Felici se..

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Luigi Schiatti

Il Vescovo Mario Delpini, con il suo stile brioso e arguto, scrive: «Se avete letto tutti i libri del mondo e siete informati di tutte le novità, ma non conoscete la via della gioia, non avete ancora imparato nulla della vita. Se avete accumulato ricchezze incalcolabili e avete risorse per soddisfare ogni desiderio, ma non avete la gioia, non possedete niente di veramente importante. Se avete fatto tutte le esperienze e conservate ricordi e cicatrici di imprese straordinarie, ma non avete sperimentato la gioia, non avete ancora provato niente». Chi osa non condividere questo pensiero?

FELICI SE...

L’uomo nella Bibbia



Luigi Schiatti

FELICI SE… L’uomo nella Bibbia


INDICE SEI FELICE? .......................................................................... pag.

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LE BEATITUDINI (FELICI PERCHÉ…) .............. pag.

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PER LA LETTURA DEL BRANO ..................................... pag. «BEATI…» ................................................................................ pag. QUANDO SI È REALIZZATI, QUINDI FELICI? IL NUMERO DELLE BEATITUDINI STRUTTURA E INSEGNAMENTO LA NONA BEATITUDINE LE BEATITUDINI DI OGGI ............................................. pag. BEATI GLI SPERSONALIZZATI... BEATO CHI PECCA… BEATI I DISINTERESSATI… BEATI GLI… “INCAPACI”… BEATI VOI QUANDO… UN’APPENDICE .................................................................... pag. «VOI» «SIETE» «SALE» «SALE, NON ZUCCHERO»

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L’INCONTRO ............................................................. pag.

21 CHI CERCHI? ......................................................................... pag. 22 HO VISTO IL SIGNORE! .................................................... pag. 23 RIPRENDO LA RIFLESSIONE PRECEDENTE… UN CHIARIMENTO ............................................................. pag. 26 RIPETUTAMENTE ANCHE OGGI

SAULO-PAOLO

......................................................... pag. CHI È SAULO? ....................................................................... pag. L’INCONTRO ......................................................................... pag. INASPETTATAMENTE IL DIALOGO .......................................................................... pag. 2

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LE CIRCOSTANZE ............................................................... pag. 33 GIÙ DAL CAVALLO ACCECATO PRESSO ANANIA SAULO È PAOLO! CHE COSA PREDICA PAOLO? UNA VOCE AUTOREVOLE PER FINIRE

VENGO

.............................................................................. pag. UNA PAROLA DI COMMENTO ...................................... pag. “SE VUOI” “VIENI” “SEGUIMI” VENGO! CHE PAZZIA, OGGI! ........................................ pag. AMORE ..................................................................................... pag. AMORE DA PARTE DI DIO AMORE DA PARTE DELL’UOMO LIBERTÀ .................................................................................. pag. DA PARTE DI DIO DA PARTE DELL’UOMO COMUNIONE ......................................................................... pag.

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CHE VITA È? ......................................................................... pag. 51 ECCOMI! .................................................................................. pag. 51 VACARE DEO ........................................................................ pag. 53 IL SACERDOTE .................................................................... pag. 57 CONSACRATO A VANTAGGIO DEGLI UOMINI NELLE COSE CHE RIGUARDANO DIO AFFINCHÉ OFFRA A DIO… …E AFFINCHÉ CONDIVIDA… UNA PRECISAZIONE: “ALTER CHRISTUS” PER CONCLUDERE ............................................................ pag. 62

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SEI FELICE?

Chi non cerca la felicità nella sua vita? Nessuno. Dove posso trovare la felicità vera, concreta, quella che mi faccia cantare: la vita è bella? La mia vita attuale, così com’è, è bella? Le risposte sono davvero tante, quanti sono gli uomini. E poi, la felicità può essere intesa in modo puramente sensibile, direi fisico, nel qual caso è opportuno chiamarla piacere; oppure, una felicità come situazione “umana”, come situazione interiore, globale della mia persona. Una cosa è certa: senza felicità sperimentabile non possiamo vivere. È vero anche che non è possibile indicare una via sicura alla felicità: non esiste una ricetta a questo scopo. Ma la felicità c’è ed è possibile sperimentarla, ce lo dice il salmista. Sono tanti i salmi che inneggiano alla gioia per l’opera del Signore nella storia e nella vita personale. Mi limito a due esempi: il salmo 96, 11-13 recita: «Gioiscano i cieli, esulti la terra, risuoni il mare e quanto racchiude; sia in festa la campagna e quanto contiene, acclamino tutti gli alberi della foresta davanti al Signore che viene: sì, egli viene a giudicare la terra; giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli». E il salmo 116: «Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti cantate la sua lode, perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre». Oggi, però, mi pongo da un punto di vista cristiano e mi chiedo se la mia fede cattolica mi indica una via sicura e “nuova” per una vera felicità che mi faccia dire: «Sono contento di vivere e ancor più contento di vivere “da cristiano”. Insomma, esiste una felicità cristiana? Una felicità che abbia una radice nella fede? Se sì, dove la posso trovare? Con prontezza rispondo: nel Vangelo. Difatti “Vangelo” significa: “buona notizia”. Quasi vorrei precisare un tale significato dicendo: Qui sta la via giusta alla felicità! Nel Vangelo trovo una indicazione chiara e forte, senza equivoci: Vivi le beatitudini e sarai felice! E sotto, sotto aggiunge: sarai felice come io desidero! – dice il Signore –. Ma a me non basta, perché mi suona come un bell’insegnamento, vero e sicuro, ma corre il rischio di essere un po’ staccato dalla mia concretezza, direi… dalla mia “carnalità”. Ho bisogno di qualche cosa di più concreto, umano, tangibile e, oso dire, caldo e affettivo. È sempre 5


