DIARIO PANDEMICO - FRANCESCO MARTONE

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DIARIO PANDEMICO

Francesco Martone



LUNGO LE ROTTE DELLA PANDEMIA COVID19/0304052020

Una mano di bimbo traccia con il gesso il volto di un nemico invisibile, che lo ha costretto in casa per mesi, lontano dai sui amici ed amiche, compagni e compagne di scuola. Una mano che lascia una traccia sul pavimento di un marciapiede, quasi un segno di riappropriazione di uno spazio pubblico, fino ad allora chiuso ermeticamente. Potrebbe essere il simbolo della fase 3, dopo settimane e mesi scanditi da cifre, ordinanze, riflessioni, paure e speranze. Credo sia l’immagine migliore per introdurre questa raccolta di pensieri e riflessioni che si sono snodate nel corso di questi mesi di pandemia una sorta di cronaca non quotidiana attraverso il COVID19. Una mappa senza orizzonti o piste tracciate. Che va letta al contrario, dalla fine all’inizio giacché se una cosa è certa tra quelle che abbiamo provato a apprendere è che non esiste più una fine o un inizio, un prima, e un dopo, a meno che non siamo noi a determinarlo con la nostra forza e la nostra passione. FM, 11 giugno 2020



INTRODUZIONE Out of joint. In queste lunghe settimane di quarantena, ormai nella fase “2” ho avuto occasione per mollare gli ormeggi e riflettere, rimettere a fuoco, scandagliare, mettere in discussione, esplorare. Esplorare territori nuovi, quelli del transfemminismo, o meno nuovi ma con altre prospettive, come quelli dell'ecologia decoloniale. Ho colto l'occasione per mettermi in crisi, un privilegio raro, credo. Fatto yoga e provato a allenare l'unico muscolo che non può soffrire distanziamento fisico o sociale e che è chiuso nella scatola cranica. Mi sono interrogato sull'altro, io che ero affascinato da Levinas e dal suo "io sono l'altro" ed oggi che l'altro significa minaccia ed io minaccia per l'altro. Sul mio privilegio. E poi sul concetto riduttivo di universalismo, dando corpo al concetto nuovo di Pluriverso, sulla frattura ecologica e coloniale della modernità. Ho provato a cogliere questa occasione per sperimentare il piacere di mettermi "fuori squadra" nei confronti di ciò che sapevo, avevo studiato e praticato fino a "prima". Io bianco, ecologista, già messo in crisi nella mia frequentazione quotidiana con popoli indigeni, (più o meno un decennio), ed ora le cose iniziano a sedimentarsi, le scoperte di quel decennio iniziano a formare altro modo di intendere la maniera nella quale si abita nel mondo. Ne parlavo con una cara amica ecofemminista boliviana, mentre ci scambiavamo qualche riflessione sul COVID, e sul fatto che non esista un prima, un durante ed un dopo, Ma esiste l'adesso, senza fasi prima, durante e dopo. E che questo debba portarci a rivedere profondamente molte categorie, analisi, concetti e pratiche. Che questo è il segno finale di una crisi di civiltà. Civiltà umanista, universalista, bianca, patriarcale. "Fuori Squadra" quindi, ed immaginavo come praticare l'"out of joint" di Amleto oggi. Grazie ad una splendida mostra alla Galleria Nazionale qua a Roma scoprii come il tempo sia fuori squadra. Amleto diceva: "Time is out of joint O cursed spite. That ever I was born set it right” “Il tempo è fuor di squadra Che maledetta noia essere nato per rimetterlo in sesto”. Che maledetta noia appunto provare a rimetterlo in sesto senza mettersi in discussione. E mi sono visto altrove, spostato d'un tratto dal mio luogo di appartenenza culturale e politica semmai ce ne fosse stato


uno io che ho sempre praticato la transumanza nella politica e nell'attivismo che sia nella società civile o nei movimenti. Da tempo avevo in testa di provare a scrivere un libro sul virus della rivolta, sul demone della rivolta come lo chiamava Bakunin. Un virus contagioso e pericoloso, ed invece oggi mi trovo a fare i conti come tutta l'umanità con altro virus, sconosciuto ed inatteso. Spiazzarsi totalmente, insomma. E mi sono detto: e se ad un certo punto davvero facessi un salto in altro luogo, voltassi pagina per leggerne di nuove? Spesso mi sento come un navigatore solitario, senza mappa, alla ricerca di terre inesplorate, o semmai scrutate all'orizzonte. Magari alla fine non troverò nulla, come Guido Gozzano nella sua isola mai trovata. O forse navigherò solo perché non si può fare altrimenti.


Lungo le rotte della pandemia 11 giugno: Verità e Giustizia. Credo che l'iniziativa dei familiari delle vittime del COVID19 di chiedere conto al governo ed a chi aveva responsabilità ne corso della pandemia sia giusta e degna. Perché ci tengo a ricordare che i PM non sono partiti da soli. C'è un'iniziativa partita "dal basso" da parte di familiari delle vittime, un percorso di verità e giustizia a cui hanno diritto le migliaia di vittime, le loro famiglie e i loro cari. Un percorso urgente ed imprescindibile che deve guardare anche a ritroso, per accertare le responsabilità di coloro che hanno portato il nostro sistema sanitario al collasso. Sarebbe stato anche bello se il premier invece di dilettarsi di Stati Generali invitando il gotha del liberismo per tracciare la rotta del futuro del paese, si fosse degnato di indire un giorno di lutto nazionale in memoria delle vittime. Invece di incaricare una Task Force di tecnocrati che ha partorito un ircocervo avesse ascoltato il paese. O organizzato una sorta di funerale di Stato collettivo, per restituire dignità alle vittime e sostegno a chi ha pianto e piange la loro scomparsa. Bello dare riconoscimento di cavaliere della Repubblica a chi si è prodigato, ma fondamentale anche ricordare chi non c'è più, desaparecido in una corsia di ospedale, affetti spezzati, vite interrotte. Pezzi di memoria storica che se ne vanno. Ed allora che si faccia verità e si faccia giustizia!

6 giugno – Business as usual? Sotto casa, su un cancello di fronte al portone d'ingresso abbiamo trovato due mazzi di fiori. Un pensiero di qualche mano ignota per un essere umano che il giorno prima ha deciso di lasciare questa terra lanciandosi dal balcone. Un signore con abiti consunti si aggira per il quartiere chiedendo qualche spicciolo, si avvicina al tavolo dove stavo amabilmente chiacchierando con una amica, e ci chiede se per cortesia poteva prendere gli avanzi dell'aperitivo. Ieri sera andiamo dal nostro kebab di fiducia, credo il migliore di Roma, e notiamo qualcosa di diverso, non solo le misure di distanziamento. Ordiniamo il nostro kebab preferito di pesce, pregustandone il sapore. E notiamo che ha un sapore diverso. Un signore gentile italiano, non ci sono più gli affabili egiziani con i quali avevamo fatto amicizia, corre tra cassa e tavoli. "Sto facendo tutto io qua, ero un imprenditore con due locali ed ora mi industrio. Siamo in un'economia di guerra". "Life in time of crisis is not business as usual" così terminava la


presentazione di una funzionaria dell'ente nazionale per il patrimonio pubblico estone, in un convegno online su patrimonio pubblico e COVID19 incentrato proprio sul "well being" dei lavoratori e dei cittadini. Ne abbiamo sentito parlare qua del "well being"? Di come abitare questa nuova fase della crisi che esplode a scoppio ritardato negli animi e nella mente di chi è stato in lockdown per mesi? Sento storie di persone in crisi, in depressione, mai prima d'ora colte dall'ansia di dover fare i conti con la propria vulnerabilità. Eppure, pare che tutto possa andare avanti come se nulla fosse. I datori di lavoro si mettono l'anima in pace con lo smartworking - l'altro giorno in palestra sentivo due parlottare: "sai da me hanno fatto i conti: quanto ci risparmiano tendendoci a casa senza buoni pasto e abbattendo i costi di pulizia degli uffici" "eh ma tanto alla fine vedrai a casa resteremo, magari una settimana ogni tanto ci faranno andare in ufficio". E con lo smart-working ti spremono come un limone, chiedono, esigono, come se nulla fosse. Banche che nel mezzo della pandemia annunciando ristrutturazioni, esuberi, e esigono ai loro dipendenti di fare cassa, magari spillando qualche risparmio a anziani in lockdown. Credo che ognuno e ognuna di noi debba assumere la crisi come elemento "ontologico". Certamente i già fortunati come me ad esempio assumere anche il proprio privilegio, Ma anche apprendere a non esigere dall'altro o dall'altra, attenzione, impegno costante, dedizione, sul posto di lavoro o anche nelle relazioni personali. Ad essere meno estrattivi e più empatici, A coltivare la cura, ad apprenderla. Ad assumere anche la propria vulnerabilità, per comprendere quella altrui.

12 maggio. La memoria. Quel giorno avevo intenzione, tutta l’intenzione di andare. I giorni prima avevo dato una mano ai radicali per organizzare la manifestazione, i volantini freschi di stampa. Mi ero avvicinato ai radicali per i referendum contro il nucleare, l’obiezione di coscienza e l’antimilitarismo, il diritto all’aborto ed alla scelta sul proprio corpo. Andavo alle manifestazioni femministe senza essere intimorito da quelle mani tirate per aria che mimavano la forbice. Andavo a quelle di piazza, un po’ da cane sciolto. Quel giorno ero pronto a tornare in piazza. Esco dalla mia lezione di inglese dietro l’ambasciata americana e mi dirigo alla fermata del bus. Poi ad un certo punto mi scoppia un malessere e decido di tornare a casa dove trovo mia madre pallida come uno straccio. Mi dice e vedo quel che stava accadendo. Scontri e polizia che spara ad altezza d’uomo. Un delirio di violenza e abuso di potere. Il giorno dopo mi ritrovo sotto il Senato (manco a farlo apposta qualche decina di anni dopo ci sarei entrato da inquilino privilegiato e sarei stato lì sotto assieme ai pacifisti a protestare


contro il commercio di armi, facendo entrate di soppiatto Alex Zanotelli che poi sventolò dal balcone di Palazzo Madama una bandiera della pace) a chiedere verità e giustizia per Giorgiana e per tutto il resto. Le nostre braccia in alto a mimare braccia incatenate mentre strillavamo Italia libera! Giorgiana era scesa in piazza per commemorare la vittoria del referendum su divorzio e venne assassinata con un colpo di pistola che aveva su le impronte dell’allora ministro dell’interno Francesco Cossiga. Rimane una lapide in bronzo sul lato sinistro di Ponte Garibaldi dalla parte di Trastevere, e su quella sponda del Tevere una traccia nera che è quel che rimane di Triumphs and Laments, splendida opera murale del grande William Kentridge. Opera che ripercorre la storia di Roma, dagli albori. Un'opera prodotta per sottrazione, lavando via lo sporco dello smog dalla parte della parete di contenimento, usando uno stencil. Una sorta di recupero di memoria storica appunto che però il tempo poi ricopre con una nuova coltre di fuliggine, Ecco perché è importante tenerla viva la memoria. E Giorgiana per la nostra generazione è sorella di Carlo Giuliani per quella che affrettatamente venne definita no-global e di Stefano Cucchi per quella di mia nipote diciannovenne che da quella storia iniziò ad odiare il potere e la sua violenza.

