Il Fiore del Partigiano - settembre 2015

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Settembre 2015

Anno 6 numero 17

I TEMI DELL’AUTUNNO

È DI NUOVO FESTA!

La Divisione Fiume Adda dell’ANPI vi dà il benvenuto alla seconda Festa di Zona delle sue Sezioni. Torna l’appuntamento di fine agosto, da giovedì 27 a domenica 30, a Truccazzano, ospiti della Cooperativa Très bien. Brinderemo, canteremo, discuteremo e ricorderemo chi combattè per la nostra libertà. Inzago celebra il ricordo del martirio del professor Quintino Di Vona, in gemellaggio con Buccino (SA), suo comune di nascita. a pagina 2 il programma e le informazioni ➔

Il prof. Di Vona, ucciso a Inzago il 7 settembre 1944

Lavoro e solidarietà basi della democrazia

S di

FRANCO SALAMINI

iamo ormai alla vigilia di settembre. Ci lasciamo alle spalle le vacanze (chi ha potuto farle), o più semplicemente un periodo di relativa tranquillità, l’agosto in cui si allentano gli impegni e si rallenta la spasmodica frenesia di cui siamo un po’ tutti vittime. Si inizia a programmare l’attività per i mesi a venire; l’ANPI in questi giorni organizza la propria festa di Zona. Si apre così la stagione che vedrà successivamente le singole sezioni della nostra Associazione impegnate sul proprio territorio. continua a pagina 3 ➔


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Settanta volte grazie!

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A TRUCCAZZANO LA SECONDA FESTA DI ZONA - DAL 27 AL 30 AGOSTO

Brindiamo alla Divisione Fiume Adda rinnovando l’impegno antifascista «S

ettanta volte grazie!» La seconda festa della DIVISIONE FIUME ADDA quest’anno si chiama così. Dopo l’esperienza dello scorso anno, dal 27 al 30 Agosto 2015 ci ritroviamo a Truccazzano, presso il cortile della Cooperativa PARTIGIANI E COMBATTENTI, per ricordare il settantesimo anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Ma, mentre celebriamo questa importante ricorrenza, è quanto mai indispensabile che la politica e le Istituzioni, si facciano carico di un orribile fenomeno che sta attraversando il Paese: il vento del razzismo soffia fortissimo sull’Italia e l’odio verso i migranti non è altro che la punta dell’iceberg dei rigurgiti neofascisti, antisemiti e xenofobi, spesso sottovalutati e trattati con sufficienza, per primi da quanti rivestono cariche politiche e pubbliche. Da tempo, infatti, una preoccupante pulsione di estrema destra si avverte in Europa - anche come conseguenza della crisi economica - dando luogo ad atti violenti sempre più spesso mirati a migranti inermi, l’anello più debole nella scala sociale. Scriveva Luis Sepúlveda che «un popolo senza memoria è un popolo senza futuro». La memoria aggrega, è il collante che unisce generazioni, la memoria è la base della storia e del civismo. Ma in Italia la memoria spesso cambia forma, muta la sua pelle, si plasma a seconda degli interessi e dei contesti. Lascia spazio, alle volte, a rigurgiti di nostalgia che in politica trovano terreno nei movimenti che si rifanno al fascismo. C’è poi da considerare con altrettanta preoccupazione che oggi tali inquietanti fenomeni ideologici si manifestano e dif-


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L’anno scorso All’ombra delle querce, nel cortile della Cooperativa Très bien, una bella folla di giovani antifascisti, di attempati militanti, di famiglie con bambini giocosi ha condiviso tavolate, ha ascoltato musica e cantato canzoni, ha seguito con interesse momenti di informazione (qui a sinistra, l’incontro con Saverio Ferrari che verteva sul pericolo della riorganizzazione neofascista favorito dal nuovo rapporto con la lega di Salvini)

fondono liberamente sulla rete e sui social network, dove non esiste alcun filtro; ci sono siti e pagine web che inneggiano al fascismo e al nazismo che hanno decine di migliaia di contatti. Questo è ancor più preoccupante specialmente per quello che riguarda le nuove generazioni, che hanno da una parte libero e facile uso della rete, ma non posseggono spesso strumenti formativi dal punto di vista storico e culturale per avere con tali nefasti messaggi un contraddittorio critico. Riguardo agli aspetti giudiziari, oltre a quelli culturali e sociali che tali vicende pongono, è oramai assodato che in Italia la legislazione vigente (Legge Scelba del ’52 e Legge Mancino del ’93) risulta non essere il più delle volte all’altezza della

sfida, sia dal punto di vista sanzionatorio, sia sotto il profilo preventivo. Per questo è urgente che il Parlamento si faccia carico di un nuovo provvedimento legislativo, che riformi l’attuale normativa in materia e che possa essere efficace non solo nella sanzione della violenza, ma anche nell’azione culturale ed educativa della nostra Repubblica. Il fascismo è reato! Siano di monito le parole del Presidente Sandro Pertini: «Il fascismo non può essere considerato una fede politica... il fascismo è l’antitesi di tutte le fedi politiche, perché opprime le fedi altrui.»

Maurizio Ghezzi

ANPI Truccazzano - Pozzuolo Martesana

I mesi trascorsi sono stati roventi, non solo dal punto di vista meteorologico, ma anche perché il nostro Paese e l’Europa hanno dovuto affrontare questioni nodali per la tenuta della stessa Unione. Il tema della crisi economica - causa di disoccupazione e povertà crescente - e le modalità per superarla che hanno avuto al centro la vicenda greca, il dramma di migliaia di esseri umani che fuggono dalle condizioni disumane in cui vivono per approdare alla “terra promessa” che dovrebbe essere l’Europa. In entrambe le circostanze, l’Europa politica si è dimostrata incapace di sviluppare progetti e programmi che fossero in grado di superare un’asfittica visione esclusivamente nazionalistica o basata su ricette liberiste che si sono rivelate fallimentari, dando così sempre più fiato a nazionalismi beceri e xenofobi. Un esempio per tutti è la Danimarca, che fu l’unico paese europeo in cui i nazisti non riuscirono ad attuare la Shoah - per un’opposizione popolare diffusa ed intransigente -, e che vede oggi al governo una destra pericolosa, cresciuta sulla spinta anti-immigrazione. Possiamo ancora ripetere stancamente l’antico sogno di Altiero Spinelli degli Stati uniti di Europa? Oggi quel sogno assomiglia più ad un incubo. La Germania viene additata come la maggior responsabile delle scelte scellerate dell’Unione Europea, ma le responsabilità vanno equamente suddivise tra tutti i governi che per ignavia, opportunismo o incapacità hanno condiviso quelle scelte. Non ne è immune il nostro governo, che ha approvato o sta approvando “riforme” di carattere istituzionale ed economico che farebbero impallidire le destre che in passato hanno governato il nostro Paese. In questo quadro a tinte fosche non ho voluto affrontare il problema fondamentale ed endemico, che genera i mali del nostro Paese: la presenza delle maggiori mafie mondiali, la loro collusione con gli apparati dello Stato, la politica e l’economia. Eppure in questa realtà vi sono anticorpi forti e diffusi che ogni giorno fanno la loro parte per migliorare le comunità in cui operano, per cercare di frenare la deriva a cui sembra destinata l’Italia. Una democrazia in pericolo? Ormai si sprecano gli appelli, ma siamo sicuri di esser ancora – se mai lo siamo stati – nella democrazia prevista dalla nostra Costituzione? Certo non siamo in una dittatura, ma quando le istituzioni e chi le rappresenta sono così distanti, così estranee alla maggioranza della popolazione, quando si crea una cesura tra il dibattito politico e la vita reale dei cittadini, potremmo definirla, io credo, una fase post democratica. Quando i cittadini non sencontinua a pagina 5 ➔


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Sì, è stato davvero u

IN TANTI, GIOIOSI E CONVINTI, ALLA BICICLETTATA PARTIGIANA DELLO SCORSO 19 APRILE

Fotocronaca. Partiti da Cassano e da Cernusco, i due gruppi di ciclisti hanno seguito l’alzaia del Martesana, sostando in tutti i comuni per un ricordo ai cippi dei martiri locali. Il corteo di biciclette, ad ogni tappa sempre più rinfoltito, si è diretto al Giardino comunale di Pessano, atteso dal coro “Suoni e l’Anpi”


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il fiore del partigiano

Servizio fotogrAfico di SilviA euli e mArco cApettA

o un bel pedalare

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tono la necessità, se non in percentuali sempre più ridotte, di esercitare il proprio diritto di voto e la quasi totalità di coloro che ancora lo esercitano danno la loro preferenza a formazioni politiche che hanno un’idea profondamente diversa di democrazia da quella scritta nella nostra Costituzione, siamo in una fase inedita che ha superato quanto previsto dai Padri Costituenti. Complici anche tecnologie sofisticate e mezzi di comunicazione sempre più diffusi, senza regole, a volte invasivi, che hanno potenzialità stupefacenti, ma che in larga parte vengono utilizzati a solo scopo merceologico o di distrazione di massa. L’ANPI, che fa parte di quella fitta schiera di anticorpi diffusi, può limitarsi ad essere il custode della memoria e della Costituzione, facendosi carico di trasmetterla alle giovani generazioni? Può limitarsi, come dire, ad un compito didattico e narrativo, sicuramente insostituibile ma forse insufficiente, nel passaggio storico che precedentemente ho tentato di esporre? Che fare? Io non ho ricette pronte e sarei uno sciocco solo a pensarlo, ma se la conferenza di organizzazione è stata un’occasione persa, si potrebbe immaginare un congresso straordinario della nostra Associazione, per avviare un’analisi e una riflessione non solo delegata ai gruppi dirigenti, ma diffusa e capillare, aperta alle istanze della cosiddetta società civile e da lì iniziare un percorso che sappia unire alla fase teorica azioni concrete, forti, capaci di coinvolgere tutti quei pezzi di società attivi, ma dispersi. È forse un’ambizione eccessiva per le forze esigue di cui disponiamo; è forse retorico ricordarlo, ma quando Duccio Galimberti assieme a pochi altri formò la Prima Brigata Partigiana, e già chiamarla così sembrava da fuori di testa, certo non avrebbe immaginato che lì stava nascendo la Resistenza armata. Che avrebbe coinvolto migliaia e migliaia di uomini e donne e che alla fine, lui non lo seppe mai, avrebbe avuto la meglio su una dittatura durata troppi anni.


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«Quintino Di Vona: uomo, maestro, partigiano»

GRANDE STUDIOSO, EDUCATORE E COMBATTENTE, LA SUA VITA È STATA TEMA DI

Inzago e Buccino uniti nel suo nome

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Lo scorso anno ricorreva il 70° anniversario del martirio del professor Quintino Di Vona, ucciso a Inzago il 7 settembre del 1944. Alle iniziative per commemorarne la memoria aveva partecipato anche il sindaco di Buccino, in provincia di Salerno, città natale del professore. In quell’occasione maturò la decisione di un gemellaggio tra le due cittadine.

Servizio fotogrAfico di frAnceSco

“ceck” brAmbillA

seguito dell’impegno assunto dal sindaco di Buccino, Nicola Parisi, e dal sindaco di Inzago, Benigno Calvi, il 7 settembre 2014 in piazza Maggiore ad Inzago durante la cerimonia del 70° anniversario della fucilazione di Quintino Di Vona, martire della Resistenza, martedì 18 agosto 2015 nell’aula consiliare del Comune di Buccino (SA), i due sindaci hanno sottoscritto l’accordo di gemellaggio nel nome di Quintino Di Vona. Il professore, nato a Buccino il 30 novembre 1894 e fucilato ad Inzago il 7 settembre 1944 dai nazi-fascisti, fu protagonista e simbolo della Resistenza Italiana. Con questo atto i due Comuni si impegnano a riproporre la figura, la storia, l’esempio di Quintino Di Vona che ha dato la propria vita per gli ideali di democrazia, libertà, giustizia, uguaglianza delle opportunità, ideali che si intendono mantenere e sviluppare soprattutto tra le giovani generazioni. La cerimonia, cui hanno partecipato esponenti dei due Comuni, dell’ANPI di Inzago e Salerno, l’omonimo nipote del professore, un folto pubblico e la d.ssa Carmela Grippo recentemente laureata con una tesi su Quintino Di Vona, si è svolta in un clima di cordialità, amicizia e profonda emozione. L’accoglienza a Buccino della delegazione di Inzago è stata calorosa e fraterna. Le due città, unite in un simbolico abbraccio, si sono scambiate promesse di collaborazione e scambio di esperienze.

Due città, un simbolo. La lapide con cui Buccino onora la memoria del “suo figlio”; sotto, una veduta del suo centro storico. Nella pagina a fronte, dall’alto, la cerimonia di gemellaggio; Carmela Grippo, da poco laureata con una tesi sul professore partigiano; sotto, Di Vona in un disegno di Mirko Pajè (particolare),


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il fiore del partigiano MA DI LAUREA DI UNA SUA GIOVANE COMPAESANA

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LA COMMEMORAZIONE DI INZAGO

Una mostra e un concerto “resistenti”

nella ricorrenza del 71° anniversario del martirio del prof. Quintino di vona, il comune di inzago e la locale Sezione Anpi organizzano:

Rimane un esempio per noi giovani

D

dal sito di UnoTv Sabato 10 Gennaio 2015

opo la celebrazione tenutasi a Inzago (MI) quattro mesi fa a ricordo dei 70 anni passati dal martirio del partigiano prof. Quintino Di Vona, fucilato in piazza maggiore il 7 settembre 1944, la sua figura e il suo pensiero sono stati oggetto di una tesi di laurea universitaria, discussa il 16 dicembre scorso nell’ateneo salernitano. La neo-laureata Carmela Grippo, 24 anni, residente in Palomonte, ha concluso il suo ciclo di studi alla Facoltà di Scienze della Formazione, corso di laurea magistrale in Scienze Pedagogiche, Relatore il Prof. Giuseppe D’Angelo, con un brillante 110 e lode, discutendo la tesi di Storia Contemporanea Quintino Di Vona: uomo, maestro, partigiano. Abbiamo incontrato la neo-dottoressa Grippo per meglio approfondire questo lavoro che sarà certamente di interesse sia per l’ANPI salernitana che per quella inzaghese, nonché per le due amministrazioni comunali di Buccino e Inzago, che hanno inteso stipulare un accordo di gemellaggio sul filo del partigiano Di Vona che le lega. Che idea si è fatta del Prof. Di Vona, sia come intellettuale che come martire della resistenza? «L’aspetto su cui maggiormente mi sono soffermata è quello della docenza. Credo che quello del Prof. Di Vona sia il messaggio pedagogico di un uomo che credeva nelle giovani generazioni, che guardava ai ragazzi come cittadini di domani e considerava la comunicazione intergenerazionale

come l’àncora di salvataggio per un futuro migliore, in cui non sia la legge del più forte a dominare, ma la collaborazione e la cooperazione all’insegna del benessere collettivo. Il vettore principale di tale benessere sociale era per lui proprio l’istruzione: attraverso l’insegnamento era possibile abbattere il muro delle differenze, smussare gli spigolosi angoli delle disuguaglianze sociali, redimere i ceti meno abbienti. Per quanto riguarda la sua attività di partigiano, ciò che si pone in rilievo è la sua alta tempra morale di uomo coraggioso e leale che mai rivelò il nome dei suoi collaboratori, neanche quando, con arroganza e bestialità, il nemico nazi-fascista lo interrogò facendo leva su mezzi brutali di tortura. Il suo contributo, soprattutto attraverso la stampa clandestina, ha permesso di svegliare le coscienze assopite da tanti anni di tacita accondiscendenza. Il 1943 segna un’epoca per la storia del nostro Paese e Di Vona lo sapeva bene, era il momento di agire e lui fu attivo in prima linea». Quanto è ancora attuale il pensiero del partigiano Di Vona alla luce degli accadimenti economici e sociali degli ultimi anni? continua a pagina 8 ➔

Sabato 5 settembre 2015, ore 10.00 presso il Centro De André di Via Piola, 10 apertura della mostra OSSOLA NELLA TEMPESTA - Modellismo e Resistenza a Pombia Domenica 6 settembre 2014 CERIMONIA DI COMMEMORAZIONE

Ore 10.00: dalla sede ANPI in via Piola n. 10, partenza del corteo verso il cimitero con accompagnamento della banda S. cecilia di inzago. deposizione corona d’alloro alla cappella dei caduti e sosta sulla tomba del prof. Quintino di vona.

Ore 11,00: Piazza Maggiore Deposizione corona d’alloro sulla lapide del prof. Quintino di vona. discorsi commemorativi del Sindaco di inzago, benigno calvi e di un rappresentante Anpi. Concerto resistente con il gruppo “terrenote”

Due immagine del diorama in esposizione al De André. Sono riprodotti in perfetta scala azioni militari e deragliamenti di treni da parte di formazioni partigiane avvenute in bassa Ossola dal Giugno al Settembre 1944


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➔ segue da pagina 7 «Oltre la pura trattazione storica, ciò che colpisce e affascina la nostra generazione è sicuramente la grande forza con cui i nostri connazionali hanno lottato per i propri ideali. Dai discorsi di grandi figure storiche è possibile riesumare tutto il loro carisma e la loro determinazione; nonostante il dilagante analfabetismo e la diffusa povertà, nulla poteva imbrigliare il desiderio di riscatto e la voglia di non farsi sottomettere da una politica oppressiva; stupisce la forza con cui uomini e donne facevano valere le proprie convinzioni. È questa la parte più affascinante della Storia contemporanea: il fermento generale, la forza e la determinazione; è così sintetizzabile lo spirito che guida il novecento. Noi giovani dovremmo non semplicemente studiare la Storia, ma usarla come trampolino di lancio per un futuro migliore. Oggi non sono più le camicie nere a imporre con la violenza le proprie leggi, il tiranno ha cambiato volto ma non per questo è meno dispotico. La coscienza sociale dovrebbe smuoversi di fronte alla sofferenza, alla dilagante povertà; giornali e televisione ci mostrano solo quello che vogliono farci conoscere, mettendo a tacere quelle verità che possono risultare scomode, calando così un velo opaco sulla realtà, offuscando la dilagante sofferenza, la disoccupazione, la forte tassazione, tutti fattori che stanno riducendo il popolo italiano – che la Storia ci ha sempre dipinto come fiero e forte – sull’orlo della disperazione; su tutto questo si tace. È necessario andare oltre la semplice lotta politica, è giunto il momento di svegliarsi dal sonno che ha assopito gli animi rivoluzionari. Siamo un popolo di guerrieri, è giunto il momento di dare di nuovo animo alla forza della rivoluzione, quel che serve non è una guerra civile, ma il coraggio di opporsi alla corruzione che quotidianamente si svela, il coraggio di dire no a quel familismo amorale di cui parlava Ernesto De Martino». Dopo la laurea che ha conseguito, cos’ha in progetto per il suo futuro professionale? «Sicuramente il futuro dei giovani di oggi ha i contorni sfocati, non è semplice progettare e progettarsi, è indispensabile elasticità e voglia di continua formazione, unite a tanta determinazione. Per rispondere alla domanda, il mio sogno nel cassetto è stato da sempre l’insegnamento, cercherò di percorrere questa strada. La scuola è un’agenzia formativa il cui scopo, a mio avviso, non è la semplice istruzione, ma deve mirare molto più in alto: essa deve essere vettore di educazione, che – citando Kant – è il “processo di umanizzazione dell’uomo”». Francesca Bruzzese UnoTv

QUANDO L’INFORMAZIONE CUCE L’ABITO SU MISURA AL POLITICO

La lingua malata di stampa e tv

U

di

PIERO BEVILACQUA

da il manifesto del 19 febbraio 2013

niversale risuona la critica e il biasimo ai partiti, alla scadente qualità dei loro linguaggi. Ma quale contributo di riscatto e di elevazione danno ad essi i mezzi prevalenti attraverso cui i partiti ricevono voce e rappresentazione? Quanto e in che modo stampa e tv contribuiscono a rendere evidente la modestia culturale e morale del ceto politico e quanto invece concorrono ad alimentarla? Il problema può essere offerto alla discussione, nella sua voluta parzialità, affrontando aspetti all’apparenza minori. Il primo riguarda il linguaggio: veicolo potente di messaggi, che trasformano in senso comune, in persuasione generale i dettami espliciti o occulti del potere. Si pensi a vulgate all’apparenza banali. L’uso sempre più diffuso del termine governatore per designare il presidente delle nostre regioni, non è solo un modo con cui tanti giornalisti italiani si gonfiano il petto: il presidente del Molise equiparato al governatore della California. Si fa passare l’idea leghista che il nostro sia uno stato federale. Cosa non solo infondata, ma storicamente irrealizzabile, essendo già il nostro uno stato unitario, che non deve “federarsi” per trovare un’unità che già possiede. Non meno importanti gli anglismi utilizzati al posto del nostro vocabolario. Spesso di origine neolatina, si immagina ch’essi assumano una

A curA di

MAURIZIO GHEZZI

Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è diventato così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato Antonio Gramsci (da Quaderni dal carcere)

Finché ci sarà un solo fascista in Italia, non potremo considerarci un paese civile. Norberto Bobbio

mAuro biAni

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patina culturale più elevata allorché vengono deformati dalla lingua inglese. Rammento uno dei lemmi più inflazionati del linguaggio corrente, governance. Eppure quel termine (dal latino gubernare, lett. «reggere il timone») nella storia della nostra lingua ha finito col significare una delle finalità più alte dell’agire politico: guidare le sorti degli uomini uniti in società. Oggi che la parola ha fatto un bagno nel mondo della finanza e delle imprese, caricandosi di significati economici e manageriali, viene utilizzato come se si fosse accresciuto di significato, non invece reso più specifico e unilaterale. Noi abbandoniamo le nostre parole con la loro densa storia e pensiamo di allargare gli orizzonti utilizzando quelle delle élites al comando, senza comprendere il nuovo marchio di potere che recano. Subiamo così una doppia insolenza: mentre i poteri dominanti manipolano ai loro fini le parole del nostro grande passato, noi le riutilizziamo, deformate, per introiettare ideologie del nuovo ordine che esse veicolano. Ma le parole del giornalismo nostrano svolgono ben più importanti compiti. Nel panorama della carta stampata alcune testate offrono un condensato di forme linguistiche (poi diluite nel linguaggio della stampa non specialistica) finalizzato a creare universi psicologici di stampo neoliberista. Si prendano gli inserti Corriere economia del Corsera o Affari e finanza di Repubblica. Qui le titolazioni degli articoli sono un fuoco d’artificio futurista che esalta la velocità, la competizione, le fusioni: «Non si ferma Esaote, anzi aumenta la velocità», «si scatena lo shopping», «corsa alle fusioni». A volte esse mimano le competizioni sportive: «Morandini prepara la staffetta», «L’energia rinnovabile è in corsia di sorpasso». Più spesso vengono curvate in senso bellico e predatorio: «Colao scatena la guerra del “mobile”», «Il Nord Est insorge per non perdere il treno dell’Europa». «Lottomatica alla guerra del Gratta e Vinci». Certo me-


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Naturalmente non è solo questione di linguaggio. Un problema fondamentale dei nostri media riguarda la realtà rappresentata. Le prime pagine dei grandi quotidiani nazionali sono stracolme delle gigantografie dei leader politici immortalati nella loro gestualità sacrale. Mentre gli articoli sono per lo più il racconto aneddotico delle chiacchiere. La tv non è da meno. I telegiornali, di qualunque rete, mettono in scena, ogni sera, una vera e propria apoteosi del divismo del ceto politico, i talkshow sono abitati quasi sempre dagli stessi ospiti di riguardo. Non sottovaluto gli squarci di vita del paese reale che essi offrono. È giusto ricordare che essi hanno interrotto, a partire da Samarcanda di Michele Santoro, un decennio, gli anni ’80, di cancellazione della realtà sociale del nostro Paese dai teleschermi. Ma in queste trasmissioni si mostrano gli operai disoccupati, disperati, sui tetti o sulle gru: quando fanno spettacolo. Mai nella quotidianità dei viaggi in treni sporchi e affollati, delle sveglie all’alba, del lavoro dentro capannoni dove per almeno 8 ore non si vede il cielo e si è assordati dal rumore dei macchinari. È l’ignoranza di questo mondo di dura fatica quotidiana che fa accettare a tanta opinione pubblica le disposizioni di economisti e governanti sugli orari, le pensioni, i salari di una umanità del tutto sconosciuta ai suoi zelanti medici. Ci può essere un effetto di democratizzazione del potere. Tutti possiamo constatare l’umana modestia di chi sta al comando, spesso l’evidente mediocrità. In passato il potere era largamente invisibile e questo rendeva più insondabile il suo enigma. Ma bisognerebbe capire se ciò non accada anche per il fatto che il potere reale, quello che orchestra i nostri destini collettivi, non sia nel frattempo trasmigrato altrove, lasciando apparire in propria rappresentanza solo dei modesti figuranti.