la Parola di Dio che mi aiuta validamente. Con dolcezza mi dice: È l’incontro personale con Gesù che genera la mia felicità! Proprio come una fonte di acqua zampillante. C’è una affermazione dell’Apocalisse che mi affascina ogni volta che la risento nel mio cuore: «Sto alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Apoc 3, 20). Quale intimità di cuori esprime il cenare con Gesù e quale felicità suscita nel cuore! L’esempio più clamoroso di uno che è stato “afferrato” da Cristo e che è stato costretto, violentemente, a misurarsi su di Lui, è senza dubbio S. Paolo. Non si dice che dopo la conversione sia diventato un uomo felice “umanamente” parlando, ma lo dimostra con la vita, da allora totalmente vissuta per Cristo, fino al punto di non cercare altre soddisfazioni per sé: gli bastava Gesù, il Cristo! Esempi innumerevoli e diversi di felicità per aver risposto con prontezza a Gesù: “Vengo”, sono i chiamati alla Sua sequela, o meglio, a diventare “Suoi amici”. Sì, perché in questo sta la vera felicità… cristiana! È il caso dei chiamati dal Signore alla vita sacerdotale o religiosa. Non esagero: dire vita consacrata (Se è volontà di Dio) è dire vita felice! Scrive il vescovo Maggiolini: «La gioia (che è manifestazione della felicità) è qualcosa di cui l’uomo non può fare a meno, perché Dio, creandolo, gli ha infuso un desiderio irresistibile di felicità. La gioia vera non è quella che si riduce a sentimentalismo e che può scomparire quasi senza motivo; no, la gioia che può rimanere anche nel pianto… promessa da Gesù ai suoi amici, la gioia è data a quanti hanno il coraggio di percorrere il suo stesso cammino, a quanti credono alla sua Parola e si impegnano a vivere il programma delle Beatitudini» (A. Maggiolini, Regola di vita cristiana per i giovani, Piemme, p. 85). A proposito di felicità che si manifesta nella gioia, il vescovo M. Delpini, in occasione dell’Anno Santo della misericordia, scriveva, con il suo stile brioso, un invito alla felicità vissuta nella quotidianità, quasi un inno alla gioia: «Se avete letto tutti i libri del mondo e siete informati di tutte le novità, ma non conoscete la via della gioia, non avete ancora imparato nulla della vita. Se avete accumulato ricchezze incalcolabili e avete risorse per soddisfare ogni desiderio, ma non avete la gioia, non possedete niente di veramente impor6


tante. Se avete fatto tutte le esperienze e conservate ricordi e cicatrici di imprese straordinarie, ma non avete sperimentata la gioia, non avete ancora provato niente. Se vi siete procurato fama e notorietà in ogni angolo del mondo e siete ritenuti importanti, ma non avete niente da dire a proposito della gioia, la vostra fama è un fumo che non vale niente. Se conoscete il mondo intero e avete relazioni di cui siete fieri, ma non sapete offrire gioia a quelli che incontrate, non si può dire che valga la pena di incontrarvi. Per questo si celebra il Giubileo, per rendere accessibile a tutti la gioia, per condividere il giubilo, la festa di Dio! Non perdete l’occasione!» (Avvenire, domenica 7 febbraio 2016).

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LE BEATITUDINI (FELICI PERCHÉ…)

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi» (Mt 5, 1-12). Il Vangelo di Matteo, che è rivolto direttamente al popolo ebreo, inizia col dire chi è Gesù e come visse i primi anni della sua vita da bambino (capp. 1 e 2). Tralascia completamente la vita “privata” di Gesù, perché agli ebrei interessava Gesù come Messia, non come semplice uomo che vive una sua vita personale quotidiana e normale. Dal capitolo terzo Matteo ci presenta Gesù già impegnato nella sua vita pubblica, ossia nella realizzazione della sua missione: ecco Giovanni Battista che predica e battezza, anche Gesù; Gesù tentato dal diavolo; e la scelta dei primi discepoli. Subito dopo ci fa vedere Gesù in azione: predica e guarisce molti. 9


In pochissime righe Matteo vede Gesù già attorniato e osannato da folle di persone: «Gesù percorreva tutta la Galilea insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. La sua fama si diffuse per tutta la Siria e conducevano a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed egli li guarì. Grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano» (Mt. 4, 23-25). Prima di narrare la vita pubblica di Gesù, presentata attorno ad alcuni grandi discorsi, Matteo richiama l’attenzione sul nocciolo di tutta l’azione di Gesù-Messia: espone con solennità i cardini della sequela di Gesù: ecco il “discorso del monte” (capp. 5-7), che inizia con le famose “Beatitudini”, che sono il suo insegnamento basilare, il fondamento di tutta la sua Parola; in un certo senso fungono da Costituzione del suo messaggio e della sua opera di salvezza. Il “discorso del monte” costituisce il fondamento di ogni legge di vita cristiana, proprio come la Costituzione della Repubblica sta alla base di tutte le leggi italiane: tutte la devono rispettare e fare riferimento ad essa, pena la loro invalidità. PER LA LETTURA DEL BRANO Per inquadrare il brano faccio tre osservazioni: 1– Forse per dare maggior rilievo alle beatitudini, l’evangelista Matteo “zooma” Gesù: parte da un orizzonte molto vasto («Vedendo le folle…» – Mt 1, 5), per concentrare poi l’attenzione su Gesù e i discepoli. Solo a questo punto “esplode” la litania: «Beati… beati… beati…». Rileggi Mt 4, 23-25: «… tutta, tutta, tutti…, ogni…»; v. 25: «E grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano». Che vastità di orizzonti e che varietà di genti! Poi, improvvisamente, «salì sul monte… e si avvicinarono a lui i suoi discepoli» (Mt. 5, 1). Ormai tutto è concentrato su Gesù e tutti pendono dal suo labbro come scolaretti desiderosi d’imparare, di non perdere nemmeno una parola del Maestro. 2– «Gesù salì sul monte» (5, 1).Nei vangeli la predicazione da un’ altura o da una barca dopo aver guadagnato un po’ il largo, sot10


tolinea la particolare importanza di quanto Gesù sta per dire. Visivamente corrisponde a un pulpito, o a una cattedra da cui viene proclamato un insegnamento con sicurezza, una lezione da accettare e da approfondire (e da praticare), non un dialogo o una discussione con diversi punti di vista e varie soluzioni. Qui Gesù vuol dire: «Questa, fratelli, è la verità che io vi annuncio; voi dovete accoglierla con benevolenza e metterla in pratica. Non sono ammessi dubbi, né commenti, né chiose!». 3– Vedo i discepoli in cerchio attorno a Gesù come scolaretti attenti e desiderosi di imparare. Me li vedo con un quaderno in mano e una matita per prendere appunti! Si rendono conto che qui il Maestro vuol dare un insegnamento particolarmente importante per poter far parte davvero “dei Suoi”. Dunque, una tale inquadratura ci invita a stare sulla punta dei piedi, in ascolto attenti e disponibili alla “parola” che Gesù ci dirà. Mi permetto di aggiungere: se non sei in questo stato d’animo, non proseguire la meditazione. Se invece lo sei, leggi… cordialmente, con molta attenzione, adagio adagio il brano evangelico e lascialo parlare al cuore. Ti suggerisco di leggere anche il brano parallelo di Luca 6, 17-26: le beatitudini e le maledizioni: l’insegnamento è lo stesso. «BEATI…» QUANDO SI È REALIZZATI, QUINDI FELICI? Nell’Antico Testamento la realizzazione personale, quindi la felicità, era vista in chiave “terrena”, cioè in termini di possesso, ricchezza, quantità…, insomma come sicurezza tangibile, come abbondanza di beni: molte terre, numerosi armenti, tanti figli ecc. Pensa ad Abramo: uomo amico di Dio, benvoluto e accetto a Dio; per questo motivo possiede terre, animali ecc.. Invece nel Nuovo Testamento la felicità è vista… per il Regno: «perché di essi è il Regno dei cieli» (Mt 5, 3 e 5, 10); quindi: il Regno delle Beatitudini è un regno spirituale, trascendente; un regno molto diverso da quello dell’Antico Testamento e da quello atteso comunemente dagli ebrei. Insomma: si è felici perché si è… amici di Dio e basta. 11


