rimozione nascosta della memoria

IL CASO DEL “MEMORIALE ITALIANO” DI AUSCHWITZ E QUELLO DEL 25 APRILE ROMANO

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foto di armando romeo tomagra

di

ANGELO D’ORSI

da il manifesto del 9 aprile 2015

d Auschwitz, uno dei monumenti più notevoli tra quelli dedicati alle varie comunità degli internati è il cosiddetto «Memoriale Italiano». Un paio di anni or sono le autorità polacche decisero di chiuderlo al pubblico, nel silenzio del governo italiano, e dell’ANED, in teoria proprietaria dell’opera. Pochi mesi fa la sovrintendenza del campo, ormai museo, ha deciso di procedere alla rimozione del Memoriale. La sua colpa? Quella di ricordare che nei lager non furono soltanto deportati e sterminati gli ebrei, ma gli slavi, i sinti, i rom, i comunisti insieme a socialdemocratici e cattolici, gli omosessuali, i disabili. Quel Memoriale, opera egregia alla cui ideazione, su progetto dello studio BBPR (Banfi Belgiojoso Peressutti Rogers, il prestigioso collettivo milanese di cui faceva parte Ludovico Belgiojoso, già internato a Buchenwald) collaborarono Primo Levi, Nelo Risi, Pupino Samonà, Luigi Nono…, ha dei «torti» aggiuntivi, come l’accogliere fra le sue tante decorazioni e simbologie anche una falce e martello, e una immagine di Antonio Gramsci, icona di tutte le vittime del fascismo. Ora, ai governanti polacchi, desiderosi di rimuovere il passato, disturbano quei richiami, agli ebrei il fatto che il monumento metta in crisi «l’esclusiva» ebraica relativa ad Auschwitz. Ed è grave che una città italiana, Firenze, si sia detta pronta ad accoglierlo. Contro questa scellerata iniziativa si sta tentando da tempo una mobilitazione culturale, che si spera possa avere un riscontro politico forte e oggi su questo si svolgerà nel Senato italiano una iniziativa di denuncia promossa da Gherush 92-Committee for Human Right e dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Spostare quel monumento dalla sua sede naturale equivale a trasformarlo in mero oggetto decorativo, mentre esso deve stare dove è nato, per il sito per il quale fu pensato, a ricordare, proprio là,

dietro i cancelli del campo di sterminio, cosa fu il nazismo e il suo lucido progetto di annientamento, che, appunto, non concerneva solo gli ebrei, collocati in fondo alla gerarchia umana, ma anche tutti gli altri popoli, giudicati essere «razze inferiori» come gli slavi, o i nemici del Reich, comunisti in testa, o ancora gli «scarti» di umanità, secondo le oscene teorie degli «scienziati» di Hitler. Insomma, la rimozione del Memoriale, è una rimozione della memoria e un’offesa alla storia. Ebbene, l’atteggiamento dell’ANED e delle Comunità israelitiche italiane, che o hanno taciuto, o hanno approvato la rimozione del Memoriale (in attesa della sua sostituzione con un bel manufatto politicamente adattato ai tempi nuovi), appare grave. E in qualche modo richiama le polemiche di questi giorni relative alla manifestazione romana del 25 aprile. Premesso che la cosa «si svolgerà di sabato», e dunque, come ha pretestuosamente precisato il presidente della Comunità israelitica romana, gli ebrei non avrebbero comunque partecipato, la denuncia che «non si vogliono gli ebrei», è un rovesciamento della verità: non si vogliono i palestinesi. Ed è grave l’assenza annunciata dell’ANED, per la prima volta, anche se la bagarre si è scatenata sull’assenza della «Brigata

Ebraica». La quale ha le sue origini remote niente meno che in Vladimir Jabotinsky, sionista estremista di destra con legami negli anni ’30 mai smentiti con Mussolini, che convinse le autorità britanniche, nella prima guerra mondiale, a dar vita a una Legione ebraica. Nel secondo conflitto mondiale, fu Churchill a lasciarsi convincere a organizzare un Jewish Brigade Group, inquadrato nell’esercito britannico: 5000 uomini che operarono in particolare nell’Italia centrale, contribuendo alla liberazione di Ravenna e di altri borghi. Ebbe i suoi morti, e le sue glorie. Bene dunque celebrarla. Ma non fu né avrebbe potuto avere un ruolo eminente, come sembrerebbe a leggere certe dichiarazioni. Ma il fuoco mediatico supera il fuoco delle armi. E che dire di ciò che avvenne dopo? Come storico ho il dovere di ricordarlo. Quei soldati divennero il nucleo iniziale delle milizie dell’Irgun e del Haganah — quelle che cacciarono i palestinesi nella Nakba — e poi dell’esercito del neonato Stato di Israele, al quale offrirono anche la bandiera. Si capisce l’imbarazzo dell’ANPI di Roma, tra l’incudine e il martello. Ma quando leggo che il suo presidente afferma che «i palestinesi non c’entrano con lo spirito della manifestazione», mi vien voglia di chiedergli se gli amici di Netanyahu c’entrino di più. Altri hanno dichiarato in questi giorni che bisogna lasciar parlare solo chi ha fatto la guerra di liberazione; ma se così, intanto andrebbero cacciati dai palchi tanti tromboni in cerca di applausi; e soprattutto se si adotta questa logica è evidente che tra poco non ci sarà più modo di festeggiare il 25 aprile, perché, ahimè, i partigiani saranno tutti scomparsi. E allora - visto l’articolo 2 dello Statuto dell’ANPI che rivendica un profondo legame con i movimenti di liberazione nel mondo - come non dare spazio a chi oggi lotta per liberarsi da un regime oppressivo, discriminatorio come quello israeliano, rappresentato ora dal governo di destra di Netanyahu? Chi più dei palestinesi ha diritto oggi a reclamare la «liberazione»?


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LE TORTURE DI STATO NEI GIORNI DEL G8 GENOVESE. TESTIMONIANZE E RIFLESSIONI

La sera delle belve con la divisa Manifestanti, cronisti e avvocati accorsi all’esterno della scuola Diaz, la sera di sabato 21 luglio (foto

C di

da La vita ti sia lieve, ed. Melampo editore

ALESSANDRA BALLERINI*

redevo ormai che tutto fosse finito, che non avrei più dovuto vedere sangue né respirare lacrimogeni e adrenalina per bel po’. E invece. Era la sera di sabato 21 luglio, mi trovavo con dei colleghi nella sala che era stata istituita all’interno della scuola Diaz per ospitare gli avvocati osservatori del GSF (Genoa Social Forum) e morivo dalla voglia di andare a casa a lavarmi via l’orrore assorbito in quei giorni. Alcuni medici e il coordinatore degli avvocati mi chiedono di fermarmi a dormire lì, perché hanno paura che qualcosa debba ancora accadere. Io sono stanchissima e vigliaccamente cerco di convincere gli amici che la mia presenza sarebbe inutile nel caso di un blitz della polizia perché sono un avvocato civilista e per