vengo anch’io... 4a edizione

Inzago 18 19 20 settembre 2015

“emozioni di vita” Dal 18 al 25 settembre

Auditorium “Fabrizio De André” Installazione fotografica “Zoom” a cura del Dott. Romeo della Bella

Venerdì 18 settembre

Ore 21:00 Auditorium “Fabrizio De André” Via Piola, 10 Inzago MI Le Cooperative Sociali allo specchio: Saluti dell’Amministrazione Comunale

Introduzione della Dott.ssa Rossella Sacco Consigliere Nazionale FederSolidarietà • Il Granellino di Senapa Inzago • Punto d’Incontro Cassano d’Adda • Archè Inzago • Fondazione Somaschi Inzago • Macramè “La Cooperazione nella Cooperazione“ Dibattito

Conduce la serata Diego Motta, Giornalista

• Introduzione di Francesco Abba di ConfCooperative e Amministratore Delegato Impresa Sociale Welfare Milano

• Vittorio Caglio Coop. Sociale Punto d’Incontro “Come nasce una Cooperativa Sociale” • Giovanni Castoldi di Fondazione Somaschi ONLUS, testimonianze “Perché lavoro nel Sociale...” • Coffee break

• Carmen Crippa Coop. Sociale Archè, motivazioni “... e continuo a lavorare nel Sociale” • Un docente Istituto Bellisario

Domenica 20 settembre

Sabato 19 settembre

Ore 11:00 Auditorium “Fabrizio De André” Via Piola, 10 Inzago MI

“La costruzione di... una Cooperativa Sociale” Con gli studenti e i docenti dell’IPC “Marisa Bellisario“ di Inzago

Ore 18:00 Piazza Maggiore Inzago MI

Ore 09:00 12:30 Auditorium “F. De André” Via Piola, 10 Inzago MI

• Saluti dell’Amministrazione Comunale

“aperitivo tra le righe”

“Le Cooperative Sociali se la suonano e se la cantano” Musica in Piazza con: Eukolia The Pools

“Le Cooperative sfidano tutto, anche la matematica, perché in Cooperativa uno più uno fa tre” Papa Francesco CON IL PATROCINIO DEL

COMUNE DI INZAGO

Info: 0363 361966 - 02 9547653

tafore, anche se talora superano il grottesco: «Armi, navi, jeep tutti senza piloti nelle guerre future.» (Affari &Finanza del 1.2. 2010). Siamo quindi esortati a diventare più veloci, individualisti, competitivi, a incarnare la nuova antropologia di questa modernità da pescecani. Non si comprende, tuttavia, l’efficacia persuasoria di simili titolazioni se non leggendole nella pagina stampata: titoli, foto, piccole o grandi, dei manager, dei capitani d’industria, dei banchieri, divinità del nuovo Olimpo economico-finanziario. Se la ricchezza è frutto delle capacità di comando, dell’energia e dell’astuzia dei singoli, non solo scompare il lavoro sociale come produttore dei beni e servizi, ma viene esaltato l’individuo primeggiante sugli altri quale prototipo antropologico cui modellarsi. Tale divismo imprenditoriale, che in Italia si combina perfettamente con quello calcistico, crea idoli a cui sono consentiti livelli oltraggiosi di arricchimento personale, fortuna e successo da ammirare. Gli stipendi milionari dei calciatori rendono popolare e legittimata la disuguaglianza. Così l’iniquità che lacera il tessuto della società viene sublimata agli occhi della massa dannata dei mortali, riscattabile solo in un possibile al di là: quel luogo dove il caso, l’astuzia personale, il duro lavoro, qualche fortunata vincita può condurre solo pochi eletti.

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Giacomo “Nino” Cibra, il ragazzo partigiano

PIOLTELLO: GLI UOMINI CHE FECERO LA RESISTENZA (2a PUNTATA)

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Continuiamo la pubblicazione, ripresa da un opuscolo curato da Pierino Rossini, dei profili biografici di tre giovani (al tempo della Resistenza) partigiani di Pioltello: Rino Bescapè, Nino Cibra e Cesare Beretta. I primi due parteciparono alla lotta di liberazione fra Pioltello, la zona della Martesana e Milano, il terzo in Piemonte. Rino Bescapè è stato il protagonista della prima puntata, sullo scorso numero del nostro giornale. Cesare Beretta lo sarà del prossimo.

iacomo Cibra, detto Nino, nacque a Lodi il 25 luglio 1926, ma giovanissimo si trasferì con la sua famiglia a Pioltello. Iniziò a lavorare molto presto, a 12 anni, prima come apprendista, poi come operaio in officina e successivamente in fabbrica. Nell’ambiente di lavoro cominciò ad apprendere dai compagni più anziani le prime nozioni ideologiche e politiche sul socialismo, il comunismo e l’internazionale e a maturare una coscienza antifascista. Dopo la caduta del regime fascista, il 25 luglio del 1943, l’Italia fu invasa dalle truppe tedesche che, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, imposero ovunque durissime condizioni di occupazione, con la collaborazione delle formazioni armate della Repubblica sociale italiana, uno Stato “satellite”(o “fantoccio”) fondato da Benito Mussolini e dai gerarchi fascisti a lui rimasti fedeli, sotto il totale controllo politico e militare della Germania nazista. Nino in questo periodo (fine 1943), a soli 17 anni, prese contratto con i primi gruppi di opposizione e resistenza che si erano venuti costituendo nelle città e nei paesi, formati da vecchi antifascisti, da militari italiani sbandati e da giovani che si rifiutavano di combattere per la RSI al fianco dei tedeschi. Sospettato di aver partecipato ad azioni di sabotaggio e requisizione, alla fine del mese di dicembre del 1943 venne arrestato e, benché minorenne, detenuto nel carcere di San Vittore a Milano, fino all’inizio dell’aprile del 1944. Fu liberato grazie all’aiuto di una zia che incaricò a sue spese un avvocato fascista, che riuscì a farlo scagionare.

Nelle formazioni partigiane Nella primavera del 1944, dopo la scarcerazione, Nino collaborò con il gruppo di Pioltello della 3ª Brigata GAP (Gruppi di azione patriottica), che faceva capo a Cesare - detto Rino – Bescapè, militare di Pioltello sfuggito alla cattura da parte dei tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943. Rino Bescapè fu quasi un fratello maggiore di Nino Cibra, un’amicizia che perdurò e si consolidò anche dopo la guerra partigiana. Come già sottolineato in precedenza, la vicenda della 3ª Brigata GAP fu molto travagliata. A causa dell’arresto di Bescapè, il gruppo GAP di Pioltello si sciolse. Dopo un periodo di sbandamento, Nino Cibra e altri compagni della 3ª GAP, sfuggiti agli arresti, attraverso il socialista Alfredo Rurale, presero contatto con il comando generale delle Brigate Matteotti di Milano e furono inquadrati nella 11ª Brigata, costituendone il Distaccamento di Pioltello. La Brigata era già operativa in altri Comuni della Martesana: Cernusco Sul Naviglio, Agrate Brianza, Bussero, Carugate, Pessano con Bornago, Gessate e Segrate. Il Distaccamento di Pioltello fu posto al comando di Antonio Masucci, vice comandante Nino Cibra. I collegamenti con il comando generale furono affidati a tre staffette (Rita Piccoli,

Esterina Ticozzi Rurale, Flavia Tosi). Rita Piccoli abitava presso la Cascina Arzona di Pioltello che fu anche sede del comando e deposito del Distaccamento. Dall’inizio del 1945 al 25 aprile l’11ª Brigata Matteotti fu comandata da Vittorio Galeone (“Ivo”) e fu tra le prime formazioni a entrare a Milano, la mattina del 26, dopo l’insurrezione. Galeone, nelle sue memorie, ricorda la stretta collaborazione nei primi mesi del 1945 con Nino Cibra – divenuto comandante del Distaccamento di Pioltello – e le staffette Rita, Teresina e Vincenzina Piccoli che vivevano con i genitori nella Cascina Arzona – base della Brigata – nota agli abitanti di Pioltello anche come Cascina Rossona. L’impegno, nonostante tutto Nino Cibra, dopo la Liberazione, entrò come altri partigiani nella Polizia di Stato, in fase di riorganizzazione dopo gli eventi bellici. Dopo un breve periodo di servizio, di fatto, fu costretto a lasciare la Pubblica Sicurezza a causa della dura politica di epurazione e discriminazione messa in atto dal Ministro dell’Interno dell’epoca, il democristiano Mario Scelba, nei confronti dei partigiani che erano entrati a farne parte dopo il 25 aprile. Nell’immediato dopoguerra, Nino militò prima nelle file del Partito Socialista Italiano poi in quelle del Partito Comunista Italiano, di cui fu anche funzionario nella zona della Martesana per qualche tempo. Dopo una seria malattia che lo costrinse ad un lungo periodo di ricovero e convalescenza, nel 1952, Nino ricominciò a lavorare in azienda. Riconosciuto ufficialmente partigiano combattente con il grado di vice comandante di distaccamento, fu decorato con la Croce al merito di guerra. La delibera della “Commissione riconoscimento qualifiche partigiani per la Lombardia” fa riferimento alla sola attività svolta nella 11ª Brigata Matteotti e non fa menzione della milizia nella 3ª GAP. Questo fu per Cibra motivo di forte rammarico; tra le sue carte si trovano documenti che lui ha acquisito e conservato al fine della presa d’atto ufficiale anche del periodo di collaborazione con il gruppo dei gappisti di Pioltello, che però non riuscì a ottenere 1. A parere dello scrivente, in ogni caso, la testimonianza di Rino Bescapè, contenuta in una sua dichiarazione del 1946, certifica tale collaborazione, anche se in misura insufficiente per il provvedimento formale.


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Primo maggio 1945. Il giovane Cibra sfila per Pioltello in testa al corteo dei partigiani vittoriosi (il primo a destra della prima fila, per chi guarda)

Non è di questo avviso lo storico Luigi Borgomaneri, il quale ritiene – sulla base delle sue ricerche - che i rapporti di Cibra con Bescapé e Campegi siano stati precedenti all’ingresso di questi ultimi nella 3ª Gap o comunque occasionali, tali da escludere la sua appartenenza alla formazione gappista. La questione resta pertanto controversa. Nino contribuì, in misura determinante, alla fondazione della Sezione di Pioltello dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di cui fu a lungo presidente. Al suo assiduo impegno di dirigente ANPI è dovuta, fra l’altro, la realizzazione del Monumento ai caduti della Resistenza di Pioltello, realizzato nel 1975. Lo stesso impegno egli manifestò promuovendo iniziative di solidarietà sociale, in particolare per quanto riguardava i servizi per disabili. All’inizio degli anni ’80, a causa di divergenze e incomprensioni con la nuova dirigenza della Sezione di Pioltello, Nino si allontanò dall’ANPI, pur proseguendo nella sua continua attività di documentazione e valorizzazione della lotta partigiana a Milano e nel territorio della Martesana. ¹ lo storico Santo peli al riguardo sottolinea come «la documentazione, assai lacunosa, non permette in molti casi di precisare chi siano o a quale organizzazione appartengano gli autori dei disarmi, uccisioni, attentati…», inoltre «anche per quanto riguarda la consistenza dei gruppi attivi nella lotta armata cittadina, bisogna accontentarsi di approssimazioni; né si può fare affidamento sui prospetti delle brigate Sap e gap compilati dopo la guerra…». cfr. S. peli, Storie di Gap – Terrorismo urbano e Resistenza, einaudi, torino, 2014, pag.128.

Nel 2012 una testimonianza di Nino Cibra è stata pubblicata, insieme ad altri ricordi di uomini e donne che avevano partecipato alla Resistenza, nel volume IO SONO L’ULTIMO – lettere di partigiani italiani edito da Einaudi. L’opera, curata da Giacomo Papi, Stefano Faure e Andrea Liparoto, è stata realizzata in collaborazione con l’ANPI al fine di raccontare – anche nei suoi aspetti privati ed esistenziali - «A sessant’anni da Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana, la più grande epopea della nostra storia dalle voci dei suoi ultimi protagonisti» (come recita la quarta pagina di copertina del libro). La partecipazione al progetto Einaudi-ANPI, attuata con l’aiuto dell’Associazione Oltrelepagine e l’Assessorato alle Culture di Pioltello, contribuì, fra l’altro, anche a un suo riavvicinamento alla Sezione di Pioltello dell’Associazione partigiana. Nel 2013, superati i vecchi contrasti, la Sezione rilasciò a Nino Cibra la tessera ad honorem per i grandi meriti acquisiti nei 20 mesi della guerra di liberazione. Nell’anno scolastico 2013/2014, la classe seconda E del Liceo Scientifico “Niccolò Machiavelli” di Pioltello, ha realizzato un progetto di ricerca storica - La stanza della memoria – dedicandolo alla figura di Fausto Cibra, fratello di Nino, militare italiano deportato in Germania dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943, rimpatriato malato nel 1945 e morto prematuramente nel 1956. Con la collaborazione della Fondazione per la Memoria della Deportazione di Milano, dell’Amministrazione comunale e della Sezione ANPI di Pioltello, l’insegnante e gli studenti, nell’ambito del progetto, hanno ricostruito anche un pezzo di storia della Resistenza locale, che ha visto Nino Cibra fra i protagonisti. Il 3 Giugno 2014, alla presenza di Nino, sono stati illustrati i documenti elaborati dagli studenti e scoperta una targa in memoria di Fausto Cibra, posta all’ingresso della Biblioteca scolastica.

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Poco prima della sua morte, avvenuta il 6 Luglio del 2014, pochi giorni prima del compimento degli 88 anni di età, Nino ha donato alla Sezione pioltellese dell’ANPI la documentazione in suo possesso, raccolta e conservata in molti anni dalla fine della guerra in poi, affinché possa essere utilizzata per la memoria di quella fase tragica ed eroica della storia del nostro Paese. Pierino Rossini Presidente Sezione”Sandro Pertini” di Pioltello

BIBLIOGRAFIA 1. l. borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera - Le brigate Garibaldi a Milano e Provincia, franco Angeli, milano, 1995. 2. l. cavalli – c. Strada, Nel nome di Matteotti, franco Angeli editore, milano, 1982. 3. l. cavalli – c. Strada, Il vento del nord, franco Angeli editore, milano, 1982. 4. v. galeone, Ricordi partigiani, bine editore, cernusco Sul naviglio (mi), 1985. 5. g. calcavecchia - d. milanesi - f. pistocchi - m. Spanu, I sbarbàa e i tosann che fecero la Repubblica – Fatti, storie, documenti dal primo dopoguerra alla Liberazione a Pioltello, lupetti – editori di comunicazione, milano, 2006. 6. S. faure - A. liparoto - g. papi, Io sono l’ultimo – Lettere di partigiani italiani, giulio einaudi editore, torino, 2012. 7. S. peli, Storie di Gap – Terrorismo urbano e Resistenza, einaudi, torino, 2014. 8. g. pesce, Quando cessarono gli spari; 25 aprile - 6 maggio 1945: la liberazione di Milano, feltrinelli, milano, 1977. 9. p. rossini, Scritti di pedagogia della Resistenza e della Costituzione, pubblicato dall’autore tramite “il mio libro.it” - gruppo editoriale l’espresso, roma, 2012.


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Cinque anni d’impegno politico e civile

A BELLINZAGO L’ASSEMBLEA DEGLI ISCRITTI

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ll’ordine del giorno dell’Assemblea annuale degli iscritti all’ANPI di Bellinzago, tenutasi lo scorso 15 marzo, oltre a riflessioni attinenti alle tematiche generali, anche una sintesi delle numerose attività locali realizzate in questi ultimi cinque anni, sovente con il patrocinio della Amministrazione Comunale. Cinque anni di attività, in cui abbiamo cercato di proporre il ricordo, quello celebrativo della Giornata della Memoria e del 25 Aprile, Festa della Liberazione; giorni in cui si rinnova la memoria di tante persone che hanno perso la loro vita affinché noi potessimo vivere, fino a quest’anno, 70 anni di pace. Buoni i risultati dell’impegno politico e civile della nostra Associazione, che per tre anni ha proposto ai ragazzi della Scuola Secondaria di primo grado, concorsi sulle diverse tematiche presentate dalla nostra Associazione e ai quali hanno risposto in modo soddisfacente. Inoltre, abbiamo cercato di proporre temi legati alla memoria, alla difesa della Costituzione, alla convivenza, contestualizzandoli all’oggi con diversi approcci interpretativi, quali spettacoli musicali, letture, presentazioni di libri e incontri tematici; il riscontro di partecipazione ottenuto ci stimola a continuare. Tra i temi di attualità discussi durante l’assemblea spiccano la pace, la difesa della Costituzione, il lavoro, la legalità, la giustizia sociale, ma anche temi di quotidianità come la scarsa educazione civica praticata nei confronti delle cose pubbliche e delle persone, che talvolta gli adulti dimenticano di praticare e di trasmettere ai propri figli. Alcuni potrebbero chiedersi come sia possibile, dopo settant’anni, manifestare e battersi per ricordare uomini e donne che hanno lottato per liberare il Paese dal nazi-fasci-

smo, quasi fosse cosa d’altri tempi. Per noi non lo è, e non lo è per i molti che hanno memoria degli avvenimenti e delle sofferenze patite, della libertà riconquistata e dei passaggi successivi: la Repubblica, l’approvazione di una Costituzione che ancora spetta d’essere ben applicata e che si vorrebbe modificare con qualche leggerezza di troppo. A noi tutti spetta il dovere di occuparcene e difendere costantemente le regole sancite dalla Costituzione, scritta sì da persone di diversa fede politica, ma nell’interesse di tutti. Tra gli obiettivi per l’anno 2015, che realizzeremo in collaborazione con l’Amministrazione Comunale, vi sarà quello di donare a tutti i ragazzi della Scuola Secondaria di primo grado la nostra Costituzione. Vorremmo poi proporre un fondo economico per interventi culturali sui temi specifici e rivolti in particolare alle scuole. Fra i temi, quello sulla legalità, ma il percorso di approfondimento è solo all’inizio e ancora devono essere sentite le parti interessate. Sono in programmazione anche la nostre due visite sui luoghi della memoria, che

saranno comunicate non appena definite. Stiamo anche collaborando e operando con altre sezioni ANPI a livello territoriale. Questa nostra voglia di fare squadra anche sul territorio, ci permette una sinergia di idee e di realizzazioni che vanno oltre i progetti locali. L’ultima notizia è legata al rinnovo del Direttivo della locale sezione ANPI. Sono stati eletti: Anna Rolla, studentessa; Antonella Montini, insegnante; Monica Piazza, impiegata; Max Ortelli, Ingegnere; Giuseppe Brambilla, pensionato; Antonio Rolla, pensionato; Angelo Brambilla, pensionato. Il Direttivo, riunitosi il giorno 26 marzo 2015 ha provveduto a nominare Angelo Brambilla in qualità di Presidente della locale Sezione ANPI, vice Presidente Antonio Rolla, che condivide il tesseramento con Anna Rolla. Rapporti con la zona e iniziative sul territorio saranno curati da Monica Piazza. Scuola e iniziative culturali, sono affidate ad Antonella e Anna. Max Ortelli è stato nominato segretario e cassiere. ANPI di Bellinzago Lombardo Sezione 25 Aprile

La discussione durante l’assemblea degli iscritti all’ANPI di Bellinzago Lombardo


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«Le nostre vite spezzate»

PIAZZA DELLA LOGGIA - DOPO 41 ANNI LA SENTENZA ATTESA: LE VITTIME RACCONTANO

Si può perdonare non dimenticare da la Repubblica del 24 luglio 2015

«Q di

PIERO COLAPRICO

uando mio padre è stato ucciso dalla bomba, io avevo 22 anni e m’ero sposato solo tre giorni prima. Uno dei momenti tra i più belli che possono capitare in una vita, sposarsi da giovani e innamorati, è stato cancellato e per decenni non sono riuscito a chiudere la porta della sofferenza. Il dolore – dice Ugo Talenti, che adesso ha 63 anni – si acuiva a ogni anniversario, poi rallentava. Era impossibile lasciarlo scorrere insieme con il tempo, restava di livello alto. Tante volte avrei voluto dire «Lo vedi, papà, chi sono!», ma lui non c’era. Finché, cinque anni fa, durante una delle udienze del processo per la strage di piazza della Loggia, uno dei feriti, che vedevo sempre in aula, si avvicina. E comincia a parlarmi di papà e della mattina di pioggia in cui è morto». È Redento Peroni l’uomo che parla a Ugo del padre Bartolomeo. Redento può essere definito «lo stakanovista delle udienze», anche se, come moltissimi altri, all’inizio e per anni e anni aveva girato alla larga dalle aule dei tribunali: «Mi chiamavano a testimoniare e andavo, ma provavo “chiusura”, mi dava fastidio tutto. Non dicevo a nessun amico che ero stato ferito in piazza della Loggia, finché i nipoti sono diventati adolescenti. Hanno voluto sapere e allora ho fatto lo sforzo di spiegare, poi ho

La soddisfazione dei familiari delle vittime dopo la lettura della sentenza

raccontato ai conoscenti, e piano piano mi sono liberato. No, non racconto con gioia, mi sale l’ansia. Ma, se uno chiede, penso che deve sapere», e perciò questo operaio antifascista ha aperto, anche con i figli di chi l’ha involontariamente salvato, la diga dei ricordi: «Ero andato in piazza in quanto delegato del reparto della Asm, la municipalizzata dove lavoravo. La manifestazione era stata organizzata per protestare contro i neri che a Brescia picchiavano gli studenti, davano fuoco ai monumenti dei partigiani,

mettevano bombe alle sedi di partito. Avevo 34 anni, allora. Sposato, tre figli. E i mille pensieri che mi hanno invaso allora, quando la bomba è scoppiata sotto il portico, mi sono ritornati tutti insieme quando, la sera di mercoledì, gli amici mi hanno telefonato da Milano. Che beffa del destino, io che le ho seguite praticamente tutte, manco l’udienza giusta…». Ergastolo per Carlo Maria Maggi, medico e continua a pagina 14 ➔

IL PRESIDENTE NAZIONALE DOPO LA SENTENZA SULLA STRAGE DI BRESCIA

«Caro Manlio, è una tua vittoria» 23 luglio 2015

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Dopo la sentenza di condanna per la strage di Piazza della Loggia a Brescia, soddisfazione del Presidente Nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia, nella lettera al Presidente dell’Associazione familiari delle vittime, Manlio Milani

arissimo Manlio, ho appreso con grandissima gioia la notizia della sentenza della Corte d’Appello di Milano, che dice finalmente una parola di verità (purtroppo, restano tante altre parole che avrebbero dovute essere pronunciate e non è stato possibile

averle) non solo sulla matrice della strage, che ci è stata nota fin dal primo momento, ma almeno su alcuni dei responsabili. Il “singolare” connubio fra i due imputati, oggi, certamente è, di per sé, significativo, perché attribuisce un’ulteriore colorazione alla matrice fascista. Per tanti anni si è parlato di connessione, di depistaggi, di figure ambigue; adesso c’è una sentenza che dà a tutto questo un volto e un nome. Certamente non è tutto (per di più, c’è da aspettare la Cassazione, ma non ho dubbi – conoscendo la precedente sentenza di rinvio – sull’esito finale positivo), ma è uno squarcio di verità e di giustizia su una terribile tragedia.