Day 52. Blockadia. Secondo l’Espresso la rivoluzione verde sarà bloccata dal COVID e l’uscita dalla crisi economica che ne consegue sarà definitivamente improntata sul fossile. Se così davvero fosse, è ulteriore conferma che non c'è via d'uscita verde al capitalismo. Ancor meno a quello estrattivista. Del resto le notizie che provenivano da molti paesi già indicavano un preoccupante "rilassamento" delle normative sociali e sull'impatto ambientale da parte di governi ansiosi di lasciare la mano libera alle attività estrattive e di sfruttamento delle risorse naturali. Non a caso nei giorni scorsi il relatore speciale ONU sui diritti umani e l'ambiente aveva rivolto un accorato appello alla comunità internazionale affinché gli stati non utilizzassero il pretesto della crisi per indebolire le proprie politiche ambientali. Come fare? Con economie sull'orlo del collasso, come fare a invertire definitivamente la rotta? La scienza lo ha detto migliaia di volte, fondi di investimento del valore di svariati trilioni di dollari hanno disinvestito dal fossile, ma la transizione è ancora lontana. Il Green New Deal proposto rischia di spostare altrove il peso della conversione ecologica di paesi che più hanno contribuito finora alle emissioni, e di considerare la crisi ambientale solo dal punto di vista climatico, e ancor già solo dal punto di vista delle emissioni di carbonio, trascurando la perdita della biodiversità ad esempio. Alcuni osservatori con una punta di


ottimismo sperano che il rinvio al prossimo anno della COP sul Clima prevista per il prossimo novembre possa dare tempo per fare scelte ambiziose. Sarà davvero complicato convincere i più dell'urgenza di una transizione ecologica quando in tempo di recessione la priorità di ognuno e ognuna è quella di avere lavoro. Un conflitto che speravamo in parte risolto e che rischia di riaffacciarsi con forza. Come fare allora? Rilanciare "blockadia" la comunità globale virtuale immaginata da Naomi Klein e composta da comunità locali in resistenza contro l 'estrattivismo? Proteggere i territori e gli ecosistemi tenendoli a forza fuori dal ciclo estrattivista? E proteggersi dal rischio di repressione?

Day 51. Vergine della Misericordia Ora pro nobis. Nel Medioevo, in occasione di pestilenze e epidemie, invasioni di cavallette e affini, quando non c'era altra soluzione si convocavano tribunali che procedevano ad istruire processi contro i germi, le cavallette, gli insetti e i parassiti di ogni tipo ed ogni dove. E si processavano animali anche per omicidio o furto. I poveri poi venivano giustiziati nella pubblica piazza. Una volta un avvocato in Francia riuscì a salvare degli insetti dimostrando che essendo creature di Dio non potevano far del male. Mentre i Tribunali ecclesiastici spesso ricorrevano alla scomunica degli animali, E poi c'erano le Madonne contro i virus, che con il loro mantello proteggevano la vita di ricchi e borghesi, giacché secondo tradizione popolare le epidemie erano la punizione inflitta dagli angeli incaricati di assicurare la giustizia divina. Ma questa è altra storia. Fatto sta che già nel Medioevo, si riconosceva in un modo o nell'altro che i non-umani erano (loro malgrado e nei fatti per affermare comunque la superiorità dell'umano) soggetti di diritto. Ci pensò poi il Barone Rampante che nei suoi ultimi giorni scrisse un "Progetto di Costituzione per la Città Repubblicana con Dichiarazione dei Diritti degli Uomini, delle Donne dei Bambini, degli Animali Domestici e Selvatici, compresi Uccelli, Pesci e Insetti, e delle Piante sia d'Alto Fusto sia Ortaggi ed Erbe". Una Costituzione simile venne approvata a Cochabamba, in Bolivia con la dichiarazione universale dei diritti della Madre Terra Quale migliore occasione allora per ripensare oggi radicalmente il nostro modo di vivere sulla Terra? Riconoscere che noi umani siamo solo parte di una complessità di reti e di forme di vita che vanno rispettate? E protette? E magari prendere spunto da questa pandemia per avviare definitivamente un processo di riconciliazione con la Madre Terra che


secoli di antropocentrismo, e sfruttamento per la ricerca sfrenata di benessere e profitto (e non per l'intera umanità) hanno portato ormai sulla soglia del collasso totale? Che proprio l'altro giorno il Segretario Generale dell'ONU ha dovuto sottolineare nuovamente che la vera minaccia all'umanità ed al pianeta è il cambiamento climatico? Una minaccia che non potrà essere contrastata se non attraverso un radicale cambiamento non solo di modelli di produzione e consumo. Attraverso appunto il riconoscimento che i diritti non si fermano all'umano. Facendo però attenzione a ricordare che la modernità presenta due fratture: quella ecologica e quella coloniale, intimamente connesse. Senza decolonizzare la mente e la pratica, senza riconoscere la pluralità del vivente non se ne esce. E stavolta non saranno Madonne col mantello a salvarci.

25 Aprile – Liberazione. Il mio 25 aprile stamattina l'ho passato in una lecture per 75 studenti della Spring School della SIOI assieme a Greenpeace, sul tema dei difensori della terra. Ho voluto chiudere la mia lecture con le parole di Berta Caceres. E sento che la nostra celebrazione della resistenza qua sia idealmente connessa a lei alla sua storia ed alla storia di chi muore per difendere la Natura, ed i diritti fondamentali. Quindi il mio terzo fiore rosso va alla famiglia di Berta ed a Berta. E poi è da ieri che ce l'ho nella testa Berta dopo aver visto una sua foto nella stanza della "Donna elettrica", la principale protagonista di uno splendido film islandese sulla resistenza di una donna insegnante di musica contro le grandi idroelettriche che alimentano in Islanda le industrie dell'alluminio. E dopo i fiori, dopo aver ’adottato’ Alberto Di Battista partigiano 22enne , dopo aver letto e riletto con emozione la storia di Ugo Forno, ‘Ughetto’ ed aver provato ad immaginare quel pischello di appena 12 anni prender le armi per combattere contro i nazisti, aver cantato per strada Bella Ciao a squarciagola, rispettando sempre e comunque il distanziamento ‘sociale’ chiuderei il mio 25 aprile, paradossalmente forse il più emozionante, quando sono andato a deporre fiori rossi davanti alla targa che ricorda Leone Ginzburg, persone affacciate alle finestre, una signora che applaude, Bella Ciao per l’appunto dei MCR a palla da un altoparlante posto fuori da una finestra, dopo aver appeso un drappo rosso sul balcone (un asciugamano, avrei anche appeso uno nero ma non avevo mollette a sufficienza), insomma chiuderei così il mio 25 aprile, che il 26 sempre antifascista sarà come il resto dei miei giorni.


24 aprile: Mother Earth Day. Buon Mother Earth Day! Già, non Earth Day, la terra è Madre, e non a caso. questa canzone, You can't clearcut your way to heaven cantata dal grande John Seed uno dei padri della Deep Ecology, mi accompagnò per anni ed anni, quando (altro che Antropocene eravamo forse nel Cenozoico!) con un manipolo di attivisti ed attiviste da mezzo mondo lottavamo per proteggere le foreste tropicali e sostenere i popoli indigeni. Un inno contro l'estrazione di materiali, la distruzione degli ecosistemi, in nome del mercato e del dominio dell'umano sul resto del vivente. Allora si diceva Prima la Terra! oggi quella Terra è madre, che va curata e protetta, per le prossime generazioni. Questa Madre ha diritti tanto quanto gli umani, da riconoscere, tutelare, rispettare. Oggi questa Madre lancia l'ennesimo grido di allarme, resiste, sopravvive e si riproduce mentre noi suoi figli e figlie facciamo i conti con noi stessi e con il modo con il quale la abitiamo.

23 aprile: Partizans. Ho letto l’ultimo articolo di Wu Ming dopo aver ascoltato opinioni divergenti da persone che apprezzo e stimo. Ho letto delle ‘polemiche’ sulle celebrazioni del 25 Aprile. Dell’osceno tentativo di revisionismo del concetto stesso di liberazione, da ipotetici Leviatani, dittature sanitarie, virus contro i quali si starebbe combattendo una guerra. Armi Eroi e Popoli si chiamava l’antologia sulla quale studiavo alle medie. E nonostante quello finii per innamorarmi delle eresie, delle utopie, delle bande di straccioni, dei levellers e dei diggers, di chi ammazzava re, faceva rivoluzioni e rapinava banche. Di eroi veri e sconosciuti come il giovane partigiano ucciso a colpi di mitraglia dalle parti di Poggio Mirteto, ricordato da una lapide qua dietro casa, dove era nato. O Leone Ginzburg, prelevato a forza da squadracce fasciste dalla tipografia clandestina di Giustizia e Libertà sempre qua dietro casa. Morì ucciso poco dopo a Regina Coeli, ammazzato dai nazisti. Allora il 25 aprile io e mia moglie andremo, a distanza di sicurezza, e con le nostre mascherine sul naso a portare qualche garofano rosso per il giovane partigiano e per Leone Ginzburg. Sarebbe una bella cosa, anche per recuperare la memoria storica del posto in cui si vive che ognuno ed ognuna andasse in questi giorni alla ricerca di lapidi, ricordi, luoghi della Resistenza. E nel rispetto delle regole necessarie per contribuire ad evitare la diffusione della pandemia sugli anziani ed i vulnerabili, faccia il suo personale atto di resistenza. E magari lo fotografi e lo faccia circolare. Poi magari


potremmo anche sparare alle 15 in punto a palla dalla finestra o dal balcone Bella Ciao, se dei MCR ancora meglio direi.

