Il Fiore del Partigiano - settembre 2010

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il fi fioore del partigiano

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Con le “vecchie glorie” molti giovani cuori

IL TESSERAMENTO ALL’ANPI È IN CONTINUO AUMENTO, ANCHE TRA I RAGAZZI

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o mi iscrivo all’ANPI perché la Resistenza non sia solo memoria del passato, ma esercizio del presente». È lo slogan lanciato a giugno da un’idea di Dacia Maraini e Concita De Gregorio, con la “campagna di tesseramento degli artisti” che ha avuto una lunga serie di adesioni: ma già nel 2009 il numero degli iscritti all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia aveva superato quota 110 mila, un autentico record, con tanti giovani e giovanissimi entrati nelle file dell’antifascismo in numero sempre più consistente a partire dal 2006, quando il nuovo articolo 23 dello statuto ha “aperto” anche a chi, per ragioni anagrafiche, non aveva partecipato alla Resistenza. Sul Corriere della Sera del 29 giugno, a proposito della campagna per il tesseramento degli artisti, Dacia Maraini ha scritto tra l’altro: «“Roba vecchia e polverosa”, si sente dire da alcuni, dimenti-

cando quello che è costato al nostro Paese liberarsi da una dittatura che ha portato l’Italia alla catastrofe. Quanti sanno che dall’8 settembre del ‘43 all’aprile del ‘45 ci sono stati 300 mila partigiani che hanno combattuto i resti del nazifascismo, con 44.700 morti? Quanti sanno che fra costoro c’erano 35 mila donne, di cui 1.072 cadute in combattimento, 4.653 arrestate e torturate, 2.750 deportate nei campi di sterminio, 2.812 fucilate o impiccate? Per non parlare di tutti quei civili (40 mila di cui sono tornati a casa solo 4 mila), operai e soldati abbandonati da un esercito senza capi e senza ordini? E che dire degli ebrei spediti in Polonia per essere massacrati? In tutta Italia furono più di 10 mila. Fra questi, duemila solo dal ghetto di Roma (16.10.43). I sopravvissuti? Solo 15». Anche in Lombardia il numero degli iscritti, come si vede dalla tabella qui sotto, è cresciuto: forse meno che altrove, ma solo perché, in regione, la presenza dell’ANPI è tradizionalmente forte. Con i suoi 22.453 iscritti del giugno 2010 (cresciuti di un migliaio rispetto all’anno precedente) la Lombardia ha oltre un sesto delle tessere dell’intero Paese. Laura Guardini

La crescita del tesseramento in Lombardia

Atteso quest’anno un altro picco di iscrizioni. In forte crescita Brescia, Como e Sondrio 2006

2007

2008

2009

2010

provincia

iscritti sezioni

iscritti sezioni

iscritti sezioni

iscritti sezioni

BRESCIA

1.150

21

1.104

21

1.188

21

1.192

21

1.180

21

COMO

3.650

72

3.621

72

3.615

72

3.750

72

** 4.100

72

CREMONA

304

3

314

3

392

5

470

5+1

283

6

LECCO

426

12

202

8

333

6

296

6

** 300

6

LODI

630

623

1

666

4

** 700

4

BERGAMO

650

iscritti sezioni

1.332

15

1.300

14

1.323

14

1.350

14

** 1.310

16

346

10

346

10

282

10

320

10

** 380

10

* 9.861

107

* 9.684

107

7.863

94

7.814

92

** 8.290

93

PAVIA

1.800

18

1.815

20

** 2.200

25

SONDRIO

1.127

13

1.119

13

1.117

15

1.132

15

** 1.300

15

VARESE

350

6

** 400

6

totale

2.350

36

2.303

36

2.336

35

2.331

35

** 2.500

35

21.458

289

20.927

284

21.173

291

21.486

301

22.453

309

MANTOVA MILANO

MONZA / BRIANZA

301

284

282

* comprensivi di Monza / B rianza

** tessere prelevate (mancano i dati di Bergamo)

Il primo maggio a Portella in tanti contro le mafie Il momento culminante della rievocazione del Primo Maggio a Portella della Ginestra col discorso del presidente nazionale ANPI Raimondo Ricci. Nelle altre immagini, il gonfalone di Reggio Emilia, “città del tricolore e dei fratelli Cervi”, il tricolore della sezione di Sasso Marconi e la bandiera della sezione Milanese “Martiri di San Siro”, che ha partecipato con Barona, Lambrate ed altre sezioni milanesi e dell'hinterland (FOTO ESSEPI)

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Facciamo cento feste ma all’aperto in piazza e nei prati

INCONTRO TRA GENERAZIONI ALLA FESTA DI ANCONA

RIUNITE DA MEZZA EUROPA. MA AL CHIUSO

nell’ampio cortile assolato con tempietto centrale, c’era il palco per gli spettacoli serali e l’entrata alle varie sale dove si tenevano gli incontri, i dibattiti e le presentazioni dei libri. Ecco, i libri costituivano la presenza più visibile in questo incontro di vecchi e nuovi partigiani. Ho seguito il Forum dedicato all’antifascismo europeo, con gli interventi di compagni perlopiù anziani provenienti dall’Albania, dalla Croazia, dalla Slovenia, dal

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RISPOSTA ALLA “GAZZETTA DELL’ADDA”

Antifascisti? Sì, ma solo il 25 aprile...

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TUTTE LE FOTO SONO DI GIANCARLO VILLA

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abato 26 e domenica 27 Luglio sono stato ad Ancona alla 2ª Festa nazionale ANPI che si è tenuta nel capoluogo marchigiano. L’evento era ospitato all’interno della Mole Vanvitelliana, o Lazzaretto, come più comunemente è chiamata questa struttura esagonale inserita nella città, ma completamente isolata, tranne che per un piccolo ponte in muratura.Devo dire la verità, non sono rimasto entusiasta da questa localizzazione: tutta interna a grandi mura, ha l’aspetto di una vera e propria fortezza; negli ampi locali umidi, seppur abbastanza luminosi (con fari e faretti vari), l’occhio non poteva spaziare, quindi giocoforza si concentrava sulle esposizioni di mostre, medaglieri, libri, gadgets, quadri e quanto altro le varie sezioni ANPI lì presenti esponevano. C’erano le ANPI delle Marche naturalmente, di Reggio Emilia, Milano, Lodi, Trieste, Mira e Venezia, Alessandria e Acqui, Verbania e Val d’Ossola, Toscana e altre ancora; c’erano la CGIL, Amnesty, l’ARCI, l’ANED, Libera, il memoriale della Shoah, i giovani socialisti europei e qualcun altro che mi sarà sfuggito. All’esterno, grazie alla brezza di mare, garrivano i tricolori ANPI sugli spalti e sulle torrette, mentre al centro del Lazzaretto,