Lo si deve allo sforzo di tutti, magistrati, avvocati, associazioni, cittadini, che ti sono stati accanto nelle tua lunga e appassionata battaglia; ma soprattutto lo si deve alla tua costanza, al tuo impegno, che ha travalicato il personale (pur legittimo e naturale) per diventare civile, per trasformarsi in una ricerca di verità su tutte le stragi del dopoguerra, sulle vicende terribili che il Paese ha vissuto. Perciò, questa – che ben può essere considerata una “tua” vittoria – è, al tempo stesso, un segno di speranza per tutti. Un abbraccio affettuosissimo, Carlo Smuraglia


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➔ segue da pagina 13 nazista. Ergastolo per Maurizio Tramonte, collaboratore dei servizi segreti e frequentatore di stragisti. Milano emette la sentenza che segna la svolta: «Sono andato a dormire con la gioia che, sebbene 41 anni dopo, una verità giudiziaria e non solo storica finalmente esiste. Però — prosegue il pensionato — faticavo a chiudere gli occhi. Raramente prendo un sostegno, ma l’ho fatto. E ho sognato la notte intera. Sogno il mio posto di lavoro, il corteo, l’esplosione, le ferite, otto schegge sul lato destro, la rottura dei timpani. Rivedo i due uomini maturi, stiamo attaccati attaccati, sotto l’arco dove era piazzato l’ordigno, Bartolomeo Talenti ed Euplo Natali si chiamano. Cadiamo, mi libero dei loro corpi che mi schiacciano, ricordo nel sogno il calore delle loro viscere addosso e, anche se sono in Val Pusteria, a 1800 metri, mi sono svegliato tutto sudato. Ma con la mente più serena. Perché, ho pensato, adesso abbiamo, noi vivi e noi morti, i nomi di chi è stato». I neofascisti, il gruppo veneto di Ordine Nuovo, l’«area Rauti», come la chiama lui, dopo aver letto e digerito montagne di documenti: «Animali, li giudicavo allora. Poi, seguendo i processi, con le trame internazionali, con i tanti depistaggi, ho compreso che esistono persone che studiano come far male agli innocenti. Persone ritenute furbe e cattive, ma che per me restano — Peroni cerca la parola e la trova — sconsiderate. E ora posso degnarmi di perdonarle, se voglio». Perdonare si può, questo ripetono

non pochi parenti delle vittime: «Anche se — puntualizza ancora Peroni — è impossibile scordare. Per anni e anni ero andato da solo sulle tombe dei due uomini che mi avevano fatto da scudo, pensavo a quella voce che in piazza mi dice “Gnaro, vien dentro che piove”. Gnaro significa ragazzo in dialetto bresciano, perciò entro sotto il porticato e dopo due secondi scoppia tutto. Appena ho recuperato il bisogno di parlare, sono andato a trovare i loro figli, e abbiamo cominciato a parlarci. Qualche volta andiamo a mangiare insieme, e discutiamo anche d’altro, come se fossimo spensierati». Se l’inevitabile è accaduto, oggi importa recuperare la parola che era ammutolita. Scambiarsi frasi che fanno risorgere sentimenti e ricordi: «Insomma, soltanto cinque anni fa ho saputo come mio papà — dice Ugo Talenti — avesse protetto quel Peroni che stava proprio davanti a me, in carne e ossa, e non era più “gnaro”, ma anziano. Sono stato contento. La tragedia di un padre, il mio, ha contribuito a salvare qualcuno con dei figli, e dei nipoti, e ho riconosciuto papà in quel gesto protettivo di invitare uno a levarsi dall’acqua battente. Nell’aula della seconda corte d’assise d’appello — continua Talenti — c’ero mercoledì, perché ci speravo, e adesso un punto fermo c’è, ed è che due persone sono condannate all’ergastolo, come capita a chi distrugge le vite altrui. Ma sinceramente non mi va che Maggi e Tramonte passino il resto dell’esistenza in galera. Davvero. Preferirei – dice

il figlio di Bartolomeo – che avessero un barlume di pietà per quello che hanno fatto, e dicessero due parole anche a noi. Forse sarebbe più facile per loro, e anche per noi, il dopo». Anche per merito di Manlio Milani, che in piazza della Loggia ha perso la moglie Livia, e della «Casa della memoria » queste vittime hanno smesso di versare lacrime nuove per un dolore vecchio. Anzi, combattono l’indifferenza generale: «Questa mattina – racconta Giuseppe Montanti, un altro ferito, professore d’italiano in pensione – vado a Brescia dal mio medico, che pure era di sinistra da giovane, e confonde Delfo Zorzi, il nazista che sta in Giappone, con Maggi, il condannato. Sono cose che danno da pensare, ma non ci cambiano. Io stesso non so quante volte sono stato interrogato. “Ma il fumo era bianco o era nero?”, mi chiedevano. Così tante volte che alla fine s’è confuso tutto, anche il fumo. Finché, andando in pensione, ho capito che esiste una vera storia d’Italia parlata in un paese ricco di buchi neri. E almeno i buchi neri vanno schiariti, mi sono detto, e d’accordo con gli altri ho creato una pagina facebook, che adesso ha 2940 membri». Una pagina dove accanto al documentarista Alberto Lorica, «alla millesima ora di video documentazione del processo» e alle frasi dei parenti, compare la faccia di una ragazza che certamente nel 1974 non era nata e scrive: «Finalmente! Da sconosciuta vi abbraccio e sono felice per voi. Da italiana ci speravo». La speranza della memoria, questo è a volte ciò che resta.

L’ASSOCIAZIONE DELLE VITTIME DELLA STRAGE DI BOLOGNA: GOVERNO INADEMPIENTE

Il governo Renzi e le promesse dimenticate da il fatto Quotidiano del 31 luglio 2015

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lla commemorazione della Strage di bologna, il governo non se la caverà con il solito ministro irresponsabile dalle inutili promesse come è accaduto con delrio e poletti. paolo bolognesi, presidente dell’Associazione dei famigliari delle vittime, parlamentare pd molto deluso, è chiaro: «non abbiamo intenzione di fischiare nessuno, contesterò il comportamento del governo renzi che in 35 anni è l’unico che non ha mantenuto la parola data. Se il premier non vuole essere contestato chieda immediatamente all’inps di applicare la legge 206 sui risarcimenti alle vittime di stragi approvata nel 2004: subito la pensione alle quattro persone (allora bambini) rimaste ferite sull’80% del corpo, per i restanti aventi diritto con legge di Stabilità. renzi, contro la nostra volontà, ci sta obbligando a portare l’inps in tribunale». il 2 agosto 1980 i criminali fascisti giusva fioravanti, francesca mambro e luigi ciavardini misero una bomba alla Stazione di bologna che esplose alle 10,25: 85 morti e 200 feriti. A chi interessa la verità? i politici di oggi, come quelli di allora, sono alla ricerca dell’oblio. il tempo consuma la storia: i testimoni scompaiono e i giovani non sono aiutati dalla scuola a conoscere i fatti. «renzi era partito

bene quando nel 2014 fece declassificare i documenti delle stragi dal 1969 al 1984. la direttiva non doveva essere lasciata andare al caso». Secondo bolognesi il governo avrebbe dovuto seguirla anche nei minimi dettagli, e ad applicarla non dovrebbero essere gli stessi uomini che nel passato avevano nascosto gli atti. non esiste un elenco consultabile e i documenti che vengono consegnati sono a discrezione dei singoli ministeri. «mi sembra una barzelletta. Avevamo consegnato 70 domande ai servizi segreti, dopo un anno hanno risposto solo a 4: sui rapporti tra fioravanti, gelli e la p2, ci hanno risposto che non c’è nulla». bolognesi non si arrende, grazie alla digitalizzazione degli atti dei processi e all’importante lavoro fatto dai magistrati sulla strage di brescia, che ha portato la cassazione a condannare all’ergastolo i fascisti di ordine nuovo maggi e tramonte, scoprono la relazione tra fioravanti e la p2 di gelli. elio massagrande, uno dei fondatori di ordine nuovo, rifugiato in paraguay, nel 1984 ospita gelli dopo l’evasione dalla Svizzera. lì il venerabile riceve una lettera dai fascisti paolo marchetti e rita Stimamiglio in cui gli scrivono: «Saremmo onorati di incontrala». i due coniugi avevano ospitato a padova fioravanti e mambro subito dopo la strage di bologna.

«l’esistenza di rapporti tra la p2 e gli assassini fascisti è documentata. perché l’abbiamo trovata noi e non i servizi segreti?» bolognesi aggiunge: «i depistaggi esistono ancora oggi, come quello inventato da cossiga: la fantomatica pista palestinese». Quella lettera di per sé non dice nulla, ma è importante se messa in relazione con altri fatti documentati. fioravanti, che non è solo uno spietato killer o un capro espiatorio, come qualcuno tenta di far credere, è il filo conduttore che lega l’omicidio del presidente della regione Sicilia piersanti mattarella (6 gennaio 1980) e l’assassinio del giudice mario Amato che stava indagando sui fascisti e aveva intuito ciò che stava per accadere. la sentenza della cassazione sulla strage di brescia è importante perché ha creato un percorso. «nel 1974 sono quattro le stragi, solo mettendole in relazione l’una con l’altra si può arrivare al vero obiettivo dei mandanti». vi è un’altra promessa disattesa da parte del governo che riguarda l’introduzione nel codice penale del reato di depistaggio e inquinamento processuale. nel 2013 del rio disse: «costruiremo una corsia preferenziale per approvarla al più presto». la legge è stata votata alla camera nell’autunno 2014, grazie al lavoro in parlamento di bolognesi, poi insabbiata al Senato.

Loris Mazzetti


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Il triangolo nero

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VIAGGIO NELL’ESTREMA DESTRA LOMBARDA, DALL’IMMEDIATO DOPO-GUERRA ALL’OGGI

Milano, Brescia, Varese le roccaforti neofasciste

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da il manifesto del 22 aprile 2014

SAVERIO FERRARI

l neofascismo milanese e lombardo fin dall’immediato dopoguerra ha assunto caratteristiche di durezza e intransigenza. Quale erede diretto dell’ultima tragica stagione del fascismo, rappresentata dalla Repubblica sociale, ha visto subito riversarsi tra sue fila molti degli scherani provenienti dai suoi tanti corpi militari e dalle sue innumerevoli polizie private. Un sostanziale filo di continuità in una città come Milano, che fu la vera capitale della Rsi, e in una regione dove, sulle sponde del lago di Como, si consumò il suo ultimo drammatico destino. Da qui il formarsi degli iniziali gruppi dirigenti missini e delle stesse prime organizzazioni terroristiche, a partire dalle Sam (Squadre d’azione Mussolini), che già alla fine del 1945 operarono tra Milano, Monza e Como, ben oltre l’attentato dimostrativo, assaltando le sedi dei partiti di sinistra e causando più di una vittima.

Il retroterra degli anni Settanta Quest’impronta e questi tratti si sono poi tramandati negli anni. È a Milano, già alla metà degli anni Cinquanta, che prende corpo quel nucleo di Ordine nuovo che ritroveremo poi come organizzazione stragista alla fine degli anni Sessanta, responsabile dell’eccidio di piazza Fontana. Ed è sempre a Milano che si tengono, tra il 1958 e il 1967, ben tre riunioni di quella Internazionale nera che prese il nome di Noe, acronimo di Nuovo ordine europeo, ferocemente razzista e antisemita. Il fatto stesso che la Lombardia abbia rappresentato il teatro principale della strategia della tensione non è stato certo un caso. Ben tre sono state le stragi in questa regione (in piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, e davanti alla questura, il 17 maggio 1973, a Brescia, in piazza della Loggia, il 28 maggio 1974), diverse altre quelle tentate (a Varese dove la si cercò in piazza Maspero, ancor prima di Brescia, il 28 marzo 1974). Il tutto nel contesto di un’impressionante escalation di violenze squadriste. In un dossier pubblicato nel 1975 dalla giunta regionale (Rapporto sulla violenza fascista in Lombardia), tra il gennaio 1969 e il maggio 1974, si conteggiarono: 180 aggressioni, 46 devastazioni, 36 lanci di bombe a mano o ordigni similari, 63 lanci di bombe molotov, 14 esplosioni di bombe carta, dieci attentati con dinamite

I neonazisti dei “Dodici raggi” al sacrario di San Martino (Varese)

o tritolo, 25 casi di ritrovamenti di armi o esplosivi, 35 aggressioni a colpi di pistola, dieci accoltellamenti e 30 incendi. In neanche cinque anni e mezzo. È in questo triangolo (tra Milano-BresciaVarese) che l’estrema destra mise i suoi picchiatori al servizio dei settori più reazionari della borghesia per rompere i picchetti operai e attaccare gli studenti. Varese, spesso passata in secondo piano, è stata invece una città che, corroborata da uno “zoccolo duro” di imprenditori e professionisti disponibili a forzature eversive, foraggiò e spalleggiò neofascisti di ogni risma. Qui l’Msi toccò la soglia del 10%, ben oltre la media nazionale. Qui si svilupparono formazioni terroristiche, dalla Costituente nazionale rivoluzionaria ad Avanguardia nazionale alle Squadre d’azione Ettore Muti, fino a Ordine nero, che si resero protagoniste di sistematiche azioni squadriste e dinamitarde. Ed è nuovamente tra Milano, Brescia e Varese, che bisogna tornare a guardare in questi anni. In una regione dove accanto alle formazioni presenti sul territorio nazionale ne sono cresciute altre a livello locale. Forza Nuova Forza nuova, la più vecchia tra le organizzazioni post-missine, nata nel 1997 e riconosciuta come «nazifascista» da una sentenza del 2010 della Cassazione, si è sviluppata in Lombardia attraverso piccoli nuclei, con sedi a Milano, Monza, Brescia, Bergamo, Pavia e Como. Ultimamente l’attività ha teso a privilegiare i temi classici dell’ultradestra cattolica, dalla cancellazione della legge sull’aborto alle campagne omofobi-

che, stringendo alleanze con alcune associazioni integraliste, tra le altre Le sentinelle in piedi, collaterali ad Alleanza cattolica, la più antica tra queste realtà, da sempre ricettacolo di estremisti di destra. Un secondo terreno è quello del contrasto all’immigrazione e alla «società multirazziale». Qui il tentativo è di scavalcare a destra la stessa Lega con iniziative e slogan ancor più radicali in nome di un nazionalismo becero ed esasperato. Funzionale a questo scopo è stato anche il varo di un’associazione (Solidarietà nazionale) impegnata a raccogliere alimenti e generi di conforto per gli italiani in difficoltà sul modello di Alba dorata in Grecia. In alcune città Forza nuova è confluita, facendo blocco, in organismi “unitari”, è il caso di Brescia ai bresciani, che ha provato anche ad attaccare fisicamente il 28 marzo scorso un corteo di immigrati scontrandosi con la polizia. Dato il numero esiguo di militanti, non più di 150 complessivamente, il metodo è di farli confluire nelle iniziative principali per disporre di un minimo di massa critica. Casa Pound Dopo vari tentativi andati a vuoto di insediamento nelle principali città lombarde, sfruttando l’alleanza con la Lega, ora Casa Pound prova a rilanciarsi. È presente al momento con proprie sedi in un quartiere popolare di Milano (Quarto Oggiaro), a Varese e a Cremona, realtà quest’ultima protagonista a gennaio di un’aggressione criminale ai danni del centro sociale Dordoni. A Brescia (San Vigilio), causa contracontinua a pagina 16 ➔


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UNA PETIZIONE SOSTENUTA DALL’ANPI NAZIONALE

Facebook rimuova l’apologia del fascismo

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acebook rimuova i contenuti di apologia del fascismo. Questo il senso di una petizione lanciata attraverso il sito https://www.change.org/p/mark-zuckerberg-facebook-rimuova-i-contenuti-diapologia-del-fascismo La raccolta di firme on line si accompagna a una lettera aperta diretta a Mark Zuckerberg, fondatore del social network. Qui di seguito il testo. Il regolamento di Facebook (i cosiddetti “Standard di comunità”) non riconosce il

Il triangolo nero ➔ segue da pagina 15

sti interni, ha aperto ma anche subito chiuso i battenti. Sempre a Milano, nei pressi della stazione centrale, con l’intento di autofinanziarsi, ha aperto un piccolo ristorante specializzato in cucina romana, l’Osteria Angelino. L’attività principale si incentra al momento sull’attacchinaggio di manifesti e striscioni in alcuni quartieri sui temi della crisi economica e sociale, sulla promozione di presidi in favore dei «due Marò», di piccoli concerti e conferenze a carattere interno per lo più rievocativi del futurismo marinettiano. Il modello al quale guardare, anche qui, è quello del primo movimento fascista del 1919–20. Il suo momento più alto è stato indubbiamente il 18 ottobre scorso, quando, in occasione della prima manifestazione nazionale della Lega dell’era Salvini, sfilarono a Milano in camicia nera, fianco a fianco con le camicie verdi, fino a piazza Duomo, duemila suoi aderenti affluiti da tutta Italia. Praticamente nulla la presenza del Blocco studentesco negli istituti superiori della regione. Anche in questo caso il corpo militante non supera le 150 unità. Lealtà Azione Accanto alle organizzazioni nazionali sono presenti in Lombardia almeno altre due formazioni locali degne di nota. La prima, Lealtà azione, nata come associazione nell’ambito del circuito Hammerskin, è cre sciuta velocemente nel giro di pochi anni fino a diventare la realtà più consistente della regione con circa trecento aderenti. Apertamente neonazista (i suoi aderenti amano tatuarsi stemmi e insegne del Terzo Reich)

reato di apologia di fascismo. Questo è inammissibile! Anche se è un network mondiale, deve rispettare le leggi fondamentali degli Stati, ad esempio la Costituzione Italiana. Nell’ordinamento italiano, l’apologia del fascismo è un reato previsto dalla legge 20 giugno 1952, n. 645 (contenente “Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione”), anche detta Legge Scelba: «... quando un’associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista,

esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista.» Rilanciamo l’invito a sottoscrivere la petizione e a pubblicizzarla presso i nostri contatti.

è stata promotrice di raduni e concerti anche a carattere internazionale. Il meeting più importante è stato certamente quello del 15 giugno 2013 alla periferia di Milano, presso Rogoredo, con delegazioni naziste da mezza Europa ed esponenti del Ku Klux Klan. Lealtà azione ha inaugurato sedi a Milano (quartiere Certosa), a Bollate (denominata Skinhouse), a Lodi e a Monza, in pieno centro, con una disponibilità di risorse finanziarie decisamente superiori a tutte le altre organizzazioni d’area, in parte provenienti da attività commerciali e di ristorazione di alcuni dei suoi soci. Strutturatasi con associazioni collaterali a tema: I lupi danno la zampa (a favore di cani e gatti), I lupi delle vette (per l’escursionismo montano), Branco (contro l’aborto e la pedofilia), dedica gran parte del proprio tempo, anche attraverso l’associazione Memento, al recupero e alla cura nei cimiteri delle tombe dei caduti repubblichini e degli squadristi degli anni Venti. Fuori dalla Lombardia Lealtà azione si è nel frattempo gemellata con altre esperienze, ad Alessandria con Arcadia e a Firenze con La Fenice. I Dodici Raggi La Comunità militante dei «dodici raggi» opera invece da qualche anno in provincia di Varese alternando la propria denominazione con Varese skinheads. La base è situata a Caidate (frazione di Sumirago) dove dispone di ampi locali attrezzati grazie ai quali ha promosso raduni e intessuto relazioni con il variegato arcipelago naziskin, facendo da perno per altre realtà, da Pavia a Bergamo a Torino.

Do.Ra, questo il suo acronimo, è da tempo penetrata nella curva dello stadio di Varese (mischiandosi con Blood&Honour) e nella tifoseria della squadra di pallacanestro attraverso gli Arditi. Un centinaio i militanti e due le ossessioni: celebrare ogni 20 aprile il compleanno di Adolf Hitler, il più delle volte con concerti propagandati con immagini rievocative (due anni fa l’evento si tenne a Malnate con 400 teste rasate giunte da tutta Europa), e oltraggiare il sacrario partigiano di Monte San Martino sulle Prealpi dell’alto varesotto (teatro di una battaglia tra il 13 e il 15 novembre 1943), omaggiando, insieme al Manipolo d’avanguardia di Bergamo (i loro gemelli orobici), i caduti repubblichini con l’infissione nel terreno di decine di Toten rune, il simbolo con il quale si onoravano le spoglie delle SS.

lA vignettA di

FOGLIAZZA


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AMATO DAI TIFOSI NAPOLETANI, CHE LO CHIAMAVANO «O’ CAMMELLO»

L’amara vicenda di Antonio Bacchetti, partigiano goleador

N DI

da Alias del 7 febbraio 2015

PASQUALE COCCIA

el film Napoli milionaria Eduardo De Filippo, intento a compilare la schedina del Totocalcio, chiede consiglio a Totò per sciogliere i dubbi su un match decisivo: «Napoli-Inter cosa mettiamo?» e Totò risponde: «Bacchetti gioca? Se sì, metti 1 fisso». L’anno in cui fu girato il film, 1950, Antonio Bacchetti proveniente dall’Inter era alla sua prima stagione calcistica nel Napoli, aveva realizzato dieci gol, divenendo ben presto il beniamino del pubblico partenopeo. Per lo strano modo di abbassare e alzare il capo mentre correva, i tifosi napoletani lo chiamavano o’ Cammello. Quando Antonio Bacchetti arrivò a Napoli era sul finire della carriera, avendo già giocato in serie A nella Lucchese, nell’Atalanta, nell’Inter. Dopo l’esperienza napoletana giocò una stagione nell’Udinese e concluse la carriera nel Torino nel campionato 1953– 1954. Quando ad agosto del ’53 era in ritiro con i granata, Antonio Bacchetti venne eletto nel direttivo della Federazione mondiale della gioventù democratica, organismo unitario che comprendeva la gioventù socialista e comunista a livello mondiale, su proposta di Enrico Berlinguer, che la presiedeva dal 1949. Che c’entra un calciatore di serie A, alla fine della sua carriera calcistica, con il futuro segretario del Pci? Su indicazione del suo partito volle riparare a un imperdonabile torto che Bacchetti aveva subito non sui campi di calcio di serie A, che calcava sicuro, ma da un tribunale, che proprio quando giocava nel Napoli, lo aveva sottoposto a pubblico processo. La sua colpa era stata quella di aver preso parte attiva alla Resistenza, quando giovane e promettente calciatore del Cormons, aveva seguito i partigiani sulle montagne friulane, dove era nato. Compito della sua formazione era di procurare sacchi di frumento e altri generi alimentari per i partigiani. Il rifornimento non era difficile, vista la collaborazione dei contadini, i quali dopo un certo periodo ebbero serie difficoltà perché furono taglieggiati da tale Antonio Comuzzi di Pradamano, un collaborazionista dei nazisti. L’indicazione di prelevare Comuzzi e proces -

La formazione del Napoli 1950-1951. Bacchetti è il secondo giocatore in piedi

sarlo innanzi a un tribunale presieduto dal comandante partigiano Livio Nonino, venne dal Cln di Pradamano, e il compito fu assegnato ad Antonio Bacchetti e al partigiano Paolo Maiero, nome di battaglia Rino. Dopo il prelievo di Comuzzi, Bacchetti e Maiero, accompagnati da Germano, fratello del calciatore, e dal partigiano Glauco Orselli, prese le dovute precauzioni, erano intenti a raggiungere il luogo dove si sarebbe svolto il “processo”. Una staffetta li raggiunse per avvisarli che a seguito di un rastrellamento dei nazisti il comandante Nonino e gli atri partigiani avevano abbandonato la zona. Che fare? Tornare indietro con il collaborazionista Comuzzi era impossibile, e soprat tutto dove tenerlo prigioniero? Un rischio che non potevano correre. Un breve consulto, poi il partigiano Paolo Maniero estrasse la pistola e sparò due colpi alla nuca di Antonio Comuzzi. Era il 25 marzo 1945, un mese prima della Liberazione. Anni dopo, rinfocolati dai fascisti, i familiari di Comuzzi denunciarono Bacchetti, Nonino e altri, per dimostrare che repubblichini e partigiani uguali sono. Il 17 e 18 febbraio del 1951, al culmine della sua carriera calcistica Antonio Bacchetti venne processato dal tribunale di Udine insieme agli altri partigiani. Durante l’udienza il presidente della Corte chiese a Bacchetti come mai non avesse con sé un ordine scritto del Cln che autorizzasse l’uccisione di Comuzzi: «Era pericoloso – replicò il calciatore del

Napoli – girare con una condanna a morte scritta in tasca. Il Nonino venuto a conoscenza dell’avvenuta uccisione, mi consigliò di regolarizzare l’accaduto. Dal Cln di Pradamano ottenni l’ordine scritto, feci la mia relazione e la consegnai al Nonino che la mandò al Cln di Udine». Il tribunale di Udine decise di non dover procedere contro Bacchetti e compagni per sopraggiunta amnistia, quella da sinistra voluta da Togliatti ministro della Giustizia per graziare fascisti e partigiani. Per Bacchetti, al quale non fu riconosciuto il suo ruolo nella Resistenza, essere amnistiato come i repubblichini di Salò fu una pubblica umiliazione: «Abbiamo combattuto in montagna con il cuore ed ora eccoci qua trattati come malviventi» disse il centrocampista del Napoli durante il dibattimento. Per il patron del Napoli e padrone di Napoli, l’armatore ed esponente di primo piano del partito monarchico Achille Lauro, detto il Comandante, ben rappresentato dal regista Francesco Rosi nel film Le mani sulla città, avere in squadra un comunista ed ex partigiano era troppo, ma o’ Cammello dovette tenerselo per i numerosi gol segnati durante quel campionato, che lo avevano reso il beniamino del pubblico partenopeo. Per liberarsi dell’incomoda presenza del centrocampista friulano, il presidente del Napoli Lauro dovette attendere tempi migliori, provvide a disfarsene l’anno successivo, svendendolo all’Udinese. Lontano dalla carriera calcistica e dalla politica attiva internazionale, Antonio Bacchetti divenne un ottimo scopritore di giovani calciatori, tra i migliori in Italia. Un giorno, al presidente di una squadra che non voleva pagargli il dovuto onorario per avergli segnalato dei giovani calciatori, sparò due colpi secchi. Arrestato, abbandonato dal Pci e dagli amici, si ammalò di tumore. Morì in carcere nel 1979, non prima di aver ricevuto la visita di Enzo Bearzot e Dino Zoff.