Day 36. Whose Commons Future? Secondo alcuni calcoli il COVID-19 costerebbe circa 9 mila miliardi di dollari all'economia globale facendola precipitare in una recessione mai vista dal 1929. (a occhio la cifra media spesa in meno di 5 anni per armi e affini in tutto il mondo (stando ai dati del SIPRI per il 2018 che valutava una spesa pari a 1822 miliardi di dollari). Secondo l'FMI il debito estero dei paesi meno "sviluppati" nel 2018 ammontava a 7800 miliardi di dollari, mentre i sussidi ai combustibili fossili a 4700 miliardi di dollari. Facciamoci due conti: 1822+7800+4700= 14322 miliardi di dollari in un anno contro i 9milia miliardi che costerà il COVID alle economie global, senza contare quanto valgono i mercati finanziari globali, una cifra pari a 740mila miliardi di dollari nel 2019. E poi ne riparliamo quando si ragionerà su come uscire da questa crisi attraverso soluzioni del tipo Green New Deal, senza una visione dell'ecologia-mondo, o di giustizia globale radicale, che davvero sia orientata sull'uscita dal modello capitalista, estrattivista, e su basi transfemministe e decoloniali. Che magari sto New Deal andrà bene per noi, per gli europei senza però scalfire a fondo il paradigma dominante, o le relazioni coloniali con territori che resteranno serbatoi di materie prime strategiche, Magari non il petrolio ma terre rare. O magari territori che saranno messi sotto tutela per assorbire il carbonio che produciamo qua per poi dire che stiamo andando verso le zero emissioni. Per non omettere poi il fatto che un ritorno a forme stataliste quali quelle immaginate dalla proposta di Green New Deal, che richiamano diciamo formule socialdemocratiche novecentesche, seppur tinte di verde, rischi di chiudere la strada ad una necessaria - a mio parere - transizione dello stato a favore dei "commons", la "commons transition", che poco ha a che vedere con il concetto dei "beni comuni", anzi viene spesso e volentieri confusa. Per questo ben vengano proposte come quella di un Green New Deal ecofemminista perché provano ad andare oltre, nella pratica e nell'approccio. Sarebbe interessante innervarle con un approccio che preveda appunto la "commons transition", dove lo stato non scompare ma si trasforma in piattaforma che agevoli il governo comunitario dei commons e li protegga dall'invasione del mercato e del capitale, e i cittadini/cittadine si convertano in "commoners" che praticano la "cura" del comune, (vivente, umano e non-umano). Infine, ricordo che i primi giorni di lockdown, apologi del capitalismo verde quali Chicco Testa si misero a scagliare anatemi contro la


decrescita, stigmatizzando il lockdown ed i suoi effetti appunto comparandoli alla decrescita felice. Orbene, sarebbe opportuno, con tutte le riserve che si possono avere sul concetto di decrescita se non è accompagnato da una forte accezione di giustizia ecologica e redistributiva, e ad una differente visione del ruolo e della posizione degli umani nell’ecologia-mondo, specificare cosa abbia a che fare la decrescita con il COVID-19 e semmai ricordare a chi ora sta già lavorando per usare l’occasione per promuovere forme umanizzate e salvifiche di capitalismo, che questa crisi e quella climatica sono esattamente figlie del modello dominante di crescita, verde o arancione che essa sia. Credo che questo tema sia, assieme alla questione cruciale degli spazi di agibilità, organizzazione del conflitto e proposta di alternative, quello centrale per prefigurare possibili ipotesi per il “dopo”. (ci sarebbe anche da parlare di come settori neoliberisti radicali, assimilabili ai libertarians statunitensi, quelli che lo stato federale è come Satana, stiano cavalcando qua a casa nostra la questione democratica, scagliandosi contro le limitazioni delle libertà civili per riaffermare in fondo che meno stato c’è e meglio sarà per non imbrigliare la potenza imprenditoriale del singolo e le capacità salvifiche e taumaturgiche del libero mercato. Attenzione soprattutto a chi da sinistra resta abbagliato da questi “falsi amici”, che ne ho notati abbastanza)

Day 35. COVID, democrazia, movimenti. Oggi il Transnational Institute pubblica un mio contributo su COVID19 democrazia e movimenti, con particolare attenzione alla situazione italiana. https://www.tni.org/en/article/italy-democracy-and-covid-19. "parallelamente alla narrazione ufficiale, che si basava su un mix di patriottismo alla buona, misure restrittive e governance scientifica dei processi sociali, si sono sviluppate ben altre pratiche che rappresentano un importante capitale sociale e politico per il futuro. Assemblee online, un florido dibattito teorico sul COVID-19 e le sue implicazioni a tutti i livelli, un numero crescente di iniziative da parte dei movimenti sociali, una proposta per un Green New Deal ecofemminista, campagne per migliori condizioni nelle carceri e per l’amnistia, e per un il cosiddetto “reddito minimo di quarantena“, una piattaforma recentemente pubblicata di organizzazioni della società civile e movimenti sociali che si occupano di commercio, giustizia economica e contro l’estrattivismo, e parallelamente un numero crescente di iniziative di solidarietà sono il


chiaro segno di un’altra Italia che non accetta la rassegnazione o l’impotenza. E non accetta l’idea che l’unica possibilità per affrontare il virus e le sue implicazioni sia limitata al rispetto degli ordini volti a limitare, reprimere o imporre un comportamento “passivo” ed “omissivo”. I servizi di supporto per gli anziani, i più vulnerabili, quelli che vivono soli nelle loro case, offerta gratuita di alimentari, supporto e assistenza psicologica, acquisti e consegna a domicilio di medicinali sono tra le iniziative auto-organizzate più ricorrenti, che esprimono un tentativo di trasformare il concetto e la pratica femminista della “cura” in pratica politica. La società civile si trasforma in qualche modo in un’espressione del “comune”, e i suoi membri in “commoners”, che si organizzano collettivamente per favorire il rispetto e il perseguimento di beni e diritti comuni, come il diritto al cibo, alle cure, alla solidarietà.

Day 32. L'isola non trovata. Atlantide, Mu, O l'ultima Thule. O Iperborea? Anarres, Macondo, Eldorado, Lemuria, Agarttha, Brocelandia, Alamut, Utopia, Città del Sole, Bensalem, Christianopolis, Uqbar, Cospaia, Minerva, Oilean Thoraig, Redonda, Ladonia, Kugelmugel, Lizbekistan, Uzupis, Cihangir, Kalakuta, Elleore, Akhzivand, Bosgattia, Molossia, Talossia, Atlantium, Mapsulon, Gospodariato di Meltenia, Celestia, Waveland, Malu Ente, Conch Republic, Liberland. E’ vero, in questi giorni e settimane che sembrano interminabili è difficile leggere, entrare nelle parole altrui, tutti assorti nella nostra quotidianità da riempire, per darle senso. La fantasia corre al passato, agli istanti prima, a quel che si avrebbe potuto o dovuto fare prima, e chissà se e come sarà possibile dire o fare dopo. I miei tre preziosi compagni di viaggio sono il Manuale dei Luoghi Fantastici, L'Atlante delle Micronazioni, ed il grande Umberto Eco la sua storia delle terre e luoghi leggendari. Ogni giorno esploro un paese, una landa, un'isola, uno stato, una nazione, un'immaginazione, una utopia. Un pò come da bimbo passavo ore ed ore a scorrere con la punta del dito le strade e i fiumi i contorni dei paesi, sull'atlante, e viaggiavo di fantasia. Alla ricerca di un'isola non trovata. E nei viaggi di queste ultime settimane mi sono fermato per un pò , nel regno di Elgaland-Vargaland, fondato nel maggio 1992 da Michael I e Leif 1, regno che si estende esclusivamente nei territori di confine, geografici, mentali, digitali. Il confine tra stati, tra diversi stati mentali o percettivi, confine tra la veglia ed il sonno, tra l'alta o bassa marea. Nel regno ogni cittadino ha il diritto di disporre della propria esistenza e del proprio comando, di esistere liberamente in ogni territorio, di risiedere in ogni territorio, diritto ai propri ideali, diritto di tutto e di più, diritto del mezzo, del niente e di meno, e cos via. Come


spiega nel suo Atlante delle Micronazioni, Graziano Graziani "da un lato l'occupazione di confini, che essendo strumenti per separare territori e stati (fisici o mentali) sono al contempo smagliature, zone interstiziali di questo onnipervasivo sistema di tassonomia politica, sociale e mentale che regolamenta le nostre esistenze". Oggi spiegherò le vele alla scoperta di Alamut, il Nido del Rapace, con le parole di Umberto Eco.

Pasqua. Parabola laica. Stamattina presto sotto casa a un signore un po’ stralunato vestito da Babbo Natale e con la mascherina di Zorro sulla sua slitta piena di uova di pasqua da regalare a mezzo mondo con messaggi d’amore e resistenza, tenerezza e speranza, inquilini cuochi alla bisogna hanno lanciato olio bollente dalle loro fortificazioni invece che pezzi di soffice colomba, un runner agile ma con pessima mira e calzamaglia improbabile e puzzolente di naftalina ha sputato addosso mancandolo per un pelo, quasi veniva investito da un signore affannato ed attempato in triciclo con sulle spalle uno zaino quadrato di plastica gialla e verde (l’unico che si fermò per chiedergli se aveva bisogno di una mano), un altro lo stava per bastonare con un giornale arrotolato. Dicono le cronache che fosse un tortore artigianale composto di Libero, Giornale, Tempo e Secolo d’Italia. Un nerboruto e palestrato giovanotto con un tatuaggio di Paperino invitava il nonno arzillo e con la lucida dentiera ad inveire che quasi gli stava uscendo un eia eia alala’. Un bravo ed azzimato padre di famiglia tirato a lucido stava rfornendo il pargolo di freccette acuminate. Una vecchietta fragile e lenta gli stava aizzando contro il suo sanguinario mastino napoletano. Una ragazzina con le cuffiette alle orecchie stava cercando di attaccare bottone, un’altra scattava selfie a raffica, un’’altra ancora si esercitava al lancio del sacchetto della monnezza. Tanti altri dalle finestre gli strillavano ‘daje’, uno, sperando invano che altri lo seguissero, ‘daje all’untore’ . Eppoi c’e’ chi mise su a palla Bella Ciao. Chi l’inno alla gioia chi Venceremos. Nel mentre arrivò la polizia e per suo grande sollievo se lo portò via. Lo caricarono su un trenino pieno zeppo di tantissimi altri babbi natale e befane. Di tutti i colori, età, lingue, costumi e tradizioni. Tutti rossi come il sangue e tutte nere come la pece. Pareva un’enorme bandiera che attraversava la città con dietro una scia interminabile di slitte e di scope. Ci ha promesso che domani tornerà. E stavolta mica da solo. Parlava una lingua strana, pareva arabo con accento palestinese. Si era dimenticato di firmare l’autocertificazione, nulla di grave. Dice. Buona Pasqua, amore e forza a noi che non ci rassegniamo.


Day 30. Il primo mese. Il mio primo pensiero al risveglio oggi. Where are you? Donde estas? Donde carajo estas mi hermano, mi hermana? Where the hell are you my brother? My sister? dove sei? Dove sei tu che ogni giorno con la mano tesa ed un sorriso mi chiedi una monetina per mangiare? O che mi dai il "cinque" chiamandomi fratello e provi a vendermi un libro. Magari mi chiedi se ho paura dell'uomo nero e io gli dico "fraté non ho paura di te ma quel libro davvero non mi interessa" E magari gli chiedo da dove viene e come sta, ma tra me e me e penso: "eccollollà te pareva, ma che ho la calamita?" O che da lontano mi punti per poi provare a vendermi due pedalini? Dove sei tu ragazzina rom, che guardo sempre con gran simpatia, mentre chi ti sta intorno teme per il suo portafoglio come se foste tutte così, vi avesse visto danzare o giocare gli passerebbe la paura. Ricordando quella ragazzina in braccia alla madre che un giorno venne incontro alla mia, per abbracciarla, che lei era la "figlia dei farmacista degli zingari?" Da allora, da quel sorriso di mia madre, non ho potuto non amare quel popolo. Dove sei tu madre con un bimbo al collo che ramazza la strada in mucchietti improbabili di foglie che il vento si porterà di nuovo via, come un novello mito di Sisifo? Dove sei? Dove siete? Dove siete voi che "i barconi", l'invasione? I portatori di virus e terrorismo? Dove siete voi che eravate il nemico, il reietto, il selvaggio, il ladro, l'invasore, l'altro da bersagliare, offendere, deridere, condannare. Non certo spariti o sparite nel nulla, come i miracoli di un prestigiatore, di un Houdini o tornati con il teletrasporto a casa vostra, nei vostri villaggi, alle vostre radici. Mica stiamo a Star Trek. Magari! Che forse ci farebbe comodo anche a noi il teletrasporto ora che siamo qua chiusi in casa, come animali in uno zoo planetario. Dove sarete ora che non potete uscire, confinati in baracche fatiscenti, o stabili abbandonati, senza un minimo di che vivere, nelle mani di delinquenti senza scrupoli. Vi starete indebitando fino al collo per poi essere di nuovo scaricati per strada per ripagare il debito. E voi che non potete entrare, attraversare le frontiere, magari sotto le bombe di qualche signore della guerra, o nelle mani di qualche tagliagole. E voi bambini e bambine rom, che mai vi hanno voluto dare una casa, in campi senz'acqua, luce, in condizioni igieniche drammatiche? "Environmental racism" razzismo ambientale, lo ha chiamato, riferendosi alla situazione dei Rom al tempo del COVID-19 in Europa, l'European Environment Bureau. Ecco dove siete. Lontano dai occhi, lontano dai nostri cuori, invisibili, reietti, lontani dalle grinfie e dagli insulti di poveri mentecatti. Che staranno già in cerca di un altro nemico. E noi così angustiati dall'orizzonte chiuso di quattro mura, stiamo forse auto-amputando parte della nostra coscienza?