giunta sono una donna, poco adatta a fermare l’ira dei poliziotti; chiedo quindi di girare la proposta a qualche collega uomo penalista... però lascio il mio numero di cellulare perché la mia agognata doccia si trova, ahimè, a pochi metri della scuola e dico a tutti di segnarsi il mio numero di telefono e di chiamarmi per qualsiasi bisogno. Dopo pochi minuti entro in casa, ma non faccio neppure in tempo a chiudere la porta che il mio cellulare inizia a suonare offrendomi la peggiore telefonata della mia vita: è il medico, che oggi considero amico anche in virtù degli orrori condivisi, il quale con voce rotta mi grida: «vieni subito, ci ammazzano... ci ammazzano tutti». Le mie gambe tremano mentre mi avvicino ai poliziotti, saranno duecento, tutti in assetto da guerra... mi guardo intorno e mi accorgo di essere l’unica “civile” per tutta la via, l’unica non armata, l’unica non travisata. Dalle case vicino alla scuola qualcuno mi urla, suggerisce di non avvicinarmi, di

reuterS)

scappare via perché rischio grosso. La tentazione di ascoltare questi consigli urlati da nuovi immediati amici dura un attimo; estraggo il mio tesserino da avvocato (lo terrò per ore in mano, col braccio teso, come fosse un’arma, la mia unica arma) e mi avvicino al cancello: sento urla fortissime ma non capisco da dove provengano, le grida mi bloccano il sangue. Mi avvicino ancora, vengo fermata di fronte al cancello della scuola da due colossi abbronzati, travisati e cattivi, mi spingono via. Io, sotto la luce abbagliante dell’elicottero mi qualifico (loro mai) dico chi sono e da chi sono stata incaricata, (per loro si deve ancora scoprire il mandante) li informo che in quanto avvocato nominato devo assistere a quella che credo ancora essere solamente una perquisizione. Loro spingono, urlano, urlano... nelle mie orecchie, su tutti rimane un grido feroce: «cosa pensi di fare avvocato del continua a pagina 24 ➔


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➔ segue da pagina 33 cazzo, difendi quelle merde del Social Forum? Allora ti ammazziamo insieme agli altri». Poi il resto è storia: intervengono i primi giornalisti, altri colleghi, alcuni parlamentari, ma nessuno riesce a fermare la furia cieca che si scatena nella scuola, nessuno riesce ad evitare il massacro. E negli occhi rimane solo l’orrore del sangue e quel sangue urla. E ora, se chiudo gli occhi, quello che vedo è l’impronta rossa di due mani sul muro bianco delle scale e mi sembra di vederlo questo ragazzo che ancora cerca di resistere mentre viene trascinato verso nuovi orrori da implacabili mani feroci. E se lo metto bene a fuoco posso leggere nei suoi occhi il panico che, ancora oggi, si scambia nei miei. Solamente urla e sangue, non ricordo altro.

C

G8 di Genova 2001, due occasioni per rovesciare il tavolo

osa sia accaduto a Genova nel 2001 è chiaro a tutti: pezzi di Stato e di forze dell’ordine hanno agito fuori dalla legalità in modo reiterato e violentissimo. A partire da quell’attacco alla testa del corteo, la rappresentazione dello Stato nella piazza e nelle caserme è da dittatura militare. Carlo muore in questo scenario di aggressione e sospensione dello stato di diritto. Questa è la verità dei fatti nella loro semplice e innegabile concatenazione, e dietro le responsabilità immediate si cela la parte meno evidente di quei fatti, la catena di comando che conduce a responsabilità istituzionali e politiche altissime. Ed è una verità che le istituzioni italiane continuano a negare. Non la riconoscono i tribunali, che finora hanno condannato soprattutto manifestanti, e non la vuole riconoscere il Parlamento, che non ha mai accettato di istituire una commissione d’inchiesta. Ora però sono occorsi due fatti che inducono chi non si rassegna a questa opacità *Avvocata civilista tutta italiana a rovesciare il tavolo, a imporre che si ricominci daccapo nella ricerca ed enunciazione pubblica di questa verità. Da un lato il riconoscimento, seppur parLO AFFERMA LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO ziale, del reato di tortura, su sollecitazione dell’Europa, dovrebbe indurre a spuntare una delle armi più efficaci di ogni abuso di potere, la prescrizione. Dall’altro per la prima volta un uomo dello Stato, un magistrato come Alfonso Sabella, che ha avuto alte responsabilità proprio in quel G8, fa allusioni rispetto al livello nascosto dei fatti di “tortura” ai sensi dell’articolo 3 della Dalla decisione CEDU* Genova. Egli ha parlato di un complessivo «disegno» poConvenzione [...] inoltre le istanze giuCestaro contro Italia litico-istituzionale, della presenza attiva dei servizi sediziarie interne non devono in alcun caso greti, che sarebbero arrivati a cancellare prove mostrarsi come disposte a lasciare im[...] il richiedente sostiene che, al moa posteriori, della volontà da parte di apparati dello Stato puniti degli attentati all’integrità fisica e mento dell’irruzione delle forze dell’ordi provocare vittime. Sabella delinea un quadro inquiemorale delle persone. Ciò è indispensadine nella scuola diaz, sia stato vittima tante. Io ho vissuto in prima persona la vicenda del G8, bile a mantenere l’affidamento dei cittadi violenze e sevizie che qualifica come e ho vissuto sulla mia pelle questa torbida volontà di cridini e assicurare l’adesione allo stato di atti di tortura. Sostiene inoltre che la minalizzare tutto un movimento dalle variegate anime, diritto, al fine di prevenire tutte le appasanzione dei responsabili degli atti che di spostare il piano dialettico dalla politica allo scontro renze di tolleranza di atti illegali o la colha denunciato è stata inadatta in ramilitare, e come tutti gli altri mi sono percepito vittima di lusione statale nella loro perpetrazione gione, soprattutto, della prescrizione nel una violenza indiscriminata e inesorabile. Il problema [...] perché un’inchiesta (indagine) sia corso del procedimento penale della non rimane soltanto quello di condannare i responsabili effettiva, in pratica la condizione prelimaggior parte dei delitti a carico, degli materiali, ma è capire di cosa e di chi quella generazione minare è che lo Stato abbia promulgato sconti di pena di cui alcuni soggetti sia stata vittima, e le dichiarazioni di Sabella aprono uno delle disposizioni di diritto penale volte avrebbero beneficiato e dell’assenza di spiraglio in questo senso. a reprimere le pratiche contrarie all’artisanzioni disciplinari a riguardo di queste Le vicende di omicidi e stragi che hanno coinvolto pezzi colo 3. in effetti, l’assenza di una legipersone. Sostiene in particolare che di Stato sono purtroppo un lugubre leitmotiv della storia slazione penale sufficiente a prevenire e astenendosi dall’individuare in termini di italiana, e per ognuna di esse la difficile, a volte impossireprimere effettivamente gli autori degli delitto tutti gli atti di tortura e dal prebile sfida è quella di conoscere la fonte degli ordini e la atti contrari all’art. 3 può impedire alle vedere una pena adeguata per un delitto catena di comando, così come le strategie di fondo. Ma autorità di perseguire gli attentati a quesiffatto, lo Stato non abbia adottato le ciò di cui dovremmo prendere coscienza è che questa resto valore fondamentale delle società misure necessarie a prevenire le vioaltà di sottogoverno del Paese non deve più essere predemocratiche, di valutarne la gravità, di lenze e gli altri trattamenti abusivi di cui sentata come uno stato «parallelo» o «deviato» che si pronunciare delle pene adeguate e di lui stesso si dice vittima. invoca l’art. 3 manifesta in circostanze eccezionali. Si deve cominciare escludere l’applicazione di tutte le midella Convenzione. [...] nel caso di spea pensare a una modalità di organizzazione stabile dei sure suscettibili di indebolire eccessivacie, la Corte non saprebbe ignorare che, poteri che, in determinate circostanze, promuovono mente la sanzione, a discapito del suo dopo la Cassazione, le violenze della azioni illegali su mandati non presentabili formalmente. effetto preventivo e dissuasivo [...] Scuola diaz-pertini, di cui il richiedente è Ora perciò chiediamo a Sabella di circostanziare le sue per quanto attiene alle misure disciplistato vittima, sarebbero state perpedichiarazioni affinché si possano riaprire le indagini per nari, la Corte ha detto a più riprese che, trare a scopo punitivo, uno scopo di rapindividuare i responsabili più alti di reati dai contorni nel momento in cui dei funzionari dello presaglia volto a provocare l’umiliazione eversivi, e chiediamo che sia aperta finalmente quella Stato (forse per noi ppuu) sono incole la sofferenza fisica e morale delle vitcommissione d’inchiesta parlamentare che già nel 2001 pati di infrazioni che implichino un trattime [...] e nel 2007 le forze di governo non sono riuscite ad avtamento sfavorevole, è importante che in conclusione, con riguardo all’insieme viare. Solo in questo modo potremo contribuire a far risiano sospesi dalle loro funzioni durante delle circostanze esposte sino a qui, la salire la china della democrazia a questo paese, l’istruttoria o il processo e che siano riCorte ritiene che il trattamento subìto ripartendo da Genova.