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Montenegro (una ventina di anni fa, semplicemente erano tutti antifascisti jugoslavi), dalla Germania e dal Belgio. Molti di questi interventi ribadivano la necessità della battaglia e dell’impegno continuo contro il fascismo risorgente in buona parte dell’Europa, lo smascheramento del revisionismo storico e la grande corruzione che dilaga nei loro paesi (perché nel nostro no?), governati da una destra populista e corrotta (come ad esempio “Italiani di Costituzione” era il titolo programmatico della 2ª Festa Nazionale di Ancona. L’evento è stato ospitato negli spazi della Mole Vanvitelliana. Qui sopra e a sinistra, gli stand delle numerose sezioni intervenute. In alto, l’intervento dei quattro ragazzi belgi, autori di un bel documentario trasmesso anche dalla loro Tv nazionale. Nella pagina accanto, un incontro con i testimoni della Resistenza, seduti a tavola

in Albania, con Berisha, amico di Berlusconi). Per fortuna in Belgio, invece, l’impegno della memoria antifascista e di pace è addirittura gestito da un ente pubblico con finanziamenti e programmi seri; mentre in Germania una grande organizzazione antifascista, la FIR, contrasta con buoni risultati i tentativi di rinascita del nazismo nella terra di Hitler e dell’abominio nazifascista, come a Colonia, dove tutta la città, sindaco in testa, ha cacciato i neonazi. Molto interessante anche il dibattito nel pomeriggio, la parola l’avevano i giovani: quattro ragazzi belgi, che dopo un viaggio ad Auschwitz riescono a produrre un documentario che racconta dello sciopero dei 100.000 minatori ed operai contro le sofferenze imposte dall’occupazione nazista del 1941. Il loro filmato viene proiettato dalla TV nazionale belga in prima serata (e a noi, purtroppo, sovviene la tv italiana di Minzoliniana programmazione). Florian, giovane tedesco, ci racconta ancora di Koln e della cacciata dei neonazi o naziskin; Daniele, italiano, che è antifascista prima di tutto come atteggiamento culturale, è così, è sempre stato così e non ci può fare niente; Stephanciok, triestino sloveno, ricorda il sottile veleno del revisionismo storico e l’ignominia delle citazioni di Mussolini nei temi di maturità; per Fulvia la pace, la libertà, la giustizia sono valori eterni, ma… bisogna difenderli ogni giorno. Concludono Luciano Guerzoni ed il capogruppo dei socialisti europei Martin

Schultz, più politici, ma anche più scontati. Intanto siamo arrivati al tramonto, il cortile è ormai ampiamente ombreggiato, le note del gruppo musicale che farà lo spettacolo la sera si diffondono dal palco durante il check sound. Dopo un po’ arriva Simone Cristicchi e comincia a provare la sua affabulazione in romanesco su “Li romani ala guera di Russia”. Magliette rosse e colorate, spilette di ogni foggia e slogan, l’Unità, Liberazione, Il Manifesto, Carta vengono distribuiti gratis; il piccolo bar (troppo piccolo) vende acqua, birre e caffè, ma è un po’ lontano dal cortile del palco degli spettacoli, lì non c’è servizio… peccato. Si prepara la serata musicale; arriva la gente, le famiglie, i cappellini rossi della CGIL, i fazzoletti tricolori dell’ANPI, i bambini che corrono nel cortile; continua la festa dei partigiani, vecchi e nuovi, degli antifascisti anziani e giovani, di chi ha combattuto per la libertà con le armi e di chi combatte con il voto, l’impegno quotidiano, la raccolta di firme contro la privatizzazione dell’acqua, la lotta sindacale per i diritti. Ce ne vorrebbero 100 di queste feste, in tutte le città d’Italia, ma ascoltate amici e dirigenti ANPI: facciamole all’aperto queste nostre belle feste, nei parchi, nelle piazze, nei prati, nelle campagne… All’aperto, all’aperto, facciamoci vedere e sentire; la nostra è tutta aria pulita, parole chiare, buona musica, FACCIAMOCI SENTIRE sempre di più! Giancarlo Villa

ANPI di Cassano d’Adda

a Gazzetta dell’Adda di lunedì 3 maggio riporta, a pag. 27, un resoconto delle cerimonie del 25 aprile scorso a Inzago secondo la visuale di un militante leghista, tale Roberto Aiardi. Secondo costui il ricordo del sacrificio dei combattenti per la libertà sarebbe scaduto nella presentazione di un nuovo giornale “di estrema sinistra” e in un attacco alla Lega Nord da parte della presidenza dell’ANPI locale. Il tutto presentato sotto l’aura di essere, l’Aiardi, figlio di partigiani, cattolici, e finendo con la richiesta di dimissioni della presidente che non lo rappresenterebbe. A completezza d’informazione per i vostri lettori, mi preme precisare che quello che è stato presentato in quell’occasione era la nuova edizione de “Il fiore del partigiano”, periodico dell’ANPI della Zona Martesana (a cui mi onoro di prestare la mia firma di direttore responsabile). La storia dell’ANPI è sempre stata limpida in ogni sua espressione; il suo impegno quello della difesa della Democrazia e della Costituzione, riconquistate al prezzo di immani sacrifici. “Il fiore del partigiano” continua, per la parte che gli compete, lo stesso impegno. L’ANPI ha sempre valorizzato l’apporto di tutte le componenti politiche e sociali nella Lotta di Liberazione, con la coerenza di chi l’unità antifascista l’aveva ricercata e praticata. Sarebbe ora di smetterla col falso mito revisionista di presunte faide anticattoliche nelle nostre fila. Democristiani, socialisti, comunisti sono sempre stati fianco a fianco nell’ANPI. Se altri, da qualche tempo a questa parte, hanno problemi a confrontarsi con la Storia e coi suoi insegnamenti, sarebbe il caso che si ponessero qualche quesito di coerenza. Come si fa ad onorare le vittime del nazi-fascismo un giorno all’anno, quando poi coi fascisti ci si allea per qualche voto in più alle elezioni? Come si fa a dirsi antifascisti e poi praticare con l’istigazione e con atti la discriminazione razziale, che del fascismo fu uno degli aspetti più infausti? L’essere figli di partigiani non dovrebbe esentare dal porsi almeno queste domande. Rocco Ornaghi


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Da sinistra in senso orario, il luogo della fucilazione e il muro-sacrario; i 42 alberi piantati in memoria dei partigiani uccisi; la grande croce e il triplice camminamento che porta al muro. Nell’altra pagina, la foto scattata dai nazisti al mesto corteo dei partigiani condannati a morte; sotto, il gruppo di Bellinzago Lombardo alla fine della visita

Sul triplice sentiero le tracce dell’eccidio di Fondotoce I LA SEZIONE DI BELLINZAGO AL PARCO DELLA MEMORIA E DELLA PACE

l 6 Giugno scorso si è svolta una visita dell’ANPI di Bellinzago Lombardo a Fondotoce, vicino a Verbania sul Lago Maggiore, con alle spalle le montagne della Valle d’Ossola al confine con la Svizzera. Tra queste valli i partigiani combatterono tra il settembre del ‘43 fino alla liberazione dal regime nazi-fascista nell’aprile del ‘45. Sono i luoghi che raccontano eventi e persone che hanno contribuito a fare quel pezzo di storia che ha permesso allo Stato Italiano di passare dalla dittatura alla democrazia. A Fondotoce è il Parco della Memoria e della Pace di Verbania che occupa circa 16.000 mq lungo il canale che unisce il Lago di Mergozzo al Lago Maggiore. L’area monumentale si estende accanto al luogo in cui il 20 giugno 1944 avvenne l’eccidio di Fondotoce, il più efferato delitto di massa della lotta di liberazione nel Verbanio-Cusio-Ossola, e dove nel 1964 è stato elevato il sacrario a ricordo degli oltre 1200 caduti della Resistenza di codesta zona. Vicino a quel primo monumento e agli altri di carattere storico-politico è sorta la Casa della Resistenza. Quest’ultima, punto

di riferimento dei visitatori che rendono omaggio alle vittime dell’eccidio, è sede staccata dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea “Piero Fornara” di Novara e VerbanoCusio-Ossola. La storia di Fondotoce è in quella foto

scattata dai nazisti e riprodotta in gigantografia all’ingresso della Casa della Resistenza. Sono i partigiani condannati a morte che vengono fatti sfilare per tutti i paesi del lago in fila per tre con un cartello con la scritta Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono dei banditi? Hanno pan-