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Questo è stato

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Vita di Piera Sonnino, unica superstite di una famiglia ebrea genovese di otto persone, sterminata dal nazismo. Il ritorno, il dolore del ricordo, la necessità della memoria

IL RACCONTO - TERZA PARTE

➔ segue dal numero scorso

Mi chiamo Piera Sonnino

I

da Diario del mese del 24 gennaio 2003

n quell’appartamento rimanemmo un mese. Le finestre erano senza vetri e mancava ogni possibilità di riscaldamento. Non avevamo né luce né gas, ma la casa ci pareva una reggia. Là dentro eravamo al sicuro. Avevamo dovuto sistemarci tutti e nove in un solo vano perché gli altri erano occupati da mobili, ma neanche l’essere costretti a trascorrere ore e ore senza muoverci per non urtarci l’uno contro l’altro ci pareva un sacrificio troppo grande. Dopo un mese dovemmo andarcene perché la signorina Moroni ci comunicò che quella casa non era più sicura. Ci trovammo un’altra volta alle prese con il drammatico problema di cercarci un rifugio. Stavolta fu Roberto a muoversi. La signora Bancalari, che già ci aveva aiutato procurandoci l’albergo a Pietranera, riuscì a trovare per noi un appartamento a Carignano. Come quella di via Archimede, anche la nostra nuova casa era sinistrata. Il giorno in cui vi entrammo ci rendemmo conto che si trattava di una tappa provvisoria e che avremmo dovuto cercarci un alloggio meno aleatorio. Se ne interessò nuovamente Roberto. Un sacer*Parlando a Chiara dote*, che egli conobbe a mezzo di un Bricarelli il 23 febbraio amico, affittò a proprio nome un appartadel 1998, nell’ambito mento in via Montallegro e noi vi andel progetto di Steven dammo ad abitare dopo un mese di Spielberg, Survivors of the permanenza in Carignano. Il sacerdote, Shoah, la signora Sonnino sempre a proprio nome, fece in modo che dà un nome a questo potessimo usufruire dell’energia elettrica e sacerdote: Don Repetto. del gas. Si tratta di Don Francesco Repetto, segretario In via Montallegro la mia famiglia aveva del Cardinale di Genova, già abitato quando da Milano si era trasfePietro Boetto, tra i Giusti rita a Genova. Praticamente iniziata in italiani. quella strada, la nostra storia si sarebbe conclusa sullo stesso asfalto, tra le stesse mura, sulla stessa scena. Del periodo trascorso in via Montallegro, nove mesi, ho ricordi assai vivi. Ricordi legati l’uno all’altro dall’angoscia che riempiva le nostre giornate. Furono nove mesi di acutissima tensione senza un attimo di tregua. Paolo e Roberto dovettero necessariamente procurarci i mezzi per vivere. Nelle loro condizioni era tutt’altro che facile cercar lavoro. Da quando, al mattino, uscivano di casa fino al loro ritorno vivevamo nell’ansia della loro cattura. Paolo riuscì a trovare alcune contabilità di piccole aziende e qualche allievo per lezioni private. Tra questi ultimi vi era un carabiniere che si immedesimò tanto nella nostra condizione da farci avere carte annonarie false. Roberto,

grazie alle conoscenze contratte quando lavorava presso la ditta di tessuti Terracini, poté tornare nel giro degli stessi affari. Lo rivedo uscire di casa con la borsa dei campionari sottobraccio. Papà era crollato. Camminava con il bastone. Un uomo ridotto allo stremo, sconvolto da un cataclisma che lo annientava perché contro di esso non aveva nulla, alcuna forza, da opporre. La situazione più drammatica era senza dubbio quella di Giorgio. Dall’età della ragione in poi Giorgio era cresciuto, dapprima nel regno della discriminazione e poi in quello dell’incubo. Ignorava il significato della fanciullezza e dell’adolescenza, era rimasto agli anni più puerili, legato a nostra madre da un attaccamento sempre più morboso. Aveva un carattere dolcissimo. Quando lo assalivano le crisi di terrore, e avveniva di sovente, ci gettava nella costernazione. La sua intelligenza, pronta e vivacissima, era senza dubbio la causa della sofferenza che lo tormentava, della profondità del dramma che egli viveva, della sensibilità abnorme che si era andata sviluppando in lui, provocandone l’esasperazione di tutti i sentimenti. In quei nove mesi avvennero due fatti, in se stessi di scarsa importanza, ma per noi di rilievo. Il 16 agosto 1944, mentre mi trovavo a far compere al mercato di via XX Settembre, avvertii uno strattone alla borsa che portavo appesa al braccio e un individuo, lo stesso che me l’aveva strappata, darsi alla fuga con essa. Alcuni uomini presenti lo rincorsero e riuscirono a raggiungerlo. La borsa mi fu restituita e mi fu chiesto se intendevo sporgere denuncia contro il **Sempre nell’intervista ladro**. Survivors of the Shoah, Avevo già risposto di no quando interPiera Sonnino dice: venne un agente di polizia in borghese. «Il ladro era uno che era Un tipo straordinariamente cerimonioso appena uscito dalle carceri il quale insistette sul mio dovere di cittadi Savona (…) Io ho avuto dina di far punire il ladro. Io ero gelata sempre sullo stomaco dalla paura. Cercai di resistere al poliquesta faccenda che mi ziotto e, vedendo inutili le mie fatiche, hanno derubato, che può aver dato all’occhio, scoppiai in lacrime. Piangevo disperata che può essere stata colpa perché mi rendevo conto del pericolo in mia… Roba da matti». cui mi sarei cacciata se fossi andata in un qualsiasi posto di polizia. Mi guardai attorno per scoprire una via di fuga, ma era impossibile: l’agente, il ladro e io eravamo circondati da un capannello di curiosi. Tutti e tre ci incamminammo verso il commissariato che allora aveva sede al primo piano di Palazzo Ducale. L’agente non riusciva a comprendere la ragione delle mie lacrime e l’addebitava allo shock subito.


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il fiore del partigiano Dinanzi al sottufficiale, al momento di declinare le mie generalità, fui assalita da un’altra ondata di panico. In via Montallegro avevamo detto di chiamarci Melani ma l’infantile trucco con la polizia non poteva servire. Mi venne chiesta la carta d’identità. Ero tutta un tremito quando la porsi. Fortunatamente su di essa vi era ancora l’indirizzo di via Montello che avevamo abbandonato dopo lo sfollamento a Chiavari senza più tornarvi. Il sottufficiale registrò freddamente nome, cognome e indirizzo e m’invitò a sottoscrivere il verbale. Lo firmai e non so come riuscii a padroneggiare per quell’attimo la mia mano. Domandai se potevo andarmene e mi fu risposto di sì. Lasciai il commissariato di corsa, col cuore in gola. Mi imbattei in piazza De Ferrari in Paolo al quale raccontai l’accaduto. Mio fratello mi rimproverò piuttosto duramente per la mia disattenzione. Gli feci notare che non era colpa mia e lui disse che lo era: se fossi stata più attenta il ladro non mi avrebbe borseggiato. L’indomani la notizia era sui giornali. Quindici righe su una colonna con le mie generalità complete. Per molto tempo fui attanagliata dal sospetto che quella notizia avesse messo i tedeschi sulle nostre tracce. Sospetto assurdo, come provano gli avvenimenti seguiti, ma dal quale tardai a liberarmi. Del secondo episodio fu protagonista papà. Alla fine di settembre rimase vittima di un incidente che avrebbe potuto accelerare il tempo della nostra cattura. Quel giorno egli era uscito per una breve passeggiata quando casualmente cadde e si fratturò una spalla. Dovette difendersi più che dal dolore dai soccorritori che intendevano trasportarlo all’ospedale di San Martino lontano poche centinaia di metri dal luogo dove era caduto. Finalmente fu portato a casa. Ci rivolgemmo al professore Pasquale Cattaneo, di cui sapevamo la fiducia che meritava, ed egli ci promise che avrebbe inviato subito un collega. La spalla di papà fu ingessata e tale era ancora la mattina del 12 ottobre e nella notte tra il 27 e il 28 dello stesso mese, la lunga, tormentosa notte di Auschwitz. Il 12 ottobre 1944 fu un giorno che nacque in un cielo d’intensità azzurrina, tersa e trasparente, dell’estate al declino e dei primi freschi venti autunnali. Torrenti di luce inondavano dal giardino la nostra casa di via Montallegro. Ricordo ogni istante di quel giorno, ogni sua immagine. Rivedo mia madre e mio padre nel loro grande letto matrimoniale, due vecchi ormai, logorati dall’angoscia, volgere il capo verso di me al mio ingresso per il saluto mattutino e sento, sento come fossero fiamme, i loro occhi sul mio volto. Una mattina come un’altra; come milioni di altre che la precedevano e che l’avrebbero seguita. Per noi unica, diversa da qualsiasi altra del passato e dell’avvenire. È quella che racchiude le ultime immagini di ciò che fino allora eravamo stati, della mia famiglia, dei miei genitori, dei miei fratelli e delle mie sorelle. Tutto ciò che è avvenuto in quelle ore per noi avveniva per l’ultima volta. E nulla lo faceva presagire. Noi le vivemmo come al solito, prigionieri della paura di sempre, dell’ansia. Mio padre e mia madre nel letto matrimoniale, è questo l’ultimo loro ricordo che ho conservato, ancora creature di questa terra, ancora donna e uomo, ancora umani. Uscii attorno alle otto e mezzo diretta al mercato di via Dante. Erano da poco trascorse le dieci quando risalii sul tram per fare ritorno a casa. Durante il percorso osservavo per la strada le scene di ogni giorno, sussultando alla vista delle divise tedesche e fasciste, tremando ogni volta che per una ragione qualsiasi la vettura rallentava per il timore di un improvviso rastrellamento. Nel giorno ormai alto i soldati, a volte, mi si rivelavano per ciò che erano: uomini anch’essi. Talvolta, appena la paura rompeva l’esile barriera eretta dalla ragione, mi apparivano come macchie nere, i neri contorni dell’incubo entro il quale ci dibattevamo. Oltrepassata la Casa dello studente, mi portai sulla piattaforma anteriore della vettura preparandomi a discendere. Alla fermata di via Papigliano, la penultima prima di giungere in piazza San Martino, mi attendeva Bice. La vidi mentre il tram stava per arrestarsi, protesa in avanti a cercarmi. Mi fece cenno di raggiungerla. Era pallidissima. Aveva gli occhi rossi. Parola per parola ricordo il nostro breve, concitato dialogo.

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«È più di mezz’ora che ti aspetto. Sono venuti a prendere papà». «Quando e chi è venuto a prendere nostro padre?». «Due agenti in borghese. Papà era appena alzato. Sanno chi siamo». «Dove lo hanno condotto?». «Alla Casa dello studente hanno detto. Hanno preso papà... hanno preso papà...», continuava a ripetere Bice. La borsa che avevo appesa al braccio mi parve all’improvviso pesantissima. Non riuscivo a pensare. Avevo la mente svuotata. Presi Bice per una mano. Mia sorella scottava come avesse la febbre. Mi disse che la mamma aveva già telefonato a Paolo e Roberto perché rincasassero subito. L’appuntamento era sulla piazza San Martino per fuggire subito, assieme. Tra poco verranno a prenderci, bisogna far presto. Camminavamo spedite, come allucinate, a me pareva di andare nel buio di una galleria, non vedevo nulla di ciò che avevo attorno, né le case, né i passanti. Mi precedeva Bice di qualche passo quando da via Papigliano giungemmo in piazza San Martino. Nostra madre, i nostri fratelli e Maria Luisa avrebbero dovuto essere alla fermata del tram. Bice si volse verso di me sconsolata. Non c’era nessuno dei nostri al luogo indicato per l’appuntamento. Avevamo ancora un’assurda speranza mentre imboccavamo via Montallegro: che mamma e i ragazzi fossero stati costretti, per una ragione qualsiasi, a non attenderci ma che si fossero già messi in salvo. Bice e io in qualche modo avremmo fatto in modo di rintracciarli e ricongiungerci a essi. Importante era che se ne fossero andati da quella casa. La speranza durò qualche istante. Dinanzi al cancello del giardino della nostra casa staMaria e Bice. Sul retro della foto, non ci sono zionavano due individui. Chi sono lo indicazioni di luogo o temporali. Sono comunque le ultime immagini di componenti della famiglia indoviniamo subito. Il Sonnino prima della deportazione. peggio è accaduto. Ci fermiamo un attimo. I due ci hanno veduto ma ci hanno prestata scarsa attenzione. Saremmo ancora in tempo a voltare le spalle e a fuggire. Basterebbe che riuscissimo a tornare sui nostri passi con un minimo di naturalezza. Zia Anna è fuori casa, potremmo attenderla e poi in tre affrontare nuovamente la sorte. Cercare di salvarci, di sopravvivere. Credo che né in Bice né in me, neanche per un attimo, affiorassero questi pensieri. Riprendemmo a camminare tenendoci per mano sapendo benissimo dove stavamo andando. Dove dovevamo andare. Nostra madre, Paolo, Roberto, Giorgio e Maria Luisa erano là dentro, come se ci aspettassero. E ci aspettavano. Uno dei due agenti ci venne incontro e si rivolse a me. «Lei è la signorina Melani?... Scusi, la signorina Sonnino?» Risposi di sì. «E questa è sua sorella, non è vero?». Era perfino gentile. «Prego signorine, si accomodino da questa parte». Attraversammo il giardino e salimmo la scalinata che portava nella camera da letto dei nostri genitori. Mamma e i ragazzi erano là dentro. Nella stanza regnava un’incredibile confusione. Mamma si era abbandonata piangente sul letto. Indossava il suo solito abito nero: era pronta per uscire quando era arrivata la polizia. Maria Luisa le era accanto. Le stringeva le spalle. Paolo e Roberto stavano discutendo con altri due agenti. La cattura è avvenuta in un modo che nessuno di noi aveva preveduto. Perfino i poliziotti ci appaiono diversi da come li avevamo immaginati. continua a pagina 20 ➔


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➔ segue da pagina 19 Ci osservano con una certa indifferenza, ma non si spazientiscono. Roberto stava dicendo loro: «Prendete noi uomini e lasciate stare le donne. Mia madre è vecchia. La guardi», ingiunge a un poliziotto. «Dove vuole portarla, in galera?...» Il poliziotto si stringe nelle spalle. Hanno avuto l’ordine di arrestare tutti i membri della famiglia. Una famiglia di ebrei, sottolinea con un risolino a fior di labbra. E prosegue subito che lui non capisce tanto dramma. Parla con un accento meridionale che deforma le parole. Un altro poliziotto lo interrompe e interloquisce come parlasse tra sé e sé: «Ebrei… veramente ebrei. Hanno inchiodato Nostro Signore Gesù Cristo, gli ebrei». Si rivolge a noi, anch’egli con un risolino a fior di labbra. «In che guaio vi siete messi da allora. In che guaio. E chi può darvi retta dopo quello che avete fatto?». Il primo riprende a dire che le lacrime e il pianto sono sprecati. Egli ha l’ordine di accompagnarci alla Casa dello studente: là saremo invitati a firmare un documento in cui ci impegniamo a lavorare per la Germania, dopo di che l’operazione sarà finita e si tornerà a casa. Roberto si controlla a fatica. Paolo ha rinunciato a discutere. Giorgio si è accasciato su una sedia. Sembra privo di vita. Nelle pause di silenzio si odono i nostri singhiozzi. I poliziotti ci ordinano di prepararci. Dobbiamo andar via. Roberto e Paolo fanno gli ultimi e inutili tentativi per convincerli a lasciare stare la mamma e noi sorelle. Parliamo e gridiamo piangendo tutti assieme. I poliziotti guardano fuori dalla porta, oltre il giardino, per la strada, come per spiare se qualcuno ci ode. «Non facciamo chiassate!», ripetono. «Non facciamo chiassate!». «Signora», dice uno di essi alla mamma, «si tratta di una passeggiatina. Da qui alla Casa dello studente. Che sono? Duecento metri. Tra un’ora lei sarà di ritorno a casa con i suoi figli e suo marito...». Quelle parole, quei minuti, sembrano irreali, fantastici ora nella memoria. Eppure sono parole udite e minuti vissuti così come sto raccontando. Noi avevamo immaginato la cattura come un ciclone che all’improvviso si abbattesse su di noi e invece avveniva quasi nel silenzio, fasciata in quella cattiva e inutile menzogna. Finalmente ci decidemmo. Maria Luisa e Bice furono autorizzate ad andare nella loro camera per munirsi di qualche indumento. Roberto disse che avevamo in casa una piccola somma e chiese di poterla affidare a un nostro vicino, il signor Alessandro Trolli, un vecchio e distinto signore che abitava nell’appartamento sopra il nostro, con la moglie malata e una figlia. Il signor Trolli, come appresi più tardi da Roberto, fu gentilissimo. Roberto gli spiegò chi eravamo e perché ci arrestavano e il signor Trolli, nonostante la presenza dell’agente che aveva accompagnato mio fratello, disse che era un delitto perseguitare degli innocenti. Disse anche che gli rincresceva moltissimo quanto stava accadendo e che era ben felice di esserci utile. Si dichiarò disposto a conservare qualsiasi somma avessimo ritenuto opportuno affidargli e che stessimo sicuri che l’avremmo ritrovata intatta. Soltanto al mio ritorno ebbi la spiegazione della generosità dimostrata verso di noi dagli agenti nel consentirci di affidare il denaro al signor Trolli e una prova indimenticabile dell’onesta fermezza di quest’ultimo. Appena ci ebbero portati via, infatti, due agenti tornarono dal nostro vicino per chiedergli di consegnare loro immediatamente il denaro che gli avevamo affidato. Il signor Trolli si oppose alla richiesta e resistette alle minacce che gli furono fatte. Nei giorni successivi cercarono ancora di avere da lui il nostro denaro, ma inutilmente. Al mio ritorno trovai la somma intestata a nome della mia famiglia in un deposito bancario. Lasciammo la nostra casa incolonnati. I poliziotti ci avevano ordinato di non richiamare su di noi l’attenzione dei passanti. Lungo la via, a Maria Luisa, che continuava a piangere, dicevano: «Ma signorina, la smetta. Ci faccia questo piacere. Dica che cosa

le abbiamo fatto o che cosa le abbiamo detto per farla piangere così!». Ignoro che cosa sia avvenuto di quegli agenti, se siano morti o se siano vivi, ignoro quale mestiere o quale professione esercitino attualmente; ma forse i loro figli sono già adulti come Paolo e Roberto lo erano allora o giovani come eravamo Maria Luisa e io o ragazzi come Giorgio e Bice. Chi comandò il nostro arresto fu Brenno Grandi, che riuscì a essere assolto nel processo che subì nel 1947 perché poté dimostrare di avere infierito sugli ebrei non a scopo di lucro; ma essi, quei quattro agenti che eseguirono i suoi ordini, ovunque oggi siano, sappiano che dal momento in cui ci trascinarono fuori dalla nostra casa, in quella prima e unica volta che ci videro, dettero l’avvio al nostro viaggio verso la morte. Essi stessi per me, oggi, hanno nella memoria il volto della morte. A metà di via Papigliano scorgemmo zia Anna che, ansimando, stava tornando a casa. Anche zia Anna ci vide e si fermò di colpo. Roberto le fece un gesto con la mano che i poliziotti, che pure ci sorvegliavano con cura, non videro e non capirono. Zia Anna comprese invece benissimo e la vedemmo scomparire in un negozio. Ella fu la sola tra noi che riuscì a evitare la deportazione. Un poco più avanti Roberto si animò a un tratto e chiamò qualcuno che stava camminando sul marciapiede opposto. Un amico, ci disse a bassa voce indicandocelo, mentre l’altro attraversava la strada per raggiungerci. Un pezzo grosso alla Casa dello studente. Forse ci aiuterà. Si trattava di un giovane poco più che ventenne. Ascoltò Roberto in silenzio e ci guardò nel viso uno a uno. Si unì a noi e con noi entrò nella Casa dello studente. Con disinvoltura si diresse a un ufficio la cui porta era sormontata da una grande scritta in tedesco. Bussò e all’avanti ci fece segno di entrare. L’ufficio era piuttosto vasto. Dietro una scrivania stava seduto un ufficiale germanico. «Buongiorno!», gli disse l’amico di Roberto. «Ottima caccia stamattina. Una famiglia ebrea al completo. Complimenti». Scambiò un saluto con l’ufficiale che gli strinse la mano e se ne andò senza rivolgerci un’occhiata. Registrarono i nostri nomi minuziosamente e ci fecero firmare un foglio. Alcune guardie ci guidarono, quindi, nello scantinato e aprirono la porta di una cella. Mamma vi entrò per prima e gridò: «Ettore...». Nostro padre stava seduto su una panca infissa al muro e piangeva disperatamente. Non udimmo neanche la porta della cella richiudersi alle nostre spalle. Papà ci raccontò tra i singhiozzi che lo avevano interrogato a lungo chiedendogli dov’erano Paolo, Roberto e Giorgio e che egli aveva risposto di non saperlo. «Ti hanno battuto?», gli domandò la mamma. Papà accennò di no col capo. La cella era piccolissima. Noi otto l’affollavamo. Dovevamo sederci sulla panca o per terra a turno. Trascorremmo lungo tempo piangendo l’una abbracciata all’altra, noi sorelle e la mamma, e Giorgio in mezzo a noi stravolto dalla paura. Roberto a un certo momento si mise a bussare con i pugni chiusi alla porta. Si aprì uno spioncino e due occhi lo scrutarono. «Portate qualcosa da mangiare a queste donne!», gridò mio fratello. Lo spioncino si richiuse. Dopo un quarto d’ora ci venne consegnato del cibo che nessuna di noi toccò. Lo stesso Roberto si sforzò di mangiare ma sputò l’unico boccone che era riuscito a mettersi in bocca. Paolo continuava a chiedersi chi ci aveva tradito e denunciato*. Finì per suggestionare anche Roberto. Passarono in rassegna tutte le persone di loro conoscenza e le scartarono tutte. Roberto disse che l’operazione del nostro arresto era avvenuta in maniera tale da dimostrare che i nazisti e i fascisti della sezione antiebraica della Casa dello studente avevano su di noi informazioni scarse e poco sicure. Se fossero stati perfettamente edotti della nostra qualità di ebrei, ci avrebbero catturati tutti assieme a un’ora qualsiasi della notte oppure a mezzogiorno o alla sera. Qualche ora dopo il tramonto fummo fatti uscire dalla cella, ca-