Alla scuola Diaz lo Stato si macchiò di tortura

dal richiedente all’atto dell’irruzione delle forze di polizia nella scuola diaz – pertini debbano essere qualificati come

mossi in caso di condanna.

*Corte europea dei diritti dell’uomo

Gianluca Peciola

Capogruppo di SEL in Campidoglio


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“Bella Ciao”, la nostra odissea a viale Mazzini

IL PRIMO FILM A RACCONTARE SENZA CENSURE I FATTI DI GENOVA

Lena, giovane tedesca, esce dalla scuola Diaz completamente maciullata dalle botte (reuterS)

da il manifesto del 10 aprile 2015

MARCO GIUSTI

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di

ì. La penso come Carlo Freccero. Sarebbe giusto che Rai Uno trasmettesse in prima serata Bella Ciao, il documentario sul G8 di Genova che realizzammo io, Roberto Torelli e Carlo Freccero, allora direttore di Rai Due, e che da allora non è mai stato trasmesso da una rete generalista. Né, malgrado le tante richieste, dopo la proiezione a Cannes nel 2002 nel più totale disinteresse aziendale ma nella luce fin troppo clamorosa dei media internazionali, venne mai mostrato a altri festival, rassegne, né ebbe diffusione come film. Sarebbe giusto sia per cosa racconta, sia per come lo racconta, rappresentando anche i sentimenti che provavamo quindici anni fa, sia per una sorta di risarcimento morale per i tanti che ci lavorarono, meravigliosi operatori e tecnici della Rai che ci dettero le immagini da loro riprese che nessuno prima di noi aveva voluto trasmettere, e i tanti videomaker indipendenti che ci passarono le loro riprese per ricostruire una storia terribile di violenza e repressione che ha segnato per sempre gli anni che seguirono.

È una storia complessa. Nell’estate del 2001, con il ritorno di Berlusconi, ma in una Rai ancora in mano al centrosinistra, Zaccaria presidente e Cappon direttore generale, sotto la direzione di Carlo Freccero a Rai Due, stavo realizzando la seconda serie di “Stracult”. Uno dei registi del programma, Roberto Torelli, mi aveva chiesto di seguire il Social Forum che si sarebbe svolto a Genova nei giorni del G8, visto che avevamo deciso di dedicare una puntata al movimento no-global. Roberto avrebbe seguito anche le tre giornate del G8, pronto

Giusti, Freccero e Torelli sono gli unici in Rai ad aver girato in tempo reale un documentario completo sulle giornate, gli scontri e le torture del G8 di Genova nel 2001. Da quell’iniziativa nacque un film, proiettato solo a Cannes nel 2001 e a Fuori Orario nel 2006. La Rai, che l’ha realizzato e prodotto, non l’ha mai voluto trasmettere in un canale generalista. Troppo forti quelle immagini. Immagini vere a riprendere quello che poteva servire non solo alla nostra trasmissione. Avevamo pensato, con Freccero, che era meglio avere una telecamera in più. Ma certo non dovevamo essere noi a fare informazione. Non si sa perché nessuno del gruppo di Santoro, allora a Rai Due, ma in quei giorni in vacanza, e nessun altro da Rai Uno o Rai Tre, tiggì esclusi, avesse voluto seguire il G8 e il Social Forum, malgrado i ripetuti avvertimenti di un possibile scoppio di violenza e la vicinanza con i fatti di Napoli. Così, a due giorni dalla fine del G8, nello stupore generale, mentre Santoro trasmetteva uno speciale sul sushi, eravamo i soli a poter andare in onda, come “Stracult”, delle riprese assolutamente inedite su Genova, che mostravano quello che era accaduto fuori dalla Diaz e gran parte degli scontri. Facendo capire, magari, che avevamo qualcosa in più di quel che realmente avevamo. Il programma, intitolato Bella Ciao, doveva andare in onda mercoledì 25 luglio, ma venne immediatamente sospeso. Il motivo ufficiale, allora, era la mancanza di equilibrio politico. Mancava la controparte. Una cosa buona, però, quel 25 luglio era accaduta. Il Tg1, col ritorno dalle vacanze di Albino Longhi, aveva deciso infatti di mandare in onda nell’edizione delle 20 riprese mai viste degli scontri a Corso Europa relative a sabato 21. Immagini senza commento, fortissime, di una violenza che nessuno sospettava si fosse scatenata da parte della polizia e della guardia di finanza. Immagini che arrivavano però con 5 giorni di ritardo, girate dagli operatori della Rai per i Tg. E arrivavano lo stesso giorno (un caso?) della nostra “sospensione”. Perché non le avevano mandate in onda prima? Intanto, Bella Ciao non era stato cancellato. Così decidemmo di andare avanti con il programma. La vera rivoluzione a Genova