Day 29: Mors tua vita mea. "Finalmente, i dati segnano un calo, nonostante ci siano ancora oltre 600 morti." La Repubblica, ore 1824 7 Aprile. In quel nonostante mi pare ci sia tutto il significato o la mancanza di significato di questa tragedia collettiva. Nonostante oltre 600 famiglie oggi piangano i loro cari. Morti senza nome, ma sappiamo che sono i nostri anziani, nonni e nonne, di bimbi e bimbe in quattro mura. Ma finalmente c'è un calo. Tra poco potrete tornare a distanza di sicurezza alla vita fuori casa. Però attenti e mica come sperate eh. E di loro esseri umani soli, confinati in un letto di ospedale. senza neanche la possibilità di una morte degna, di essere accompagnati dall'amore dei loro parenti, figli, mogli, mariti resterà solo un nonostante. Non ho parole. Di questo passo nonostante altri 10mila morti forse arriveremo al plateau. Gli altri 15mila che hanno lasciato questa terra restano un nonostante. Ma dove finisce l'umanità? Nel mors tua vita mea?

Day 26. Domenica delle Palme. Working class heroes. A chi è curvo su una catena di montaggio, con un’altra curva che non si piega, a chi cura e chi è curato, a chi solcava mari verso la speranza e chissà dov’è, a chi sbarcava il lunario che non chiedeva mica la luna, a chi condannato da sempre ad essere nomade tira a campare abbandonato in un campo, a chi rischia la fame dopo aver avuto stipendi da fame, a chi inforca una bicicletta per portare cibo non certo per fare il giro d’Italia, a chi vede il sole a scacchi e si sta giocando la partita più pericolosa, a chi faceva saltare in aria persone con la corona, e chi combatte questo corona. A chi sudava per raccogliere pomodori, e chi ora chissà dov’è. A chi è invisibile. A chi è clandestino, agli amori clandestini che non possono essere, a chi ama ed è lontano, ai nascosti, irraggiungibili, a chi lotta solo in un letto di ospedale. A chi è a Lesvos, Gaza, Aleppo afferrato con le unghie ed i denti alla propria sopravvivenza. Ad Hamilton Gasca Ortega ed alla sua famiglia ennesime vittime della furia omicida contro leader comunitari in Colombia, che la macchina della morte mica si arresta. Ai miei fratelli e sorelle indigene, chiusi nei loro territori, con la loro saggezza ancestrale, che già troppe volte la storia ha colpito con virus, con la croce o la spada. A chi resta a casa, esiste, resiste e persiste. A noi che sembriamo navigatori in solitaria nelle nostre barchette, in un mare sconosciuto, tracciamo la rotta minuto per minuto, ora per ora, giorno per


giorno. L'unica cosa che vediamo è l'orizzonte, Oltre chissà. Magari Anarres, o Macondo, Godot o Shangri Là

Day 24. Madre Tierra, Hermanita Anarquía. Sul numero di aprile di A - Rivista anarchica, il mio primo contributo sulle rivolte popolari ed indigene in America Latina. (...) "Queste rivolte, alimentate da alleanze inedite tra “esclusi”, popoli indigeni sindacati, studenti, organizzazioni popolari, movimenti transfemministi ed ecologisti non sembrano avere un carattere puramente “rivendicativo” bensì rappresentano da una parte l’espressione diretta e immediata della rabbia e del disincanto, della disperazione dettata dalla marginalità, dall’esclusione e dalla povertà, e dall’altra il tentativo di occupare lo spazio pubblico rivendicandolo come luogo di conflitto ed auto-organizzazione dal basso , anche con modalità inedite, inclusa la performance artistica (basti pensare al flashmob organizzato dalle femministe cilene e che ha fatto poi il giro del mondo) che prefigurano nei fatti il modello di società e di trasformazione che si vuole conseguire. Chi resiste per proteggere i territori e la Madre Terra crea nessi e connessioni con i movimenti transfemministi che lottano contro il patriarcato ed il femminicidio, affermando i diritti della Natura come strumento di lotta e contrasto al modello capitalista dominante e non come pura elaborazione accademica. Mutuo soccorso, solidarietà, autoorganizzazione, modelli decisionali assembleari, autoproduzione, sono quindi le caratteristiche centrali di questi movimenti che riprendono parola, e trasformano lo spazio pubblico soprattutto nelle aree urbane in “bene comune”, e le comunità ed i territori nelle “periferie” in luogo di pratica, convivenza, resistenza collettiva allo stato".

Day 23. La beffa, la rabbia. Allora diteci se ci state prendendo per i fondelli una volta per tutte perché con tutta questa retorica bellica che ci viene propinata su tutti i canali questa cosa di un nuovo contratto della Marina per nuovi sommergibili (due ora e due dopo) marca Finmeccanica davvero grida vendetta, ora, con milioni di persone sul lastrico. E non si venga a dire che è per tutelare posti di lavoro che con quel miliardo di euro, più o meno, si possono fare un sacco di cose, tipo iniziare a ragionare una volta per tutte


sulla conversione dell’industria bellica. O magari pensate di fermare il virus a silurate? O eventuali ‘barconi’ che potrebbero arrivare con presunti invasori? Il signor Presidente del Consiglio batta un colpo! Il contratto sembra sia ancora in fase di perfezionamento quindi avete ancora la possibilità di dare un segnale serio alla nazione e d'autorità bloccare tutto. Anche se poi come dice il Sole24ore, sarebbe in ballo anche un nuovo appalto per fornitura per due miliardi di euro di fregate FREMM all'Egitto che la Farnesina avrebbe autorizzato a negoziare. Oltre l'inganno pure la beffa. Ovviamente i cantieri navali per fabbricare strumenti di guerra non navi ospedale saranno tra i primi a riaprire vero?

Day 22. Parole. Come cambiano le parole? Molto bella l’iniziativa dell'Alfabeto Pandemico. A me viene da pensare ai barbari. Quelli che aspettavamo nelle rime splendide di Costantino Kavafis. A quei barbari che pensavamo arrivassero, come a dare un senso. Ed invece è arrivato altro, inatteso, a sconvolgere il lessico, le pratiche, le abitudini, le certezze. Le parole hanno bisogno di maturare, di attraversare la mente, l’anima, plasmare pensieri, ripercorrere ricordi, aprire opportunità. Devono stare lì per un po’, acquattate, prima di prender forma, come vibrazioni di un suono, o appese alla punta di un polpastrello. Maggior responsabilità ha chi usa le parole oggi, in quella che viene definita l’era della “post-verità” nella quale tutto ciò che è falso è vero, e tutto ciò che è vero viene accuratamente rimosso, nascosto, come un ospite sgradito. O ignorato. Parole derelitte e marginali, suoni sordi o abitudinari, frenetico ticchettio su una tastiera consunta. Eppure, le parole sono anche ricettacoli di memoria, visto che oggi sono il risultato dell’utilizzo frequente protratto nel tempo e nella storia, Quindi si portano dietro anche un pezzo di memoria. Si trasformano, riflettono memoria. E quando alzi gli occhi, sei travolto da un turbinìo di parole, che rievocano ideali antichi, prospettano futuri migliori, gravitano sospese nell’oggi, senza sapere come interpretarlo, scandagliarlo, per aprire la porta alla speranza. Eravamo arrivati a pensare che le parole fossero ormai obsolescenti, vuote, finite. E invece...

Che aspettiamo, raccolti nell'agorà? Oggi devono arrivare i barbari - perché è così inoperoso il Senato? E perché siedono senza far leggi i senatori?


Perché oggi arrivano i barbari. Che leggi devon fare i Senatori? Quando verranno, faranno leggi i barbari - perché l'Imperatore s'è alzato così presto e sta alla porta maggiore della città solenne in trono, e indossa la corona? Perché oggi arrivano i barbari E l'Imperatore aspetta di ricevere il loro capo, Anzi ha disposto di offrirgli una pergamena, sulla quale gli ha scritto molti titoli e nomi - Perché stamani i due consoli e i pretori sono usciti con toghe rosse ricamate? Perché indossano bracciali colmi di ametiste e anelli con smeraldi splendidi e lucenti? Perché oggi impugnano le preziose mazze dai raffinati ceselli d'argento e d'oro? Perché oggi arrivano i barbari; e queste cose abbagliano i barbari. - Perché i valenti retori non vengon come sempre a fare i loro discorsi a dire le loro cose? Perché oggi arrivano i barbari, e hanno a noia concioni ed eloquenza. - Perché questa inquietudine, d'un tratto, questo scompiglio (Come si sono fatti seri i volti.) Perché si svuotano in fretta strade e piazze e tutti tornano a casa pensierosi? Perché si è fatta notte, e non son venuti i barbari. Messaggeri son giunti dai confini e han detto che non ci sono più i barbari E ora, senza barbari, che sarà di noi? Era una soluzione, quella gente. "


Day 21. Hunger. Stiamo entrando nella quarta settimana. Tra curve che si flettono, curve che rientrano, dati che lasciano un sottile spazio alla speranza. C'è un'altra cifra che mi ha lasciato agghiacciato. E' mai possibile che in questo paese oggi ci siano due milioni e mezzo di persone che rischiano letteralmente di fare la fame? 2,7 milioni di persone, quasi quanto l'intera città di Roma, fatevi due conti. E prima di Mr. COVID-19 questi milioni di persone dov'erano? Invisibili come chi oggi tiene in piedi questo sistema monco, amputato, chi sta nelle sale macchine? La solidarietà è la tenerezza tra i popoli, diceva un signore che portava la bandiera sbarcata qualche giorno fa assieme a decine di medici a Milano. Ma la solidarietà non basta. L'obbligo di assicurare il diritto alla salute per tutti è anche obbligo di assicurare una vita degna, un lavoro decente, una casa, cibo, acqua, aria pulita. Chiunque si interroga sul "dopo" dovrà farci i conti. La fame. Che bussa alle nostre porte, attraversa confini, materiali e immateriali. La peste nera, e la carestia. A volte mi pare di vivere un secondo Medioevo.

Day 19. Ora legale. O il tempo giusto che si trasforma, scorre, muta. Secondo convenzioni o seguendo il corso del pensiero. O dell'anima. Torna indietro per proseguire. Sospeso. Irreale, La conta dei minuti, dei giorni a ritroso per ricordare il prima, la spunta dei minuti dinnanzi, per respirare.