taloni e camicie sdrucite, sono sporchi, qualcuno è a piedi nudi. E in prima fila una donna, ha la testa bassa, un foulard, una giacca scura sulle spalle, una gonna al ginocchio e delle scarpe coi tacchi. Con una mano stringe la borsetta, il braccio è piegato verso il petto. Il suo nome è Cleonice, la staffetta partigiana che infonderà coraggio a tutti i suoi compagni sino al momento della morte. Tutti e 43 furono fucilati tre per volta nel declivio dietro il muro-sacrario. E furono passati per le armi tre volte: prima dal plotone d’esecuzione, poi dall’ufficiale che darà il colpo di grazia, e ancora da un gruppo di fascisti che, giunti alla fine della carneficina, spararono raffiche di mitra sui cadaveri. Carlo Suzzi, diciottenne di Busto Arsizio, sopravvisse all’esecuzione: nonostante fosse stato colpito da quattro proiettili, si allontanò dal luogo dell’eccidio grazie all’aiuto di alcuni abitanti della zona e dopo un mese ritornò a combattere. Sul luogo della fucilazione 42 alberi sono stati piantumati in loro ricordo. «Qui erano tutti fascisti» racconta il nostro accompagnatore, ma la crudeltà e il livore dei fascisti della Repubblica di Salò,

alleati con i nazisti, spinse la popolazione civile ad appoggiare chi aveva avuto il coraggio di ribellarsi e di lottare contro la dittatura. È passato del tempo dalla nostra discesa vociante e disordinata dal pullman: la nostra mente è oramai proiettata in un’altra dimensione tra questi luoghi di sofferenza e di dolore. Tutti i presenti sono attenti al racconto della nostra guida: non una voce, un commento. Il silenzio accompagna tutta la nostra visita come una preghiera in ricordo di quelle vittime innocenti. La Resistenza la si può ora toccare con mano su questo prato, tra i fili d’erba e tra quelle piante. E nella volontà di chi ha voluto fortemente la costruzione di questo complesso monumentale, non lasciandosi scoraggiare dalle mille difficoltà incontrate e dai lunghi tempi: è del 1964 il muro-sacrario, del 1996 la Casa della Resistenza e del 2005 la Galleria della Memoria. Consapevoli del fatto che i luoghi da soli non parlano e che le persone talora ricordano, ma tali ricordi sono ancorati alle fragilità individuali e cronologiche. La Storia interroga, ricerca e ricostruisce il passato alla luce del presente. La Memoria,

patrimonio collettivo di identità, si alimenta del ricordo dei testimoni e della ricerca storiografica e li restituisce collettivamente. I monumenti di Fondotoce sono Luoghi della Memoria dove si commemora (si ricorda in comune), dove si ricerca, raccoglie e ricostruisce criticamente il passato comune e dove si contribuisce alla formazione civile delle nuove generazioni. Una grande croce fronteggia il muro-sacrario: li si raggiunge percorrendo un triplice sentiero lastricato, come fu per i 43 partigiani che in fila per tre sfilarono per i paesi del lago. Sul muro i nomi dei 42 caduti e ai piedi della croce una lapide li ricorda per sempre. La Casa, con le sue diverse sale, è sorta con l’obbiettivo di aiutare le nuove generazioni ad appropriarsi del nostro passato per favorire la crescita di cittadini liberi e consapevoli. Un laboratorio multimediale e la vasta Biblioteca permettono ai diversi gruppi di studenti che li frequentano di approfondire i temi legati alla Resistenza e alla rinascita della libertà nel nostro paese. Una foto davanti alla Casa della Resistenza dopo aver firmato il registro delle presenze: per ricordare anche noi questa visita nei luoghi dei padri della nostra libertà. Sezione ANPI

di Bellinzago Lombardo


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L’immensa spianata che ospitava le baracche del lager; nella pagina seguente, in alto, i forni crematori. Nelle immagini in basso, il gruppo di Inzago nel corso della visita ascolta il racconto della guida (qui sotto) e riunito per una foto-ricordo (nella pagina seguente) FOTO DI FRANCESCO BRAMBILLA

La spianata di Dachau dov’era la “fabbrica del dolore” I LA SEZIONE DI INZAGO IN VISITA AL CAMPO DI STERMINIO TEDESCO

l cielo sopra Dachau era scuro, minaccioso, quel pomeriggio di Venerdì 28 Maggio, ma attraverso le nuvole gravide di pioggia, specie verso est, filtravano raggi di un sole caldo e luminoso, quasi volessero sovrastare il temporale. E a noi, gruppo ANPI di Inzago, in visita al campo di concentramento, pareva metaforicamente significare la forza per non soccombere agli orrori della storia e la speranza, nonostante tutto, di riuscire a trasmettere la nostra fede nell’uomo. Avviandoci all’entrata di quell’enorme area che, nata secoli fa come tenuta dei conti di Dachau, era poi diventata fabbrica di munizioni nel corso della prima guerra mondiale, per trasformarsi in campo di concentramento con l’avvento del nazismo, abbiamo attraversato il cancello dove una pesante inferriata porta la scritta “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi). Poi, nel silenzio assoluto che caratterizza la visita a questi luoghi, abbiamo camminato nell’enorme piazzale dove ogni giorno, mattina e sera, si svolgeva l’appello generale dei detenuti. Il silenzio era rotto solo, ogni tanto, dal rombo di qualche tuono che annunciava l’approssimarsi del temporale e dalle parole della guida che, con un’espressione intensa, mista di dolore e di imbarazzo, cercava di descri-

vere quella che poteva essere la vita dei detenuti del campo: fame, freddo, sporcizia, malattie, punizioni, morte e… dolore, tanto dolore! Intorno a noi una spianata immensa, delimitata ordinatamente e sovrastata da torrette di guardia, stava ad indicare lo spazio dove sorgevano le baracche. Quelle che già dal 1933, divise in categorie ben identifi-

cabili con simboli differenti, “ospitavano” dapprima oppositori del nascente regime, comunisti, dirigenti socialisti, zingari, omosessuali, asociali, per poi riempirsi di ebrei tedeschi ed ebrei provenienti dalla Polonia e dagli altri Paesi occupati dalla Germania di Hitler. Ad essi si aggiunsero poi prigionieri di guerra e militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943.

Ora le baracche non esistono più, ne sono state ricostruite solo due, per permettere ai visitatori di farsene un’idea. Alcuni di noi cercavano di fare un calcolo approssimativo di quante potessero essere le baracche e di conseguenza i detenuti, ma era difficile, anche per chi se la cava con la matematica. Così la guida ci ha detto che il bilancio dei prigionieri di questo campo è impressionante. Il totale dei detenuti passati a Dachau è di 206.206, anche se la cifra non è del tutto certa, in quanto molti prigionieri non vennero registrati o furono trasferiti in altri campi. Il numero dei morti fu di 30.000, dei quali 2500 dopo la liberazione, avvenuta da parte degli Americani il 29 aprile 1945. A quella data il numero dei detenuti era di 67.665, in parte nel campo centrale di Dachau, in parte nei campi filiali. La natura intorno era rigogliosa, sfacciatamente bella, anche in prossimità dei luoghi della morte: il forno crematorio e la camera a gas. Per molti anni si disse che essi non furono mai utilizzati, ma in seguito si scoprì che entrambi avevano assolto il loro macabro ruolo. La domanda di come tutto ciò sia potuto ac-

cadere si univa in noi ad una profonda commozione. In tutti noi, ed in modo quasi insopportabile in chi di noi non poteva fare a meno di pensare che in quel luogo orribile aveva trascorso quasi due anni della propria giovinezza un proprio familiare. Come uno di quei 650.000 militari che, catturato su uno dei fronti di guerra dopo l’armistizio, aveva preferito la deportazione in un campo di concentramento, piuttosto che aderire alla R.S.I. o arruolarsi nelle fila dell’esercito tedesco. E che una volta tornato a casa, a liberazione av-

venuta, in agosto o settembre del ’45, fu accolto con indifferenza, se non con diffidenza, alla quale rispose con il silenzio. È anche attraverso la visita a luoghi della memoria, come il campo di concentramento di Dachau, che l’ANPI non solo intende commemorare, doverosamente, le vittime del nazifascismo, ma si ripropone di conoscere meglio e approfondire i fatti della storia, così da poterne fare testimonianza alle giovani generazioni. Cesarina Brusamolino