La felicità dell’uomo e la sua personale realizzazione così intese sono “rottura”, “contestazione” della mentalità molto diffusa in ogni tempo, una mentalità laicista, mondana, quantitativa. Senza analizzare il significato e il contenuto delle singole beatitudini, facciamo qualche osservazione sull’insieme del brano e sullo schematismo usato dall’autore sacro. Senza dubbio, la forma litanica ha lo scopo di insistere su un concetto che si vuole imprimere con chiarezza nella mente. Ecco l’insegnamento: è realizzato e felice chi e perché…! È parola di Gesù, quindi è vera e non si discute affatto! IL NUMERO DELLE BEATITUDINI Conta le beatitudini di Matteo: sono 9, cioè 3 x 3. Non a caso, penso. Tre è il numero perfetto nella Bibbia; tre per tre vuol dire la perfezione della perfezione. Sì, dice Matteo, qui si insegna la via maestra, sicurissima per realizzarsi come uomini e quindi la via per essere veramente gioiosi, felici e contenti. Più precisamente, le beatitudini sono 8+1. Che diversità tra le prime otto e la nona! Le prime otto sono “di principio”, quasi… astratte: «Beati i…»; la nona è… esistenziale, circostanziata e personale: «beati voi…», cioè gli apostoli e i discepoli che stanno attorno a Gesù, con nome e cognome, nelle loro diversità personali e differenti situazioni di vita. Vedo, per di più, che le prime otto (quelle di principio) convergono tutte sulla nona, quella concreta e rivolta a chi Gli sta attorno: in quest’ultima – a mio parere – è contenuto il vero insegnamento delle beatitudini. STRUTTURA E INSEGNAMENTO Riprendiamo in esame le prime otto beatitudini. La prima e l’ottava racchiudono le altre sei ed hanno la stessa e fondamentale motivazione di beatitudine: «perché di essi è il Regno dei cieli». Queste due beatitudini ci dicono che l’uomo è realizzato e felice se e quando vive per il Regno, indipendentemente dalle situazioni concrete di vita e dalle diverse circostanze, fossero anche negative. E questo modo di pensare e di vivere può essere opposto al modo comune e diffuso di pensare e di vivere, anche oggi. 12


Le altre sei toccano tanti aspetti della vita umana. Allo stesso modo l’evangelista Luca, più sinteticamente, esprime la possibile felicità anche nella ‐ Povertà (= situazione spirituale di umiltà); ‐ Fame (= situazione fisica di sofferenza); ‐ Pianto (= situazione morale di dolore). «…perché vostro è il Regno dei cieli». C’è un altro insegnamento da non dimenticare: le prime otto beatitudini convergono sulla nona, la quale afferma, anzi “sentenzia”: «perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Quindi: ciò che rende l’uomo davvero realizzato e felice è la “trascendenza” del contingente, del limite, dell’egoismo, del materialismo, dell’uso…! Tieni presente che la prima beatitudine riguarda “i poveri di spirito”; ossia, la trascendenza richiede un atteggiamento interiore, riguarda il cuore dell’uomo. L’ottava riguarda “i perseguitati a causa della giustizia”; ossia la trascendenza richiede anche di andare contro corrente; ci vuole la… testimonianza. Le due beatitudini che racchiudono le altre sei ci insegnano che la felicità dell’uomo è sempre un fatto interiore, del cuore; addirittura sta nell’umiltà, che è verità, accettazione di essere creati da Dio, per amore. L’ottava va ancora più in profondità: anche quando si deve soffrire per incomprensioni, umiliazioni o sofferenze varie per dimostrare con la vita che il fondamento della felicità si trova nell’umiltà, nel rapporto religioso con Dio, allora si è veri amici di Gesù, suoi discepoli autentici; quindi si è pienamente realizzati e felici: si è davvero sulla strada della santità. Nessuno si scandalizzi: questa è vera vita cristiana! LA NONA BEATITUDINE L’ultima beatitudine, la nona, a cui tutte le altre portano e da cui ricevono significato, ha il suo centro in “per causa mia”. Non è un valore in se stessa la sofferenza, l’essere trattati male, le offese e le calunnie ecc.; nemmeno la persecuzione e l’uccisione hanno un valore intrinseco. Ogni sofferenza, ogni dolore è un male in se stesso. Invece ciò 13


che dà valore “cristiano” alla sofferenza è il rapporto personale con Gesù da parte di chi soffre. In altre parole: solo quando un uomo maltratta, accusa ingiustamente un altro uomo perché in lui vuole colpire Gesù, vuole andare contro di Lui, allora quel male diventa valore positivo, perché è come se fosse Gesù in persona a soffrire, ossia a continuare la sua passione per noi uomini. Ecco allora l’insegnamento globale e… radicale delle beatitudini: la scelta di Cristo, personale e coinvolgente, sempre e in ogni situazione, costituisce la realizzazione, la felicità dell’uomo! Questa è la via normale della santità. Ancora una volta il Vangelo ci invita a vivere IN Cristo. S. Paolo ce lo grida con forza: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21). Mi sono limitato a una visione d’insieme: circa le singole beatitudini rimando a qualche commento di autore particolarmente esperto negli studi biblici: ce ne sono tanti. LE BEATITUDINI DI OGGI Qualcuno dirà: «Oggi valgono ancora queste beatitudini?»; oppure: «Non sarebbe opportuno attualizzarle per renderle più accessibili all’uomo di oggi?». Ricordando che l’insegnamento fondamentale è il “cristocentrismo”, ossia mettere Gesù morto e risorto per noi al centro di tutta la nostra vita anche a costo di scostarci molto dal modo comune di pensare odierno, oso proporre qualche esempio di beatitudine valida per la nostra vita attuale. Sono solo degli inviti ad esaminare l’opinione pubblica di oggi alla luce dell’insegnamento evangelico. Mi permetto di fare qualche esempio. BEATI GLI SPERSONALIZZATI, perché sanno vivere e apprezzare la comunità Questi non si sentono una massa di individui, semplicemente accostati l’uno all’altro. Oggi il proprio punto di vista e il giudizio personale sono indiscutibili e insindacabili; conta solo quello che ciascu14