Day 15. Scrivere, pensare. "To sleep, to die, maybe to dream". Se c'è qualcosa che decreti e ordinanze non possono fermare, la mano e la mente. Ma voi ce la fate? A leggere i libri che affastellano le librerie? A mettere nero su bianco qualcosa che non sia la sensazione, la riflessione di un istante? E che è già è obsoleta l'istante dopo? Da tempo le parole avevano iniziato a perdere significato, contorno, memoria. Oggi provano a farsi di nuovo strada come un rito collettivo del racconto, della ricerca. Adeguate a catturare l'istante ma forse non a prefigurare il dopo. L'ignoto, o il domani che lentamente, attimo dopo attimo inizia a definirsi in giochi d'ombre ancora a noi intellegibili. Il tentativo di immaginare il dopo. Già il dopo. C'è chi


si affida alla virtù taumaturgica della crisi, confidando che tutto cambierà nel meglio, una sorta di atteggiamento fideistico per esorcizzare forse il male. Chi ipotizza scenari distopici o apocalittici, chi si affida alle proprie certezze e teorie. Chi semplicemente fa i conti con l'essenziale. Svuota le parole per poi ricostruirle, abbandona gesti per poi ridargli senso. Il dopo sarà determinato anche da come si vive l'ora, come si prova ad abitare, cercare senso di questo tempo espanso, dilatato ed allo stesso tempo compresso in quattro mura. Un pò come i nostri passi, lenti, per guadagnare qualche minuto d'aria concesso o rubato, veloci quando si tratta di sfuggire alla possibile contiguità fisica con la minaccia che incombe. Passi leggeri come se si volesse per un attimo evaporare, innalzarsi per vedere dall'alto, vederci. E poi rientrare a casa.

Day 13 o 12? PTSD. Che quando si parla di salute si dovrebbe avere un approccio più ampio, "olistico", non esclusivamente delegato agli esperti sanitari, con le loro cifre, le loro curve. Si dice che questa crisi stia politicizzando gli esperti a scapito della politica. Lo abbiamo già visto questo film nel quale in passato economisti neoliberisti dettavano le priorità della politica. In effetti a pensarci bene da come viene comunicata la situazione il dato di fatto appare evidente. Ogni giorno viene trasmesso bollettino di guerra delle 18 lasciato in mano alla Protezione Civile ed all'Istituto Superiore di Sanità, che ci tempestano di dati, statistiche, possibili curve. Dobbiamo stare a casa, lo abbiamo capito. E quando siamo a casa, cosa ne è di noi. Leggevo un articolo sulle ricadute psicologiche della applicazione del modello "cinese" a Wuhan, e di una nuova curva crescente quella del numero di casi di PTSD, (disordine da stress postraumatico). Avete presente quello che colpisce chi torna dalla guerra? La salute non è solo questione di numeri e curve quindi, riguarda aspetti molto più complessi, che dovrebbero essere presi in considerazione. Non per allentare scelte che in alcuni casi (si veda ad esempio la necessità di chiudere le fabbriche) sono arrivate colpevolmente in un secondo tempo. Riguarda il dopo, lo stato di salute mentale collettiva, che farà la differenza sulla cosa potrà rinascere da questa crisi: il dopo sarà di un popolo di lobotomizzati o in preda a stress post traumatico? Stressati e sospettosi verso chiunque? Pronti ad accettare uno stato di emergenza permanente? Anche chi ammazza il tempo nella caccia all'untore, o sminuisce la serietà delle conseguenze di una quarantena (per lo più persone che si ritengono 'sane') ci rifletta bene. Forse andrebbe creata - come hanno fatto in Cina - una task force di esperti psichiatri, psicoterapeuti, psicologi, che lavorino anche su questo,


e non lascino questo aspetto (quello dell'assistenza e cura psicologica) solo al volontariato o ai familiari. Che per lo meno indichino alcune modalità di sostegno per prevenire quello che è accaduto a Wuhan. Magari quando gli esperti ci snocciolano i loro dati, a noi impotenti e incapaci di poter far altro se non starcene tappati in casa che si mandino in sovrimpressione i contatti di una linea di aiuto psicologico centralizzata, dico io. Nel frattempo, chi ha la buona sorte di poter ricorrere alla meditazione, al tai chi o allo yoga (come me che lo pratico da oltre 5 anni), quando fa la sua pratica, dedichi parte delle sue energie migliori a chi sta lottando per la vita. Oggi, grazie alla possibilità di rompere barriere fisiche che ci dà la rete, ho fatto una classe di yoga con mia nipote Helguita da Quito, come faccio quando sono là, ed è una gran sensazione quella di affidarsi ai nostri nipoti affinché ci aiutino a mantenere la barra dritta in questo momento così difficile. E ad affidare a chi lo sta vivendo direttamente in prima persona le nostre energie migliori.

Day 11. Aforisma. A forza di camminare in tondo intorno all'isolato finisce che ci ritroveremo come in un castello medioevale, con un fossato che ci separa dal resto del mondo.

Day 11. Solstizio di primavera. Extraction. Sarebbe cosa buona e giusta provare a leggere questa crisi drammatica che stiamo vivendo anche secondo epistemologie differenti. Non a caso oggi nelle cosmologie andine si celebra il Pawkar Raymi, solstizio di primavera, la celebrazione del nuovo tempo, il giorno della fioritura, per ringraziare la Pacha Mama dei doni che da agli esseri umani. Una celebrazione che inizia a gennaio e culmina proprio oggi 21 marzo. Vista dal cosiddetto Sud del mondo questa crisi difficilmente rappresenterà un’opportunità per ridefinire il modello economico o di sviluppo. Anzi. I segnali che arrivano dall’America Latina ci dicono che l’estrattivismo, piuttosto che ridursi, come logica vorrebbe visto che questo virus è stato originato proprio dalla distruzione degli ecosistemi e della biodiversità, aumenterà in maniera esponenziale. La necessità di valuta per ricostituire le casse statali già erose dal crollo del prezzo del petrolio per economie dipendenti dal petrolio, porterà ad un allargamento delle attività di prospezione e estrazione. Non a caso le imprese transnazionali del settore hanno già dedicato centinaia di milioni di dollari alla prospezione ed


esplorazione e difficilmente torneranno indietro. E la Cina la farà da padrone, vera incontrastata “survivor” del COVID19. Le curve di crescita di estrazione di materiali previste dalle Nazioni Unite, in un contesto di capitalismo estrattivo continuerebbero così la loro crescita. L’estrazione di materiali è causa dell’80% di perdita della biodiversità e di oltre il 50% delle emissioni di anidride carbonica senza contare poi quelle emesse dalla combustione di combustibili fossili. Dal 1970 la velocità di estrazione di risorse naturali dal pianeta è triplicata. Oggi si estraggono 92 miliardi di tonnellate di materiali l’anno con una crescita del 3,2% annuo. Dal 1970 l’estrazione di combustibili fossili è passata da 6 a 15 miliardi di tonnellate, quella di altri minerali da 9 a 44 miliardi, la rimozione di biomassa dal 9 a 24 miliardi di tonnellate. Se non si decide di disaccoppiare la crescita dal consumo di materiali la domanda di risorse raddoppierà per arrivare a 190 miliardi di tonnellate l’anno, e le emissioni di gas serra aumenteranno del 40%. Inoltre, Le grandi mobilitazioni popolari come quella in Cile che forzarono il presidente a convocare un’assemblea costituente per le prossime settimane sono ormai svanite, e le votazioni per la nuova costituente slittate all’autunno. E poi non facciamoci illusioni: anche un Green New Deal qua, nel Nord, senza che venga preso in considerazione l’aumento della domanda di minerali strategici e terre rare ed il conseguente impatto sociale ed ambientale, sarebbe un Green Deal per la parte della popolazione mondiale che più ha contribuito all’esaurimento delle risorse naturali. Questo impone un netto cambio di visione, di giustizia ecologica radicale e decoloniale . Malcom Ferdidand nel suo splendido “Une ecologie decoloniale – penser l’ecologie depuis le monde caribeen” che sto leggendo proprio ora, invita a superare l’antropocene “bianco” ed a recuperare il rapporto degli umani con il non-umano, con la questione decoloniale e con un’ecologia del mondo nella quale la Terra non sarà nostra casa ma la “matrice del mondo”. Oltre alla teoria andrà praticata anche una scelta politica chiara: sostenere le comunità ed i movimenti che resistono e resisteranno ancora all’avanzata della frontiera estrattiva, qua ed altrove. Sostenerli e far in modo di rafforzare le loro capacità di difesa e protezione dalle minacce che derivano dalla corsa all’accaparramento delle risorse presenti nei loro territori. Sarà una guerra senza esclusione di colpi nei territori marginali, nuove colonie del post COVID19. E sarà per noi ancor più complicato per varie ragioni: la prima che per mesi gli spazi tradizionali di agibilità politica verranno compressi. Compressi, giacché per governi ed imprese sarà urgente assicurare il libro svolgimento delle attività imprenditoriali, di produzione di materiali e di estrazione di risorse ad essa connesse, in una fase di emergenza economico-finanziaria. La seconda che a fronte dell’urgenza di ricostruire economie devastate dalla recessione, si rafforzerà ancor di più il conflitto tra lavoro ed ambiente. Insomma, aspettiamo a cantar vittoria. La crisi del sistema capitalista andrà prodotta


attivamente non attendendo per default che ci pensi il COVID19. Si dovrà pensare ad una cancellazione totale del debito per iniziare, e allo stesso tempo praticare resistenza e riconnessione con la Madre Terra proprio come si fa oggi nelle celebrazioni del Pawkar Raymi e come fanno da sempre popolazioni indigene che oggi temono, come ai tempi della Conquista, che un virus arrivi alle loro porte per sterminarli. Per questo del virus loro hanno deciso di non parlare, per non evocare la loro possibile fine.

Day 10. La fede di chi non ha fede. The Faith of the Faithless. Una lecture del mio filosofo preferito Simon Critchley, su resistenza, utopia, arte politica e comunità, basato sul suo "Infinitely Demanding: Ethics of commitment, politics of resistance": esattamente quello di cui abbiamo bisogno ora. Una etica dell'impegno, ed una politica di resistenza. Simon fonda parte del suo approccio sulla visione dell'altro di Emmanuel Levinas, altro grande filosofo ispirato al Talmud ed alla cultura e tradizione ebraica. Sulla sfida al potere, ed allo stato (memorabile il botta e risposta sul potere e la conquista del potere con Slavoj Zizek) sul ricorso all'ironia ed all'humor. Proprio ispirato dall'humor il suo libro sulla "Dead Philosophers Society" una sorta di Spoon River dei filosofi di ogni tempo, dove racconta come hanno abbandonato questa vita e che il loro pensiero in un certo modo lo avesse prefigurato. Oggi cercherò la mia bandiera della pace e se riesco a trovarla la esporrò dal mio balcone, per la prima volta. Un pò perché mi va, o perché credo sia la migliore risposta al patriottismo fine a sé stesso ed alla retorica della guerra che pare permeare ogni forma di comunicazione, perché in ogni parte del mondo siamo nella stessa barca. Per rifiutare la logica del nemico e della delazione e immaginare un futuro senza armi, eserciti, bandiere, stati, autorità. Stay tuned, stay safe.