ANPI di Inzago


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Dopo l’8 settembre ‘43 I.M.I. Internati Militari Italiani

I SOLDATI ITALIANI, LASCIATI ALLO SBANDO, FINIRONO IN MANO AI NAZISTI

Alla vigilia dello scorso 25 aprile il ministro Ignazio La Russa non ha trovato di meglio che andare in tv nell’ospitale (per lui) “salotto” di Porta a Porta a propagandare tesi false e calunniose a proposito delle vicende dei cosiddetti IMI, i militari internati nei campi di lavoro (e sterminio) nazisti, negli ultimi anni della guerra scatenata da Hitler. Ospitiamo in queste pagine la lettera aperta che Giancarlo Villa, figlio del deportato IMI Silvio, ha spedito alla stampa in risposta alle farneticanti insulti del ministro ed un esauriente testo sulla storia degli IMI di Gianluca Rossini, responsabile della sezione Memoria della deportazione dell’ISCOP - Istituto di Storia Contemporanea di Pesaro e Urbino (tratto da “Promemoria Numerozero - Storie e figure dalla Memoteca Pian del bruscolo”).

“P DI

GIANLUCA ROSSINI

otremmo passare giorni e notti l’uno accanto all’altra, a chiedere e rispondere su un’infinità di cose che tu supponi neppure: di cose che ho visto ed ho sentito, di fatti che ho intuito dalla prudenza dei segni e dall’eloquio delle occhiate; di drammi che hanno emaciato fino all’inverosimile i volti di molti italiani, di tragedie che hanno fatto piangere lacrime di sangue a molti giovani con una colpa uguale alla mia, con un destino più crudo del mio. Non so neppure se vorrò dire tutto; perché credo che quando avrò riguadagnato il conforto e la pace della mia famiglia, si quieterà in me l’ansia dei giorni trascorsi e prevarrà un solo desiderio: quello di dimenticare, di dimenticare tutto perché tutto è brutto, doloroso, cupo, vergognoso.” Così scrive un ufficiale medico alla moglie il 25 Luglio 1944, internato nei pressi di Atene. In questa frase si riassume gran parte della vicenda, pressoché dimenticata, degli IMI, gli Internati Militari Italiani. Se vengono citate le parole “Auschwitz”, “Shoah”, “Resistenza”, “SS”, tutti noi sappiamo di cosa si stia parlando,

L’8 Settembre 1943 il Maresciallo d’Italia Badoglio annuncia alla radio che è stato firmato un accordo di resa incondizionata (che gli italiani chiameranno armistizio) con le truppe Alleate. Mussolini era stato arrestato già dal 25 Luglio. Gli Alleati avevano occupato la Sicilia. A Badoglio era stato affidato il governo dal Re Vittorio Emanuele III (lo stesso re che aveva permesso l’ascesa di Mussolini e la marcia su Roma). Badoglio aveva il compito, oltre che di gestire gli affari correnti, di trattare la resa con gli alleati, in quanto la guerra (alla quale Mussolini aveva voluto fortemente partecipare) aveva fiaccato l’Italia e rischiava di trascinarla sempre più verso la miseria e la bancarotta.

LA DATA DELL’8 SETTEMBRE è chiamata da molti il giorno dello “sbandamento”. Infatti, a seguito dell’annuncio radiofonico dell’avvenuta firma della resa, avvenne un fatto cruciale per l’esercito italiano: ci fu un completo sbandamento di tutto il gruppo dirigente militare; a cominciare da Badoglio passando per tutti i generali di corpo d’armata, fino a tutti gli ufficiali. NesSilvio Villa nella foto di schedatura nel campo suno sapeva quali erano gli di Krumpa-Halle (Germania orientale), ordini. I nazisti erano divennell’ottobre 1944. Qui venne costretto a lavorare tati nemici? Si tornava tutti a nel complesso di raffinazione di Junker-Langen- casa? Bisognava cedere le werke fino all’8 aprile 1945, giorno della armi? Bisognava combattere liberazione da parte degli anglo-americani al fianco di coloro che fino a quel momento erano stati i nemici, e cioè gli Alleati? Nesma la sigla IMI è priva di significato per la sun ufficiale sapeva nulla. O meglio gli ormaggior parte delle persone. dini che avevano ricevuti erano confusi e A maggior ragione lo è per le nuove gene- contraddittori. razioni. La Resistenza e la lotta di Libera- Il Re fuggì da Roma per rifugiarsi al sicuro zione sono due pietre miliari della nostra nei territori occupati dagli Alleati e con lui Repubblica, grazie alle quali l’Italia si è in anche Badoglio e tutto il governo italiano. parte riscattata dall’onta di essere stata al- L’esercito tutto fu allo sbando! leata con il Reich di Hitler. Ma in realtà Hitler aveva previsto da tempo che l’Italia esiste un’altra vicenda che forse rende an- avrebbe ceduto agli Alleati e da tempo cora più merito all’Italia e in modo parti- aveva preparato diversi piani (il più facolare all’esercito italiano: questa vicenda moso è l’ACHSE) per l’invasione e il sucè proprio quella che riguarda gli IMI. cessivo controllo dell’Italia. In diverse

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LETTERA DI GIANCARLO VILLA AI GIORNALI

La Russa insulta la memoria di mio padre G

22 aprile 2010 entile Redazione, c’è da da provare sconcerto, rabbia, umiliazione e vergogna ad essere “ufficialmente” rappresentati e governati da un Ministro della difesa come il sig. La Russa. Ieri sera, 21.04.2010, durante la trasmissione Porta a Porta, condotta da Bruna Vespa, sulla Resistenza sconosciuta (dei militari italiani), il ministro La Russa ha insultato la memoria dei 650.000 soldati italiani presi prigionieri dopo l’8 settembre 1943 dall’esercito nazista e ridotti a schiavi di Hitler, obbligati al lavoro coatto in condizioni inumane e senza nessuna assistenza da Croce rossa o tanto meno dal governo di Mussolini. Ottantamila di questi soldati e ufficiali italiani morirono per gli stenti o per eliminazione da parte della Wermacht o delle SS, altri tornarono nell’estate del 1945 alle loro case, debilitati nel fisico e nello spirito da questa tragica esperienza, in cui li aveva gettati il regime fascista di Mussolini (del quale il sig. La Russa è stato “nipotino” fino a pochi anni

fa). Ebbene, questo rappresentante della Repubblica italiana, nata dalla Resistenza antifascista (che paradosso, sic!), ieri sera ha avuto l’impudenza di affermare che secondo lui molti di questi militari italiani non aderirono alla Repubblica Sociale di Salò – atto che li avrebbe liberati dalla prigionia – non tanto per ribellione e resistenza al regime di Mussolini, ma solo per una “comoda” posizione di non tornare in Italia a combattere e quindi rischiare di morire. La memoria di mio padre Silvio, classe 1920, ex-internato militare IMI matr. 159618 XB, scomparso lo scorso anno, i suoi racconti, i suoi libri, altre centinaia di testimonianze e libri, l’ultimo dei quali “Gli internati militari italiani” di Avigliano e Palmieri (ed. Einaudi) consiglio al ministro La Russa di leggere, dimo-

Nel suo libro di memorie “Il ritorno-1945” Silvio Villa ha raccontato le peripezie e le sofferenze del ritorno a casa, durato ben 105 giorni, dopo la liberazione dal lager

zone d’Europa e d’Italia i nostri soldati erano in numero preponderante rispetto alla Wehrmacht, ma la mancanza di ordini precisi fu fatale. In pochissimi giorni l’esercito tedesco e le SS riuscirono a disarmare centinaia di migliaia di soldati italiani. Ci furono episodi di resistenza e addirittura di ribellione, tra i quali il più famoso è senz’altro quello di Cefalonia. Da qui ha inizio quella che è forse la vicenda più tragica ma anche, forse, più eroica dell’esercito italiano, la vicenda degli IMI appunto. PER I NAZISTI gli italiani erano traditori; li chiamavano “Badoglien” in senso dispregiativo. Per Hitler (ma anche per tutti i tedeschi) gli italiani dovevano subire una punizione esemplare. Quindi l’arresto e la deportazione nei campi di prigionia e lavoro (Stammlager) non era abbastanza punitivo, perché, in qualità di prigionieri di guerra, avrebbero avuto diritto al rispetto della Convenzione di Ginevra, alle visite della Croce Rossa Internazionale e, soprattutto, avrebbero avuto il diritto di non sottostare ai lavori forzati. Ma gli italiani dovevano esser puniti.