no pensa e gli interessa! La propria personalità (o meglio: la propria utilità) va sempre affermata, ad ogni costo. Quindi: beati coloro che non giudicano e non agiscono solo in forza del “per me”, ma si rifanno anche a un’autorità ed hanno il senso del bene comune. BEATO CHI PECCA, perché sperimenta la gioia di essere perdonato La consapevolezza di aver peccato lo invita a rivolgersi umilmente a Dio per essere perdonato, cioè ricostituito nella grandezza di uomo. Sì, beato chi riconosce di commettere peccati come rifiuto responsabile della legge di Dio che è sempre amore misericordioso; quindi chi non accetta lo psicologismo esagerato che tenta di spiegare ogni comportamento in forza di pulsioni profonde e incontrollabili, o chi si adegua all’opinione del momento. Con il beato Paolo VI direi: «Beato chi riscopre il senso religioso del peccato». BEATI I DISINTERESSATI, perché sperimentano la Speranza Chi non vive unicamente “per sé”, per il proprio vantaggio, è capace di programmare un futuro, ed è aperto… alle periferie (afferma papa Francesco). Beato chi non “consuma” l’oggi solo per il proprio vantaggio immediato; quindi beato chi nutre e vive ideali alti e chi ha il senso escatologico della vita, contro il “concreto” mortificante e contro il vivere l’oggi in modo esaustivo, come se tutto dipendesse solo dalla soddisfazione del momento. BEATI GLI… “ INCAPACI”, perché trovano, moltiplicate, le loro belle qualità in Colui che è la verità e la vita Beato chi non si adatta alla mentalità corrente dell’opinione pubblica ed osa dichiararsi contro… la moda (non solo del vestito) del pensiero dominante dell’apparire, del risultato ad ogni costo, della esaltazione di se stesso. Quindi, beati anche quelli che “insensatamente” (!) osano vivere per sempre la povertà, la castità e l’obbedienza “per causa mia”, cioè di Gesù. BEATI VOI QUANDO… Rileggi e medita più volte nel tuo cuore Mt 5, 11. E tu…? Con onestà e con sincerità scrivi qui le tue beatitudini di amico di Cristo, oggi, nella tua… pelle! 15


Ascoltiamo ora una riflessione del card. Anastasio Ballestrero: «La beatitudine è la felicità raggiunta. È l’appagamento di un qualsiasi desiderio, ma di quei desideri che costituiscono l’ideale della vita, che ne esprimono il perché. Il bisogno di felicità nel cuore dell’uomo è insopprimibile (…). La vocazione alla felicità Dio stesso l’ha deposta nel cuore dell’uomo, come ulteriore segno della sua somiglianza con Lui. (…). La beatitudine non consiste semplicemente nel possesso di questo o di quel bene, non consiste nel possedere o nel fare, ma consiste piuttosto nel realizzare un rapporto con Dio. L’uomo non è felice se non è aperto all’incontro con Qualcuno che è la sorgente della sua felicità. La felicità non ha le radici dentro l’uomo, le ha fuori dell’uomo: fuori per quanto riguarda l’identità personale, che è distinta, perché Dio non è l’uomo e l’uomo non è Dio. Ma d’altra parte questa istanza della felicità è dentro l’uomo perché in esso la mantiene viva Dio e lui soltanto la sa placare. Questo è vero anche se la superbia dell’uomo – dell’uomo di oggi e di sempre – digerisce male che la sua felicità debba essere un Altro». UN’APPENDICE Continuando la lettura del capitolo quinto di Matteo, trovo che il “voi…” del versetto 11 si espande nel «voi siete il sale della terra e la luce del mondo». Forse Matteo vuol suggerire che possono essere sale e luce solo coloro che vivono il «beati voi quando vi insulteranno… per causa mia». È proprio così: Gesù richiede di essere sale, non zucchero; luce delle tante attività umane, non nebbia, che rende tutto sfuocato. I cibi, senza sale, sono insipidi, hanno tutti lo stesso sapore (!), indistinto, dolciastro, perfino ributtante. Anche nella vita le varie scelte e azioni sarebbero da… qualunquismo dolciastro e fastidioso, perfino nocivo senza… “sale”! In parole più chiare: chi non si compromette con Cristo, anche a costo di essere maltrattato e peggio, non serve alla vitalità cristiana della società. Qui non si parla di società laicista, che pretende di essere indifferente alla trascendenza: non esiste, e non può esistere mai nei secoli, una tale società ristretta nel contingente, che vede la fine totale di tutto con la morte. L’umanità, ogni uomo, è aperto, volente o no, all’eterno, alla vita senza fine. Ebbene, dicono i tre “voi” di Matteo: tocca a chi liberamente si decide a lasciarsi coin16


volgere dal Cristo Risorto, quindi IL VIVENTE, tocca a costui, a costoro, dare un respiro trascendente alla vita umana, un… oltre la morte. Anche a costo di andare… CONTRO la mentalità dominante laicista, e scegliere il Sì totale a Cristo: “… per causa mia!”. Scrive l’evangelista Matteo: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra il monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 13-16). Qualche parola di commento. «VOI» Richiama il versetto 11 precedente; quindi nel “voi” sono compresi tutti coloro che vengono maltrattati, derisi, o addirittura uccisi, «perché ascoltano la mia parola» – dice Gesù –. Proprio questi “poveretti” sono la luce del mondo e il sale della terra, ossia fanno brillare i valori umani e danno significato salvifico e santificante alle scelte dell’uomo. Tutto ciò suona proprio duro alle nostre orecchie di uomini di oggi! «SIETE» Gesù dice: «siete», non… «dovete essere come il sale». Gesù lo dice ai suoi Apostoli e discepoli (e oggi lo dice a noi): erano tutti uomini limitati, litigiosi, diversi tra loro, paurosi (dopo la morte di Gesù si nascosero nel Cenacolo) e pigri («Non siete capaci di vegliare un’ora con me?»). Ma ora, perché vi siete coinvolti con me fino al punto di essere odiati anche voi come me, di fatto, anche se non ci pensate espressamente, aiutate gli uomini a migliorare, a vivere per il Regno di Dio; e così costruite la società cristiana. «Siete», non… «sarete» – dice Gesù a noi, oggi –. Siamo “sale” adesso, nelle nostre quotidiane fatiche e dubbi, nel nostro ambiente, nelle differenti situazioni di vita, nel lavoro, nell’affrontare i 17