era stata mediatica, decine e decine di telecamere, di operatori esperti e di ragazzi alle prime armi. Era possibile ricostruire ogni scontro, ogni azione. Il materiale più forte, però, veniva proprio dagli operatori della sede Rai di Genova, e ce lo dettero subito. Molti pensavano che la Rai avesse in qualche modo bucato Genova, ma non era vero. Ma c’era anche moltissimo materiale, inedito, che iniziava a uscire dalle piccole società indipendenti presenti a Genova, Charta, Indymedia, Radio Sherwood. Roberto Torelli aveva lavorato tutta l’estate a questa ricostruzione. Io avevo cercato di dare al tutto una forma, un montaggio, diciamo qualcosa di cinematografico. Carlo Freccero ci aveva dato l’idea buona per iniziare: l’attacco alla Diaz, da lì sarebbe partito il racconto delle giornate come un lungo flashback. E ci aveva illuminato sul commento sonoro. Nessuna voce off, nessuna intervista, solo le voci e i rumori veri della strada e una colonna sonora di canzoni rock scelte da una ragazzina, mia figlia Elena, che aveva allora quattordici anni e aveva appena finito la quarta ginnasio (oggi ne ha ventotto e insegna Latino a Cambridge). I Blonde Redhead, gli International Noise Conspiracy, i Kent, i Tool, i Blur. Quello che sentivano i ragazzi. La musica funzionava per ricostruire l’energia giovanile che si deve essere sentita a Genova. Così, alla fine di agosto, eravamo pronti alla messa in onda, o a presentarlo a un festival importante come Venezia. Chiamai l’allora direttore della Mostra, Alberto Barbera, un mio caro amico. Senza neanche vederlo, mi disse che lui e l’allora presidente Baratta (gli stessi che ci sono oggi), per motivi diversi avevano deciso di non presentare nessuna immagine di Genova a Venezia, né nostra né della pattuglia dei cineasti italiani capicontinua a pagina 26 ➔


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RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA

L’integrazione è possibile. Parola di Alessandra

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da l’Unità del 27 marzo 2014

lessandra Ballerini è un’avvocata. Non di quelle che si occupano di fallimenti societari, oppure di tributi o di assicurazioni. Alessandra Ballerini è una di quei professionisti che hanno deciso di occuparsi delle persone, prima ancora che dei loro guai giudiziari. E che ha anche voglia di raccontarle, quelle vite. Lo fa nel volume La vita ti sia lieve - Storie di migranti e altri esclusi edito da Melampo. Sono brevi racconti, tutti basati sulla sua esperienza come consulente di Terre des Hommes, di un centro antiviolenza per donne maltrattate, di uno sportello della CGIL e molto altro ancora. Quello che colpisce, nel suo libro, sono i nomi. Lei, da sempre occupata a difendere i diritti degli ultimi, forse non ci ha fatto nemmeno caso. Per chi invece è abituato a parlare di persone come fossero numeri - e numeri sgradevoli, da sottrarre se non da cancellare - leggere queste storie e associare loro dei nomi può rappresentare un grande esercizio di educazione alla civiltà. Ballerini ci parla di Omar, bambino ➔ segue da pagina 25 tanata da Citto Maselli, che fece poi un film deludente sul G8 e sul Social Forum, escludendo quasi del tutto gli scontri. Perché? Paura, pressioni, una distanza un po’ morettistica dai televisivi, un tentativo di non accettare provocazioni di alcun tipo? Boh! Intanto cerchiamo di mandare in onda Bella ciao a metà settembre, quando i ragazzi sono tornati a scuola. Ma dopo l’11 settembre i fatti di Genova erano diventati impresentabili in tv. O, forse, la nuova situazione politica non permetteva questa messa in onda. A novembre, grazie a Steve Della Casa, allora direttore del Festival di Torino, si mostrò per la prima volta Bella Ciao in una versione lunga in video, alla presenza di Heidi e Giuliano Giuliani. Due proiezioni strapiene, di grande intensità emotiva. Intanto, con il cambio di direzione alla Rai, Saccà al posto di Cappon, ogni speranza di mandare in onda Bella ciao era andato perduta, e Freccero era sicuro di andarsene da Rai Due entro la primavera. L’ultima possibilità era Cannes. Con l’aiuto di Italia Cinema, mandiamo un video ai selezionatori. A Cannes non accettavano video, programmi tv, ma se Bella ciao fosse stato trasformato in un film in 35 mm, la cosa sarebbe stata possibile. Dobbiamo però saperlo in tempo per organizzare la stampa, che ha un costo. E dobbiamo farlo

di leucemia, accolto insieme alla madre Samira in una casa di cura. Una delle operatrici della struttura - dove sono stati denunciati abusi sessuali ai danni di una bimba - è sbarcato a Lampedusa con un metalmente piena di livore e cattiveraviglioso falco. Il destino del raro ria da urlare alla Ballerini: «Sei animale sarà diverso da quello del un’irresponsabile a far ottenere alessandra bambino: il falco viene accolto, sfapermessi di soggiorno a questi geballerini mato con i bocconi più prelibati e nitori, tanto poi i bambini muoiono La vita infine tolto al suo legittimo pae questi non tornano più a casa ti sia lieve drone, che sarà invece costretto a loro». Storie di migranti rimanere in un centro d’accoMa per fortuna l’Italia non è solo e altri esclusi glienza, dormire su materassi luquesta, non è solo perquisizioni ilmelampo editore ridi e aspettare, chiuso in gabbia, i legali, centri di accoglienza come 220 pp. € 15,00 documenti. Così come Chideria carceri e caserme che diventano protetta da Dio - che a soli tre mesi di vita con- terra di nessuno. C’è anche la bella Italia, quella divide lo stesso destino di Omar. O Arafat, gio- rappresentata da Carlo, che ospita Alì come vane uomo che durante il viaggio ha visto il fosse figlio suo. O come Terra!, l’associazione fratello annegare, ma cui non hanno concesso che ha creato un orto all’interno del carcere di di riconoscere il corpo per dargli un ultimo sa- Genova e adesso porta avanti un progetto di orti luto. O Zeur, ancora adolescente che ha dovuto a Lampedusa. E come Alessandra Ballerini, ovattendere mesi prima di poter essere affidato viamente. Che magari non riuscirà mai a scriagli zii. La stessa burocrazia che ha bloccato in vere tutto quello che fa, e a raccontarci di tutte Bolivia, per oltre un anno, Pedro. Che di anni le vite che incontra. Ma il solo sapere che fa, è ne aveva 9 e tutta la famiglia qui. motivo di orgoglio e speranza anche per noi. Le storie degli «stranieri» inevitabilmente si inLuigi Manconi, Valentina Brimis, contrano con quelle degli «italiani». E, troppo Valentina Calderoni spesso, sono gli italiani a fare una pessima fiinfo@italiarazzismo.it gura. Come nella storia di Kais, 7 anni e malato stampare prima che Carlo Freccero lasci la rete. Claire Clouzot, allora responsabile de “La Semaine de la Critique” a Cannes ci chiama e ci dice che il film aprirà la sua sezione. Grazie al suo fax, con l’aiuto di Frederick Fasano, riesco a far stampare una copia del film e la vedo il giorno prima dell’addio di Carlo alla direzione di Rai Due. È uno strazio, ma il film è pronto. Tutto regolare, aziendalmente. Bella Ciao può andare a Cannes, ufficialmente distribuito da Rai Trade e prodotto da Rai Due. Se Rai Cinema, ovvio, non si offre di distribuirlo in sala, lo fa Domenico Procacci della Fandango. Non ce la farà, perché trova in Rai un muro di cavilli che ne impediscono la diffusione e la vendita, ma almeno lo presenterà in anteprima al Politecnico. E da quel suo impegno, magari, nascerà poi il progetto di Diaz. Il film viene presentato a Cannes nell’edizione del 2002 con grande rumore. Prime pagine sui giornali (ricordo l’Aspesi su Repubblica), fischi a Sgarbi, presente in sala, che rimprovera al film di essere di parte (“non si sentono i genovesi…”). L’intero staff di Rai Cinema, che presentava lì L’ora di religione di Bellocchio, ci evita accuratamente. E un po’ anche il cinema italiano impegnato che, Procacci a parte, non vede di buon occhio il fatto che dei televisivi facciano un film e lo portino a Cannes. Guai a far della politica, per carità. Inoltre, allora, un documentario non aveva ancora il diritto di essere visto in un festival. Ci