Quindi Hitler escogitò la soluzione: i militari italiani prigionieri non vennero definiti prigionieri di guerra ma bensì Internati Militari Italiani (IMI - Italienische Militär-Internierten). Non essendo così prigionieri di guerra non avevano il diritto a tutti quei “privilegi” riservati ai prigionieri Alleati. Potevano quindi essere impiegati come lavoratori forzati (la Germania era al collasso e quindi aveva una gran necessità di lavoro a costo zero). Ma questo non era ancora abbastanza. Quindi intervennero considerazioni di carattere razziale: gli italiani erano, per loro natura, infidi e inaffidabili, con scarsa propensione al sacrificio e sulla scala razziale vennero “degradati” ad un livello molto basso, seguiti solo dagli Slavi (i Russi principalmente). Questo fece sì che le condizioni di vita dei giovani militari italiani nei campi di prigionia furono da subito tremende. Costretti a dormire a decine in baracche costruite per poche unità. I più fortunati con un’unica stufa per scaldarsi. Senza diritto ad avere coperte o vestiti invernali (furono catturati in Settembre, quindi tutti indossavano divise estive). Le razioni

strano chiaramente il contrario della sua tesi, che considero offensiva di tutta una generazione di soldati italiani, di giovani italiani, delle forze armate che questo ministro indegnamente si trova a rappresentare. A detta di tanti altri storici e testimoni dell’epoca, la non adesione degli IMI alla repubblichina di Salò, fu uno dei primi atti di ritrovata dignità e di Resistenza non-combattente di migliaia e migliaia di italiani, che per fortuna, anche per La Russa e camerati, portarono alla sconfitta del nazifascismo e al ritorno della democrazia e della libertà anche in Italia. Fa specie che, tranne per una precisazione del conduttore Bruno Vespa, gli altri presenti alla trasmissione non abbiano contestato energicamente questa maligna esternazione del sig. La Russa. Invito le associazioni partigiane, le associazioni d’arma ex-combattenti, gli exdeportati, tutte le forze politiche democratiche ed i liberi cittadini ad esprimere il loro sdegno al Governo che incarica questo sig. La Russa a rappresentare le Forze Armate italiane. Grazie per la vostra attenzione e cordiali saluti Giancarlo Villa Cassano d’Adda

di cibo erano le stesse riservate ai Russi: una brodaglia di rape e pane (fatto di poca segale, segatura e acqua). Costretti a turni di lavoro massacranti e in condizioni impossibili, soprattutto a patire il freddo (un sopravissuto ha parlato di 40 gradi sotto zero). Non avevano diritto di ricevere aiuti dalla Croce Rossa. Fucilati se colti a raccogliere bucce di patate o altri rifiuti di altri prigionieri (i fortunati Alleati!). Ma i nazisti, aiutati dal neonato esercito Repubblichino, promettevano ai prigionieri italiani che la loro condizione poteva essere nettamente migliorata se solo avessero acconsentito ad aderire al nuovo esercito di Mussolini (liberato il 12 Settembre 1943 dai tedeschi), a fianco dei nazisti. Ebbene la quasi totalità dei soldati italiani (ben 760mila su 810mila totali) preferirono le sofferenze e alcuni la morte piuttosto che cedere! Qui sta l’eroismo e l’orgoglio del popolo italiano. Non solo coloro che si dettero alla macchia e combatterono nelle file partigiane hanno quindi riscattato l’onore Italiano ma anche gli IMI, con le loro sofferenze e la loro determinazione vi contribuirono.


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Le origini della “Carta” riscatto di un popolo tradito IN TRE INCONTRI SI È FATTA CONOSCENZA CON LA COSTITUZIONE

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FILIPPO GORLA

DA DOVE È NATA, DUNQUE, LA NOSTRA COSTITUZIONE? Quali furono i principi ispiratori, i valori, le esigenze di fondo che hanno costituito la genesi di quel sentire di popolo e delle vicende che portarono alla Repubblica ed alla Carta Costituzionale che costituisce l’ossatura civile, morale e democratica della Nazione? Le origini della Costituzione italiana, come è stato più volte indagato dagli storici, affondano in quel lungo e sofferto percorso di rinascita nazionale che può essere riassunto con due parole chiave: Resistenza e lotta di Liberazione nazionale. Due parole che esprimono quel grande risveglio nazionale di patriottismo, di italianità, di desiderio profondo di restituire alla Patria la legalità, il diritto, la libertà e la dignità; in una parola la Democrazia che la dittatura fascista aveva offuscato e vilipeso. È questa una realtà storica, un punto fondamentale e nodale della storia d’Italia: un secondo Risorgi-

In un titolo di giornale l’annuncio del risultato del referendum che sancì la fine della monarchia e l’avvento della Repubblica; sotto, la scheda elettorale

mento che deve sempre essere tenuto presente e ricordato soprattutto alle nuove generazioni. La Democrazia e la Carta costituzionale che ne sancisce i principi fondamentali non sono piovute miracolosamente dall’alto, ma sono stati conquistati con la lotta, il sacrificio e la sofferenza di una schiera di donne e uomini coraggiosi che in prima persona si sono impegnati ed hanno lottato, e molti sono morti, per restituire all’Italia quei valori che erano stati offuscati. Per un ventennio sotto la dittatura fascista, appoggiata da pochi e subita dai più, l’Italia sprofondò come in una lunga notte d’oblio e l’entrata in guerra nel giugno del 1940 fu motivo d’ulteriori dolori e distruzioni.

Certo anche la monarchia ebbe una discutibile responsabilità nell’ascesa del fascismo, che assecondò più volte nelle sue scelte politiche. Basti pensare al silenzio della corona davanti alla fine della politica parlamentare, alla censura, al disprezzo dei diritti civili, alla repressione dei dissidenti, ai tribunali speciali, al famigerato patto d’acciaio sancito nel 1938 con la Germania nazista e la firma, da parte del Re, delle vergognose leggi razziali, promulgate dal fascismo per accattivarsi la simpatia del dittatore nazista. Ma bisogna pure affermare che la responsabilità della monarchia fu anche quella di non aver impedito il degenerare della situazione politica, interna ed estera, italiana. L’alleanza con la Germania e l’entrata in guerra, alla quale il Re non si oppose, hanno dimostrato l’incapacità, del fascismo e della monarchia, di cogliere i veri intenti della Germania nazista che erano quelli di assoggettare e dominare le nazioni, forse non soltanto europee, nell’inaccettabile visione della supremazia della razza. DOPO LA CADUTA DI MUSSOLINI ed i fatti dell’otto settembre, la fuga del Re da Roma e la sua palese incapacità di gestire la drammatica situazione militare e civile venutasi a creare nel Paese, furono sicuramente determinanti per la caduta della monarchia in Italia. Nel referendum sulla forma istituzionale dello Stato, istituito con DDL del 23 aprile 1946 e svoltosi il mese successivo, nonostante l’attiva azione del re Umberto II di riconquistare la fiducia della Nazione, dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, gli italiani scelsero la Repubblica. Il risultato del referendum registrò il seguente risultato: 12.718.019 voti per la Repubblica e 10.700.423 voti per la Monarchia. Il 10 giugno 1946 la Corte di Cassazione, riunita nel salone della Lupa a Montecitorio, annunciò il risultato del referendum. Al presidente, senatore del Regno Giuseppe Pagano, spettò il compito di leggere il verbale alla presenza dell’intero governo. Nel pomeriggio del 13 giugno 1946, poco dopo le sedici, Umberto II di Savoia, partendo dall’aeroporto romano di Ciampino, lasciò l’Italia per l’esilio in Portogallo; nello stesso momento al Quirinale fu ammainato il tricolore sabaudo ed innalzata la bandiera nazionale: era nata la Repubblica italiana. Sarebbe seguito il lungo lavoro preparatorio della Costituente.