problemi, grossi, di oggi. E lo siamo nonostante i nostri limiti e difetti. Unica condizione richiesta – come per gli Apostoli – è: vivere per Lui e con Lui, ossia essere “dei Suoi”. «SALE» Vedo particolarmente significative le funzioni del sale: – Dà sapore ai cibi esaltando il sapore proprio di ogni cibo. – Preserva dalla corruzione i cibi. – Purifica, bruciando, le ferite. Occorrono però alcune condizioni: – Il sale sia sale, non zucchero. – Sia nei cibi, non rimanga nel recipiente. – Si sciolga completamente. N.B. Per una lettura più ampia di questi versetti di Matteo, rimando al libretto intitolato «COME», pp. 47-55. «SALE, NON ZUCCHERO» Scrive ancora Matteo: «…ma se il sale perde il sapore, a che cosa serve?...» È un richiamo che vale non solo per le singole persone, ma anche per l’intera comunità cristiana. È salutare avere l’umiltà di riconoscere che forse l’attuale comunità dei credenti corre il rischio di diventare più zucchero che sale. Allora è necessario ritrovare il sapore, specie le funzioni del sale per il bene della comunità. Ricordo un appassionato discorso dell’allora Arcivescovo di Milano, il Card. G. B. Montini, ai lavoratori nei primi anni del suo ministero ambrosiano. Con quanta umiltà confessò pubblicamente un affievolirsi della fede testimoniata dai cristiani praticanti: stavano diventando “zucchero” – disse il futuro papa. Le conseguenze erano sotto gli occhi di tutti. Ecco un brano di quel discorso: «… Quale solitudine, talvolta, nella casa di Dio! … Se una voce si potesse far pervenire a voi, figli lontani, la prima sarebbe quella di chiedervi amichevolmente perdono. Sì, noi a voi, prima che noi a Dio. Quando si avvicina un lontano, non si può non sentire un certo rimorso. Perché questo fratello è lontano? Perché non è stato abbastanza amato. Non è stato abbastanza curato, istruito, introdotto nella gioia della fede. Perché ha giudicato la fede dalle nostre persone, che la predicano, che la rappresentano; e dai nostri difetti 18


ha imparato forse ad aver noia, a disprezzare, a odiare la religione. Perché ha ascoltato più rimproveri che ammonimenti e inviti. Perché ha intravisto, forse, qualche interesse inferiore al nostro ministero, e ne ha patito scandalo. I lontani spesso sono gente male impressionata da noi, ministri della religione; e ripudiano la religione, perché la religione coincide per essi con la nostra persona. Sono spesso più esigenti che cattivi. Talora il loro anticlericalismo nasconde uno sdegnato rispetto delle cose sacre, che credono in noi avvilite. Ebbene, se è così, fratelli lontani, perdonateci. Se non vi abbiamo compreso, se vi abbiamo troppo facilmente respinti, se non ci siamo curati di voi, se non siamo stati bravi maestri di spirito e medici delle anime, se non siamo stati capaci di parlarvi di Dio come si doveva, se vi abbiamo trattati con l’ironia, con il dileggio, con la polemica, oggi vi chiediamo perdono. Ma ascoltateci…». (J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Rusconi, pp.79-80) Ho riportato questo lungo brano perché l’ho sentito rivolto profondamente anche a me sacerdote. Mi ha costretto a pormi una domanda: Io, sacerdote, sto vivendo il mio ministero come “sale”, oppure sto lentamente diventando come lo zucchero, senza accorgermi e giustificandomi spesso? Credo che ciascuno di noi debba qualche volta porsi la domanda: Sono ancora sale nella società di oggi, o sto scivolando nel dolce sapore dello zucchero? Ognuno si dia una risposta personale e sincera. Buon lavoro! Prima di concludere questa riflessione desidero riportare qualche pensiero di un sacerdote milanese sulla gioia, che è manifestazione della felicità vissuta: «La gioia si trova al centro della vita cristiana. “Siate sempre allegri”, raccomanda l’apostolo Paolo ai cristiani di Tessalonica. E a quelli di Filippi propone lo stesso invito in modo ancor più vigoroso: “Di nuovo dico. Rallegratevi” (4, 4). Basterebbe del resto leggere attentamente il Vangelo per capire che il correlativo “psicologico” della sequela di Cristo è la gioia. Gioioso è Zaccheo perché, ospitando Gesù nella sua casa, si sente trasformato e ritrova una dignità che prima, per la professione che esercitava e i relativi compromessi, aveva completamente smarrito. “Tutto contento” è pure l’uomo della parabola (Mt 13, 44) che vende i suoi beni per comprare il campo dove ha scoperto un tesoro. I tristi al contrario sono quelli che, invece di accogliere il dono gratuito di Dio, preferiscono confidare in una salvezza raggiunta con i loro mezzi… Bisogna ripensare a tutto il discorso delle beatitudini. “Beati quelli 19


che piangono”: sembra una contraddizione, un paradosso, una follia. Eppure il Crocifisso e risorto è lì a ricordare che la gioia può e deve coesistere con la sofferenza… È la gioia di sentirsi cercati con misteriosa, trepida attesa; la gioia di essere amati, di essere liberi, di essere chiamati verso un “oltre” di vita intensa e quindi di beatitudine sovrabbondante» (L. Pozzoli, La beatitudine del naufrago, Ancora, pp.86-90 passim). Chiudo con una preghiera del card. Ballestrero: «O Padre, Tu solo sei la mia beatitudine, perché Tu solo sei beato. Tramite il Figlio tuo Gesù Cristo mi hai chiamato a vivere questa beatitudine. Solo incontrando te, o Cristo, e ascoltando te potrò assaporarla, perché da te attingo la ricchezza, la consolazione, la mitezza, la giustizia, la misericordia, la purezza, la pace, la fedeltà. Sei tu che mi porti al Padre e mi apri orizzonti di infinita beatitudine. Solo tu puoi dare tanto gaudio al mio spirito e al mio cuore e solo tu puoi mettermi in quelle condizioni interiori che mi rendono aperto alla invasione delle beatitudini. E così se vivo in te sarò beato, se soffro in te sarò beato, se muoio per te sarò beato. Signore, dammi la grazia di credere che tu solo sai essere la mia beatitudine e che io possa essere beato solo in te».