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Vita a Genova. Nella cartina i luoghi del racconto: le case di via Montallegro, piazza Carignano, via Archimede e via Montello, il negozio di Ettore in piazza Campetto, via XX settembre dove Piera viene derubata, via Papigliano dove Bice la informa dell’avvenuto arresto del papà e, infine, la Casa dello studente e le carceri di Marassi. diSegno di lorenA munforti

ricati su un cellulare e trasferiti alle carceri di Marassi. A Marassi fummo divisi. Nostro padre e i nostri fratelli condotti nel braccio dei detenuti e noi, nostra madre, Maria e io, rinchiuse in un camerone dove già si trovavano altre donne. Era un camerone squallido e tetro. La luce vi pioveva da una stretta feritoia posta in alto. L’aria era pesante, irrespirabile. Noi quattro ci radunammo in un angolo, lontano dalle altre sventurate. Era facile capire chi fossero osservando come si comportavano e, più ancora, ascoltando i loro discorsi, inframmezzati da brevi risate nervose. La mamma ci disse a bassa voce di non guardarle. Mia madre era letteralmente sconvolta per il luogo in cui si trovava. Avevamo paventato e temuto la cattura; entro noi stessi, forse, avevamo sempre saputo che un giorno o l’altro l’evento sarebbe accaduto, ma la sua realtà, ora in quella cella, era tale da sovvertire ogni previsione. Almeno così ci parve allora. Le carceri di Marassi ci parvero già l’incubo e invece furono soltanto una tappa di avvicinamento a esso. Ma era la prima realtà dell’incubo per noi. Più ancora della Casa dello studente dove non avevamo fatto a tempo a rinchiuderci neppure per un attimo in noi stessi. Le donne, sulle prime, dimostrarono della curiosità nei nostri confronti, vollero sapere chi fossimo e una di esse disse che non sapeva che vi fosse un reato «ebreo». Insistettero per parlare con noi ma, di fronte al nostro silenzio, finirono per lasciarci in pace. Credo che provassero pena per noi. Avevamo messo nostra madre al centro e noi le stavamo attorno, strette l’una all’altra. Io sentivo riacutizzarsi le fitte e i dolori di un ascesso glandolare per cui ero in cura da qualche tempo, ma mi vergognavo di parlarne. Mamma se ne ricordò all’improvviso, all’ora in cui ero solita prendere le medicine. Mi guardò a lungo e mi strinse la mano. I sette giorni trascorsi a Marassi ci parvero interminabili. L’inattività e la convivenza con tante estranee aggravarono il nostro stato d’animo. Soffrimmo le prime umiliazioni. C’era un unico bugliolo per tutte le detenute e Maria Luisa, Bice e io ci tormentavamo soprattutto nell’assistere al dramma di mamma quando doveva servirsene. I nostri genitori erano all’antica, vissuti in un estremo rispetto delle forme e del pudore. Non ricordo di avere mai veduto mamma in vestaglia da camera o di avere mai udito in casa nostra una parola che violasse la correttezza. Dico questo per sottolineare ciò che mamma dovette sperimentare in quei

giorni. La pena più profonda che era in noi era rappresentata, però, dall’ignoranza della sorte di papà e dei ragazzi. Mamma temeva che li avessero già condotti via, deportati; trascorreva dall’angoscia di non più rivederli alla speranza di incontrarli ancora, quasi senza soluzione di continuità. Cercammo di impietosire il secondino che ci portava il cibo e lo convincemmo a darci notizie. L’indomani egli giurò e spergiurò che i quattro Sonnino erano tutt’ora a Marassi. Nostra madre gli chiese, come se invocasse chissà quale deità, se era possibile portar loro i nostri saluti e vederli. Seppure per un istante. Il secondino promise che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere. Così trascorse altro tempo d’attesa. Ignoro se la promessa che ci era stata fatta fu un mezzo per calmarci o se corrispondeva veramente all’umanità che viveva nel cuore di quel secondino. Rivedemmo papà e i ragazzi la sera del settimo giorno di detenzione quando fummo fatte uscire dal camerone e trasferite in un sito altrettanto squallido dove trovammo i nostri congiunti con altri nostri correligionari. Papà e Giorgio ci apparvero prossimi al collasso. Giorgio si lanciò tra le braccia della mamma e si strinse a essa disperatamente. Roberto e Paolo si sforzavano, come al solito, di apparire in condizioni di spirito soddisfacenti. Coloro che erano in attesa di partire con noi erano oltre un centinaio. Ricordo tra essi il signor Della Pergola, che a suo tempo era proprietario di un negozio di calzature in Galleria Mazzini; la signora Polacco con due delle sue figlie e un impiegato di cui ho dimenticato il nome ma che ci parlò di sé – era dipendente di una ditta di prodotti farmaceutici – e della moglie dalla quale era stato diviso. Attendemmo per ore che ci venissero a prelevare. Era già notte fonda quando, nel cortile del carcere, rimbombò il motore di un automezzo. Un camion con rimorchio. Donne e uomini furono divisi. Alle guardie italiane erano succedute quelle tedesche. Presto, presto, ci ordinavano. Ci spingevano in malo modo sul camion gridando come ossessi se non eravamo pronti e solleciti nell’obbedir loro. Poche lampade elettriche rischiaravano la scena. Io mi trovai nella calca e, mentre superavo il parapetto del camion, avvertii un acutissimo dolore alla caviglia. Mi abbandonai su una panca e fui costretta a togliermi una scarpa: la caviglia stava ingrossando a vista d’occhio. continua nel prossimo numero


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Porajmos, l’olocausto d

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IL 2 AGOSTO 1944, TUTTI I 2.897 ROM DELLO ZIGEUNERLAGER DI AUSCHWITZ-BI

I

di

da il manifesto del 2 agosto 2015

GIOVANNI PRINCIGALLI

l 15 aprile del 2015, il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione per adottare il 2 agosto come «giornata europea della commemorazione dell’olocausto dei rom». La risoluzione ricorda: «I 500.000 rom sterminati dai nazisti e da altri regimi (…) e che nelle camere a gas nello Zigeunerlager (campo degli zingari) di Auschwitz-Birkenau in una notte, tra il 2 e il 3 agosto 1944, 2.897 rom, principalmente donne, bambini e anziani, sono stati uccisi». Si ricorda altresì che in alcuni paesi fu eliminata oltre l’80% della popolazione rom. Secondo le stime di Grattan Pruxon, morirono 15.000 dei 20.000 zingari tedeschi, in Croazia ne furono uccisi 28.000 (sopravviveranno solo in 500), in Belgio 500 su 600, ed in Lituania, Lussemburgo, Olanda e Belgio lo sterminio fu totale, il 100% dei rom. La studiosa Mirella Karpati riporta che la maggior parte dei rom polacchi fu trucidata sul posto dalla Gestapo e dalle milizie fasciste ucraine, le quali, in molti casi, uccidevano i bambini fracassando le loro teste contro gli alberi. Le testimonianze raccolte dalla Karpati sui crimini dei fascisti croati (gli ustascia) sono altrettanto aggancianti: donne incinta sventrate o a cui venivano tagliati i seni, neonati infilzati con le baionette, decapitazioni, ed altri orrori ancora. Per tali motivi i rom sloveni e croati oltrepassavano clandestinamente il confine con l’Italia, ma finivano in uno dei 23 campi di prigionia loro riservati e sparpagliati sull’intera penisola. La risoluzione del Parlamento europeo prima citata considera l’«antiziganismo» come «un’ideologia basata sulla superiorità razziale, una forma di disumanizzazione e razzismo istituzionale nutrita da discriminazioni storiche». Il rom funge da sempre come capro espiatorio, a cui negare il suo carattere europeo, per farne una sorta di straniero interno (nonostante le loro comunità, e gli stessi termini rom e zingaro, si siano formati in Europa tra il 1300 ed il 1400). I nazisti-fascisti hanno perfezionato le politiche europee anti-rom dei secoli XVI e XIX. Come ricorda l’antropologo Leonardo Piasere, il maggior numero degli editti anti-rom dell’epoca moderna furono emanati dagli stati preunitari tedeschi ed italiani. Forse non è un caso, ma saranno proprio Germania ed Italia, secoli dopo, a pianificare l’olocausto rom, oltre che quello ebraico. Secondo Stefania Pontrandolfo, in Italia, tra il 500 e il 700, ad applicare con più zelo tali editti furono gli

Il 15 aprile del 2015, il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione, che ricordando i 500.000 rom sterminati dai nazisti e da altri regimi» adotta il 2 agosto come «giornata europea della commemorazione dell’olocausto dei rom» Stati del Nord, contro una certa tolleranza del Meridione. «Puri o impuri, comunque asociali» I nazisti, ossessionati com’erano dalla presunta razza ariana, si erano interessati ai rom a causa della loro origine indiana. Li classificarono in quattro categorie, secondo il loro grado di «purezza» o «incrocio» con i non rom. Alla fine ritennero che tutti rom, puri o impuri che fossero, erano «asociali». Da qui la decisione della loro eliminazione. I bimbi rom (ed ebrei) deportati nei campi di sterminio erano vittime di esperimenti sadici: iniezione d’inchiostro negli occhi; fratture delle ginocchia, per poi iniettare nelle ferite ancora fresche i virus della malaria, del vaiolo e d’altro ancora. Anche in Italia, come riporta Giovanna Boursier, con “il manifesto della razza” del 1940, l’antropologo fascista Guido Landra, inveiva contro «il pericolo dell’incrocio con gli zingari» che definiva randagi e anti-sociali. Ma già nel 1927 il Ministero dell’interno, ricorda sempre la Boursier, emanava direttive ai pre-

fetti per «epurare il territorio nazionale» dagli zingari e «colpire nel suo fulcro l’organismo zingaresco». Gli studiosi Luca Bravi, Matteo Bassoli e Rosa Corbelletto, suddividono in quattro fasi le politiche fasciste anti-rom e sinti (popolazioni di origine rom, ma che si autodefiniscono sinti e che vivono tra sud della Francia, nord Italia, Austria e Germania): tra il 1922 e il 1938 vengono respinti ed espulsi rom e sinti stranieri, o anche italiani ma privi di documenti; dal 1938 al 1940 si ordina la pulizia etnica di tutti i sinti e rom (anche italiani con regolari documenti), presenti nelle regioni di frontiera ed il loro confino a Perdasdefogu in Sardegna; dal 1940 al 1943 i rom e sinti, anche italiani sono rinchiusi in 23 campi di concentramento; dal 1943 al 1945 vengono deportati nei campi di sterminio nazisti. La prima fase è segnata da una politica al tempo stesso xenofoba e rom-fobica, per cui si colpiscono quei rom colpevoli di essere sia zingari che stranieri. In seguito si passa a reprime anche i rom italiani. Inoltre, dalla prigionia nel campo si passa all’eliminazione fisica. Grazie alle ricerche della Karpati, sappiamo che nei 23 campi in Italia le condizioni di vita erano molto dure. Racconta una donna: «Eravamo in un campo di concentramento a Perdasdefogu. Un giorno, non so come, una gallina si è infiltrata nel campo. Mi sono gettata sopra come una volpe, l’ho ammazzata e mangiata dalla fame che avevo. Mi hanno picchiata e mi son presa sei mesi di galera per furto». Giuseppe Goman a 14 anni fu rinchiuso nel campo nei pressi di Agnone e i fascisti lo vo-


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TZ-BIRKENAU FURONO INGHIOTTITI NEI FORNI CREMATORI

levano fucilare per aver rubato del cibo in cucina, ma all’ultimo momento la pena fu commutata in «bastonature e segregazione». Nel campo di Teramo, invece, un tenente dei carabinieri ebbe così pietà di quei «rom chiusi in condizioni miserevoli, che dormivano per terra con mangiare poco e razionato (…) che permise alle donne di andare ad elemosinare in paese. Nel campo di Campobasso, Zlato Levak ricorda: «Cosa davano da mangiare? Quasi niente. Il mio figlio più grande è morto nel campo. Era un bravo pittore e molto intelligente». Per i rom italiani, l’essere rinchiusi nei campi di prigionia, non per aver commesso un reato, ma per la loro identità, fu uno shock. E pensare, che a causa della leva obbligatoria, gli uomini avevano servito nell’esercito durante la grande guerra o nelle colonie. Sarà forse per questo trauma, che molti di loro hanno una certa reticenza ad affermare in pubblico la propria identità, ed infatti l’opinione pubblica italiana ignora che dei circa 150.000 rom e sinti presenti in Italia, ben il 60–70% sono italiani da secoli e sono per lo più sedentari. Ignoriamo anche le vicende di molti rom, che fuggiti dai campi, si unirono alle formazioni partigiane e che alcuni di essi furono fucilati dai fascisti. Luca Bravi e Matteo Bassoli fanno notare che il Parlamento italiano ha approvato nel 1999 la legge sulle minoranze storiche linguistiche (riconoscendone 12) «solo dopo aver stralciato l’inserimento delle comunità rom e sinti» (tra le più antiche d’Italia, dove sono presenti dal XIV secolo). La nostra rimozione La rimozione del nostro contributo ideologico e pratico all’olocausto dei rom, s’inserisce in un’operazione di oblio ben più ampia, che tocca anche i nostri crimini di guerra sotto il fascismo in Africa ed ex Jugoslavia. Come ben spiegato nel documentario Fascist Legacy della BBC, tali crimini furono compiuti non solo dalle camicie nere, ma anche da soldati e carabinieri, tanto che lo stesso Badoglio era nella lista dei primi 10 criminali di guerra italiani da processare. Il processo non si è mai svolto, grazie al cambio di alleanza nel 1943 e al nostro contributo di sangue alla lotta nazi-fascista. Ma il paradosso resta: Badoglio il primo capo di governo dell’Italia anti-fascista era stato un criminale di guerra agli ordini di Mussolini. La Legge 20 luglio 2000 sulla «memoria», parla sì di olocausto ma non di rom. Su iniziativa dell’on. Maria Letizia De Torre le persecuzioni fasciste contro i rom sono finalmente ricordate dalla Camera dei Deputati in un ordine del giorno nel 2009. E pensare che il

La polizia tedesca ferma una carovana rom. Qui a sinistra, foto segnaletica di donna. Nella pagina a fronte, rom deportati nel lager di Auschwitz (dAl Sito porAjmoS)

parlamento tedesco aveva riconosciuto l’olocausto rom già nel 1979, e nel 2013 una poesia del rom italiano Santino Spinelli (il cui padre fu internato dai fascisti) è incisa sul monumento eretto a Berlino. Molti studiosi ed associazioni, per definire l’Olocausto rom, hanno adottato il termine porajmos, che in romanes significa «divoramento». Fu introdotto nel 1993 dal professore rom Ian Hancock dell’università del Texas, che lo sentì da un sopravvissuto ai campi di stermino. Il linguista Marcel Courthiade, esperto di romanes, ha proposto in alternativa samudaripen (tutti morti). Per amore del vero, va precisato, che il rom comune, che spesso non s’identifica nelle tante associazioni nazionali o internazionali rom e di non rom, e che resta lontano dai dibattiti accademici, non utilizza alcuno di questi termini. Il ricordo di Pietro Terracina Eppure quando pensiamo al 2 agosto 1944, quando tutti i 2.897 rom dello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau furono inghiottiti nei forni crematori, ecco che sia «divoramento» che «tutti morti» ci appaiono così adatti ed evocativi. Ma perché ucciderli tutti in una sola notte? Forse si trattò di una punizione, poiché pochi mesi primi, armati di mazze

e pietre, i rom si ribellarono, mettendo in fuga i nazisti. Testimone oculare della notte del 2 agosto fu l’ebreo italiano Pietro Terracina, che ha raccontato a Roberto Olia : «Con i rom eravamo separati solo dal filo spinato. C’erano tante famiglie e bambini, di cui molti nati lì. Certo soffrivano anche loro, ma mi sembrava gente felice. Sono sicuro che pensavano che un giorno quei cancelli si sarebbero riaperti e che avrebbero ripreso i loro carri per ritornare liberi. Ma quella notte sentii all’improvviso l’arrivo e le urla delle SS e l’abbaiare dei loro cani. I rom avevano capito che si prepara qualcosa di terribile. Sentii una confusione tremenda: il pianto dei bambini svegliati in piena notte, la gente che si perdeva ed i parenti che si cercavano chiamandosi a gran voce. Poi all’improvviso silenzio. La mattina dopo, appena sveglio alle 4 e mezza, il mio primo pensiero fu quello di andare a vedere dall’altra parte del filo spinato. Non c’era più nessuno. Solo qualche porta che sbatteva, perché a Birkenau c’era sempre tanto vento. C’era un silenzio innaturale, paragonabile ai rumori ed ai suoni dei giorni precedenti, perché i rom avevano conservato i loro strumenti e facevano musica, che noi dall’altra parte del filo spinato sentivamo. Quel silenzio era una cosa terribile che non si può dimenticare. Ci bastò dare un’occhiata alle ciminiere dei forni crematori, che andavano al massimo della potenza, per capire che tutti i prigionieri dello Zigeunerlager furono mandati a morire. Dobbiamo ricordare questa giornata del 2 agosto 1944».


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Tre frontiere e un nuovo muro anti-migranti

LA MEMORIA NELLA FORTEZZA EUROPA È SEMPRE PIÙ SEPOLTA SOTTO CUMULI DI PA

da il manifesto dell’11 agosto 2015

ANDRÉ CUNHA

«D

di

con lA collAborAzione di

MÓNI BENSE

SZEGED ove ci troviamo?» – chiede uno di loro. «Sì, dove ci troviamo?» – insiste l’amico. «Non sanno neanche dove sono!» – esclama uno di noi, sorpreso. «Io vengo dalla Siria, sono scappato dall’Isis». «Io dall’Iraq, dal Kurdistan». «Dove ci troviamo?», ripete ancora, più tardi, una ragazza afghana di dodici anni. È scappata dai talebani, ha lavorato un anno in Turchia con la madre, ora arrivano insieme alle porte d’Europa. Nessun padre, almeno non qui e non ora. Non sono in pochi a non sapere nemmeno come si chiama questo luogo. Siamo — noi e loro — alla stazione ferroviaria di Seghedino (Szeged), Ungheria, come alcuni hanno scoperto grazie al GPS dei loro smartphone, gli stessi telefoni che sono serviti da guida per passare alla cieca l’ultima frontiera, tra la Serbia e l’Ungheria. Con i sistemi di navigazione sono riusciti a localizzare le coordinate trasmesse dai trafficanti in uno degli ultimi sms — segnali verso il futuro. E il futuro, che fino a questo punto è già costato centinaia o migliaia di euro, non è ancora qui, in questa stazione della periferia europea in cui trascorriamo insieme le prime ore dell’alba. Ma sappiamo davvero dove ci troviamo, in questo selfie della “storia del presente”, mentre una nuova cortina di ferro lunga 175 chilometri sembra poter nascere nel cuore d’Europa? Le 4 e 36 minuti: risuona l’altoparlante: «In partenza, dal binario 1, treno con destinazione…». «Dove ci troviamo, e dove stiamo andando?». «E noi?». Il senso della vita ingabbiato «Il senso della vita è scavalcare frontiere», diceva il reporter-viaggiatore polacco Ryszard Kapuscinski, frase che risuona amplificata quando la frontiera converge su tre punti. Qui, dove Ungheria, Serbia e Romania si toc-

Migranti. Appena attraversato il confine tra Serbia e Ungheria (lA

cano, al Triplex Confinium, sorgerà l’estremità orientale della struttura di filo spinato, di tre o quattro metri d’altezza, la cui costruzione è stata annunciata dalle autorità ungheresi a fine primavera 2015, come misura per arrestare quella che minaccia di diventare la più grande onda migratoria verso l’Unione

Viaggio lungo il confine che separa Ungheria, Serbia e Romania a pochi giorni dall’inizio della costruzione della barriera lunga 175 km con cui il governo Orbán intende fermare il flusso dei profughi

preSSe/reuterS)

europea degli ultimi quarant’anni. I due principali punti d’ingresso: l’Italia meridionale e – appunto — il sud dell’Ungheria, con Grecia o Bulgaria, e poi Macedonia e Serbia come paesi di transito. Questo “Occidente Express” attraverso i Balcani è già diventato la principale via d’accesso all’Unione europea, ancor più movimentata delle vie marittime del Mediterraneo fino alle spiagge di Lampedusa. E per fermare i migranti, innalzano reti: il tracciato previsto dalle autorità di Budapest per la barriera si estende da qui, punto di partenza del nostro viaggio, fino a un’altra frontiera tripla (tra Ungheria, Serbia e Croazia), a gomito su un braccio del Danubio, nostra destinazione finale. Alcuni lo chiamano muro, altri dicono che è soltanto una «recinzione»: e così viene definita ufficialmente. Non c’è ancora bisogno di dargli un nome definitivo, finché nel paesaggio l’orizzonte rimane vergine e lo sguardo


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Settembre 2015 Musiche e sorrisi. All’Expo il padiglione ungherese non si fa mancare nulla per accogliere al meglio i suoi visitatori. In patria, al confine con la Serbia, è tutta un’altra musica

sorvola la pianura sconfinata, come un’aquila che fluttua sopra a una vecchia e ormai abbandonata torre di controllo dell’esercito jugoslavo. La gigantesca torre resiste alla ruggine del tempo, come simbolo archeologico di un’antica frattura che non ha mai smesso di essere frontiera e che ora lo diventerà ancora di più. È stata la frontiera di Tito, ed è stata anche la frontiera di Kádár e di Mosca, e ora sarà la frontiera di Orbán. È stata la frontiera non allineata del socialismo «dal volto umano» jugoslavo e ora sarà la neo-frontiera del capitalismo, anch’esso «dal volto umano», di un’Unione europea che, più o meno imbellettata, sta incorporando i volti dei neo-nazionalismi che vincono alle urne da queste parti. Camaleonti all’interno del paesaggio retorico, gli «ismi» si toccano sempre, sfumano le frontiere, mordono la coda gli uni agli altri. Uno storico pic-nic paneuropeo Aquile qui, che attraversano i cieli, gabbiani là nel Mediterraneo sulla Sicilia e su Lampedusa. Anche qui ci sono state isole un tempo, in un’altra era geologica, prima dell’Uomo, quando tutto quest’infinito, ora verde come il mais, ora biondo come il grano, era il Mare di Pannonia. Da un campo di girasoli, una lepre salta all’improvviso davanti alla nostra auto. Neanche un poliziotto, neanche un rifugiato, soltanto noi. «Qui si potrebbe fare un bel pic-nic!». A parlare è stata Móni Bense, professoressa universitaria e traduttrice, che è scesa da Budapest fino alla Terra Bassa per accompagnarmi in questo percorso, mentre io salivo da Belgrado alla volta della Vojvodina. La Terra Bassa ungherese e la Vojvodina serba si mescolano, siamesi nella geografia, sorelle su una mappa umana che la storia ha tagliato varie volte. Anche se molto più piccolo della torre di Tito, il segno della tripla frontiera è qui, in questo campo sterminato, e potrebbe fare da rendez-vous per il pic-nic che voleva fare Móni. Si sarebbe stesa la tova glia lì… in piena terra di nessuno. E in tavola per tutti, goulash per favore! continua a pagina 26 ➔

Acque torbide e pericolose purezze

A di

da il manifesto del 24 giugno 2015

LUCIANO DEL SETTE

1.152 chilometri da Milano, sul confine tra Ungheria e Serbia, Asotthalom, quattromila abitanti, un sindaco in prima linea con lo Jobbik, il partito xenofobo, 21% dei consensi alle elezioni 2014, aspetta con ansia che inizino i lavori. E mentre nei recinti dell’Expo il padiglione ungherese si profonde in musiche e sorrisi, chiacchiere ed effetti speciali, lì arriveranno ruspe e gru per costruire un’opera che il premier magiaro Viktor Orban, ritiene politicamente ben più importante: un muro di 175 chilometri e quattro metri di altezza contro l’arrivo massiccio di profughi afghani, iracheni, siriani. Trecento al giorno, secondo il governo, arrivano ad Asotthalom. «L’immigrazione è pericolosa», tuona Orban. Il 45% del popolo, coloro che lo hanno votato, plaude. Storia recentissima, il muro. Espressione di uno stato da tempo in braccio a una destra con punte estreme molto acuminate. Ogni padiglione dell’Expo sviluppa un suo tema intorno a quello principale. L’Ungheria ha scelto «Dalla fonte più pura». E già parlare di purezza dopo quanto abbiamo appena raccontato evoca ideologie storicamente finite, ma pronte a saltar fuori dalla pentola dell’odio e del razzismo. Il concept del padiglione vorrebbe rassicurare, spiegando che sua filosofia ispiratrice «.… è l’interazione tra la salubrità del cibo, lo stile di vita sano, la garanzia di sicurezza alimentare, insieme con la conservazione della biodiversità per le future generazioni. Tre sono i temi principali in cui è raggruppata l’offerta espositiva: le tradizioni salutari, in cui si presenta il modello di agricoltura di qualità ungherese, a mosaico e familiare…; il Paese dell’acqua, con la ricchezza di risorse idriche

e bagni termali… e l’eredità per il futuro, con il ruolo della ricerca e dell’innovazione per la tutela di specie animali e vegetali locali (hungaricums) e l’importanza dell’agricoltura biologica contro le mutazioni genetiche». Ulteriormente rassicurante dovrebbe essere la struttura del padiglione «… che si ispira nella parte centrale all’Arca di Noè, simbolo di salvezza degli esseri viventi». Mette a nudo Noè/Orban Lydia Gall, ricercatrice di Human Rights Watch per i Balcani e l’Est Europa, «L’Europa deve… proteggere i diritti dei cittadini ungheresi, attivando il meccanismo dei diritti fondamentali, della Rule of Law (le regole che disciplinano l’esercizio del potere pubblico, ndr) e mettere la situazione del Paese nell’agenda del suo Consiglio». Precise le denunce nel Rapporto 2014/2015 di Amnesty International, a cominciare da un atteggiamento persecutorio nei confronti delle Ong, accusate di agire nell’interesse dei governi stranieri che le finanziano. Il premier ha incaricato l’ufficio governativo di controllo, il Khei, di darsi da fare. Sono subito partiti blitz, sequestri di computer e documenti nelle sedi di varie Ong. Ai rom viene negata l’assistenza sanitaria, e frequenti sono gli atti discriminatori da parte degli operatori sanitari; la polizia sgombera le case, senza alternative, usando il pretesto di edifici ormai inadeguati. I rifugiati e i richiedenti asilo sono di fatto incarcerati, il controllo giudiziario delle richieste si muove volutamente a ritmi esasperanti. Il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia ha denunciato la detenzione amministrativa di minori richiedenti asilo e minori migranti non accompagnati. La Corte Europea per i diritti umani ha definito la negazione dell’ergastolo senza condizionale «Una punizione disumana e degradante». Tutto questo e altro ancora sgorga copioso dalle acque della fonte più pura.