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LA FIGURA FUORI POSTO DI “PAOLINO TI VOGLIO BENE” Riprendiamo una riflessione di Delbono da l’Unità del 16 marzo scorso sul “pensiero mafioso” DI

PIPPO DELBONO

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on sono d’accordo con il Papa. Lo so che questa frase suona un po’ come il titolo del libro di Carmelo Bene “Sono apparso alla Madonna”. Mi spiegherò. Non sono d’accordo con il Papa quando dice che i disastri non sono una punizione di Dio per far pagare delle colpe alla gente. Non credo in Dio. Non credo in quel Dio così come è rappresentato oggi dalla Chiesa cattolica. Quel Dio che giudica, quel Dio che condanna, quel Dio che punisce, quel Dio che perdona, quel Dio che chiude un occhio sui peccati se in cambio poi ti penti, se in cambio fai elemosina, quel Dio che dà per ricevere qualcosa in cambio. Quel Dio del Potere, quel Dio della Menzogna. Quel Dio malato. Un maestro buddista una volta mi disse: «Noi non è che non crediamo in Dio, è che non potendolo vedere non ne parliamo, preferiamo parlare dell’Uomo». E della Legge naturale che regola la vita dell’uomo, degli esseri umani, è più giusto parlare. Della legge delle cause e degli effetti, della responsabilità profonda, ancestrale di tutto quello che ci accade, e ci sta succedendo intorno. Sono in Sicilia, assorbito dalla bellezza e dalla tragicità di quest’isola che è l’essenza del nostro Paese. Qui c’è il concentrato della bellezza e dei dolori dell’Italia. Questa Italia malata, la terra, come diceva qualche giorno fa Le Monde, dei grandi poeti, dei grandi pensatori oggi scomparsi. Scandali. Truffe. Inciuci. Razzismi. Mischiati a facce di veline denudate sorridenti, a visi di ministri come cani inferociti, politici vecchi eterni volti, coperti di cerone per nascondere quella Morte che si portano dentro e hanno paura di far vedere. Mia madre mi diceva quando ero piccolo che una persona, per capire come è, basta guardarla negli occhi. Quanti occhi duri violenti, fascisti, occhi che mentono, vedo nelle persone che conducono le redini di questo Paese. Ti posso offrire un caffè? Poi a suo tempo mi darai qualcosa in cambio tu. Questo, mi dice qui a Catania un elegante e colto artista tedesco citando un grande pensatore siciliano, è il primo pensiero mafioso. Quanto sento fortemente in questa bellissima terra questo modo radicato di pensare.

In questo Paese chi non chiede niente è solo un matto

In Italia ha vinto la cultura dello scambio: ti faccio un favore ma ne voglio uno da te. E dire che a Catania c’è un uomo strano che si chiama Paolino. Non vuole nulla. Si avvicina e ti abbraccia solo per dirti: «Ti voglio bene» ILLUSTRAZIONE DI LUCA DE SANTIS

n un articolato programma intitolato “Appunti sulla Costituzione”, promosso dalle sezioni ANPI d’Inzago, Bellinzago Lombardo e Cassano d’Adda, si è parlato, nel corso di tre incontri svoltisi il 20 e 21 aprile ed il 4 maggio, della Costituzione italiana; per meglio conoscere, approfondire e riflettere sull’importante “Carta” che sta alle fondamenta della Repubblica italiana. Volentieri, da Dottorando di ricerca in Storia Contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano, ho risposto all’invito rivoltomi dalla Presidente della Sezione ANPI di Inzago, Sig.ra Margherita Catanzariti, di intervenire al secondo incontro del programma che si è tenuto presso l’Auditorium De André di Inzago e che ha avuto per titolo: “Come e da quali radici storiche nasce la Carta Costituzionale”. Introducendo l’incontro, al quale sono pure interventi i Professori Giulio Vigevani e Claudio Martinelli (che con grande competenza, ma soprattutto con chiarezza espositiva hanno saputo ottimamente spiegare i contenuti fondanti e le caratteristiche giuridiche della nostra Costituzione) ho accennato alle vicende storiche che hanno portato alla nascita della Costituzione. Una storia certamente conosciuta, ma che è pur sempre utile richiamare alla memoria e tener viva.

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il fi fioore del partigiano

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Quanto sento fortemente nell’Italia tutta questo modo di pensare. Ti do i soldi per il tuo teatro se metti il direttore che scelgo io, così funziona il meccanismo dei Teatri Stabili. Dall’alto. Ti faccio questo favore ma tu in cambio mi sistemi qualcuno dei miei, nel cinema, nell’ospedale, nella politica, nella chiesa... Ma anche ti do il cazzo o la fica e tu mi sistemi da qualche parte. Pensiero che poi si trasforma e diventa più duro, più violento, più estremo quando la posta in gioco si fa più grande. E quindi se vuoi avere quello, ti costringo a dare il sesso, i soldi, il voto, il posto nel giornale, nell’ospedale, nella televisione, nel telegiornale, nel ministero. Nel cimitero. Ma tutto parte da quel caffè. In questi giorni in cui sono scoppiati questi nuovi scandalosi fatti, voglio già pensare a quando certi cattivi politici se ne saranno andati, o perché scacciati, o perché sostituiti con altri, o perché morti. E mi chiedo: come sarà quando i politici più buoni con le idee più buone prenderanno il loro posto, se poi nel profondo

continuerà a vivere quella mentalità del “ti do in cambio di” così radicata nella mente mafiosa del nostro Paese? Mi ricordo mio padre, uomo di una onestà antica, cattolico e anche comunista nel profondo, che si indignava molto quando sapeva che a Genova se volevi dare lavoro ai figli in qualsiasi campo dovevi essere “amico” del cardinale storico della città. Ma se le alte gerarchie ecclesiastiche, che dovrebbero rappresentare il sacro, la trascendenza, non si sono mai liberate di questo concetto del Dio dello scambio, come potete chiedere, caro Papa, onestà ai politici, ai direttori delle cliniche, dei teatri, dei giornali e di tutti, anche piccoli, luoghi di potere? C’è un uomo, strano, che si chiama Paolino, conosciuto da molti qui a Catania, che non parla. Si avvicina alle persone, le abbraccia e dice loro solo una frase: «Ti voglio bene». Tutti vogliono bene, qui, a “Paolino Ti Voglio Bene”, come lo chiamano in molti. Uno che si può definire matto, se lo confronti con i cosiddetti normali. Un solitario angelo ribelle, che non ci sta alla strategia del «Ti posso offrire un caffè? Poi in qualche modo mi ricambierai». Paolino ti dice: «Ti voglio bene» e ti abbraccia e in cambio non chiede assolutamente niente. Grazie che ancora esisti, Paolino Ti Voglio Bene.