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L’INCONTRO Le beatitudini sono la regola d’oro della vita cristiana: chi si impegna a viverle è senza dubbio un discepolo “vero” di Gesù, “uno dei Suoi”. Però c’è una difficoltà: da tanti sono sentite come una bella lezione, ma un po’ lontana dalla quotidianità della vita, forse anche per la forma con cui sono espresse: sono una bella litania! Non sempre si riesce a mettere in pratica la verità conosciuta: abbiamo bisogno di un po’ di calore umano e di esperienza vissuta. Papa Francesco direbbe che non è sufficiente sapere che le pecore servono: occorre – dice – «respirare l’odore delle pecore», ossia frequentarle e accudirle, per… conoscerle. È l’incontro con una persona in carne ed ossa che veramente ci interpella, ci coinvolge e suscita in noi domande di senso. I bei programmi (comprese le beatitudini) vengono dopo. Per questo nei Vangeli sono presentati numerosi incontri di Gesù con uomini o donne in diverse situazioni concrete; e tali incontri sono sempre alla base di un cambiamento di vita da parte di colui che è… incontrato da Gesù. Prova anche tu a cercare nei Vangeli qualche incontro con Gesù che ti ha interessato: leggilo, rileggilo e riflettici su con calma. Personalmente tra i tanti incontri con Gesù narrati nei Vangeli ho scelto quello di Maria Maddalena, il mattino di Pasqua. «Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?” Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi, ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Ella si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!” – che significa Maestro. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ lo21


ro: ‘Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro’”. Maria di Magdala andò ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto» (Gv 20, 11-18). CHI CERCHI? Può sembrare una domanda inutile, perché la Maddalena sapeva con certezza che Gesù era morto e sepolto. Ed era pronta a ricominciare da capo la sua vita, con un’intima sofferenza nel cuore, perché lei aveva davvero creduto nel Maestro. Lo aveva seguito e forse osava immaginarsi che non sarebbe mai venuto a mancare. Inoltre era “una dei Suoi”, Lo seguiva, Lo aiutava nelle esigenze concrete della vita; eppure…! Che delusione: è proprio morto, tutto è finito! Quella domanda: «Chi cerchi?» la sente nel cuore come lo sfiduciato «Speravamo» dei due discepoli di Emmaus. Pare che una tale domanda dica alla Maddalena: «Non sprecare più tempo», «Tranquillizzati… Lo sai anche tu che tutto il bel sogno attorno al Maestro è finito nel nulla». «Lascia il sepolcro e vivi come ti pare!». Invece è una domanda vitale: nonostante l’esperienza visiva, Maria, quasi per assurdo, continua a sperare; anzi, a credere che il Maestro c’è ancora, non l’ha ingannata e non poteva ingannarla. Nel «Chi cerchi?», ripetuto anche da Gesù, vedo la vittoria della Speranza, perché Maria non si è affatto ingannata nei confronti del Maestro. Non poteva, perché lo ha incontrato “di persona”! Lo ha conosciuto, lo ha amato e Lui l’ha coinvolta vitalmente e per sempre. Per questo, è sicura di incontrarlo ancora, e… vivo! Tale è il risultato di ogni incontro con Gesù! Il nome proprio indicava l’identità di una persona; insomma, esprimeva qualcosa di oggettivo, qualcosa di statico e distaccato dal cuore. Qui, invece, quello che il nome pronunciato da Gesù vuol manifestare è l’afflato umano, l’affetto amicale con cui Gesù chiama la Maddalena. È la voce di Gesù che conta, più che il nome in sé. Chissà che cosa ha sentito in sé Maria Maddalena al sentirsi chiamare da Gesù per nome! È il fatto che Gesù c’è, c’è ancora ed è lì, vivo e affascinante! Chissà quali emozioni ha percepito in quell’istante Maria! Forse in un istante ha vissuto un’intera vita 22


condivisa con il Maestro: le folle che accorrevano a lui, i miracoli… Penso che tutta la sua persona sia stata attraversata da un fremito, che l’ha quasi trasportata in un sogno, l’ha sganciata dal reale, tanto era bello quel momento. Era inevitabile che la Maddalena in quell’istante fosse disposta e perfino desiderosa di coinvolgersi ancora, forse ancor più totalmente, nella vicenda di Gesù, il Maestro. Questa è… vita, vita esaltante. E la vedo correre, “precipitarsi” dai fratelli per comunicare: «Ho visto il Signore!». È impossibile rimanere “normali”, freddi in un tale incontro con Gesù Risorto! HO VISTO IL SIGNORE! Senza dubbio Maria Maddalena non si è limitata a “dare” un tale annuncio, ma certamente lo ha gridato, e a fatica per l’emozione e la ridda di sentimenti contrastanti che si agitavano nel suo cuore: un insieme di gioia inesprimibile, di incredulità, di stupore e di previsioni non definite, ecc. ecc.. Probabilmente un presentimento sovrasta su tutto: «Adesso la mia vita sarà certamente diversa: dovrò per forza ritornare ad essere sua discepola condividendo più di prima la sua storia. Non potrò più vivere come prima, durante il suo ministero, la sua Passione e nei giorni della sua sepoltura. Mi sento nuovamente coinvolta da Lui e afferrata da Lui». La Maddalena non dice agli Apostoli: «Ho visto Gesù!», ma: «Ho visto il Signore!». Proprio Colui che dà significato alla mia e alla vostra vita, cari Apostoli; Colui che è diventato il perché e il fine della mia e della vostra vita. E pare che aggiunga: «Ora mi sento felicissima!». L’evangelista Giovanni riporta solo il grido: «Ho visto il Signore!», perché tutto il resto è una conseguenza e ha un’importanza esclusivamente personale. È sempre vero: se si è incontrato Gesù, e lo si è conosciuto sperimentalmente, di persona, non è più possibile vivere come prima. Mi limito a una testimonianza che ho già riportato in un altro contesto, ma che qui mi pare sia particolarmente significativa. Si tratta di Edith Stein, filosofa molto intelligente, ebrea non praticante, poi atea, ma sempre alla ricerca della verità e che alla fine incontra Gesù, La Verità. E morirà in un campo di concentramento, in una camera a gas. Scrive dopo la sua conversione: 23