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il fiore del partigiano

➔ segue da pagina 25 Lei non c’era, ma le sarebbe piaciuto partecipare allo storico pic-nic del 19 agosto 1989, vicino alla frontiera austro-ungarica tra Sankt Margarethen im Burgenland e Sopronkhida, a Sopronpuszta, dove ungheresi e austriaci hanno organizzato l’incontro che il giornale francese Le Monde ha definito «il pic-nic che ha fatto oscillare la storia». Il primo luogo, in tutta l’Europa, in cui qualche settimana prima la cortina di ferro venne simbolicamente cancellata era lì vicino, ma in quel giorno d’estate, nel corso del «pic-nic paneuropeo», centinaia di tedeschi dell’est (sareb bero stati decine di migliaia nei mesi successivi) attraversarono il confine verso l’Austria, per poi rincontrarsi con le proprie famiglie in quella che allora era la Germania Occidentale.

l’estate che ha preceduto l’«Autunno dei Popoli», Molnár aveva 18 anni, fatti a Kübekháza, la cittadina che dista poco più di un chilometro dal Triplex Confinium, di cui oggi è il sindaco. Quando lasciamo la linea di confine e tracciamo l’azimut, attraverso i campi, diretti al centro del villaggio, sappiamo già che non lo incontreremo, né a casa, né in Comune, né alla kocsma, il bar-taverna locale. È all’estero da qualche giorno, per lavoro, ma nonostante tutto conversa a lungo con noi al telefono. Non è facile trovare, in Ungheria, soprattutto nel panorama politico di centrodestra, una voce così diretta contro la costruzione della nuova barriera. «Conoscendo la Storia — dice lui — in passato, quando un Paese ha deciso di costruire un recinto o un muro, come ad Auschwitz-Birkenau, a Berlino o nel resto della frontiera del blocco comunista, è sempre diventata una piaga per chi l’ha costruito». Per Molnár, «l’Ungheria è già un Paese isolato a livello intellettuale e psicologico. Questo avrà come conseguenza la sua ghettizzazione. L’Ungheria si circonchiude, il che significa che non esiste né uscita né entrata, né da fuori né da dentro. Siamo in mezzo all’Europa, se non riusciamo a navigare in acque pacifiche, ne deriva che lo spazio d’azione degli ungheresi andrà riducendosi», finché «le persone non perderanno la speranza e fuggiranno dal Paese». Più che trasformarsi in un’isola, «l’Ungheria si ghettizzerà», sottolinea quest’uomo politico che, fino al 2002, era stato deputato a Budapest per lo Szerz (Partito Indipendente dei Piccoli Agricoltori e Cittadini). In quel periodo venne espulso dal partito e uscì dal Parlamento. È tornato nella terra in cui è cresciuto e da allora, come indipendente, dirige i destini di questo municipio frontaliero in cui vivono circa 1500 persone.

Al Triplex Confinium, un orecchio acuto riesce forse a sentire tre campane, a seconda dalla rosa dei venti: quella della chiesa di Kübekháza, qui in Ungheria, quella di Beba Veche, in Romania, o quella di Rabe, in Serbia, tre paesini che, quasi equidistanti, formano questo triangolo (si riuniscono tutti una volta all’anno, per una festa transfrontaliera). Róbert Molnár ci tiene a dichiararsi cristiano praticante per ribadire che «c’è bisogno di prendersi cura dei forestieri», il messaggio di Stefano I, re d’Ungheria, poi Santo Stefano per i credenti. «Lo dice la Bibbia: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso», ricorda, e subito profetizza che «la cattiveria ci verrà restituita. Se non vogliamo essere maltrattati, non possiamo maltrattare gli altri. Perché come dice un’espressione che ci ricorda un mio collega, tu lecchi il gelato, ma anche lui ti può leccare».

Non riuscire più a ricordare Le ciliegie di tutti e i pomodori della tv Il muro che era cominciato a cadere da quelle Nella kocsma della via principale, le birre e le parti sarebbe crollato a Berlino soltanto tre pálinke (specie di grappe estratte da frutta, mesi dopo, e con lui il resto del recinto di ndr) sono molto più popolari dei gelati. Un ferro che, in mezzo all’Europa, divideva il uomo, appoggiato all’entrata, si tiene in equimondo. Móni allora era un’adolescente, librio con una birra per ogni mano e continua e forse cresceva ridendo di Gusztáv, il mitico a bere, ora una, ora l’altra. I tavolini della tacartone animato degli anni Sessanta e Setverna si estendono tra la casa e la strada, tanta, prodotto dal Pannónia Filmstúdió, in come succede per ogni casa, per ogni strada, pieno «comunismo goulash». Gusztáv era nella Terra Bassa o nella Vojvodina. Di fronte venerato in Ungheria (ma anche fuori dalla a ogni casa, questa fascia che sembra un giarPannonia, in Jugoslavia e non solo) dove c’è dino di cinque o dieci metri, a volte quindici, chi ha visto e rivisto all’infinito lo stesso epicrea una bella transizione, un’armonia, insodio, cinque o sei minuti ripetuti fino a sfivece di una frontiera brusca, tra il legno della nirsi dalle risate. porta e l’asfalto della strada – una terra di Ma su altri schermi, i ricordi sembrano essere nessuno che tutti coltivano come se fosse il più sfumati: «La storia si ripete così rapidaproprio giardino, una terra di tutti. Quel che mente che la generazione che ha vissuto i suoi nasce o è piantato in questa fascia è pubblico; episodi più tragici qui è ancora viva, ma pare anzi, nel mondo rurale, sembra impossibile non riuscire più a ricordare», dice rassegnata Móni, lamentandosi dell’amnesia parziale di molti suoi compatrioti, immemori dell’eterno status di migranti e rifugiati, se non di prima, di seconda o terza generazione, che ha accompagnato il popolo ungherese ritornando indietro solo di un secolo, fino al trattato di pace di Trianon. Forse una rilettura delle opere dello psicanalista ungherese Sándor Ferenczi, contemporaneo di quegli eventi, potrebbe aiutarci a capire come sia possibile iscrivere un vuoto sui traumi vissuti, un’apparente paralisi del pensiero, in grado di lasciare l’individuo, quindi anche il cittadino e l’elettore, più indifeso. In effetti, se la storia si ripete in qualche modo, Ferenczi ci aveva già spiegato il perché. È probabile che anche Róbert Molnár sia cresciuto con le peripezie di Gusztáv. Scommetto che sarebbe piaciuto anche a lui partecipare a quel «pic-nic paneuropeo» dell’agosto ’89. In quel- Sosta. Lungo la strada per Asotthalom, appena oltre il confine tra Serbia e Ungheria (lA preSSe)


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il fiore del partigiano pensare a un esempio migliore di spazio pubblico. Lì di fianco, un bambino, sorretto dalle braccia del padre, coglie ciliegie. Un’immagine quasi uguale ci verrà descritta, in un’altra kocsma, in un altro paesino, dalla padrona del locale. Si era detta testimone «dell’allegria di un gruppo di rifugiati che raccoglieva frutta da un albero». Qui all’entrata della kocsma di Kübekháza, la padrona racconta un altro episodio, qualcosa di simile, che ha visto in televisione. Anzi, fino alla nostra visita, alla fine di giugno, i rifugiati passavano davvero soltanto in televisione e lei stessa non aveva ancora visto nessuno transitare di lì. L’unico problema concreto di cui lei aveva sentito parlare era il seguente: un rifugiato aveva rubato dei pomodori a un agricoltore che si lamentava del fatto, nel reportage televisivo, come se fosse la fine del mondo. «Poveri», si sente una voce sullo sfondo, con tono empatico, «avevano fame, nella stessa situazione, ognuno di noi farebbe la stessa cosa». Kübekháza non è ancora una nuova Lampedusa, alla fine della rotta balcanica dei migranti dell’est e del sud, ma sia il sindaco della città, sia la signora della kocsma intuiscono come finirà. Entrambi concordano, quando dicono che, con la barriera frontaliera che sta per iniziare nel Triplex Confinium, a poco più di un chilometro dalla città, «è chiaro che i rifugiati faranno il giro dalla Romania e poi passeranno nuovamente di qui». A questa deduzione, ovvia per chi guarda la cartina, ha risposto Péter Szijjártó, il giovane ministro degli Esteri e dell’Investimento Estero, affermando a vari media che «in tutte le sezioni di frontiera su cui non esiste nessuna altra forma efficace ad impedire l’immigrazione illegale [oltre alla linea di divisione tra la Serbia e l’Ungheria], verrà utilizzato lo strumento sicuro della chiusura della frontiera», ovvero, il prolungamento del muro-recinto. Finché il filo spinato non gli taglia l’orizzonte, Róbert Molnár, il politico al governo di questa cittadina frontaliera, sostiene che tocca «alla ricca Europa occidentale trovare unanimemente una risposta e che non si può dare la responsabilità solo all’Ungheria, perché questa è una catastrofe umanitaria che riguarda il mondo intero». Ma poi torna a guardare verso l’interno, quando parla del muro come di una decisione del governo nell’interesse dello stesso partito che forma l’esecutivo, il Fidesz (della destra populista; 44,5% alle legislative del 2014). Uno spot nazionalista Molnár classifica la decisione come un «mero atto di campagna politica interna», per cui lo Stato dovrà sborsare più di 20 milioni di euro. La struttura sarebbe così un enorme poster di propaganda nazionalista, con i suoi quattro metri d’altezza e 175 chilometri di lunghezza. Continuando a passare i fatti al setaccio, l’ex-deputato conclude che questa misura «non è contro l’immigracontinua a pagina 28 ➔

TheShukran, ecco il nuovo social per gemellarsi con i migranti

Web. Un flusso di foto e “grazie” al posto del “like”. L’idea è venuta a un gruppo di giovani immigrati di seconda generazione. Gli utenti possono anche sostenere con una donazione i progetti delle Ong

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di

da il manifesto del 7 luglio 2015

ROSA MARIA DI NATALE

iente “mi piace”, niente retweet. Se il contenuto è di nostro gusto basta lasciare uno shukran, che non è l’equivalente di un like, ma vuol dire “grazie”. Con un semplice click su una manina. TheShukran.com è il social network fotografico della benevolenza e del ringraziamento. Lo dice il suo stesso nome, visto che la parola shukran in arabo e anche in hindi (shukria) significa, appunto, grazie. L’idea è partita da una associazione di G2 italiani (le G2 sono le seconde generazioni dell’immigrazione) provenienti soprattutto dai Paesi arabi, e in questo momento nel social sono maggiormente rappresentati Marocco, Gran Bretagna, Egitto, Italia, Yemen, Francia, Tunisia, Albania, Belgio e Usa. La prima versione è stata avviata lo scorso gennaio ma il lancio ufficiale è avvenuto solo da poche settimane. Il design di TheShukran.com è lineare, punta sul blu e ha come logo una piccola mano incastrata dentro un

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ottagono che rimanda alla tradizionale mano di Fatima. Dal proprio profilo, personalizzabile, l’utente accede alla sezione World, e segue il flusso delle foto che appaiono in tempo reale. Tutti possono vedere tutto, in un sistema di accesso aperto. Di nuovo c’è anche il concetto di “gemellaggio”: la pagina My twins raccoglie in un’unica visualizzazione i propri “gemelli”, utenti che si possono seguire con una simbolica stretta di mano. «Il nuovo social theShukran.com ha deciso di abolire la definizione di “amicizia” per spiegare il gemellaggio tra utenti. L’obiettivo di theShukran.com è spingere gli utenti a scegliere in modo consapevole e sincero le persone con cui intrecciare un interesse e una relazione virtuale — spiegano i fondatori — Per il resto c’è il flusso del mondo (la pagina World) dove le immagini scorrono e dove si possono sempre soddisfare curiosità e fare incontri e scoperte». Sulla homeboard è possibile caricare le foto, organizzare le proprie attività, cercare le parole di interesse o i trend del momento, scoprire i luoghi più fotografati e raccontati sul social, sostenere le campagne etiche. EthicNow è infatti una formula nuova che unisce l’aspetto social allo spirito del crowdfunding, visto che theShukran permette di finanziare i programmi umanitari con le donazioni di soggetti terzi attraverso un contest. Ogni contest permette, in un determinato arco di tempo, a una o più Organizzazioni non governative di presentare il proprio progetto. Saranno gli utenti, attraverso le fotografie che ogni giorno verranno postate con i dettagli del progetto, che potranno scegliere a quali di questi progetti assegnare il proprio “shukran d’oro”, una donazione in denaro attinta dalla somma messa a disposizione per il programma da theShukran.com attraverso i soggetti donatori. Gli shukrians possono comunque contare sull’universale hashtag e potranno contrassegnare le proprie campagne con un punto esclamativo. La tecnologia di theShukran.com è stata realizzata da un team informatico internazionale coordinato da Andrea Montaldo. Nel team, in qualità di co-fondatore, c’è anche lo sviluppatore Nicola Fioravanti, che ha già lavorato per il Digital del Guardian.


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La nuova dichiarazione universale

➔ segue da pagina 27 zione, ma serve solo a Viktor Orbán e al Fidesz per togliere vento alle vele dello Jobbik (considerato un partito di estrema destra; 20,5% alle legislative 2014), perché ci sono già dei radar termici installati su tutta la frontiera e il 98% dei rifugiati vengono presi». «Dove ci troviamo?». In un giardino in cui Orbán semina muri, che è anche un giardino dell’Europa. Qui, ai tavolini della kocsma, il giorno scorre lentamente come il Tisza o il Danubio, come le due birre nelle mani di quell’uomo di Kübekháza. Sull’albero di fronte a noi, il bambino ha lasciato molti grappoli di ciliegie per il primo rifugiato che passerà la frontiera in questo paesino tranquillo. Domani o più avanti, non tarderanno a passare di qui. Forse Sharbat, forse Mohammed, gente che incontreremo alla stazione di Seghedino una notte di questo viaggio, o forse Rafiq, che aspetta ancora, in una fabbrica abbandonata di Subotica, senza passaporto, che un trafficante gli dia le coordinate per continuare il viaggio. Nel frattempo, nella memoria della taverna, rimbomba la voce di quell’agricoltore ungherese che si lamenta in televisione che «loro» gli hanno «rubato i pomodori». «Loro» sono quelli che sono scappati dalla fine del mondo sperando di trovare un posto nell’eden-fortezza dell’Unione europea. In ungherese, in serbo e in croato (i due lati della lingua serbocroata), pomodoro e paradiso sono parole sorelle, con la stessa radice, che indica sia il frutto-verdura che il luogo dell’idillio: paradiscom/paradiscom, paradajz/raj, rajica/raj. Ci uscirebbe un bell’episodio di Gusztáv, penso io, Gusztáv trasformato in rifugiato-ladro di paradisi, un selfie-caricatura di cui l’Ungheria e l’Europa probabilmente hanno bisogno. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso - traduzione dal portoghese di Serena cacchioli

Ventimiglia, Italia 2015 (lApreSSe)

G di

da il manifesto del 22 luglio 2015

MONI OVADIA

li scorsi giorni hanno visto in Italia l’asfittico ripetersi del ciclo monotono «emergenza migranti», guerra fra poveri, strumentalizzazioni delle destre, nella fattispecie, Lega, Casa Pound, Fratelli d’Italia. Il ciclo ricalca uno schema che ha già dato ampie prove di sé nel corso di tutto il Novecento. Questo schema si nutre sempre dello stesso veleno: negativizzazione e criminalizzazione dell’altro in quanto tale. Questo risultato si ottiene attraverso meccanismi retorici di falsificazione, di generalizzazione, attraverso la dilatazione e la manipolazione strumentale di dati statistici, attraverso la propagazione di allarmi sociali, l’evocazione di paure irrazionali e la contrapposizione ancestrale fra il noi e il loro come antagonismo fra il legittimo e l’illegittimo, fra la titolarità e la clandestinità. Da questo schema è espunto lo statuto universale di dignità dell’essere umano. La politica sta all’interno di questo circuito perverso, o per sopravvivere alla prossima cosiddetta emergenza o per parassitare qualche vantaggio elettorale, con la pretesa di ergersi a paladina degli autoctoni assediati dagli invasori. Coloro che per origine ideale dovrebbero opporsi allo squallido trantran della politichetta come mestiere non hanno nessuna autorevolezza o credibilità per farlo, non sanno ergersi oltre lo status quo, oltre la routine mediatica. Alzare lo sguardo significa ricordare che solo quarant’anni fa, nelle terre del nord, gli «altri» erano i nostri cittadini meridionali, i terroni, significa ricordare che nel corso di cento anni (1870–1970) gli «altri» sono stati gli italiani, 30 milioni di emigranti (molti clandestini) nelle Americhe, in Europa e in Australia. È necessario ricordare che cittadini autoctoni simili in tutto e per tutto a quelli che oggi nel Veneto e alle porte di Roma non vogliono nel loro quartiere un pugno di migranti africani, allora, con la stessa attitudine intollerante, non volevano gli italiani, li descrivevano come pericolosi, sporchi, violenti, criminali. Chi oggi vuole respingere i migranti è portatore della stessa patologica mentalità di chi allora calunniava, insultava e voleva ricacciare in mare i nostri concittadini che non sfuggivano alle guerre ma alla fame endemica, alla disperazione sociale, alla mancanza di futuro. Nell’alluvione di retorica e falsità che accompagnano il pensiero reazionario sulla «questione migranti» emerge come apoteosi del raggiro lo slogan frusto e truffaldino: «Aiutiamoli a casa loro». Ma certo! Aiutiamoli a casa loro. Allora c’è un solo modo per farlo:

espellere dall’Africa ogni interesse colonialista. Il colonialismo è stato, al di là di ogni possibile dubbio, il più vasto e perdurante crimine della storia dell’umanità. Il primo e più efferato criminale, anche se non il solo, è stato l’Occidente e, per nulla pentito, persiste. Il crimine è perdurante e prosegue nel nostro tempo con le guerre «umanitarie» o preven tive, con l’azione delle multinazionali, con la sottrazione delle risorse più preziose ai legittimi titolari, impedisce la sovranità alimentare, idrica, arraffa terre ed è in combutta con i governanti più corrotti e tirannici. Vediamo questi politicastri da quattro soldi se sono capaci di aiutarli a casa loro. Vediamo sotto i nostri occhi come sono capaci di contrastare la schiavizzazione dei lavoratori stranieri nei nostri campi di pomodori e nei nostri frutteti. Ma fra le devastazioni più imperdonabili con le quali la mentalità colonialista ha inquinato il rapporto fra uomini di culture diverse c’è la concezione dell’altro visto come minore, sottomettibile, diseguale. Prima l’ideologia colonialista si è auto-assegnata il compito di civilizzazione di altre culture definite unilateralmente come incivili, oggi che le conseguenze dell’infestazione coloniale portano grandi flussi migratori verso l’Europa, l’«altro» diventa indesiderabile, minaccioso, da respingere. Ovviamente colui che maggiormente viene ostracizzato è il più povero, il più disperato, mentre, per confondere le acque, ci si mostra disponibili ad accogliere colui che è provvisto di attributi accettabili. Il razzista e lo xenofobo odierni non vogliono essere definiti come tali, fingono di risentirsi contro chi li apostrofa con l’epiteto che danno mostra di ritenere insultante. Ma oggi il vero spartiacque fra chi, diciamo, crede nella piena dignità ed integrità dell’essere umano e chi, con variegate motivazioni, non lo crede risiede nelle contrapposte concezioni dell’emigrazione. Per chi accoglie in sé la dignità dell’altro come bene supremo, l’emigrazione è progetto di trasformazione per la costruzione di una società di giustizia e solidarietà. Per coloro che non percepiscono in sé l’accoglienza dell’altro come orizzonte verso cui mettersi in cammino l’emigrazione è problema, emergenza, turbativa, invasione. Chi, individuo, associazione, partito o movimento sostiene la piena dignità dell’altro e prende sul serio la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» ha il dovere di radicalizzare la propria perorazione chiedendo subito, come da tempo suggerisce il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, l’abolizione universale del permesso di soggiorno. Il cammino sarà certo lungo ma è tempo di iniziarlo con decisione.