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“Diario” è stato, dal 23 ottobre 1996 fino al suo ultimo numero dello scorso dicembre, molto più di una buona abitudine alla sana lettura. Era un appuntamento, che si rinnovava ogni settimana, con l’approfondimento dei fatti che segnavano la realtà sociale e politica italiana e internazionale, i costumi e storie dei popoli e delle persone. Imperdibili erano, poi, i numeri monografici a cadenza mensile, vere fonti di preziosa conoscenza. Da collezione, tra questi, gli “speciali” dedicati al “Giorno della Memoria”. Pensiamo di compiere opera meritoria nel riproporre ai nostri lettori brani estratti da “Diario”. Alla sua redazione va il nostro ringraziamento per l’opportunità concessaci e l’augurio di ritrovarla nuovamente in edicola. Riproduciamo qui di seguito, dal numero del 9 settembre 1998, un articolo dello storico Carlo Spartaco Capogreco su un aspetto della storia del colonialismo italiano rimasto troppo sottaciuto. Quando non deliberatamente nascosto.

Il lager del duce CRIMINI DIMENTICATI, ATROCITÀ NASCOSTE

Sull’isola di Arbe gli italiani avevano allestito un campo che ha avuto tassi di mortalità simili a quelli nazisti non di sterminio. I 15 mila internati erano principalmente sloveni CARLO SPARTACO CAPOGRECO

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ARBE taliani brava gente, sì, ma non solo. Italiani pessimi, anche. Con tanto di lager, come quello dell’isola di Arbe (Rab, in croato) nel Golfo del Quarnero, dove la mortalità tra i detenuti era del tutto simile a quella dei campi nazisti. Un lager che l’Italia preferisce dimenticare. Il 12 e 13 settembre cade il cinquantacinquesimo anniversario della liberazione degli internati (15 mila, soprattutto sloveni provenienti dalla «Provincia di Lubiana», ovvero il territorio sloveno annesso all’Italia dal 1941 al 1943 e poi croati ed ebrei), alle cerimonie di commemorazione non parteciperà alcun rappresentante ufficiale dell’Italia. Come non ha mai partecipato in passato. Quest’anno, per la prima volta, ci sarà una delegazione della Fondazione Ferramonti che collocherà anche una lapide in italiano: sarà l’unica tra le tante in sloveno, croato, ebraico. Solo una parte della storiografia si occupa dei lager italiani. Un gruppo di storici ha anche stilato un documento. «Se c’è una questione di cui la Repubblica deve farsi carico», si leg-

ge, «è il non aver mai fatto entrare nella propria memoria collettiva i crimini di guerra di cui l’Italia monarchico-fascista si è macchiata in Jugoslavia e non solo». «L’ESALTAZIONE DELLE COLPE DELL’AVVERSARIO e la reticenza su quelle proprie», afferma la storica slovena Nevenka Troha, «ha indotto presso l’opinione pubblica una percezione distorta dei fatti in questione. In Italia si è teso a relegare il fascismo nell’oblio, a dimenticare che vi furono, fra gli italiani, personaggi sui quali grava il sospetto di crimini di guerra. A diffondere il “mito delle foibe” ha contibuito in misura considerevole la stessa Jugoslavia per aver strenuamente negato le liquidazioni, non aver mai pubblicato i dati in suo possesso e non aver, nella stragrande maggioranza dei casi, informato i congiunti degli avvenuti decessi. Si suole attribuire tale atteggiamento al suo regime totalitario; i para-

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il fi fioore del partigiano

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goni sarebbero fuori luogo e certamente nessuno potrebbe giustificare tale condotta. Tuttavia non pare inopportuno chiedersi quando mai l’Italia democratica abbia pubblicato i dati in suo possesso sugli sloveni deceduti nei campi di concentramento allestiti dalle sue autorità, ad esempio quello sull’isola di Arbe, dove secondo i dati più recenti, morirono 1.400 deportati sloveni, in gran parte civili, compresi donne e bambini». L’internamento dei civili in campi di concentramento dal regime di vita particolarmente duro, assieme ad altre misure ad esso collegate (incendio di villaggi, fucilazione di ostaggi) sono state tra le pratiche più frequentemente messe in atto dagli occupanti italiani in Jugoslavia, sebbene tuttora non ne rimangano che piccole tracce nella memoria degli italiani. Le deportazioni entrarono nella fase più acuta in seguito al summit svoltosi a Gorizia il 31 luglio 1942 tra Mussolini, i capi di stato maggiore e i comandanti delle unità militari impegnate nello scacchiere jugoslavo. Fu delineata la possibilità della pulizia etnica, ipotizzando di “sostituire” i civili sloveni deportati con famiglie di italiani feriti o caduti in guerra, affermando sono testuali parole del discorso tenuto da Mussolini alla Camera dei fasci il 10 giugno 1941, primo anniversario dell’entrata in guerra - che «quando la etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversi», e che quindi «gli scambi di popolazioni e l’esodo di parti di esse sono provviden-

ziali, perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali». Per provvedere a tali “movimenti etnici”, vennero allestiti speciali campi di concentramento sia nei confini del Regno d’Italia che nei territori jugoslavi occupati. Cosicché sloveni e croati (cittadini jugoslavi o “allogeni” della Venezia Giulia) costituirono la stragrande maggioranza dei deportati dall’Italia fascista, e vennero trattati dappertutto assai peggio degli altri internati civili di guerra, sia italiani che stranieri. Persino dopo la caduta del fascismo, nei 45 giorni del governo Badoglio, la loro sorte fu tra le peggiori, non vennero rilasciati dall’internamento e la resa dell’8 settembre li colse rinchiusi nei campi, in spregio alle stesse clausole armistiziali appena firmate dall’Italia con gli Alleati. Il campo più duro venne realizzato, a partire dal luglio 1942, sull’isola adriatica di Arbe (oggi parte della Repubblica di Croazia, allora da poco annessa al Regno d’Italia). Allo scopo fu prescelto un pianoro in località Kampor, posto a circa 6 chilometri dal capoluogo dell’isola, tra il golfo di Kampor e quello di Sant’Eufemia; un’area umida e sabbiosa, esposta al sole e alle forti raffiche di bora. Inizialmente fu allestita una tendopoli capace di contenere 6 mila internati, mentre nuovi settori, costituiti anche da baraccamenti e capaci complessivamente di 10 mila posti, avrebbero dovuto essere realizzati entro l’arrivo della stagione invernale. In realtà, tali progetti (erano previsti quattro settori autonomi: Campo I, II, III, IV) non sarebbero stati mai ultimati completamente. NEL CAMPO DI ARBE quasi del tutto ignorato in Italia, ma, forse non a torto, definito “di sterminio” dalla storiografia slovena, già nell’ottobre del 1942 gli internati cominciarono a morire in massa, e la mortalità continuò ad aumentare sino al gennaio dell’anno successivo: la Lega degli ex combattenti della Slovenia, a tutt’oggi, ha documentato la morte, per fame, stenti e mancanza di cure, di 1.552 internati. Rapportando il numero dei prigionieri (circa 15 mila persone) a quello dei deceduti e al relativamente breve periodo di attività del campo (un anno, un mese e quindici giorni) si ottengono parametri di mortalità molto simili (talvolta anche superiori) a quelli registrati nei lager nazisti non di sterminio. Ecco perché nella disposizione legislativa di risarcimento per i patimenti subiti dai propri concittadini internati durante la guerra, pubblicata sull’Uradni List Republike Slovenije (la gazzetta ufficiale slovena) del 6 novembre 1995, il campo italiano di Arbe figura nel novero dei campi di con-

centramento più terribili. Così il vescovo della vicina isola di Veglia (in croato Krk), monsignor Giuseppe Srebrnic, ricordava una sua visita al campo compiuta nella tarda estate del 1942: «Vi erano rinchiuse circa 10 mila persone di entrambi i sessi, di ogni età, di ogni condizione sociale. Si trovavano in uno stato tristissimo, sotto il sole cocente, in una immensa nuvola di polvere, senza la minima possibilità di ripararsi, dovendo vivere sotto le tende». Gli inter-