«L’ultimo giorno che passai a casa era il 12 ottobre, il mio compleanno. Era anche una festa ebraica: la chiusura della festa dei Tabernacoli. Mia madre partecipò alla funzione nella sinagoga della scuola dei rabbini; l’accompagnai perché desideravamo entrambe passare insieme tutto quel giorno. Il maestro dei rabbini, un eminente studioso, tenne una bella predica. In tram, durante l’andata, perlammo poco; per dare un piccolo conforto alla mamma, le dissi che il primo periodo della vita religiosa era solo una prova. Ma non ebbi alcun risultato: “Se tu fai una prova, sono certa che la superi”. Al ritorno mia madre chiese di andare a piedi: una strada di tre quarti d’ora a ottantaquattro anni! Dovetti acconsentire perché capivo che voleva ancora parlare con me senza essere disturbata. “Non era bella la predica?”. “Certo, se non si è conosciuto altro”. Allora replicò disperata: “E tu, perché l’hai conosciuto? Non dico nulla contro di lui. Sarà stato certamente un uomo molto buono, ma perché si è fatto Dio?”». RIPRENDO LA RIFLESSIONE PRECEDENTE: LE BEATITUDINI Per essere felici, non è sufficiente sapere dove sta la felicità, che cosa si deve fare per essere felici. Questo sarebbe qualcosa di astratto, sarebbe una pura conoscenza. Per raggiungere una meta, non è sufficiente conoscere la strada giusta; bisogna percorrerla, e fino in fondo. Non è sufficiente nemmeno sapere che le beatitudini indicano la strada della propria realizzazione, quindi della felicità. Bisogna viverle! Come? Mediante un personale e talvolta sconvolgente incontro con Lui, con Gesù, Il Vivente! Ma non per sentito dire, non perché l’ho conosciuto mediante qualche bella predica, o grazie all’affermazione di qualcun altro. Solo se io incontro Lui, solo se io pesto il mio naso sulla sua faccia, avviene una reale conversione nella mia vita quotidiana, feriale. Senza cambiare impegni di vita, occupazioni ecc., la mia giornata diventa “nuova” (=diversa e con valore trascendente). Solo così le beatitudini diventano un valore “per me” e vale la pena che le prenda seriamente in considerazione; altrimenti rimangono “altro” da me: non mi “servono”! Tanti esempi di incontri con Gesù ci sono nei Vangeli, nella Bibbia in genere. L’elenco non è breve; penso a Saulo-Paolo, la Samaritana, Zaccheo, e tanti altri. In tutti ci sono elementi costanti che vale la pena richiamare: – Gesù incontra nella vita normale, quotidiana, talvolta senza che l’“incontrato” se ne accorga. 24


– Incontra sempre sulla strada, dove nessuno si sente proprietario e al sicuro, dove nessuno si sente “accalappiato” da vari interessi. – Gesù incontra una persona senza preavviso: sempre inaspettatamente, perché Dio è libero e sempre previene l’uomo. – Gesù pone in ogni incontro una sola condizione: chiede sempre il coinvolgimento della persona che incontra; anzi, pare che Gesù si lasci… “condizionare” dalla decisione della persona incontrata: «Se vuoi…»; «Se qualcuno… mi apre la porta…»; ecc. – “Subito”. Senza dubbi, senza incertezze o ripensamenti e senza condizioni; con totale disponibilità; solo consegnandosi a Gesù. È un avverbio talvolta espresso, più spesso sottinteso, ma sempre percepito. Sempre “costringe” a seguire Gesù con la massima libertà interiore e impegnando la propria volontà. – L’iniziativa è sempre di Gesù; penso a: – «Sto alla porta e busso…; io entrerò e cenerò con lui» (Apoc 3, 20) – Samaritana – Gesù va al pozzo, più che per la sua sete, va perché là aspetta la donna samaritana. Lui inizia e conduce il colloquio: «Dammi da bere…; chiama tuo marito…». – Zaccheo – È Gesù che passa sotto il sicomoro e chiama Zaccheo per entrare in casa sua: «Io voglio entrare in casa tua…». – Simon Pietro – È ancora Gesù che gli dice: «Getta le reti…». E lo dice a Pietro, un pescatore molto esperto della pesca; è mattino, il momento più sbagliato per uscire a pescare; in tutta la notte non ha pescato nemmeno un’acciuga, pertanto questo Pietro è fuori di sé. Eppure Gesù, sereno e sicuro, lo invita a gettare le reti. Pare una presa in giro o un affronto al pescatore esperto. Povero Pietro! Il risultato lo conosciamo tutti. – Saulo-Paolo – È ancora Gesù che interviene con forza e senza preavviso nella vita di Saulo e lo accieca. Gesù si intromette nella situazione più sbagliata di Saulo: proprio nel momento in cui il futuro Paolo è… trionfante, sicuro del suo progetto contro i cristiani e, forse, orgoglioso della fiducia e del compito affidatogli dai capi. Ma Gesù si diverte a sconvolgere le sicurezze umane. – Il risultato è sempre positivo, vantaggioso per l’uomo: gioia nel cuore, ma soprattutto qualche vantaggio nella vita finisce con l’adesione al gruppo “dei Suoi”. – È sempre un “nuovo” modo di vivere: chi incontra personal25


mente Gesù, Il Vivente, e ne fa un’esperienza reale, percepita e consapevole, non può più vivere come prima: si trova profondamente cambiato, in positivo, sia nel modo di pensare, sia nel metro di valutazione dei fatti; si scopre trasformato nel cuore e nelle scelte di vita. UN CHIARIMENTO Dopo che si è incontrato Gesù e gli si è detto di sì: cioè, dopo che gli si è aperta la porta del cuore, siamo definitivamente a posto? Siamo sicuri che il Sì sarà un “per sempre”? Certamente no, non possiamo avere questa certezza. Il Sì a Gesù, un Sì concreto e coinvolgente, andrà rinnovato spesso, forse ogni giorno, e dovrà scontrarsi con le difficoltà della vita e con i problemi di ogni giorno. Sarà necessaria la fedeltà, che dà la qualifica del “per sempre” al nostro Sì iniziale. Maria SS. ha detto il suo Sì grande, grande e generoso al momento dell’Annunciazione; ma è stata fedele, con tanti dolori, per tutta la vita, fino al Calvario; anzi, fino al silenzio del sepolcro. Anche davanti al sepolcro sigillato del Figlio morto, Maria era sicura che quel Figlio era ed è l’unico Salvatore del popolo eletto e di tutti gli uomini di ogni tempo. Che fedeltà! Penso che abbia rinnovato più volte il suo Sì in tante situazioni impreviste e difficili. Proprio la sua fedeltà a tutta prova e con la rinnovata adesione alla disponibilità iniziale all’annuncio dell’Angelo, la rese “collaboratrice” nel mistero della Redenzione. Allo stesso modo l’incontro sconvolgente con Gesù, avvenuto “per caso” in un giorno qualsiasi, ma rinnovato spesso, con fedeltà, ci rende testimoni autentici e forse efficaci, dell’amore di Dio per gli uomini. Una volta contemplato il volto di Gesù Risorto dopo l’incontro con Lui, tocca a me ricercarlo spesso col desiderio di incontrarlo di nuovo, anche se i miei sforzi faticano a trovarlo. Rileggiamo qualche versetto della Cantica dei Cantici: «Così dice la sposa: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e 26