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Settembre 2015 Ventimiglia, luglio 2015 (foto nicolA bertASi)

Aiutiamoli a casa nostra da il manifesto del 18 agosto 2015

centro del «problema profughi» la lotta agli scafisti, non sa in realtà che cosa fare. Tra l’altro, bloccare le partenze dalla Libia non farebbe che di GUIDO VIALE riversare quel flusso su altri paesi, tra cui la Tunisia, rendendo ancora più instabile la situazione. rofughi e migranti sono persone che oggi distingue solo chi vor- Ma soprattutto non dice – e forse non pensa: il pensiero non è il suo rebbe ributtarne in mare almeno la metà: fanno la stessa strada, forte – che cosa sta proponendo veramente: si tratta di respingere salgono sulle stesse imbarcazioni che sanno già destinate ad af- o trattenere quel popolo dolente, di ormai milioni di persone, nei deserti fondare, hanno attraversato gli stessi deserti, si sono sottratte alle stesse che sono una via obbligata della loro fuga, e che hanno già inghiottito minacce: morte, miseria, fame, schiavitù, sanno già che con quel viag- più vittime di quante ne ha annegato il Mediterraneo; magari appoggio, che spesso dura anni, mettono a rischio la loro vita e la loro inte- giandosi, con il cosiddetto «processo di Khartum», a qualche feroce ditgrità. tatura subsahariana perché si incarichi lei di farle scomparire. È il Quelli che partono dalla Libia non sono libici: vengono da Siria, Eritrea, risvolto micidiale, ma già in atto, dell’ipocrisia dietro a cui si riparano Somalia, Nigeria, Niger o altri paesi subsahariani sconvolti da guerre i nemici dei profughi: «aiutiamoli a casa loro». o dittature. Quelli che partono dalla Turchia per Invece bisogna aiutarli a casa nostra, in una casa coraggiungere un’isola greca o il resto dell’Europa atmune da costruire con loro. Non c’è altra alternativa traversando Bulgaria, Macedonia e Serbia non loro sterminio, diretto o per interposta dittatura. Altro che “problema alBiso sono turchi: sono siriani, afgani, iraniani, iracheni, gna innanzitutto smettere di sottovalutare il prodei profughi”. palestinesi e fuggono tutti per gli stessi motivi. blema, come fanno quasi tutte le forze di sinistra, e in Sono anche di più di quelli che si imbarcano in Per salvare l’Europa parte anche la chiesa, sperando così di neutralizzare Libia; ma nessuno ha proposto di invadere la Turl’allarmismo di cui si alimentano le destre. Certo, potrebbe essere chia, o di bombardarne i porti, per bloccare quel50.000 profughi (quanti ne sono rimasti di tutti l’immigrazione l’esodo, come si propone di fare in Libia per quelli sbarcati l’anno scorso in Italia) su 60 milioni risolvere il «problema profughi». di abitanti, o 500mila (quanti hanno raggiunto l’anno la vera risorsa Non si concepisce nient’altro che la guerra per afscorso l’Unione Europea) su 500 milioni di abitanti frontare un problema creato dalla guerra: guerre non sono molti. Ma come si vede, soprattutto per il che l’Europa o i suoi Stati membri hanno contribuito a scatenare; o a cui modo in cui vengono maltrattati, sono sufficienti a creare insofferenze ha assistito compiacente; o a cui ha partecipato. Bombardare i porti insostenibili. della Libia, o occuparne la costa per bloccare quell’esodo non è che il Ma i profughi di questo e degli ultimi anni sono solo l’avanguardia degli rimpianto di Gheddafi: degli affari che si facevano con lui e con il suo pe- altri milioni stipati nei campi del Medioriente o in arrivo lungo le rotte trolio e del compito di aguzzino di profughi e migranti che gli era stato desertiche dai paesi subsahariani: che non possono restare dove sono. affidato con trattati, finanziamenti e «assistenze tecniche». Dopo aver Vogliono raggiungere l’Europa e in qualche modo si sentono già cittaperò contribuito a disarcionarlo e ad ammazzarlo contando sul fatto dini europei, anche se sanno di non essere graditi e desiderano tornare che tutto sarebbe filato liscio come e meglio di prima. a casa quando se ne presenteranno le condizioni. Già solo questo abbaglio, insieme agli altri che lo hanno preceduto, se- L’Unione europea in mano all’alta finanza e agli interessi commerciali guito o accompagnato – in Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Mali o nella del grande capitale tedesco ha concentrato le sue politiche nel far quaRepubblica centroafricana – dovrebbe indurci non solo a diffidare, ma drare i bilanci degli Stati membri a spese delle loro popolazioni e nel a opporci in ogni modo ai programmi di guerra di chi se ne è reso responsabile. Ma chi propone un intervento militare in Libia, o mette al continua a pagina 30 ➔

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il fiore del partigiano

È un reato penale: riduzione in schiavitù

➔ segue da pagina 29 garantire il salvataggio delle sue grandi banche. Così, anno dopo anno, ha permesso o concorso a far sì che ai suoi confini si creassero situazioni di guerra e di caos permanenti, di dissoluzione dei poteri statali, di conflitti per bande di cui l’ondata di profughi e di migranti è la più diretta conseguenza. Non saranno altre guerre, e meno che mai i respingimenti, a mettere fine a uno stato di cose che l’Unione non riesce più a governare né dentro né fuori i suoi confini. A riprendere le fila di quei conflitti, e del conflitto che si sta acuendo per gli sbarchi e gli arrivi, non può che essere un nuovo protagonismo di quelle persone in fuga: le uniche che possono definire e sostenere una prospettiva di pace nei paesi da cui sono fuggiti. Ma questo, solo se saranno messe in condizione di organizzarsi e di contare come interlocutori principali, insieme ai loro connazionali già insediati sul suolo europeo e a tutti i nativi europei che sono disposti ad accoglierli e ad alleviare le loro sofferenze; e che sono ancora tanti anche se i media non vi dedicano alcuna attenzione. Dobbiamo «accoglierli tutti», come raccomandava più di un anno fa Luigi Manconi; dare a tutti di che vivere: cibo, un tetto, la possibilità di autogestire la propria vita, di andare a scuola, di curarsi, di lavorare, di guadagnare. Ma non sono troppi, in un paese e in un continente che non riesce a garantire queste cose, e soprattutto lavoro e reddito, ai suoi cittadini? Sono troppi per le politiche di austerity in vigore nell’Unione e imposte a tutti i paesi membri; quelle politiche che non riescono a garantire queste cose a una quota crescente dei loro cittadini e che in questo modo scatenano la “guerra tra poveri”. Ma non sono troppi rispetto a quella che potrebbe ancora essere la più forte economia del mondo, se solo investisse, non per salvare le banche e alimentare le loro speculazioni, ma per dare lavoro a tutti e riconvertire, nei tempi necessari per evitare un disastro planetario irreversibile, il suo apparato produttivo e le sue politiche in direzione della sostenibilità ambientale. Il lavoro, se ben orientato, è ricchezza. D’altronde l’alternativa a una svolta del genere non è la perpetuazione di uno status quo già ora insopportabile, ma lo sterminio ai confini dell’Unione e la vittoria, al suo interno, delle organizzazioni razziste che crescono indicando il nemico da combattere nei profughi e in tutti gli immigrati. E se non proprio di quelle organizzazioni, certamente delle loro politiche fatte proprie da tutte le altre forze politiche. Così il «problema dei profughi», non previsto e non affrontato dalla governance dell’Unione, perché non ha né posto né soluzione nel quadro delle sue politiche attuali, può diventare una leva per scardinarle per sostituirle con un grande piano per creare lavoro per tutti e per realizzare la conversione ecologica dell’economia: due obiettivi che in una prospettiva di invarianza del quadro attuale non hanno alcuna possibilità di essere raggiunti. È a noi italiani, e ai greci, che tocca dare inizio a questo movimento. Perché siamo i più esposti: le vittime designate del disinteresse europeo.

È di

da il manifesto del 15 agosto 2015

ANTONIO BEVERE

interessante l’ostentata sorpresa‚ unita a scarsa informazione, di gran parte della classe politica per la morte di due immigrati e di una cittadina italiana, avvenuta questa estate nelle campagne del Meridione, e principalmente per la presenza di altri cittadini italiani tra questi lavoratori, da considerare vittime del reato, previsto dall’articolo 600 codice penale, di riduzione in servitù. Essa dimostra la scarsa conoscenza, da parte anche dell’area progressista, di quella cronaca giudiziaria che dovrebbe essere strumento e stimolo per meglio organizzare le lotte in difesa della salute e della dignità dei lavoratori. Ai miei tempi, le sentenze dei «pretori di assalto», pronunciate in difesa dei principi della Costituzione e quindi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente, erano diffuse, studiate e condivise da operai, sindacalisti e studenti, mentre erano bersaglio di invettive, procedimenti disciplinari, accuse di partigianeria, controlli dei servizi segreti. Le preture sono state abolite, ma alcuni giudici – a prescindere da etichette correntizie – continuano a pronunciare sentenze necessariamente di parte: nel conflitto, portato nelle aule giudiziarie, tra esigenze di profitto ed esigenze sociali, danno prevalenza alle seconde, conformemente alla nostra Costituzione che riconosce la libertà di iniziativa economica privata, a condizione che non leda l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana. Queste sentenze e i loro autori hanno perso, però, il carattere provvidenziale ed eroico e la benevola notorietà negli ambienti progressisti: i potenti proprietari di imprese e dei mezzi di informazione stanno addirittura portando avanti una moderna e astuta campagna di satira politica, secondo cui questi giudici, presi da ansia donchisciottesca per la salute di lavoratori e cittadini, minano le fondamenta del sistema produttivo, spaventano i finanziatori stranieri, aggravano la crisi dell’occupazione. Questo vuoto conoscitivo tra cronaca giudiziaria e avanguardia politica, come già accennato, è venuto particolarmente in luce con la morte di tre lavoratori (una donna italiana e due immigrati) nelle campagne della Sud, nell’ambito del fenomeno criminoso – ampiamente sviluppato in Puglia – della riduzione in servitù, cioè del fenomeno dello sfruttamento selvaggio della mano d’opera. Sono decenni che la magistratura segnala

la radicata presenza nel nostro sistema produttivo ortofrutticolo di un tipico contratto di lavoro, in cui il soggetto attivo (datore di lavoro o il cosiddetto «caporale»), approfittando della situazione di necessità dell’altro contraente e avvalendosi del reclutamento in violazione del divieto di intermediazione, stipula un accordo oppure crea una situazione di fatto, in cui pone il lavoratore in uno stato di soggezione continuativa costringendolo a prestazioni lavorative che ne comportano lo sfruttamento, (es.: servitù della gleba). Si vedano al riguardo le sentenze non recenti della Cassazione numero 3909 del 1990, numero 2841 del 2007, numero 37489 del 2004. Quest’ultima sentenza riguarda proprio la campagna pugliese, con protagoniste donne extracomunitarie, rinchiuse a chiave in un casolare, prelevate esclusivamente per essere portate nei campi agricoli, venendo private di gran parte degli emolumenti giornalieri. Ancora la Puglia e i suoi campi riguardano la sentenza numero 40045 del 2010 (cittadini dell’Europa orientale con retribuzioni nettamente inferiori alle promesse, costretti a vivere in alloggi fatiscenti, privi di servizi e con scarsi alimenti) e la sentenza numero 14591 del 2014 (14 cittadini rumeni, di cui uno dodicenne, il cui contratto di lavoro prevedeva la necessaria mediazione di un connazionale e l’impegno a non chiedere il misero compenso pattuito, pena l’esclusione da questo sporco mercato del lavoro). Questi processi si sono svolti con modesta attenzione dei cittadini ed è auspicabile che almeno per quelli che deriveranno dalle drammatiche vicende di quest’estate i mezzi di informazione tolgano la sordina e diano adeguata attenzione alle indagini e alle decisioni, posto che il capitalismo italiano da decenni vive anche sull’incivile sfruttamento dei lavoratori italiani e stranieri nelle campagne del Meridione. È interessante che un presidente regionale – dopo la funesta eco dei tre morti – comunica ai cittadini che «qui si parla di reati, non è solo un fenomeno economico». Si tratta, quindi, di una vergogna nazionale e non soltanto perché i prodotti pugliesi, campani, calabresi sono acquistati all’ingrosso e al minuto, consumati e inscatolati in tutto il Bel Paese; ma anche perché riguarda il livello di civiltà e la dignità del popolo e delle istituzioni . È deprimente che i vertici della sinistra locale abbiano sostanzialmente omesso di efficacemente attivarsi e di agire politicamente e giuridicamente contro l’incivile arretramento del territorio formalmente da essi governato.


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Settembre 2015

«I dolori della tortura non cadono in prescrizione»

SE NE È ANDATO LUCIANO RAPOTEZ, EX PARTIGIANO, SUBÌ LA VENDETTA FASCISTA

Per 106 ore filate cercarono di strappargli la confessione per un crimine mai commesso

L

di

da il manifesto del 26 febbraio 2015

MONI OVADIA

uciano Rapotez, nato a Muggia, partigiano comunista, da anni segretario dell’ANPI di Udine, si è spento il 23 febbraio scorso, a quasi 95 anni. Se ne vanno con lui i dolori delle torture che gli vennero inflitte per 106 ore ininterrotte, per fargli confessare un delitto orrendo, un furto conclusosi con un triplice omicidio di una coppia di coniugi e della loro collaboratrice domestica. Di quel crimine, Luciano Rapotez era completamente innocente. Del fatto fu dapprima assolto in assise per insufficienza di prove, quindi rinviato in appello e, da ultimo, prosciolto in cassazione con formula piena, per non avere commesso il fatto. Con lui furono assolti i suoi presunti complici, tutti suoi compagni di lotta nella resistenza antifascista, tutti comunisti. Di tutto ciò che avvenne, Luciano Rapotez conservava meticolosamente una doviziosa documentazione, ma io la sua storia l’ho conosciuta direttamente dalla sua voce e l’ho ascoltata ripetutamente nel corso di un documentario girato dalla regista Sabrina Benussi, una videomaker di grande vaglia animata da un’insopprimibile passione civile. A quel documentario girato nel 2010, ho partecipato insieme allo storico Marcello Flores e all’ex giudice Gherardo Colombo. Luciano Rapotez era una persona di carattere gioviale, con un volto ridente. Era un uomo simpatico, diventammo infatti subito grandi amici e da allora, in ciascuna delle ricorrenze che hanno restituito all’Italia libertà e democrazia, dandole una dignità costituzionale dopo la vergogna dell’infame Ventennio nero, ricevevo una sua telefonata di saluto, nella quale mi richiamava alla comune militanza antifascista. Capitava, quando mi trovavo dalle sue parti in Friuli, che alla telefonata facesse seguito un incontro a qualche manifestazione o semplicemente in un caffè per un bicchiere di vino. Ogni volta, ogni singola volta che l’ho incontrato, Luciano mi ripeteva quella frase: «Sai Moni, i dolori della tortura non cadono in prescrizione…». La sua non era un’ossessione, non era neppure un lamento – non ne aveva assolutamente il tono – era un’indignazione vibrante per l’ingiustizia subita e, più che per quella su-

Luciano Rapotez

bita da lui stesso, per quella intollerabile che permetteva ad esponenti degli organi dello Stato, di praticare quella ripugnante forma di vile e impunita brutalità contro esseri umani inermi, colpevoli o innocenti, anche dopo la proclamazione della Costituzione e a oltre due secoli dalla pubblicazione di Osservazioni sulla Tortura di Pietro Verri. L’incredibile vicenda di Luciano Rapotez, è già stata raccontata in un libro-denuncia di Giorgio Medail e Alberto Bertuzzi, Il caso Rapotez, ed è stata oggetto di una trasmissione televisiva su Rete 4, condotta dal grande giornalista Guglielmo Zucconi. Recentemente il calvario di Rapotez, è stato anche riportato alla memoria del lettore italiano sul Corriere della Sera del 4 Giugno 2011 da un appassionato articolo di Gianantonio Stella. Ricordiamolo brevemente. In una sera di gennaio del 1955, dieci anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Luciano Rapotez – ex partigiano che si era distinto per azioni di coraggio straordinario come il trasporto di armi ed esplosivi travestito da ufficiale repubblichino su treni pullulanti di soldati nazisti – viene circondato da tre uomini armati di pistola che si dichiarano poliziotti e mentre gli comunicano la grave imputazione, gli suggeriscono di fuggire per sfruttare la cosiddetta ley de fuga che permette di giustiziare un ricercato che tenti di scappare sparandogli alla schiena. Luciano non cade nella trappola. I tre poliziotti, ex fascisti reintegrati nei ranghi e probabilmente ebbri di spirito di vendetta, lo portano in questura e da quel momento inizia il suo inferno. Lo pestano per cinque giorni e quattro notti, lo sottopongono alla privazione del sonno, del cibo, dell’acqua, gli impediscono di espletare le funzioni fisiologiche, gli applicano l’elettricità ai genitali, inscenano perfino un finto suicidio. Rapotez, nella Trieste di quegli anni, con il suo irredentismo revanscista, era il colpevole perfetto, comunista, ex partigiano, con un cognome slaveggiante: doveva essere colpevole. Ricordando quelle ore terrificanti, Luciano mi diceva:

«Avrei confessato anche l’uccisione di Giulio Cesare». Poi, dopo 106 ore implacabili, ininterrotte, la cella e infine il lungo processo di cui ho già fatto cenno, il suo calvario ebbe fine. Per porre fine a questa via crucis – e Luciano lo ricordava con profonda gratitudine – si era mosso anche Aldo Moro in persona, dopo essere stato informato della sua persecuzione. Quando dopo tre anni e mezzo, esce finalmente dal carcere libero e riabilitato, Luciano non trova né la moglie, né i figli ad aspettarlo: la moglie si è rifatta una vita, «i tempi erano durissimi» spiega con partecipe comprensione. Il sistema giudiziario riconosce le torture e le altre vessazioni che ha subito, ma per queste non viene risarcito e non gli vengono neppure porte delle scuse. Da quel momento, Luciano Rapotez inizia la sua battaglia legale per ottenere giustizia, assistito gratuitamente da avvocati solidali, rivolgendosi, ad ogni cambio di governo, alle più alte cariche dello Stato – dal Guardasigilli, al Presidente della Corte Costituzionale, fino al Presidente – ottenendo solo algide e ipocrite risposte burocratiche: «Quand’anche fosse provata la commissione (della tortura) da parte dei funzionari di polizia, di quegli atti che avrebbero causato i lamentati danni, tali atti non avrebbero potuto imputarsi alla pubblica amministrazione perché non rivolti ai fini istituzionali di uno Stato democratico, sibbene ai fini personali ed egoistici di chi li pose in essere». Agghiacciante. Disgustato, Luciano emigra in Germania. Ciononostante non smette di condurre, indomito, la sua battaglia che continua anche quando, dopo la pensione, rientra in Italia. Sta per cedere, ma nel 2001 vede in televisione la cronaca dei fatti del G8 di Genova e gli orrori della macelleria messicana della caserma Bolzaneto: capisce così che la sua lotta contro la tortura non è un fatto superato, ma una battaglia da proseguire nel presente e nel futuro. In pieno XXI secolo, l’Italia è sprofondata nella sozzura di una dittatura sudamericana come testimonia Amnesty international. Luciano riprende la sua missione sacrale e, combattendola, muore senza avere avuto l’agognata giustizia, ma trasmettendo un duro monito: «L’Italia è l’unico paese in cui le parole si pervertono oltre ogni limite: si scrive moderazione e si legge ferocia». Ci lascia parole scolpite nel sangue e nelle lacrime: «I dolori della tortura non cadono in prescrizione». Lo sanno bene, oltre a Rapotez, i ragazzi di Genova 2001, i Giuseppe Uva, i Federico Aldrovandi, gli Stefano Cucchi, i Francesco Mastrogiovanni e tanti, tanti, troppi altri.


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Settembre 2015

il fiore del partigiano

Memorie viventi della Resistenza

RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA

da il manifesto del 30 aprile 2015

N

Una florida pubblicazione di diari, ricordi, biografie e romanzi sull’esperienza partigiana. Mentre la storiografia continua a riproporre chiavi di letture consolidate su una vicenda spartiacque nella storia repubblicana. Un percorso di lettura.

el mese del 70° anniversario della Liberazione dal nazifascismo è curioso vedere come alcune case editrici continuano a dare alle stampe saggi, romanzi o antologie sulla Resistenza e la guerra partigiana. Non si tratta di una curiosità che vede nel 25 aprile uno sterile feticcio da omaggiare o un semplice esercizio memorialistico, da rinnovare di anno in anno. È più un’impressione positiva che sembra andare controcorrente rispetto a quanto accaduto negli anni passati, quando la settimana del 25 aprile risultava essere lo spazio prediletto da chi è impegnato stabilmente sul fronte revisionista della rilettura storica e storiografica della Resistenza. Tuttavia, all’interno di questa variegata produzione editoriale si è avuta la possibilità di riscontrare la tendenza a sovraffollare gli scaffali delle librerie con testi di respiro storico che difficilmente riescono ad aggiungere elementi innovativi di riflessione a quelli già tracciati nel corso dei decenni successivi alla liberazione. Da diverso tempo sembra che la storiografia accreditata non abbia più niente da dire in merito alla guerra partigiana. Le ultime novità di un certo rilievo si devono ancora a Claudio Pavone e al suo discorso sulla guerra civile, e non è un caso che il dialogo tra Noberto Bobbio e lo stesso Pavone edito da Bollati Boringhieri – un insieme di scritti che datano trenta o quaranta anni fa – venga salutato come opportuno rispetto al revisionismo dell’ultimo ventennio. Inevitabilmente, la sterilità storiografica ha contribuito a produrre il discorso opposto, quello di una critica alla Resistenza, di un ridimensionamento politico. Per tali ragioni, pubblicazioni che si prefiggono di dare voce ai protagonisti che hanno vissuto quella lotta di civiltà sono oggi il valore aggiunto di una vicenda che necessita di essere difesa, fatta propria. Così come rivestono un ruolo fondamentale le raccolte e le testimonianze di tante voci, di uomini e donne, che hanno dato un contributo determinante alla vittoria contro il fascismo pur non essendo oggi annoverati nell’olimpo degli eroi. All’interno di questo quadro dovremmo quindi leggere tre lavori che reputiamo aggiungano qualcosa al-

l’imponente genealogia editoriale sulla Resistenza; si tratta di pubblicazioni in cui gli autori hanno deciso di ricostruire storie meno note, ma non per questo meno importanti, della lotta partigiana. Abbandonata la memorialistica, si apre il terreno alla storia sociale, in scala ridotta, delle memorie personali più che dei grandi ideali. Il docente antifascista Il romanzo Il tempo migliore della nostra vita (Bompiani, 18 euro) di Antonio Scurati è un caloroso omaggio alla figura di Leone Ginzburg, libero docente e letterato antifascista, che l’8 gennaio 1934 si rifiutò di prestare giuramento al regime fascista, dando così inizio alla sua travagliata parabola che lo porterà ad essere incarcerato il 13 marzo dello stesso anno. L’omaggio a Ginzburg rappresenta un’ode a quella ristretta schiera di letterati e docenti ordinari di università statali (13 su quasi 1300) che rifiutando le disposizioni contenute nel Testo Unico delle leggi sull’Istruzione Superiore sacrificarono cattedra, stipendi e pensione in nome di uno spassionato credo nella libertà. Nella prima pagina Scurati riporta le parole scritte dal pugno di Ginzburg al Rettore dell’Università di Torino: «Ho rinunciato da un certo tempo, come Ella ben sa, a percorrere la carriera universitaria, e desidero che al mio disinteressato insegnamento non siano poste condizioni, se non tecniche o scientifiche. Non intendo perciò prestare giuramento». Parole che proietteranno Ginzburg in una dimensione di impegno politico e letterario differente, animatore del gruppo di intellettuali che diede vita alla casa editrice Einaudi (tra i quali ricordiamo Cesare Pavese, Elio Vittorini, Norberto Bobbio, Luigi Salvatorelli), che gli costerà una feroce persecuzione e lo porterà al confino sulle montagne di Pizzoli. Nel disegnare la vicenda di Ginzburg, Scurati tratteggia anche le vicende umane e politiche di intere famiglie i cui racconti si intrecciano nella narrazione della sua vita: i Ferrieri, i Guarino ma soprattutto gli Scurati, la sua stessa famiglia. Genealogie che si richiamano in un romanzo che alterna narrazioni delle saghe familiari a riflessioni sull’«Italia Fascista»: da Milano a Napoli, le storie di questi personaggi, delle loro famiglie, sono la scenografia di sfondo della vicenda del docente di russo adottato dalla città di Torino. Tenore e militante Per i tipi di Alegre e la collana Quinto Tipo, diretta da Wu Ming 1, è invece uscito un agile

A n le zi m d n

libro che ricostruisce la vicenda di Nicola «Ugo» Stame, morto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Il tenore partigiano (Edizioni Alegre, 15 euro), un libro di Lello Saracino, giornalista foggiano e concittadino di Stame, è un modo inusuale e originale di parlare di Resistenza. È la storia di un cantante lirico, osannato da critica e stampa, ricostruita con sagacia attraverso sbalzi spaziotemporali tra Roma e Foggia, tra primo Novecento e contemporaneità. La vicenda di Stame diventa la storia totalizzante di un militante antifascista dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la storia di chi ha combattuto a Porta San Paolo e nelle formazioni clandestine. Ma sono forse le pagine successive, quelle che parlano della sua militanza in Bandiera Rossa e del suo arresto che ci danno il senso di una storia sui generis, quella cioè del militante che aveva cantato nei Teatri dell’Opera più importanti e che alleviava le pene dei suoi compagni detenuti con il canto forte, caloroso di cui era straordinario interprete. «Stame dopo l’arresto viene portato al commissariato di via Goito. Finisce in cella con un ragazzo che ha da poco compiuto 18 anni. Si chiama Claudio Pica (…) ha la passione per il canto melodico e una voce di stampo tenorile. Nella piccola cella di via Goito si incontrano un pezzo di storia passata e futura della musica italiana. Claudio Pica dopo la guerra coronerà il suo sogno di diventare un cantante professionista. Scriverà brani come Binario e Granada, diventando noto al pubblico col nome d’arte di Claudio Villa, il “reuccio” della canzone». Il lavoro di Saracino esce dai parametri cloroformizzati della narrazione della Resistenza, regalando una storia di spessore storico e artistico avvalorata da un appendice che contiene documenti e immagini inedite che omaggiano la vita di quell’aviatore, poi divenuto cantante lirico e morto da partigiano. Sulla via del manicomio Il testo curato da Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, invece, riporta alla luce una storia dimenticata e ignorata dell’immediato periodo post-resistenziale. Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio (Feltrinelli, 18 euro) è un saggio in cui gli autori concentrano le loro attenzioni di ricerca sull’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa e sulle fonti inedite ivi ritrovate. Con il paese libero dal nazifascismo, la magistratura italiana manda alla sbarra centinai di ex-partigiani per gravi reati commessi durante la lotta di resistenza e nell’immediato dopoguerra: sono le famose ac-


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il fiore del partigiano Antonio Scurati - Il tempo migliore della nostra vita - bompiani - 272 pagine, € 18,00

lello Saracino - Il tenore partigiano - edizioni Alegre - 206 pagine, € 15,00

mimmo franzinelli e nicola graziano - Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio - feltrinelli - 220 pagine, € 18,00

cuse rivolte a chi s’è macchiato del delitto di «giustizia sommaria» verso persone coinvolte direttamente con l’apparato fascista. La strategia studiata per la difesa degli imputati e mitigare le pene è quella del riconoscimento della semi-infermità mentale, ma con l’amnistia Togliatti del 1946 il beneficio della fine della prigionia viene negato ai detenuti manicomiali. Il dramma di questi «pazzi per la libertà» (secondo l’appropriata espressione coniata dagli autori) è ripercorso attraverso documenti ufficiali, lettere ai familiari e ai comitati di solidarietà. Franzinelli e Graziano ricostruiscono le vite dei partigiani detenuti a partire dagli affetti e dalle impressioni personali, indagando fonti inedite e riportando alla luce una storia che ha dell’incredibile, tornando al contempo con forza sul tema della mancata defascistizzazione delle amministrazioni e la critica tout court all’amnistia togliattiana che viene così richiamata nel testo: «Il 30 giugno 1946, a otto giorni dall’emanazione, l’amnistia Togliatti è stata applicata a 7106 fascisti e a 153 partigiani. La giustizia della neonata Repubblica italiana, con una mano rialza i collaborazionisti, con l’altra percuote i partigiani». Storie personali, come vediamo, che s’intrecciano con la grande storia, la compongono, contribuiscono a densificarla. Storie che ci introducono a una visione materiale del movimento partigiano, rifiutando retoriche e narrazioni monumentali. Dopo settant’anni di ricerche, forse l’indagine dei risvolti personali e politici insieme di chi compose il grande affresco della Resistenza possono costituire lo sbocco per una nuova storiografia sociale.