Day 9. La cura. “Je suis l’autre” diceva il grande filosofo Emmanuel Levinas. Io sono l’altro, vale ancor di più oggi, in questo tempo sospeso. Una sfida che ci chiama ad essere responsabili nei confronti dell’altro, anche attraverso pratiche, che possono non essere confinate dietro le mura di casa. Pensare, riflettere, condividere, aiutare a creare relazioni, reti, mettere in connessione, sostenere per quanto possibile pratiche di cura e solidarietà. Abitare la crisi, abitare l’emergenza significa vivere questi tempi senza rassegnarsi all’impossibile. In un suo interessante articolo “Habitar la excepcion. Pensamientos si cuarantenas” il filosofo spagnolo Amador Fernandez Savater ci dice che trasformare significa far apparire da un’altra prospettiva nuove domande e risposte, nuove maniere di pensare ed agire, nuove logiche di pensare e fare, riguardo ai problemi. (…) Abitare, essere presenti, non solo spettatori o consumatori o vittime di decisioni altrui, sentire, pensare, creare a partire da ciò che accade, dargli valore, condividerlo. E superare la dicotomia imposta del “è così”, o “obbedienza o morte”. Che sia insomma occasione per affinare l’autonomia del pensiero, e dell’azione, delle reti e dei saperi. Che sia contro nessuno, ma neanche sottomessa a nessuno. Savater offre elementi fondamentali per fare i conti con le proprie abitudini, rivedere i propri stili di vita, riscoprire l’essenziale, ed il valore fondamentale del restare umani, della costruzione del “comune”. Scoprire il valore ed il significato della cura come pratica dirompente e politica e di mutualismo “dal basso”.

Day 9. La delazione. Due righe che oggi sono uscito per andare a fare la spesa. E sono tornato turbato. Dalla scena di una "pantera" o come diavolo si chiama dei Carabinieri che da lontano punta un signore con a borsa della spesa e correndo contromano inchioda alle sue spalle. I due militi dell'arma scendono e lo circondando intimandogli di far vedere i documenti. Ed io mi sono sentito un criminale fino a prova contraria. Insomma, ci sono modi e modi per assicurare il rispetto delle regole. Invece pare di essere tutti agli arresti domiciliari. E che dire del solerte amministratore del mio condominio che ad un certo punto, informato da altrettanto solerte "delatore", (ah dimenticavo, nel mio condominio quando mi sono trasferito anni fa ho appreso che c'era pure il "caposcala", cosa che richiama a storie passate e oscure del nostro paese) chiude di punto in bianco il giardino interno. E pensare che avrei voluto scrivergli per


proporgli di mandare una lettera circolare a tutti i condomini per capire chi fosse in stato di necessità di aiuto e raccogliere disponibilità dei condomini. Ed invece a norma del DCPM secondo lui 4 bambini giocando facevano assembramento. Andiamo bene andiamo. Mi iniziava ad intenerire il gridare di quei bimbi finalmente liberi di giocare lontano dai loro cellulari o tablet. Allora scendo e chiedo alla mamma, e lei intimorita mi fa, ma guardi possiamo mandarli a due a due. E io gli faccio “signò, ma le pare il caso io ero sceso per capire perché diamine lo hanno chiuso!” E leggo cartello" in ottemperanza di DPCM tal de tali". Lei mi fa meno male che c'è qualcuno sensibile, mò che finisce sta storia andiamo a prenderci un dolce da Natalizi, qua dietro l'angolo. E uno dei bimbi: Aho io scavalco. Gli faccio, pisé lassa perde che poi te fai pure male…Insomma.

Day 8. Evasione. Letteratura d'evasione, evasioni celebri, programmi d'evasione. Il pensiero va a chi è privato della libertà per anni, decenni., alle loro giornate vuote, uguali. Allo sforzo di evadere con la mente oltre le sbarre. Ai calendari vuoti, giorni, mesi, anni. Questo mi rimaste scolpito nella mente dopo una visita alla sezione ergastolani di Bad E' Carros, carcere di massima sicurezza di Nuoro. All'urgenza di svuotare quei luoghi, spesso in condizioni estreme e precarie, con provvedimenti logici, e riprendere "dopo", la questione della "penalizzazione", dell'allargamento della sfera del diritto penale ad una sempre crescente casistica di reati. E penso alle evasioni, alle grandi evasioni che da adolescente mi affascinavano, come le storie di comunità eretiche, o i bombaroli che facevano fuori re e tiranni, o alle grandi rapine in banca. Agli indiani pellerossa. Ai pirati e corsari. Non siamo certo agli arresti domiciliari, anche se la sottile distinzione tra invito a restare a casa ed obbligo a restare senza poter camminare fuori, dimostra che il margine è molto labile, poroso. Un paio di cose mi hanno fatto riflettere sul rischio dell'arbitrio di chi ha oggi un potere discrezionale sulle nostre vite. Il carabiniere o vigile di turno che da dietro la sua divisa pensa di ritenere l'acquisto di un giornale o di materiali di cancelleria come acquisti non necessari. E' come quando si decide di togliere la libertà di pensare, di elaborare, di immaginare, di disegnare, di scrivere. Di alimentare la mente oltre che il corpo. E questo non è possibile farlo solo attraverso l'uso compulsivo dei social. (anche se su questo rito di sublimazione o metabolizzazione collettiva ci sarà da riflettere, magari un altro giorno) E pensavo a quei carcerati in regime di isolamento, una forma di tortura, di morte civile, senza poter leggere, sempre sotto il controllo vigile di un secondino o di una telecamera.


Stiamo vivendo la fine dell'interregno, questo ci dicevamo l'altro giorno con un caro amico di Quito, Alberto. E come Gramsci insegna, questa fine può portare cose fino a ieri inimmaginabili. Nel bene, ma anche nel male. Cosa ciò sarà dipenderà anche da come impareremo a vivere, abitare l'emergenza e la crisi (ricordo che milioni di esseri umani da chissà quanto lo fanno). Non ci sono state sbarre a ingabbiare la testa di Antonio Gramsci o di Nelson Mandela. Abdullah Ocalan dal carcere dove è sepolto vivo, ha trovato le forze, le energie per ripensarsi, per rivedere radicalmente le sue convinzioni, capovolgerle, e offrire al mondo un modello possibile. Uno scambio epistolare con uno dei miei punti di riferimento politico, Murray Bookchin. Sarebbe bello iniziare a scambiarci epistole, ragionare sul possibile e l'inimmaginabile. Molti lo stanno facendo attraverso riflessione pubblicate su vari blog e siti, soprattutto provando a scandagliare ed offrire una lettura del "qua ed ora". Sarà il momento anche del "dopo". E nel frattempo per un attimo, sognare, mettersi nei panni del grande Steve McQueen, mica quello delle corse in moto, o della vita spericolata di Vasco, quello di Papillon.

Day 7: diritti e doveri. Quando diciamo di essere responsabili anzitutto ma anche vigilanti sui diritti umani anche nella situazione drammatica che stiamo tutti vivendo forse una ragione c'è. Che questa situazione rischia di tramutarsi in stato di emergenza permanente, prima pandemica, poi economica e poi sociale, e non se ne esce. Anzi rischia di farsi strada la convinzione che a fronte dell'irresponsabilità dei cittadini, e dell'incapacità della politica di essere efficace ed efficiente, si dovranno rivedere alle fondamenta alcuni pilastri dello stato di diritto. Importante quindi la presa di posizione di vari relatori speciali ONU sui diritti umani, tra cui lo Special Rapporteur sui Difensori dei Diritti Umani Michel Forst che avevamo invitato con la rete In Difesa Di in visita accademica a Roma ai primi di aprile anche per discutere della protezione degli spazi di agibilità civica e dei difensori dei diritti umani nel nostro paese. Discussione che oggi pare di lana caprina ma che invece non potrà essere trascurata. Anche perché qua in Italia non esiste una autorità nazionale indipendente sui diritti umani che possa svolgere funzione di monitoraggio e verifica. Ad esempio, chiedendo che il governo notifichi immediatamente agli organismi ONU per i diritti umani tutti gli atti restrittivi delle libertà personali, al fine di assicurare trasparenza e monitoraggio indipendente. Visto che queste misure sono al momento imposte attraverso decreti del Presidente del Consiglio senza alcun voto parlamentare che ne autorizzi la conversione in legge.


Day 6. Ecocidio. Sono giorni che ci ripenso, che il ricordo fa capolino, ma finora non sapevo come metterlo a fuoco, rileggerlo alla luce dell’attuale. Poi leggo che oggi di qualche anno fa, dopo un tremendo tsunami, saltò in aria la centrale nucleare di Fukushima, una catastrofe annunciata. Un po' come Chernobyl, uno spartiacque della storia, del prima e di quello che avrebbe dovuto essere il dopo. Oggi, la paura dell’invisibile ammanta come una cappa l’aria. Si respira, il silenzio, la stasi, come vivere in una camera stagna, in uno spazio sospeso. Fluttuare nell’aria. Il ricordo torna a due eventi della mia vita passata, delle mie vite passate. Quando, era credo il 1979, andammo a fare una marcia antimilitarista per mezza Europa, contro la NATO ed il Patto di Varsavia e capitammo in un luogo dove il pericolo, invisibile, si percepiva anticipato nei tempi, a pelle, Gorleben sul cui territorio s’era deciso di stoccare scorie nucleari, la punta estrema di un dito di terra della Germania occidentale conficcato come un cuneo nel territorio della DDR. Fare i conti con l’invisibile, l’infinitesimamente piccolo. Scoria di un paradigma dominante. E poi anni dopo 24 per l’esattezza, a bordo della Rainbow Warrior II, nave ammiraglia di Greenpeace, io guerriero dell'arcobaleno imbarcato a Vladivostok per un mese di tour nell’Estremo Oriente russo. Là l’odore asfissiante della paura e della morte lo percepii davvero quel giorno, quando si decise di entrare avventurosamente in una base navale russa, Chazma Bay, uno slalom tra unità navali ancorate al largo, in attesa di essere vendute ai cinesi. Chazma Bay era una base di sommergibili nucleari nella prossimità di un villaggio. Anni prima era esploso un sommergibile nucleare, con conseguente fall-out radioattivo. Decidiamo di andare a fare rilevamenti con il contatore geiger per poi informare, per la prima volta la popolazione, dir loro la verità sempre fino ad allora nascosta. Camminiamo tra prati morti, alberi morti, qua e là mucchi di terreno radioattivo. Sappiamo di non poter rimanere esposti più di qualche manciata di secondi. I contatori geiger iniziano a impazzire ed è il momento di correre via. Per poi improvvisare più tardi dalla plancia della Rainbow un’assemblea con la popolazione, che fino ad allora era stata tenuta all’oscuro di tutto. Ne nacque una mezza rivolta contro il comandante della guarnigione militare che chiese rifugio nelle sale della nave. Poi ce ne andammo, prima che una nave militare potesse trainarci via a forza. Quella sensazione, quell’odore impercettibile, quella presenza invisibile dello sconosciuto, dell’invisibile, del rischio la provo ora, nei rari momenti nei quali metto il naso fuori dalla finestra. Chernobyl e Fukushima erano chiari segnali di allerta, di allarme, a quali si rispose senza però mettere in discussione alla radice il modello economico,


energetico, produttivo, l’architettura stessa delle nostre vite. Oggi questo sarà uno dei compiti del “dopo”. Quando questo sarà, dovrà essere. Nel frattempo, pensando a quegli irresponsabili che ora intasano treni e strade per tornare, o che “la vita continua come sempre, che tanto è un’influenza”, o che hanno affollato sprezzanti del rischio strade e piazze incapaci di rinunciare alla loro socialità compulsiva mi viene in mente Fukushima. Quando uno dei funzionari della TEPCO per mostrare che non c’era pericolo, bevve – se non ricordo male - acqua radioattiva. E lo immaginavo tramutarsi poco dopo in pesce. Ed a chi gli chiedeva impaurito, ma si rende conto? Lui rispondeva: Ma come era fin da quando ero bambino che sognavo di diventare pesce. Mentre chi provava a salvare vite umane restava contaminato a suo rischio e pericolo, esseri umani venivano contaminati e morivano. Proprio come ora nelle corsie degli ospedali di mezza Italia. Namaste.