nati vivevano infatti in condizioni igienico-sanitarie pesanti: le tende erano piccole e sovraffollate e l’acqua assolutamente insufficiente alle loro necessità. Erano sempre affamati e spesso maltrattati dai soldati e carabinieri agli ordini del famigerato colonnello dei carabinieri Vincenzo Cujuli. L’area era circondata da filo spinato, fortini e torri di vedetta muniti di mitragliatrici; durante la notte, per scoraggiare i tentativi di evasione, era illuminata da potenti riflettori elettrici. Il regolamento prevedeva, per ogni internato, un vitto giornaliero di mille calorie; nei fatti, i prigionieri ne ricevevano meno della metà. Particolarmente triste fu la condizione delle tante partorienti, che nell’80 per cento dei casi dettero alla luce neonati già morti. Vicino ai quattro settori, si creò un cimitero, chiamato Campo V. JANEZ HERMAN vive a Lubiana, dove insegna Letteratura slovena. Fu deportato nel campo ancora bambino: «Arrivai ad Arbe il 5 agosto 1942 con tutta la famiglia composta dal nonno ottantasettenne, da mio padre e mio fratello, rispettivamente di 54 e 27 anni, mia cognata di 21 anni e io che ne avevo 7. Mia madre era già morta nel 1941; un altro mio fratello, partigiano, era stato ucciso e il terzo ormai da tempo era ir-

SETTEMBRE 2010 Arbe

Nelle foto di pagina 14, in alto, la vecchia cittadina veneziana e gli internati alla liberazione; (FOTO DI G. BERENGO GARDIN/CONTRASTO)

sotto il titolo, il cimitero.

(FOTO DI CARLO SPARTACO CAPOGRECO)

Qui sotto, un mosaico del tempio commemorativo (FOTO DI CARLO SPARTACO CAPOGRECO)

reperibile, essendosi dato alla macchia. Sono nato a Stari Kot, località appartenente al comune di Draga; era un villaggio che comprendeva 36 case, la chiesa e due cappelle. Tre compaesani furono fucilati come ostaggi, mentre il resto della popolazione del luogo venne totalmente deportata ad Arbe, dopo una sosta di cinque giorni nel campo di smistamento di Buccari. Nel terribile campo di Arbe l’11 novembre morì mio nonno e il 27 gennaio mio padre; complessivamente su quell’isola persero la vita 17 miei compaesani e altri 21 sarebbero morti, successivamente, in un altro campo italiano nel quale fummo trasferiti». Il 29 ottobre 1942 ad Arbe un tremendo nubifragio spazzò le tende; il mare inondò il campo e molti piccoli internati persero la vita annegati sotto la furia dei marosi. Tra il 20 maggio e il 10 luglio 1942, in un settore del campo vennero concentrati circa 2.700 ebrei jugoslavi e stranieri, residenti o rifugiatisi nella zona di occupazione italiana in Dalmazia, che precedentemente erano stati internati sulla costa o su alcune isole dalmate: a Ragusa (Dubrovnik), Portorè (Kraljevica), Brazza (Brac) e Lesina (Hvar). Tuttavia, quantunque ubicata in prossimità dei settori per sloveni e CONTINUA A PAGINA 16


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SEGUE DA PAGINA 15 croati, la “zona ebraica” del campo di Arbe (detta Campo III), essendo costituita da baracche in muratura, consentì a quei prigionieri condizioni di vita abbastanza soddisfacenti. ALLA CAPITOLAZIONE DELL’ITALIA, l’8 settembre 1943, gli internati del campo (circa 4.500 persone) erano già ben organizzati e collegati con le organizzazioni della Resistenza sia dell’isola di Arbe che del distretto del Quarnero. L’11 settembre i prigionieri disarmarono la guarnigione italiana e, con le armi sottratte agli ex carcerieri, costituirono la Brigata Arbe (comprendente pure un Battaglione ebraico) che sbarcò sulla costa jugoslava. Ogni anno, in quella data, si svolge sull’isola una mesta cerimonia di ricordo, alla presenza di gruppi di ex internati e di delegazioni ufficiali delle Repubbliche slovena e croata. Purtroppo né in quella né in altre occasioni si è mai vista ad Arbe alcuna rappresentanza del governo italiano. Carlo Spartaco Capogreco, docente presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università della Calabria, è presidente della Fondazione Ferramonti e presidente della Fondazione internazionale “Ferramonti di Tarsia” per l’amicizia tra i popoli (tel. e fax 0984-32377). Ha scritto vari libri sui lager fascisti: Il piombo e l'argento. La vera storia del partigiano Facio - Donzelli, 2007 I campi del Duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940-1943) - Einaudi, 2004 e 2006 Renicci. Un campo di concentramento in riva al Tevere - Mursia, 2003 Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista - La Giuntina, 1987

SEZIONE DI CASSANO D’ADDA

La Sezione ANPI B. Colognesi, il Circolo del Popolo e la sezione ANPC di Cassano d'Adda invitano a una

Visita alla Casa della Resistenza di Verbania Fondotoce Domenica 17 ottobre 2010

nei luoghi dove il Partigiano Cassanese Cesare Bettini ha lottato in difesa della libertà

Programma: - ore 8,00 ritrovo al parcheggio palestra c.so Europa Cassano d’Adda - ore 10,30 visita guidata alla Casa della Resistenza e al Parco della Memoria e della Pace - ore 13,00 pranzo presso il Circolo Societa’ Operaia - ore 15,00 visita al lago Maggiore - previsto rientro per le 19,30

Quota di partecipazione adulti 25 Euro Quota di partecipazione bambini 15 Euro Per maggiori informazioni rivolgersi a: Luisa @mail: luisag3@alice.it - tel.: 3496416825 Giancarlo @mail: gcvilla@inwind.it -tel: 335247538 Stefano @mail: villastefy@tiscali.it

SEZIONE DI INZAGO

Settembre rinnova il ricordo del professor Di Vona

Il Comune e la sezione ANPI di Inzago

nel 66° anniversario della morte del Prof. Quintino Di Vona invitano la popolazione alla cerimonia di commemorazione

Domenica 5 settembre - ore 10,30

Programma Ritrovo presso la sede dell'ANPI in Via Piola, 10 Corteo verso Piazza Maggiore e deposizione di una corona d'alloro sulla lapide del Prof. Quintino Di Vona. Interventi del Prof. Carlo Smuraglia, Presidente ANPI della Provincia di Milano, e del Sindaco di Inzago, Benigno Calvi. Al termine corteo verso la cappella dei caduti con l'accompagnamento musicale della Banda S.ta Cecilia di Inzago. Giovedì 9 settembre alle ore 21.00 presso l'Auditorium del Centro De André via Piola, 10 lo spettacolo teatrale a cura di Daniele Biacchessi “Il paese della vergogna”

L’ANPI DELLA ZONA MARTESANA ORGANIZZA:

La Carta della Democrazia

Otto lezioni sulla Costituzione

L’ANPI sta organizzando un corso serale di 8 lezioni sulla Costituzione, a partire da ottobre. Chi fosse interessato può iscriversi presso la sede dell'ANPI di Inzago, in Via Piola, 10, tutti i sabato mattina dalle ore 10.00 alle ore 11.30

CONVEGNO

Legge 180:

non aver paura di conoscerla!

attualità e prospettive in ambito locale, regionale, nazionale

11 settembre 2010 ore 9,00 Auditorium Centro Culturale De André Via Piola 10 – Inzago ore 21,00 proiezione del film

La seconda ombra

di Silvano Agosti Premio speciale Presidente della Repubblica, 2001 Musiche di Nicola Piovani

il fiore del partigiano

PERIODICO DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA ZONA DELLA MARTESANA

Redazione: presso la sede della Sezione Quintino Di Vona di Inzago (MI) in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Direttore responsabile: Rocco Ornaghi Stampato presso VideoLive - Piazza Quintino Di Vona, 2 - 20065 Inzago (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)


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