chiedono in tanti di distribuire il film all’estero, di presentarlo in altri festival. Ma il permesso ci viene sempre negato. Dopo la Fandango anche la Teodora vuole distribuire il film. Ma la risposta è sempre no. Bella Ciao è un film scomodo su una storia ancora più scomoda, con immagini che non devono essere viste, ma che in mille modi si vedranno e circoleranno in rete o in mille altre proiezioni. Ma le tre reti generaliste della Rai non lo manderanno mai in onda come doveva andare. Finirà alle tre e mezza di notte su Rai Tre il 29 luglio del 2006 con una presentazione poco simpatica di Ghezzi. Poi Santoro, ritornato in Rai, deciderà di usarlo a pezzi dentro una puntata di “Anno Zero” dedicata a Genova. Infine Carlo Freccero, diven tato presidente di Rai Sat, lo manderà in onda su Rai Sat Movie nel luglio del 2008. Non era quello che volevamo. Bella Ciao avrebbe dovuto essere un motivo d’orgoglio per la Rai, un programma ideato e concepito da uomini dell’azienda, con operatori interni, talmente forte che diventa un film e viene presentato a un festival come Cannes e viene richiesto in tutto il mondo. Non del materiale da rimontare a piacimento dentro altri programmi. Ma un caso unico nel panorama televisivo e cinematografico italiano. E tale è rimasto. Nel bene e nel male. Marco Giusti


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La fuga dall’Africa dei profughi bambini

SONO SEMPRE DI PIÙ I MINORI CHE ATTRAVERSANO IL MEDITERRANEO DA SOLI

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di

CARLO LANIA

da il manifesto del 20 maggio 2014

evi essere molto coraggioso o molto disperato se a 12 anni decidi di lasciare tutto e attraversare il mare da solo. Di mollare il villaggio in cui sei nato, casa, famiglia, amici e partire. Bassey forse era un po’ tutte e due queste cose quando l’anno scorso decise di lasciare l’Eritrea e provare a venire in Europa. A spingerlo a fuggire è stata la certezza di non avere più un futuro davanti a sé, perché il regime di Asmara obbliga i giovani ad arruolarsi e a sparare a chi cerca di scappare attraversando la frontiera con il Sudan e con l’Etiopia. Lui, che sognava di fare l’ingegnere. Così un giorno di marzo è uscito da scuola e, senza avvisare la famiglia e con i soldi che gli avevano mandato

i fratelli maggiori, già fuggiti in Francia e Israele, è scappato. Da solo, ma come tanti altri. Ogni anno migliaia di bambini lasciano il Paese di origine da soli per arrivare in Italia con la speranza di riuscire poi a raggiungere il Nord Europa. Hanno dai 12 ai 17 anni e nelle statistiche sono indicati come «minori non accompagnati», per distinguerli da quelli che lo stesso viaggio lo fanno in compagnia di uno o più familiari, e sono la maggioranza: 2.744 solo nei primi quattro mesi di quest’anno, contro i 1.104 bambini arrivati con la famiglia o comunque con un adulto che si è preso cura di loro. Un fenomeno in crescita, se si considera che nei primi 8 mesi del 2013 sono stati 1.257. Fuggono da dittature, come Bassey, ma anche da guerre, persecuzioni e fame, tracciando così una mappa della disperazione in cui sono immersi molti Paesi africani ma non solo. Secondo i dati raccolti da Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, e Save the Children, la maggioranza di loro, 982, proviene dall’Eritrea, 389 dalla Somalia, 345 dalla Siria, 301 dall’Egitto, 236 dal Gambia, 100 dal Mali e 77 dal Sub-Sahara. I motivi per cui si trovano a dover affrontare da soli un viaggio che dura mesi e che li espone a pericoli enormi, sono i più vari. «Molto dipende dalla nazionalità», spiega Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr Italia. «I bambini siriani, ad esempio, vengono mandati avanti dalle famiglie perché per loro il viaggio costa meno, 800– 1.000 dollari contro i 1.500 dollari chiesti per un adulto. E lo fanno nella speranza di riuscire a ricongiungersi in seguito con loro. Diverso il caso dei bambini egiziani, molti dei quali già vivono per strada nel loro Paese e partono alla ricerca di un lavoro o comunque di una possibilità di vita migliore». Viaggi a dir poco difficili. Chi ce la fa spesso rac-

conta storie in cui dominano violenze e ricatti. Come Bassey. «Dopo essere rimasto cinque mesi in un campo in Etiopia — racconta Alessio Fasulo, coordinatore degli interventi per la frontiera Sud di Save the Children, che ha raccolto la testimonianza — Bassey è arrivato in Libia dove non è mai uscito di casa per paura di subire violenze. Per arrivare in Italia aveva concordato un prezzo di 1.600 dollari, ma in Libia i trafficanti hanno preteso altri 500 dollari per proseguire il viaggio». Una volta lasciato il proprio Paese, gli eritrei hanno due soli percorsi da seguire per arrivare in Europa. Il primo passa per il Sinai

Provengono da Eritrea, Somalia ed Egitto, ma anche da Mali e Gambia. Si lasciano alle spalle guerre e fame e viaggiano per mesi, rischiando di essere rapiti, torturati e violentati. Nonostante questo partono, nella speranza di arrivare in Europa e Israele. Il secondo per il Sudan e Libia. Entrambi sono pericolosissimi. Nel Sinai infatti opera da tempo una banda di beduini che rapisce i migranti chiedendo poi un riscatto alle famiglie per liberarli. Un traffico che secondo il rapporto «The Human Trafficking Cycle: Sinai e beyond», scritto dalla docente universitaria Miriam van Reisen, dalla giornalista Meron Estefanos e da Alganesh Fisseheye, presidente dell’ong Gandhi, negli ultimi cinque anni ha fruttato ai banditi 600 milioni di dollari grazie a violenze terribili. «Una ragazzo eritreo — ricorda ancora Carlotta Sami — mi ha raccontato di aver visto morire davanti ai suoi occhi un amico al quale avevano dato fuoco. I migranti vengono torturati dai trafficanti che chiamano al cellulare le famiglie chiedendo soldi per liberarli. Un altro ragazzo, sempre eritreo, mi ha detto invece di essere stato rinchiuso in Libia in capannoni dove la sera arrivavano le milizie che torturavano gli uomini e violentavano le donne». continua a pagina 28 ➔