Day 5 cronaca diaria. Un giro di window shopping su Pinterest, un'occhiata alle Hawaii su google earth, una punta per aperiskype con gli amici nel pomeriggio. La lettura minuziosa della rassegna stampa quotidiana. Rientrato dopo essere andato come un cacciatore-raccoglitore Dayak a cercare cibo e beni di prima necessità con una sporta militare sulle spalle. Tra un pò andò a fare cicoria a villa Borghese. Tra una che "sbrocca" per strada (tranqui lo fa sempre mi dice il fruttivendolo sotto casa) e file sotto la pioggerellina. Il "capitano", simpatico bengalese, (ci chiamiamo così comandante e capitano - lui sa bene che ambedue i capitani - quello giallorosso e quello verde - non fanno per me quindi evitiamo di entrare nei dettagli) dal suo shop dal quale facciamo rifornimento di avocados (rigorosamente politicamente corretti che lui quelli da Israele anche no anzi guarda ad aprile mi arrivano avocados italiani, seee mo chissà quando) mi sorride da sotto la mascherina: "da domenica me sa che chiudo eh. Se torni domani mattina alle 10 trovi i tuoi avocados". Due parole scambiate al volo nella ricerca di un farmaco omeopatico che dovrebbe aiutarci a difenderci dal mostro invisibile. La gentile farmacista dalla lunga chioma rossa oggi è meno sorridente del solito, gli occhi stanchi da dietro la immancabile mascherina. E poi mi fornisco del kit per le mascherine faida-te, improbabile rito per scongiurare il peggio. Carta da forno (già introvabile), elastici che mi strapperanno quei pochi peli della barba e graffette. Sono indeciso se aprire o meno le finestre oggi alle 18 e dare sfogo alla mia musicalità repressa, che una volta va pure bene, poi si rischia il melodramma, Un pò come mentre facevo la fila per comprare


saponi e affini accompagnato da Toto Cutugno ("sono un italiano vero!"), sparato a palla dal mercato dei saponi. Mi torna un leggero rigurgito antipatriottico. La mascherina mi fa mancare l'aria. Fine dell'uscita dalla navicella. Gli asteroidi stanno bene, mandano tanti saluti al pianeta Terra.

Day 4. La grana delle cose. Così è stata tradotta una raccolta di poesie di uno dei miei poeti preferiti, Gary Snyder. La grana delle cose che oggi e per qualche tempo dovremo abituarci a scoprire, o a riscoprire, in una sorta di eremitaggio forzato, dietro quattro mura. Come monaci zen, che si ritirano dal mondo, dalle sue seduzioni materiali, per tornare all’essenziale. Un esercizio spirituale per riscoprire l’essenza stessa dell’essere. Ed allora fai i conti anche con la tua quotidianità, provi a sforzarti a riconfigurarla. A riscoprire piccoli gesti che la furia dei giorni ti facevano sembrare così ovvii, banali. A capire quanto sia possibile eliminare il superfluo. In arte si dice “less is more”, un po' come lo scultore che sottrae materia per far emergere la bellezza. Ed oggi mentre mettevo in ordine le mie cose, le mie camicie da "worker" americano che tanto mi piacciono, una macchia azzurra in un nero dominante che ho scelto da tempo come mio colore mi chiedevo se alla fine possa essere possibile stare semplicemente con una tshirt nera come sto ora. Un paio di jeans vecchiotti e comodi, a piedi nudi con un cappellino da "trucker", ascoltando il blues di John Prine, che io abituato a lavorare e vivere in casa da ormai dieci anni, ho dovuto darmi delle regole, prima fra tutte quella di vestirmi in casa come se dovessi andare fuori, passeggiare, o andare al lavoro o con gli amici. Come possa essere possibile fare a meno, come alleggerire il nostro carico. E’ da tempo che stiamo ragionando qua a casa sul tornare alla grana, alleggerirci delle cose, tornare alla terra. Per un po' forse questo secondo proposito dovrà aspettare, ma intanto ci si può attrezzare per il resto. Che gli eventi hanno accorciato il tempo della scelta. Tornare alla grana delle cose, quella che dovremmo imparare a scorgere in filigrana ora, giorno per giorno, ora per ora. Messi all’angoletto da una Madre, la Madre Terra, che non mi rassegno a immaginare matrigna, e che forse dopo tanti avvertimenti ne ha abbastanza di figli e figlie che non la rispettano. E possiamo arrabbiarci del destino che ci è caduto sulla testa, provare a far finta di nulla, come se nulla fosse, resta il fatto che la grana delle cose è riconnettersi con lei, sforzarsi di capire come farlo. Per il resto mi affido ai versi di Gary che condivido volentieri.


“Un poeta della Mente Rimane in casa. La casa è vuota E non ha pareti. La poesia È vista da ogni lato, Dovunque, In un unico momento.”

Day 3: la serrata. Da affrontare in maniera zen, non c'è altra maniera. Solo un pensiero allora stamattina, forse perché uno degli incontri più belli del mio passato politico è stato quello con una di loro e con un'altra che si batteva con coraggio per dar loro sostegno e conforto e da allora questa vicenda mi è rimasta stampata nella memoria. A voi genitori che dovete gestire figli e figlie irrequieti, che scalpitano o strepitano per vedere gli amici, farsi due passi, andare in piazzetta o al muretto. Fategli conoscere la storia dei "bambini nascosti", quelle decine, migliaia di bimbi e bimbe figli e figlie di emigrati italiani in Svizzera, costretti a restare chiusi al buio in una stanza per anni, ed uscire solo di notte per farsi due passi, senza fiatare, con il rischio di essere espulsi dal paese a seguito di assurde leggi migratorie. Per anni. Non per 15 o 30 giorni che siano. E senza tante chiacchiere su autocertificazioni, permessi da interpretare alla bisogna. E noi che tanto ci battiamo per la libertà di Julian Assange, mettiamoci nei suoi panni. Anni chiuso in una stanza, con un unico contatto possibile con il mondo esterno, la rete, proprio come noi, che comunque possiamo uscire per comprarci cibo e beni di prima necessità. (anche su questo ci sarà da ragionare, su altri "nascosti", chi nonostante tutto dovrà lavorare in condizioni di continua precarietà e rischio, per portarci a casa cibo e generi di conforto, o chi il lavoro lo ha perso, lo perde restando chiuso a casa. O chi è forzato alla contiguità, illegale per noi, obbligata per chi è rinchiuso in un carcere o un centro di detenzione per migranti o in un campo profughi in una mitica isola greca).


Day one. Yuri, Napoleone o Robinson. Non so se provare ad immedesimarmi, qua solo a casa, con la mia metà dall'altro capo del mondo, in un astronauta chiuso in una navicella spaziale in orbita, che ne so un Yuri Gagarin (essendo in zona rossa mi pare una pregevole combinazione), oppure Napoleone a Sant’Elena, o al limite, se non avesse estremi connotati coloniali, Robinson Crusoe, ma senza Venerdì. O ancor meglio in uno scienziato solitario confinato per mesi in una base antartica. Come pensavano ogni mattina di affrontare la giornata. Napoleone con il suo servo: “vestimi lentamente che vado di fretta”, Yuri che osservava dall’alto il pianeta Terra o Robinson che cotto dal sole doveva inventarsi mille espedienti per tirare a campare. Lo scienziato che iniziava il suo ennesimo giorno di amore con il ghiaccio ed i suoi segreti. Io in cucina ad osservare stupito la fioritura dell'orchidea che avevamo dato per spacciata 4 anni fa. E che è li a ricordare che Madre Natura ha memoria, vive, sopravvive anche a quel che noi umani immaginiamo. Ah, no, c’è anche il classico soldato giapponese nella giungla, che pensava di fare la guerra dopo che la guerra era finita da decenni. Solo, confinato in una foresta ostile che imparò ad abitare. La guerra, per noi pacifisti e antimilitaristi non è solo un tabù, ma il male estremo. Fa specie allora notare quanto leggermente si usi il termine guerra in questi frangenti. Fa riflettere perché denota una pulsione alla forza, alla virulenza, alla potenza, in questo caso contro un nemico invisibile, minuscolo che sta fiaccando ogni linea di difesa ed ogni certezza. Non è una guerra questa, è una missione collettiva, comune per proteggere i deboli, gli esclusi, i vulnerabili ed i vulnerati. Restare a casa diventa così non una privazione, ma un atto d'amore. Per custodire la memoria collettiva, prenderci carico. Come fanno da millenni gli indigeni di ogni parte del mondo. Con lo sguardo verso il passato, quello degli antenati, e verso le generazioni future, che ogni azione di oggi andrà ragionata rispetto all’effetto che avrà sulle prossime sette generazioni. Guerra di cifre, di proclami, richiami allo stato di guerra, all’esercito per le strade, sospensione del Parlamento, maxicommissari. Ieri alla radio – ero uscito per portare la spesa ad una amica cara che è meglio che resti a casa – mi sono imbattuto in una trasmissione dove c’era uno che come un ossesso, come quel tipo della serie Homeland (che tra l’altro ha ripreso ieri per mio sommo conforto) urlava contro tutti, come per aizzare gli ascoltatori, chiedendo il pugno di ferro, che lo sapete altrove agli evasi gli sparano addosso. La nausea ha preso il sopravvento. Questa è la guerra. E poi chi pensa che i 20mila soldati USA arrivati per esercitazioni previste da tempo siano una forza di invasione. Chi pensa che il virus sia un’arma batteriologica. Ma voi siete


così amanti della guerra da invocarla ogni istante? C’è chi fa la guerra per accaparrarsi l’ultimo rotolo di carta igienica, e chi nelle corsie di ospedale in silenzio senza tanti clamori combatte per salvare vite, con quel che ha, proprio come Robinson. Oggi credo che proverò a fare yoga nel salotto, per riprendere contatto con il mio corpo, respirare. Dipanare la confusione che i momenti gravi e solenni portano con sé, di un’era dove quelli che pensavamo essere i “watershed moments” quelli che chiudono un ciclo per aprirne un altro, si susseguono uno dietro l’altro. Le Twin Towers, Fukushima, il crack finanziario, ed ora il Coronavirus con una velocità unica. E provando a far luce, - come dice Leonard Cohen, in ogni cosa c’è una crepa attraverso la quale passa la luce, intravvedo altro. Come se ci fosse una realtà parallela, silente, operosa. Quella di decine di persone che come me la mattina si alzano e che – non per narcisismo ma per spirito di servizio. Condividono in questa piazza virtuale idee, riflessioni, stimoli per tenere allenata la mente. Ce ne sono tanti, uno dei miei compagni preferiti di viaggio Comune-info sta raccogliendo decine di contributi, scritti, memoria ai tempi del virus. Ed è come se nello spazio virtuale si stia costruendo uno spazio di condivisione, ci si scambiano link, si commenta, si discute con persone che magari neanche conosci. Alla ricerca collettiva di un significato. Ci viene chiesto di non fare assembramenti, bene lo faremo, ma non qua. Questo luogo virtuale possiamo prendercelo, occuparlo, agirlo. Con lo scambio di idee, e con lo scambio di informazioni su come aiutare gli altri/e. Un foglio di carta con il tuo nome o interno da appiccicare all’ingresso del condominio per offrire aiuto. Gruppi di acquisto per farmaci, assistenza a distanza per gli anziani o i malati a casa. Il passaparola. Ne stanno spuntando a decine di iniziative simili. Allora se davvero si vuole parlare di guerra, la guerra tenetevela come un feticcio voi che la volete fare, o che pensate di contrastarla chissà come, che c’è un esercito di straccioni, senza armi, senza divise, un po' come gli Zapatisti, che reagisce alla guerra con la testa ed il cuore. Che guarda oltre l’ostacolo.