Alessandro Barile e Samir Hassan

«Cosa avremmo fatto col sole nuovo?»

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Settembre 2015

giacomo verri - Racconti partigiani edizioni biblioteca dell’immagine - 126 pagine, € 14,00

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da il manifesto del 10 luglio 2015

opo decenni di storia militare e politica in senso stretto, questo settantesimo anniversario della Liberazione ha riportato sulla scena della saggistica e della letteratura le soggettività. Le persone in carne e ossa che hanno combattuto la Resistenza si sono riprese la scena spostando l’asse della narrazione dai solenni momenti collettivi ai grovigli interiori ed esistenziali di chi ha scelto di lasciare tutto — lavoro, famiglia, amori — per combattere, armi in pugno, la lotta di liberazione nazionale. Se Giovanni De Luna, con il suo La Resistenza perfetta (Feltrinelli), ha calato l’indagine storiografica nel terremoto di passioni e di tensioni che hanno animato la Resistenza in un microcosmo locale, Giacomo Verri, nei suoi Racconti partigiani (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, pp. 126, 14 euro) ha messo in scena tante storie individuali che affondano le radici nella Resistenza valsesiana. Gli otto racconti di Verri sono molto diversi l’uno dall’altro, ma qualcosa li accomuna: ci sono le speranze, le paure ma ci sono soprattutto le frustrazioni. O meglio, un senso di sconfitta che si accompagna alla gioia della vittoria. Molti partigiani avevano creduto che la Resistenza non dovesse concludersi il 25 aprile ma essere piuttosto capace di trasformarsi, di diventare qualcosa di diverso, in grado di intridere di sé il profilo della nuova Italia. Ben presto, però, la retorica della pacificazione nazionale aveva imbrigliato le istanze di rinnovamento, relegando la Resistenza e i partigiani nel panorama mummificato delle glorie della nazione (quando non sul banco degli imputati). Nelle prime pagine del libro, questo sentimento appare in modo quasi tragico nella figura del

Una guida per riscoprire la Milano resistente

partigiano che, la sera del 25 aprile, prima di addormentarsi, si interroga su «cosa avremmo fatto col sole nuovo» per poi accorgersi, col trascorrere dei mesi, che «si smetteva di fare bene per fare benino, ogni volta di più». La Resistenza, nei racconti di Verri, si manifesta in tutta la sua portata esistenziale come l’apice della vita di chi l’ha combattuta. Un apice che verrà coltivato per decenni, rivendicando un ruolo, cercando spazi per raccontare la lotta antifascista in una società sempre più sorda a quei valori. L’idealtipo del partigiano diventa così colui che «considera meravigliosa la sua giovinezza imprudente, ritiene che nulla potrà mai eguagliarla, che nulla mai sarà bastevole, che si stava meglio quando si stava peggio, che la guerra te la ricordi per sempre e diventa l’«esperienza più gigantesca che uno possa fare, la memoria meglio attanagliata e più svelta a tornare». Frustrazione, sì ma non rassegnazione. Perché in questi racconti la trasmissione della Resistenza, della sua memoria e dei suoi valori assume i tratti di una scelta profondamente politica e, soprattutto, antiretorica. Verri, memore delle pagine di Calvino, sa bene che nella temperie della guerra civile il caso giocava un ruolo pesante nel far trovare una persona da una parte o dall’altra, ma sa anche che una volta compiuta la scelta di campo, fra chi decideva di fare il partigiano e chi, invece, sceglieva di rimanere al suo posto, si apriva un abisso politico ma soprattutto etico e morale, insormontabile. Ecco: i Racconti partigiani di Giacomo Verri ci calano in questo abisso e ci fanno respirare, in tutta la sua materialità, la generosità che ha permesso di scrivere la pagina più alta e bella della storia del nostro paese. Marco Albeltaro

Diventare partigiano a diciannove anni

consenti Stefania (A cura di) - Luoghi della memoria a Milano - Itinerari nella città Medaglia d’Oro della Resistenza- guerini e Associati- 168 pagine, € 12,50

Angelo del boca (postfazione di mimmo franzinelli) - Nella notte ci guidano le stelle - mondadori - 194 pagine, € 20,00

restituire al lettore una più corretta conoscenza della successione dei fatti. E di convincerlo a guardare la città con occhi diversi» dalla prefazione di Ferruccio De Bortoli. Una mappa inedita in forma di racconto, con testimonianze e ricostruzioni, di una Milano a lungo dimenticata. Seguendo il filo sottile della memoria, Stefania Consenti va alla riscoperta di tutti quei luoghi della città legati agli orrori del nazifascismo e della guerra, svelando la storia celata di numerosi splendidi edifici dal valore non esclusivamente architettonico.

pieno della guerra partigiana. Non aveva ancora vent’anni, quando Del Boca disertò alla fine del 1944 dalla divisione fascista Monterosa e si unì ai ribelli della montagna sull’Appennino ligure-emiliano. Più romanzo di formazione che semplice diario, composto da un giovane che aveva già il passo del narratore e la passione della libertà, Nella notte ci guidano le stelle arricchisce in modo esemplare la letteratura resistenziale.

uesta guida, che ricompone una trama dei fatti ormai «Qfragile per l’usura del tempo, ha anche il merito di

on è consueto che un diario scritto da ragazzi conN servi, settant’anni dopo, la forza, la freschezza di quando venne appuntato, giorno dopo giorno, nel


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Settembre 2015

Canto, ergo sum il fiore del partigiano

QUANDO LA MUSICA VARCÒ GLI OCEANI SULLE ONDE DI IDEALI COLLETTIVI

Un mondo di canzoni di protesta

C

di

da il manifesto del 9 gennaio 2013

DIMITRI PAPANIKAS*

ome era solito ricordare Giorgio Strehler, la canzone di protesta nasce dalla fantasia e dalle esigenze del popolo di affidare al canto le proprie sofferenze e preoccupazioni, ma anche le proprie speranze. Fu in Germania agli inizi del Novecento che la rinnovata tradizione del cabaret si arricchì grazie al fondamentale contributo di una nuova generazione di artisti e intellettuali sensibili e responsabili. Per esempio, grazie a Bertolt Brecht e Kurt Weill la canzone popolare incominciò a varcare i confini dell’intrattenimento effimero, di natura occasionale, per trasformarsi in riflessione politica generale. Attraverso i toni viscerali dell’ironia e della satira, filtrati da una grande lungimiranza, la canzone popolare viveva un’inedita mutazione. Da arte considerata «minore» diventava un genere maturo, autosufficiente, estremamente versatile, talvolta assimilabile alle più grandi espressioni della storia dell’arte universale. Nonostante le loro frequentazioni siano durate appena tre anni, dal 1927 al 1930, nel pieno di quell’effimera stagione di rinascimento tedesco nota come Repubblica di Weimar, Brecht e Weill stavano aprendo il cammino alla canzone moderna e a quelli che, soprattutto a partire dalla fine degli anni Cinquanta, cominceranno a chiamarsi «cantautori». Ma la nuova imminente carneficina obbligò a una lunga e dolorosa pausa.

L’alba di un nuovo mondo Passata la guerra, dopo vent’anni di fascismo e di censure, l’Italia del secondo dopoguerra scopriva l’eleganza delle voci di famosi crooners come Frank Sinatra e Cole Porter, i film di Hollywood, il jazz di Louis Armstrong. L’alba di un nuovo mondo sembrava alle porte. Per far fronte a questa invasione di musica straniera senza precedenti, i discografici si inventarono quello che ancor’oggi, con il dovuto distanziamento storico, continua a chiamarsi Festival della Canzone Italiana di Sanremo. Correva l’anno 1951 e la moderna canzone italiana trovava così il suo originale atto costitutivo. Per parlare di «canzone d’autore» si dovette attendere quasi un decennio, per l’esattezza il 1958, con il successo planetario di canzoni come Nel blu dipinto di blu, Come prima e,

un anno dopo, Piove (Ciao ciao bambina). A partire dagli anni Sessanta le cose iniziarono a cambiare. Al rock and roll statunitense si incominciò a sostituire l’influenza della nascente stella dei Beatles. Se da un lato giovani band come I giganti, Equipe 84, New Trolls, I corvi, I camaleonti, Dik Dik, Nomadi, Pooh, Pfm e Le orme stupivano un pubblico non ancora abituato alle sperimentazioni dell’elettricità musicale, dall’altro fu a partire da allora che il fenomeno dei cantautori iniziò a fare la sua comparsa sulla scena. Tra questi Umberto Bindi, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Luigi Tenco, Fabrizio De André, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Sergio Endrigo, Francesco Guccini, Lucio Dalla e Roberto Vecchioni. Si trattava di giovani artisti colti, provenienti da città come Genova, Milano e Bologna, che decisero di trovare la propria ispirazione in un patrimonio popolare filtrato attraverso una sensibilità classica che spaziava da poeti come François Villon ai trovatori, dalla ballada medievale al madrigale, fino ad arrivare ai poètes maudits alla Verlaine, Baudelaire e Rimbaud, ma anche a uno spagnolo come Federico García Lorca. Così si spiegano per esempio Georges Brassens e Leo Ferré in Francia, il canadese

Fabrizio De André. Nella pagina a fronte, in alto, Woody Guthrie e la sua celebre chitarra con la scritta «Questa macchina ammazza i fascisti»

Leonard Cohen e il nostro Fabrizio De André. Parallelamente, grazie al pionieristico lavoro di ricerca di studiosi come Roberto Leydi, Giovanna Daffini, Giovanna Marini, Ivan della Mea e Paolo Pietrangeli il pubblico poteva scoprire un repertorio musicale immenso, in molti casi fino ad allora colpevolmente trascurato a causa delle ipocrisie di una cultura ufficiale ossessionata dal desiderio di abbandonare le proprie origini rurali e contadine per proiettarsi nel nuovo orizzonte della modernità, al pari delle grandi potenze della nuova Europa uscita dalle macerie della guerra. Un pregiudizio, questo, perfettamente condensato nella storica sentenza del giovane Giulio Andreotti del 1952, all’epoca sottosegretario allo Spettacolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al considerare Umberto D, il capolavoro neorealista di De Sica, «un pessimo servizio alla sua Patria». Nuovo Canzoniere Italiano Anni dopo, nel 1962, fu grazie all’Istituto Ernesto de Martino che a Milano, dall’esperienza dello storico collettivo dei Cantacronache torinesi, nasceva il Nuovo Canzoniere Italiano. Si trattava di un gruppo culturale trasversale di intellettuali, artisti e ricercatori uniti dal comune obiettivo di conferire dignità storiografica a una serie di fonti generalmente considerate «alternative», e per questo trascurate. Dalle antiche improvvisazioni in rima dei contadini di Toscana e Sardegna ai vecchi canti di lavoro siciliani e calabresi, piemontesi e lombardi, dalle canzoni di lotta del Risorgimento a quelle della Resistenza, dai canti sociali del movimento operaio a quelli anarchici e libertari, un patrimonio popolare eccezionale veniva messo a disposizione di un’Italia sotto molti aspetti distratta e bigotta. Ispirati dai lavori di Sergio Liberovici e Michele Luciano Straniero dei Cantacronache e dagli studi di Carlo Ginzburg e Giovanni Levi sulle fonti scritte alternative, di Cesare Bermani e Gianni Bosio su quelle orali e delle inchieste di Danilo Montaldi sugli immigrati nei centri urbani, questi ricercatori coroneranno il loro importante lavoro con la creazione dell’etichetta discografica indipendente I Dischi del Sole. American folk song Parallelamente, all’altro lato dell’oceano, in risposta alla retorica nazionalista del clas-


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sico di Irving Berlin God Bless America, nel 1940 il cantautore Woody Guthrie scriveva i celebri versi di This land is your land. Nello stesso anno vedeva la luce Furore, il capolavoro di John Ford ispirato a The grapes of wrath, il libro dedicato dal premio Nobel della Letteratura John Steinbeck all’odissea di una delle migliaia di famiglie che a causa della crisi del 1929 furono costrette ad abbandonare le proprie terre dell’Oklahoma per emigrare verso la California. Dal profondo realismo di scrittori come Steinbeck e di musicisti come Guthrie nascevano i primi moderni cantautori statunitensi disposti a interrogarsi problematicamente sul proprio ruolo nella Storia. Dopo Woody Guthrie arrivarono Jimmie Rodgers, Burl Ives, Pete Seeger e molti altri ancora. Con loro l’american folk song incominciò a vivere i suoi anni dorati. Gran parte delle loro originali ricerche musicali si può trovare oggi nei locali dell’American Folklife Center, uno dei maggiori archivi di musica folclorica del mondo, creato nel 1976 all’interno della Biblioteca del Congresso di Washington e che dal 1978 riunisce tra gli altri fondi documentali, lo storico Archive of Folk Culture istituito nel 1928. Con This machine kills fascists, il celebre slogan posto sulle fiancate degli aerei delle brigate internazionali durante la Guerra civile spagnola che a partire dal 1943 Woody Guthrie volle imprimere sulla sua chitarra, ma anche con If I had a hammer, di Pete Seeger e Lee Hays (The Weavers), la canzone di protesta statunitense si convertì nella colonna sonora originale della Contestazione degli anni Sessanta, dai movimenti per la pace e per i diritti civili fino ad arrivare alle proteste contro la guerra del Viet-

nam. Una lotta che in alcuni casi fu più comodamente ricondotta su un piano più individuale e solipsistico, attraverso tecniche di rilassamento mentale prese in prestito dal buddismo zen e dal taoismo, mescolati con un’originale sintesi di nuova spiritualità antimaterialista, viaggi astrali (in alcuni casi anche reali) all’India di Siddharta e Sai Baba o al Tibet del Dalai Lama, in compagnia dei moderni profeti della psichedelia. Da Timotthy Leary a Allen Ginsberg, da Jack Kerouac fino a William Burroughs, in molti tra beats e nuovi hippies iniziarono a predicare una rivoluzione sessuale in nome della liberazione di un nuovo corpo, sottratto alle logiche del piacere come fonte di potere. Fu questa un’originale maniera, non esente da qualche dose di narcisismo, di sottrarre i propri corpi alle leggi della produttività imposte dal mercato e dalla moderna società dei consumi, ma senza realmente interrogarsi seriamente sulle condizioni di possibilità di tali meccanismi di sfruttamento. In sintesi, se molti tra i cantautori europei, specialmente gli italiani e i francesi, trovarono la propria fonte di ispirazione nella tradizione popolare classica e medievale, filtrata dai grandi autori della letteratura moderna e contemporanea, gli statunitensi nascevano all’ombra dei versi di scrittori come Whitman ed Hemingway, Lee Masters e Kerouac, Ginsberg e soprattutto, a partire dagli anni Sessanta, dei nuovi profeti della Beat Generation. Il sogno latinoamericano In America Latina le cose andarono diversamente, grazie a numerosi artisti impegnati a ricercare le proprie radici musicali in un patrimonio culturale collettivo, anonimo e popolare. Dalle tradizioni andine precolombiane alle originali fusioni musicali nate durante l’epoca coloniale. Con eccezione della poesia del nicaraguense Rubén Darío, dei cubani José Martí e Nicolás Guillén e del peruviano César Vallejo (e più tardi di Alfonsina Storni, Pablo Neruda, Raúl González Tuñón, Juan Gelman e Mario Benedetti) la maggioranza dei cantautori latinoamericani troverà la propria fonte di ispirazione nel folclore. Da Atahualpa Yupanqui e Violeta Parra in poi, in tutto quello che «il popolo impara senza che nessuno glielo insegni». La canzone popolare latinoamericana passava così necessariamente attraverso le note del cuatro, del charango e della quena; i ritmi del joropo e del samba, della baguala e della vidala, della chacarera e del gato, della zamba e del malambo, della guaranía e della litoraleña, passando per la chamarrita, il

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chamamé, il taquirari, la tonada, la cueca, il triunfo, l’estilo, la cifra, la huella, fino ad arrivare al tango, alla murga e al candombe. Si trattava di canzoni che narravano di radici andine e precolombiane, di originali fusioni con la musica spagnola della Conquista, delle sue vittorie e sconfitte, di colonialismo e neoliberismo, di endemici militarismi mai sopiti e di proiezioni verso nuovi mistici socialismi del XXI secolo. Per tali ragioni è estremamente difficile parlare di Nuova canzone latinoamericana nei termini di un «movimento culturale» in sé. Contro i facili romanticismi che per troppo tempo hanno ridotto l’America Latina a una immagine stereotipata nel tempo di un continente alla deriva, perduto in un sogno a metà strada tra populismo e rivoluzione permanente, è necessario ribadire quanto possa essere arbitrario riunire sotto la medesima categoria movimenti così eterogenei come la Nueva trova cubana e il Cancionero popular argentino, la Nueva canción uruguaiana e il tropicalismo brasiliano fino ad arrivare alle Nueva canción cilena, insieme alla bossa-

Da Brecht e Kurt Weill alla «nueva trova» cubana, da Woody Guthrie a Fabrizio De André, dai canti del movimento operaio italiano a quelli dei ragazzi sudamericani zittiti dalle dittature nova, il vero grande fenomeno discografico internazionale latinoamericano degli anni Settanta. Quel che è certo è che la canzone popolare del Sudamerica è stato il risultato violento della lunga storia di un continente alle prese con il difficile cammino verso l’emancipazione da interessi stranieri. Il riflesso delle sfide, dei sogni, ma soprattutto delle sconfitte, di giovani desiderosi di cambiare se non il mondo, perlomeno il proprio posto in esso. Ragazzi spinti da una ricerca di una propria autodeterminazione in quanto «individui», ancor prima che come «popoli». Sogni in molti casi frustrati dalla violenta reazione di un potere non disposto ad ascoltarli. Rastrellati, incarcerati, fatti sparire o più semplicemente costretti a una lenta agonia per inedia o per mancanza di speranza, condannati a scontare la propria morte vivendo. * Storico della canzone latinoamericana e critico musicale. Dal 2009 dirige e presenta il programma «Café del sur» (Radio 3 – Radio Nacional de España)


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«Queste “riforme” ci preoccupano»

UN DOCUMENTO DEL COMITATO NAZIONALE DELL’ANPI

I

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l Comitato nazionale, nella riunione del 30 giugno 2015, ha preso in esame la situazione delle “riforme” in Italia, decidendo di esprimere – al termine del dibattito – viva preoccupazione per l’andamento delle cose e per il rischio che gli spazi di democrazia, anziché ampliarsi, finiscano per ridursi, così come di alcuni diritti possa essere ridotta l’effettività; e ciò in un Paese che attraversa ancora una difficile situazione di crisi, non solo economica, ma anche politica e morale.

La legge elettorale Sulla legge elettorale, il giudizio dell’ANPI è sempre stato severo e tale resta anche dopo la definitiva approvazione (con la fiducia). La legge, così come è stata approvata, anche a prescindere dalla anomalia dell’entrata in vigore differita al luglio 2016, non appare conforme né al dettato costituzionale né agli interessi di un Paese democratico. Resta ancora un premio di maggioranza eccessivo e resta la possibilità che, dopo un ballottaggio, esso venga attribuito ad un partito che ha riscosso complessivamente troppo pochi voti per meritare un premio. Resta il problema dei “nominati” anziché eletti, con la possibilità per costoro, di candidarsi in più circoscrizioni. Resta la discussione se sia davvero preferibile assegnare il premio ad una lista anziché ad una coalizione; resta, il fatto che una effettiva, reale e piena rappresentanza non risulta in alcun modo garantita, così come non è garantito un vero esercizio della sovranità popolare. Questa legge non è utile al Paese e non corrisponde all’interesse dei cittadini. È possibile che sia chiamata ad esprimersi la Corte Costituzionale; oppure che siano gli stessi cittadini a manifestare, nelle forme più opportune, il loro dissenso. L’ANPI continua a ritenere che questa legge rappresenti un vulnus al sistema democratico, sicuramente da eliminare con sostanziali cambiamenti. La riforma del Senato L’ANPI continua a ritenere che si tratti della sostanziale abolizione di uno dei rami del Parlamento, con cui si elimina un contropotere, essenziale per l’equilibrio previsto dal legislatore costituente.

Vi erano modi assai più semplici e meno invasivi per correggere alcuni effetti del cosiddetto bicameralismo perfetto. Si è invece battuta un’altra strada, grave e pericolosa. Non è solo questione di elezione diretta, pur fondamentale; è anche questione di contenuti, cioè di poteri. Così come sono stati configurati, essi sono troppi per un organismo sostanzialmente delegittimato e contemporaneamente troppo pochi rispetto a quello che occorrerebbe, per ottenere quell’essenziale equilibrio di poteri che è alla base della volontà espressa dalla Costituzione. Oltretutto, se davvero si vuol ridurre il numero dei parlamentari (ma per ragioni di funzionalità e non per venire incontro alla pressione dell’antipolitica) lo si faccia per entrambe le Camere. Tanto più che un Senato di 100 componenti non potrebbe avere un peso determinante anche nell’ipotesi di lavori congiunti con la Camera, così come questa resterebbe strutturata. L’ANPI confida che si possa ancora correggere quella anomalia giuridico-istituzionale che si va costruendo ed auspica che il Senato faccia fino in fondo il suo dovere di difesa dei princìpi e dei valori costituzionali. La riforma della scuola Non è concepibile una riforma della scuola effettuata a tamburo battente, con una fretta ingiustificata e contro gran parte del mondo della scuola. L’ANPI ribadisce: che la scuola da rafforzare in primis è quella pubblica, senza escamotage per aggirare i divieti costituzionali; che la scuola non può essere elitaria e differenziata in base a criteri diversi dal merito e dalla qualità; che la scuola ha bisogno di collaborazione e di partecipazione di tutti (studenti, insegnanti, famiglie) e non di centri autoritari, dotati di poteri discrezionali; che la

scuola deve rispondere principalmente al suo ruolo ed alla sua missione vera, che è quella di creare, “cittadini” consapevoli ed attivi; che la scuola ha bisogno di valorizzazione delle professionalità, di organici completati e di personale inserito validamente e razionalmente nel quadro generale dell’insegnamento. Una scuola adeguata ai tempi, non può limitare l’insegnamento della storia a poche nozioni, ristrette nel tempo; ma deve aiutare a conoscere il passato, anche il più recente, per capire meglio il presente ed affrontare consapevolmente il futuro; deve, soprattutto, recare un contributo decisivo per indirizzare i giovani verso una cittadinanza attiva. Solo da una grande ed approfondita discussione pubblica (che del resto era stata promessa, senza poi esito) e da una riflessione collettiva e partecipata, potrebbe nascere una riforma in grado di risolvere gli annosi problemi che tutt’ora affliggono la scuola e la rendono non idonea ad affrontare le grandi sfide del mondo contemporaneo. Allo stato, mancano tutti i presupposti perché si possa parlare di una vera riforma della scuola. Alla tematica del lavoro – sul quale peraltro l’ANPI si è più volte espressa – sarà dedicata una riflessione specifica, in relazione alla sua particolare rilevanza (art. 1 della Costituzione) e complessità. In ogni caso, una stagione di riforme è possibile e necessaria. Ma essa può essere realizzata solo con la più ampia partecipazione dei cittadini, con effettivi confronti con le organizzazioni sindacali e con le rappresentanze di categoria, nell’ambito di una rigorosa volontà di dare finalmente attuazione alla Costituzione repubblicana, soprattutto nella parte inerente ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici e dei cittadini e delle cittadine nel loro complesso.

il fiore del partigiano

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE DIVISIONE

NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA FIUME ADDA Redazione: presso la sede della Sezione Quintino di Vona di Inzago (MI) in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Direttore responsabile:  Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)


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