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➔ segue da pagina 27 Proprio le donne rappresentano un altro capitolo doloroso. Si calcola che il 20% di quante riescono ad arrivare in Italia abbiano viaggiato da sole e una percentuale molto alta di loro è incinta, conseguenza delle violenze subite nei mesi trascorsi prigioniere in Libia. «Dopo l’ultimo sbarco abbiamo avuto donne in stato di choc che parlavano da sole — denuncia Carlotta Sami -. Sarebbe importante offrire a donne e bambini un’assistenza psicologica al momento della prima accoglienza, e questo purtroppo non avviene». Ma chi ce la fa rivendica ancora il diritto a fuggire. E i bambini che hanno attraversato il Mediterraneo non accettano di fermarsi in una delle strutture di prima accoglienza che li ospitano dopo essere sbarcati in Sicilia. Sempre Save the Children ha denunciato come degli 800 minori arrivati via mare a Porto Empedocle, Catania e Augusta tra il 9 e il 14 aprile scorsi, almeno 500, in maggioranza eritrei, somali ed egiziani, sono fuggiti. «I minori che arrivano nel nostro Paese — ha spiegato nei giorni scorsi Raffaela Milano, direttore dei programmi Italia-Europa dell’associazione — il più delle volte vogliono raggiungere mete già prestabilite, in Italia o all’estero, dove trovare lavoro e condizioni di vita migliori. Viste le difficoltà a ottenere in modo legale e tempestivo un ricongiungimento familiare e il caos assoluto che regna nelle strutture adibite alla prima accoglienza, i ragazzi decidono di scappare e di affrontare il viaggio affidandosi spesso ad adulti che speculano sulla loro condizione». Il rischio per questi bambini è infatti che, una volta giunti finalmente in Europa, possano finire nelle mani di chi punta soprattutto a speculare su di loro sfruttandoli sessualmente o come manovalanza in nero.

a Cura di

MAURIZIO GHEZZI

Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, / loro lo sanno già che esistono. / Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere.

G.K. Chesterton

La stupidità è versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità, invece, ha un abito solo e una sola strada. È per questo che è sempre in svantaggio.

Musil (da L’uomo senza qualità)

Ma io vorrei morire anche stasera / e che voi tutti moriste col viso nella paglia marcia / se dovessi un giorno pensare / che tutto questo fu fatto per niente. Renato Viganò partigiano combattente

RAPPORTO SHOCK: UNA VIOLENZA DELLO STATO

Amnesty sull’Egitto: «Si fa politica sulcorpodelledonne»

da il manifesto del 21 gennaio 2015

N di

GIUSEPPE ACCONCIA

on usa mezzi termini Amnesty International per definire la violenza contro le donne in Egitto. Secondo il rapporto Circoli infernali. Violenza pubblica, domestica e statale contro le donne in Egitto, «la violenza contro donne e ragazze ha raggiunto un livello impressionante» nel Paese nord-africano, sia tra le mura domestiche sia in pubblico, comprese le aggressioni di gruppo e la tortura nei centri di detenzione. Le carenze legislative e un’impunità radicata vengono citate come le prime cause che alimentano l’esecrabile fenomeno, al centro dell’attenzione mediatica dopo le rivolte del 2011. «In ogni aspetto della loro vita, di fronte alle donne egiziane si presenta lo spettro della violenza fisica e sessuale», argomenta il report. L’analisi del think tank riferisce di gravi violenze a cui le donne egiziane sono sottoposte tra le mura domestiche: vergognosi pestaggi, aggressioni e violenze da parte di mariti e parenti. Mentre in pubblico, le donne subiscono «costanti molestie e aggres sioni di gruppo» cui si aggiunge la violenza degli agenti statali, ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del programma Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty. Negli ultimi mesi, le autorità egiziane hanno annunciato alcune iniziative specifiche, come l’introduzione di una legge contro le molestie. Eppure, nonostante le promesse reboanti del presidente Abdel Fattah al-Sisi (contro di lui il filosofo statunitense, Noam Chomsky ha previsto una «terza rivoluzione»), che come primo atto dopo la vittoria elettorale ha visitato una donna vittima di molestie, non esiste una strategia concreta di contrasto alle violenze sulle donne. Le autorità continuano «a non riconoscerne la dimensione e non assumono le misure necessarie per fermare la violenza contro le donne e la radicata discriminazione nei loro confronti», denuncia Amnesty. Non solo, sono state spesso le autorità a usare il tema della violenza contro le donne per guadagnare vantaggi politici nei confronti dei loro avversari. Ne sono un esempio le accuse mosse contro i Fratelli musulmani

di aver attaccato le donne in piazza Tah rir, rivelatesi strumentali alla loro deposizione. Oltre il 99 per cento delle donne e delle ragazze egiziane, che hanno preso parte a un sondaggio di UN Women nel 2013, ha riferito di aver subìto una forma o un’altra di molestia sessuale. Le aggressioni sessuali e gli stupri, specialmente al Cairo nel corso delle manifestazioni di piazza Tahrir e dintorni, sono aumentati nel corso delle rivolte che hanno attraversato il Paese. «Le vittime sono circondate, spogliate, trascinate via e picchiate, accoltellate e colpite con le cinture. Le autorità non agiscono come dovrebbero per impedire gli attacchi o per proteggere le donne dalla violenza», continua Amnesty. Il think tank denuncia anche il deplorevole trattamento cui sono sottoposte le donne al momento dell’arresto e durante la custodia. Nessuno dimentica il caso delle 17 attiviste sottoposte a test della verginità nel marzo 2011 dai militari che le avevano arrestate. Molte altre donne hanno riferito di essere state sottoposte a maltrattamenti e torture da parte delle forze di sicurezza durante l’arresto e di aver subito violenze sessuali. Una detenuta ha riferito di essere stata costretta a sdraiarsi di fronte ad altri prigionieri e di essere stata frustata sui piedi. I trattamenti disumani o degradanti non sono risparmiati neanche a molte donne in gravidanza, costrette a partorire ammanettate. Infine, il sostegno alle donne che hanno subìto violenza sessuale e di genere è pressoché inesistente. Coloro che intendono presentare denuncia devono combattere contro il disinteresse delle forze di sicurezza e della magistratura e l’inadeguatezza delle leggi, che non criminalizzano esplicitamente la violenza domestica e lo stupro coniugale. Una legislazione fortemente discriminatoria in materia di divorzio costringe molte donne a restare intrappolate all’interno di una relazione violenta. Mentre un uomo può divorziare in modo unilaterale e senza fornire giustificazioni, una donna o rinuncia ai diritti in materia economica e accetta il khol (una forma di divorzio in cui al marito non viene addossata alcuna colpa), oppure deve prepararsi ad affrontare una lunga e costosa battaglia legale per provare il danno arrecatole dal marito.