Day Zero.

Un sottile velo di carta o garza sul naso e la bocca come ultima frontiera. Questo viene da pensare oggi, dopo giorni di martellante informazione, di interessanti analisi ed elaborazioni sulla crisi del momento, quella del Coronavirus. Una crisi che ci sta mettendo in crisi come null’altro, poiché si abbatte o rischia di abbattersi sui nostri stessi corpi. Accantoniamo definitivamente le narrative della catastrofe, visto che da tempo – come ci dicono spesso inascoltati gli studiosi ed intellettuali decoloniali – gran parte dell’umanità vive in stato di apocalisse spesso anche a causa delle ricadute del nostro modello di vita. Su questo filo di carta o garza si gioca il destino, si snodano le questioni e le contraddizioni della biopolitica. Non c’è riuscito il climate change, che in fondo in fondo i nostri corpi non ne hanno ancora sofferto le ricadute. O meglio, qualcuno certo che le ha sofferte. Eccome. Dagli anziani che muoiono per il caldo, ai popoli impoveriti che muoiono senz’ acqua, o cibo, le loro terre sommerse dall’innalzamento dei mari, o nei territori abbandonati e marginali, ecosistemi che si sgretolano sotto il peso del fango o delle piogge inusuali. E’un tema di giustizia e biopolitica quello del climate change come anche questo COVID. Non a caso oggi i più vulnerabili sono proprio gli anziani, i malati. Guarda caso non nel Sud del mondo, ma comunque egualmente gli esclusi che la logica del mercato e della competizione dimentica giacché non “sani” o “produttivi”. Disposed o disposable lives direbbe Judith Butler, che devono fare i conti con un altro effetto nefasto del modello liberista, proprio come quegli anziani o esseri umani che muoiono di caldo o quei territori saccheggiati dalla legge dell’estrazione di profitto e della speculazione. Territori fisici, ecosistemi da una parte, zone di protezione, cura e rifugio dall’altra. Quelle della sanità pubblica che sconta il passaggio nefasto della logica dell’efficienza e del pareggio dei conti. Quel sottile velo di carta vorrebbe proteggerci, difendere il nostro corpo, ed invece è lì a dimostrare la nostra impotenza. Su questo aspetto sarà opportuno riflettere. Quando c’è una crisi di questa entità nei fatti si crea uno stato di eccezione dovuto all’eccezionalità della situazione. Non forse quello annunciato da Giorgio Agamben, in un suo articolo che – dato forse positivo in questo momento complicato e complesso – ha innescato un dibattito filosofico, politico e culturale di alto livello e del quale – secondo il principio orientale del fare della crisi una opportunità – si dovrebbe far tesoro. Non uno stato di eccezione à la Agamben però certo una situazione nella quale entrano in gioco vari livelli. C’è quello


della scienza e dei “tecnici” che vengono chiamati in causa per informare le scelte della politica. C’è la questione dell’affidamento a quei protocolli, che forse nel nostro caso, quello di un virus sconosciuto e insidioso, lasciano un po’ il tempo che trovano. C’è l‘urgenza di proteggere anzitutto i più deboli e vulnerabili, cercando di contenere l’allargamento dell’infezione che andrebbe a mettere a dura prova un sistema sanitario fiaccato da anni di tagli e privatizzazioni. C’è la questione di una presa di responsabilità collettiva. Ma ci sono altre cose che in questi giorni attraversano la mente ed i pensieri, persi come siamo in una quotidianità anfibia, nella quale cerchiamo di mantenere il nostro essere esseri sociali, che si occupano e preoccupano dell’esistente, mentre quel che ci viene chiesto è di rinunciarci, di chiuderci in noi stessi. Senza abbracci, senza gesti di affetto e simpatia. Aggiungendo un’ulteriore frontiera tra i nostri corpi e gli altri, tra noi e gli ecosistemi fisici, culturali, immateriali che danno senso a quel che siamo. Come far tesoro di questa nostra quotidianità allora e di una situazione che rischia di protrarsi per mesi? Continuiamo solo ad affidarci agli esperti? Andrebbe forse letto o riletto uno splendido saggio di Ivan Illich , dal titolo “Medical nemesis” sulla medicina e su come provare a restare pazienti emancipati, nonostante i protocolli e le terapie. Allora se volessimo adattare l’intuizione di Illich al nostro corpo o ai nostri corpi ora, lo scarto tra ciò che va doverosamente fatto e ciò che può essere comunque fatto risulta evidente. Va contenuta certo la diffusione del virus anzitutto per proteggere i più vulnerabili, ma questo presuppone esclusivamente l’ordine calato dall’alto di NON fare determinate cose? Di rinunciare al nostro essere persone che si relazionano con l’altro? Per salvare l’altro ci dobbiamo rinchiudere in noi stessi, nell’angustia delle nostre case, delle nostre paure? Questo mi pare il bivio che potrebbe fare di questa crisi una opportunità inedita, o di trasformarla nel colpo definitivo assestato dall’individualismo, ed alla perdita del senso dell’altro. Per far si che il secondo aspetto prevalga sul primo però c’è bisogno di un netto cambio di passo. Andrebbe recuperato, o per lo meno riconosciuto il contributo in “positivo” che ognuno di noi può dare soprattutto verso i più vulnerabili. Andrebbe, se non incentivato direttamente, per lo meno agevolato il lavoro di “cura”, il recupero del senso politico della “cura”, la riappropriazione della cura non come protezione calata dall’alto, ma come pratica che dia senso all’essere umani. È quello che Donna Haraway, grande filosofa femminista chiama “making kin”, ricostruire nessi di familiarità allargata. Non è questo lo spirito che riflettono gli atti d’urgenza del governo. Nessuna possibilità viene contemplata se non quella di non fare


determinate cose, di accettare la dissoluzione di spazi di socialità e di relazionalità, piuttosto che offrire anche la possibilità di essere soggetti agenti e non recettori passivi di ricette e soluzioni calate d’alto. La crisi non dovrebbe tradursi in cancellazione della nostra “agency”, sia nel preoccuparci e occuparci dell’altro, che nella possibilità di occupare con i nostri corpi spazi pubblici come atto politico e di rivendicazione. Ed allora o questo verrà agevolato o dovremo riprendercelo, appropriarcene con intelligenza e responsabilità. Toglie l’aria dai polmoni la sequela di eventi, iniziative, manifestazioni cancellate d’un colpo, mobilitazioni per cause giuste vengono di fatto annullate dall’imperativo della sicurezza. Che sia l’orrore dell’uso di altri corpi, migranti come arma di guerra sulla frontiera greco-turca, o la detenzione di un corpo dissidente, in Egitto, di Patrick Zaky che lotta per il riconoscimento del diritto alla diversità. Ed è paradossale che proprio l’atto politico più importante per riaffermare la centralità della cura, lo sciopero transfemminista di Non Una di Meno, venga proibito proprio per prevenire rischi a chi dovrebbe essere “curato”. Però un punto resta, sul quale è necessario essere vigilanti, proprio per non consegnarci come sudditi nelle mani di chi governa. La tensione tra diritto alla salute e diritti civili non ci permetterà – a noi “sani” – certo di scegliere tra uno e l’altro giacché il primo imprescindibile da rispettare riguarda i più vulnerabili (e non solo) però autorizza a non accettare supinamente il tentativo, più o meno consapevole, di toglierci non solo spazio fisico, ma anche politico e sociale. Giacché la storia insegna quanto sia facile per il potere rosicchiare spazi e quanto sia difficile poi tornare indietro. I militari che ancora presidiano mitra alla mano obiettivi critici e stazioni della metro, per vigilare contro nemici immaginari sono là a dimostrarlo in maniera forse paradossale se non grottesca. Ovviamente toccherà essere creativi ed intelligenti per contribuire a contenere il diffondersi del virus come quegli spagnoli che per aggirare la ley Mordaza ed il divieto di manifestare fecero una manifestazione virtuale proiettandola per strada con una sorta di ologramma. O come hanno fatto i Fridays for the Future e Non Una di Meno venerdì scorso a Roma, connettendosi materialmente e simbolicamente con un filo fucsia a rigorosa distanza di sicurezza. Questa tensione va coltivata, orizzontalmente e verticalmente, nel rapporto non acritico e non passivo verso lo stato, elaborando anche pratiche responsabili di attivismo e mobilitazione, ed orizzontalmente, provando a costruire opportunità di “cura”, di attivazione di relazioni, di produzione del “comune”. E poi apriamo la mente all’inimmaginabile. Immaginiamo cosa potrà essere il dopo, Nulla sarà come prima si dice,


Allora pensiamo che sia un destino ineluttabile, o il nulla come prima ci porterà – se sapremo cogliere questa occasione attraverso la scelta di essere soggetti agenti ed allo stesso tempo responsabili – ad una possibile uscita da quello che il pianeta pareva dovesse essere prima? Il fatto che le città si svuotino di turisti va visto solo come una maledizione o anche come la prova che rallentando o interrompendo cicli di estrazione di valore, possa riaffiorare un’altra città, a misura d’uomo? Il fatto che si rallenti la capacità produttiva, o la velocità nella quale siamo abituati a vivere, o anche gli stessi consumi, e si riducano le emissioni di gas-serra non potrebbe essere occasione per rimettere in discussione il paradigma dominante? In tempi di crisi ci si organizza, si crea solidarietà, mutualismo si sperimentano formule fino ad allora impensabili. Che questa crisi, che sta rallentando il sistema produttivo, economico e finanziario porti con sé l’opportunità per un futuro migliore? Può darsi che questo possa essere o non sarà, ma l’atto di maggior responsabilità oggi è senz’altro quello di non lasciare spazio alla rassegnazione o al pessimismo. Iniziando a strapparci dal viso quell’ inutile maschera immateriale che ci nasconde e divide da noi stessi e dagli altri.


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