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IL PENSIERO DI KHALID CHAOUKI

Dare voce all’Islam moderato

da iAmnesty del gennaio 2015

interviSta a Cura di

Hudea, 4 anni, con la guerra dentro

U

da Corriere Web

n volto di bimba con lo sguardo angosciato e quasi adulto, la piega delle labbra all’ingiù e quelle manine alzate tipiche di chi si arrende: è lo scatto che sta facendo il giro del web, divenendo il simbolo di una guerra terribile. Tra scuole e orfanotrofi bombardati si stima che siano 5 milioni i bambini siriani coinvolti nella guerra tra le forze governative del regime di di Bashar Al Assad e le forze dell’opposizione. E quella piccola di appena 4 anni, condivisa su tutti i social, sta diventando il triste simbolo di questo ennesimo orrore. Ma cosa c’è dietro quell’istantanea? Lo racconta alla Bbc il vero padre della foto, il fotografo turco Osman Sagirli, in un articolo intitolato «The photographer who broke the internet’s heart» (Il fotografo che ha spezzato il cuore di internet). «Avevo una macchina fotografica con un teleobiettivo ingombrante e la piccola, scambiandolo per un’arma, ha alzato le mani in segno di resa». «Pensava che le avrei sparato» racconta Sagirli, spiegando che solitamente alla vista della macchina fotografica i bambini ridono, scappano o si nascondono la faccia. La foto è stata postata dalla fotogiornalista di Gaza Nadia Abu Shaban ed è stata ritwittata 11 mila volte.

Emanuela Di Pasqua

Mariam Solayman, un’attivista egiziana (reuterS)

ELENA SANTIEMMA

Qual è il quadro delle posizioni assunte dai musulmani, in Europa e in Italia verso lo Stato islamico? Di fronte a un primo momento di titubanza, dovuta soprattutto allo sconcerto di fronte a questo fenomeno che in poco tempo ha preso il sopravvento, c’è stata una reazione molto importante, non solo da parte delle istituzioni islamiche, come accaduto in Egitto e in altri Paesi musulmani, ma anche da parte delle persone comuni. Erano anni che non vedevamo centinaia di musulmani manifestare come è accaduto in Inghilterra, in Germania e anche a Milano, oltre alla posizione netta presa dai musulmani della grande moschea di Roma. È una risposta, non solo teologica, come quella di tanti imam, ma anche popolare, anche se non sempre rappresentata bene dai mezzi di comunicazione.

Le azioni dello Stato islamico ripropongono ancora una volta lo stereotipo figlio del post 11 settembre, ma non solo, di Islam uguale violenza. Come possiamo sgomberare il campo da tutto questo e fare passi avanti e non indietro in tema di discriminazione e integrazione? Innanzitutto dando voce a quelli della comunità musulmana che si dichiarano totalmente estranei a questo fenomeno e anzi vogliono essere protagonisti di una società multireligiosa, in nome di un Islam pacifico. Vale a dire la stragrande maggioranza dei musulmani. In secondo luogo, occorre essere molto netti nel condannare qualsiasi forma di discriminazione o di associazione tra i musulmani e il terrorismo, come purtroppo a volte accade nei mezzi d’informazione, che dovrebbero evitare di alimentare questi stereotipi. Inoltre dobbiamo prevedere forme di cooperazione visibili tra i musulmani d’Europa e d’Italia e le altre comunità religiose. Questo, in particolare tra i giovani, per evitare il rischio di radicalismi, che è sempre alle porte, perché è proprio tra i più giovani, purtroppo, che ci sono chiusure e una rivendicazione identitaria che rischia di non aiutare il dialogo in questo momento. Quali sono secondo te le parole d’ordine per migliorare l’integrazione della comunità islamica nel nostro Paese? Occorre stabilire un principio, che il diritto ad avere dei luoghi di culto visibili e alla luce del sole è il miglior modo per avere una comunità musulmana realmente integrata nella società. Dobbiamo impegnarci per dare cittadinanza a un Islam italiano che vuole sentirsi parte della comunità. Impedendo la marginalizzazione e il degrado possiamo rimuovere ogni possibilità di crescita del fondamentalismo e dell’estremismo. Una piena cittadinanza a un Islam italiano significa un lavoro comune per un modello di società che escluda le forme di radicalismo. In Italia invece, ancora oggi, assistiamo a una voglia di emarginazione delle comunità islamiche, anche rispetto ai luoghi di culto. Questo non può che portare a un clima di chiusura e favorire i gruppi estremisti che, in modo scientifico, sfruttano la discriminazione per fomentare, soprattutto tra i più giovani, un senso d’identità contrapposto al Paese nel quale sono cresciuti.

Khalid Chaouki è giornalista professionista e responsabile nazionale nuovi italiani per il partito democratico. È attualmente deputato in parlamento, membro della Commissione esteri della Camera dei deputati e, dall’aprile 2013, presidente della Commissione Cultura dell’assemblea parlamentare unione per il mediterraneo. tra le altre cose, ha fatto parte della Consulta per l’islam italiano istituita presso il viminale.


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Quando i tempi diventano d

DANTE DI NANNI, ONORINA BRAMBILLA PESCE, GIOVANNI PESCE, GINO BARTALI: PERSONE CHE NON SI SO

In copertina abbiamo raffigurato quattro personaggi, tra i tanti che avremmo potuto scegliere per parlare di Resistenza in bicicletta. Ne accenniamo dei brevi ritratti, raccontando cenni delle loro storie di antifascisti resistenti.

L’ultima battaglia di Dante

D

ante Di Nanni era un operaio-studente torinese. Arruolato come volontario a 15 anni negli avieri motoristi, dopo l’8 settembre 1943 si dà alla macchia, prima in una formazione partigiana di montagna, poi nei GAP di città, con Giovanni Pesce “Ivaldi”. Imprendibili, girano per Torino in bicicletta, compiendo in agilità sopralluoghi e azioni temerarie. Nella notte tra il 16 e il 17 maggio 1944 il loro gruppo compie un’azione per sabotare una stazione radio Eiar che disturba le trasmissioni di Radio Londra. In quattro disarmano i nove carabinieri di guardia, lasciandoli poi liberi sulla promessa che non avrebbero dato l’allarme. Questi, invece, allertano i camerati che giungono in forze e ingaggiano un intenso conflitto a fuoco. I quattro gappisti vengono tutti feriti, due di loro sono catturati. Di Nanni, colpito gravemente da sette proiettili, viene fortunosamente messo in salvo

dal comandante Pesce, che lo ricovera in un appartamento, base dei GAP, in attesa di un ricovero in ospedale. Ma fascisti e nazisti, avvertiti da un delatore, circondano la casa. Dante Di Nanni organizza allora la sua ultima battaglia solitaria, uno contro cento. Nove morti tra i fascisti e i nazisti, diciassette feriti: tutti centrati da lui, in una girandola di colpi precisi, davanti alla staffetta Irene Cauteri “Ines”, con gli occhi lucidi mischiata tra la folla per strada. «Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l’ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola, da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L’ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si

Dante Di Nanni (Stormy Six, 1975)

Nel traffico del centro pedala sopra il suo triciclo e fischia forte alla garibaldina. Il carico che piega le sue gambe è l’ingiustizia, la vita è dura per Dante di Nanni. All’alba prende il treno e c’è odore di porcile sui marciapiedi della sua pazienza, e nella testa pesano volumi di bugie. La sera studierà, Dante di Nanni.

Trent’anni son passati, da quel giorno che i fascisti ci si son messi in cento ad ammazzarlo. E cento volte l’hanno ucciso, ma tu lo puoi vedere: gira per la città, Dante di Nanni.

L’ho visto una mattina sulla metropolitana e sanguinava forte, e sorrideva. Su molte facce intorno c’era il dubbio e la stanchezza, ma non su quella di Dante di Nanni. Trent’anni son passati, da quel giorno che i fascisti ci si son messi in cento ad ammazzarlo e ancora non si sentono tranquilli, perché sanno che gira per la città, Dante di Nanni.

vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio».* *Irene Cauderi, citata in Giovanni Pesce, Senza tregua - La guerra dei GAP, Feltrinelli, 1967, ristampa 2005, pagg. 144-145

La Bianchi celeste di “Sandra”

Onorina Brambilla detta Nori, nome di battaglia “Sandra” Anche per Onorina Brambilla giunge il tempo delle scelte. In sella alla sua Bianchi color celeste, durante gli scioperi del 1943 nelle fabbriche milanesi, Onorina trasporta i volantini che inneggiano alla ribellione. Con la madre Maria, nome di battaglia “Tatiana”, Onorina aderisce ai Gruppi di difesa della donna, una rete antifascista formata da sole donne. Onorina distribuisce l’Unità


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o duri, chi fa la Storia pedala SI SONO TIRATE INDIETRO QUANDO LA COSCIENZA HA CHIAMATO

E fu nel giornale dei Gruppi Noi Donne che lessi per la prima volta la parola “emancipazione”. *

*Onorina Brambilla Pesce, Il pane bianco, Edizioni Arterigere, pp. 84-85

I tre partigiani sono già lontani...

Giovanni Pesce, nomi di battaglia “Ivaldi" e “Visone” Il secondo colpo di mano è un attentato dinamitardo contro un locale gremito di tedeschi e fascisti. È il 2 gennaio 1944. Andrea si accende una sigaretta, attiva la miccia con la brace. Giovanni deposita l’ordigno sul davanzale. Antonio, in funzione da palo, li attende alle biciclette. Dopo pochi secondi si sente forte e chiaro il boato fragoroso della bomba. I tre partigiani sono già lontani, pedalano tranquilli in corso Stati Uniti.*

Il velocipede, un mezzo da tenere sotto controllo il fascismo arrivò a regolamentare anche l’uso della bicicletta (o velocipede, com’era definito). ne consentiva l’uso “unicamente per specifiche necessità di lavoro” ed esibendo l’apposita tessera col “permesso di circolazione”.

umberto grati

clandestina. Sono le sue prime azioni da resistente. Quando conosce Giovanni Pesce, ora a capo dei GAP milanesi col nome di battaglia “Visone”, ne diventa la staffetta preferita. Così Nori diventa ufficiale di collegamento del Terzo GAP “Egisto Rubini”. Lei ha compiti operativi durante le azioni: trasporta esplosivo e armi da una parte all’altra della città, dispacci cifrati e informative riservate diretti ad altri distaccamenti partigiani, realizza appostamenti, sopralluoghi, passa indenne tra i posti di blocco di fascisti e nazisti, sempre con la bicicletta Bianchi color celeste, sempre per conto di “Visone”. Dopo il lavoro, o la domenica, mi recavo in recapiti prestabiliti, dove lasciavo il materiale che poi sarebbe stato ritirato da qualcun altro, che a sua volta lo avrebbe consegnato ad altri, e così via. Era una catena di sant’Antonio della quale ignoravo i passaggi per ovvie ragioni di sicurezza. A quel tempo si rischiava la pelle anche solo per un volantino trovato in tasca... La partecipazione della donna alla Resistenza fu dovuta principalmente a motivazioni personali. A differenza di molti uomini che scelsero di andare in montagna per sottrarsi all’arruolamento dell’esercito di Salò, nessun obbligo militare costringeva le donne a una scelta di parte. Mai come in quei mesi ci siamo sentite pari all’uomo. Paradossalmente con la guerra si crearono le condizioni di una libertà personale mai sperimentata prima...

*Daniele Biacchessi, Giovanni e Nori - Una storia di amore e di Resistenza, edizioni Laterza 2014, p. 58

Il corriere “giusto” è il campione

Gino Bartali, il grande campione di ciclismo, è stato dichiarato “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem, il sacrario della Memoria di Gerusalemme. Lo si legge sul sito dell’organizzazione. La decisione riconosce l’impegno di Bartali a favore degli ebrei perseguitati in Italia. Bartali durante l’occupazione tedesca percorreva le campagne nascondendo nella canna della bicicletta documenti falsi necessari a mettere in salvo le persone in pericolo. Lo Yad Vashem spiega. Bartali, «un cattolico devoto, nel corso dell’occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’Arcivescovo della città cardinale Elia Angelo Dalla Costa». Quest’ultimo è stato già riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” da Yad Vashem. «Questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell’occupazione tedesca e all’avvio della deportazione degli ebrei, ha salvato - prosegue Yad Vashem - centinaia di ebrei locali ed ebrei rifugiati dai territori prima sotto controllo italiano, principalmente in Francia e Yugoslavia». Bartali ha agito «come corriere della rete, nascondendo falsi documenti e carte nella sua bicicletta e trasportandoli attraverso le città, tutto con la scusa che si stava allenando. Pur a conoscenza dei rischi che la sua vita correva per aiutare gli ebrei, Bartali ha trasferito falsi documenti a vari contatti e tra questi il rabbino Cassuto».


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rano altri tempi, settant’anni fa. E che tempi! L’Italia era a pezzi, distrutta dai bombardamenti della guerra e dalle restrizioni causate dalle scelte megalomani di un regime privo di senso storico e succube della follia nazista. La miseria annichiliva le classi popolari; solo chi non si faceva scrupoli a vendere la propria dignità a un potere basato sulla soppressione di ogni espressione di libertà, godeva di un tenore di vita privilegiato. Anche sulle strade erano ben poche le automobili in circolazione. Il popolino viaggiava per lo più a piedi o in bicicletta; dove passava, si attaccava al tram - spesso letteralmente, tanto erano affollate quelle carrozze. La bicicletta, dunque, era il mezzo più economico e veloce che quasi tutti potevano permettersi. Anche chi militava nelle fila dei ribelli, soprattutto nelle città e nelle campagne di pianura, la usava per i propri spostamenti. Ci sono racconti di temerarie azioni gappiste condotte a buon fine anche grazie all’agilità di spostamento che la bici, e le buone gambe, permettevano. Alcune di questi personaggi li abbiamo raffigurati nel disegno di Umberto Grati e li ricordiamo nelle pagine interne (30 e 31). Domenica 19 aprile anche noi ci metteremo in sella, con il pensiero rivolto a loro, ai partigiani nostri liberatori, valorosi anche sui pedali.

il fiore del partigiano

Agili e veloci, anche sui pedali hanno fatto la Storia

il fiore del partigiano

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA ZONA DELLA MARTESANA

Redazione: presso la sede della Sezione Quintino di Vona di Inzago (MI) in via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad ANPI Oggi Direttore responsabile:  Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti (formato pdf). Email: fiorepartigiano@gmail.com

Partendo da destra, in prima pagina, Dante Di Nanni, nella sua triplice personalità di giovane operaio-studente e gappista; Onorina Brambilla Pesce, staffetta; Giovanni Pesce, mitico comandante dei GAP; Gino Bartali, campione anche di staffetta


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