per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: avete visto l’amato del mio cuore? Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l’amato del mio cuore”» (Cantico 3, 1-4). Alla fine della ricerca ripetuta tante volte sarà sempre Gesù a dirti: «Eccomi!». È SEMPRE POSSIBILE? Sì, nessuna situazione di vita, anche la più negativa, impedisce l’incontro trasformante con Gesù. Riporto due esempi: André Frossard. L’incontro personale e illuminante con il Cristo può avvenire in due minuti, per aver sbagliato… il marciapiede! È capitato proprio ad André Frossard, ateo e anticlericale, figlio del segretario generale del partito comunista francese. Scrive lui stesso: «Entrato ateo in una cappella, pochi minuti dopo ne uscivo cristiano… Mio padre avrebbe voluto vedermi in rue d’Ulm (Accademia di grande prestigio). Ci sono andato a vent’anni, ma ho sbagliato marciapiede e, invece di entrare all’Ecole normale supérieure, sono entrato nella casa delle Religiose dell’Adorazione in cerca di un amico con il quale dovevo cenare… Mentre varcavo quella porta ero ateo, lo ero ancora all’interno della cappella. Nel gruppo dei fedeli, in controluce, vedevo solo delle ombre, tra cui non riuscivo a distinguere il mio amico; una sorte di sole splendeva in fondo all’edificio: non sapevo che fosse il Santissimo Sacramento… È allora che è accaduto l’impossibile!» (A. Frossard. Dio, le domande dell’uomo, Piemme, pp.21-23). Jacques Fesch. Fu condannato alla ghigliottina per un omicidio il 1° ottobre 1957, a 27 anni. Incontrò Gesù in carcere nella lunga attesa dell’esecuzione capitale. Sarebbe utile leggere le sue lettere dal carcere; noi ci limitiamo a uno stralcio dell’ultima lettera indirizzata al cappellano del carcere il giorno che precedette l’esecuzione: «Padre mio, eccomi giunto alla fine della vita, l’anima in pace e il cuore saldo. Fra qualche ora una nuova ed eterna aurora splenderà per me, se Nostro Signore mi giudica degno di essere annoverato tra i suoi figli. In questi ultimi momenti non posso certamente impedirmi di far scorrere davanti ai miei occhi tutte le immagini del mio passato, illuminandole con nuova luce, alla soglia della vita. Non sono tristi perché si concludono nell’amore di Gesù, e così prendono un significato che non sospettavo» (Lettera d’addio al cappellano del carcere, 30 settembre 1957). 27


RIPETUTAMENTE Un tale incontro con Gesù, il Cristo, è questione di amore, quindi non si esaurisce in un solo incontro, ma va ripetuto frequentemente: è la legge umana che lo richiede! È addirittura un ripetersi progressivo e dinamico. Scrive una convertita, poi monaca di clausura: «Pensavo che una volta detti tutti questi grandi “sì”, avrei finito di faticare a seguire Gesù, e la strada, al confronto di ciò che avevo passato, sarebbe stata d’ora in poi molto più facile e gradevole. Mi sbagliavo di molto. Ancora non avevo sperimentato che, in queste grandi svolte, è il Signore che ti porta in braccio, che ti dona la forza, ma quando c’è da camminare, giorno dopo giorno, a piccoli passi, allora vuole che sentiamo tutta la nostra pesantezza e tutte le nostre resistenze a seguirlo incondizionatamente dove Lui decide, affinché il nostro “sì” diventi sempre più voluto, sempre più “incarnato” fin nelle più piccole realtà quotidiane. Il cammino non era finito con il mio ingresso al Carmelo… E non è finito neanche oggi!» (Una carmelitana, Il povero e la bambina, Edizioni OCD. p.27). ANCHE OGGI Chiudo la riflessione con un esempio dei nostri giorni: una giovane donna affascinata da Gesù nella vita quotidiana; un incontro con Gesù che l’ha resa “nuova”, dispensatrice di gioia nella sua breve vita di sposa e di madre. È sempre l’incontro personale con Cristo Risorto, quindi “Il Vivente”, che rende “nuova” la vita. Di solito un tale incontro avviene in una vita normale, così normale che pare poco significativa. Eppure, quando “Il Vivente” irrompe nella vita, tutto diventa “nuovo” e acquista un significato trascendente. È il caso di Chiara Corbella Petrillo, una donna romana morta a 28 anni nel 2012. Vale la pena di conoscere la storia della sua breve vita. Mi limito a questa affermazione di suo marito Enrico: «Sarebbe sbagliato dire Chiara ha amato la croce. Ha amato la persona che stava sulla croce, Gesù». E uno slogan, o meglio, un programma di vita: «Il passato alla misericordia, il presente alla grazia, il futuro alla Provvidenza». Consiglio di leggere la sua breve biografia. Ecco le indicazioni: Simone Troisi e Cristiana Paccini, Siamo nati e non moriremo mai più, Ed. Porziuncola (Storia di Chiara Corbella Petrillo).

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SAULO-PAOLO Un caso davvero emblematico di incontro di un uomo con Gesù è certamente Saulo-Paolo. Tutti conoscono l’episodio della sua conversione, ma è sempre un soggetto interessante da esaminare per una proficua riflessione, anche in riferimento alle conversioni di oggi, che non mancano. L’“apostolo” Paolo suscita qualche domanda iniziale: Chi era Saulo? Che tipo di uomo era? Qual era il suo rapporto con il popolo eletto e la Legge di Mosè? Era un vero apostolo? Perché evangelizzava fuori dai confini del popolo eletto? Parché perseguitava i discepoli di Gesù, fino, talvolta, a condurli alla morte? Prima di affrontare il problema Saulo-Paolo, rileggiamo uno dei tre racconti della sua conversione raccolti da Luca nel libro degli Atti degli Apostoli: «Saulo, spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” Rispose: “Chi sei, o Signore?” Ed egli: “Io sono Gesù, che tu perseguiti! Ma tu alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi far”’. Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce, ma non vedendo nessuno. Saulo allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco. Per tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda» (Atti, 9,1-9). CHI È SAULO? Da un punto di vista puramente umano, indipendentemente dall’incontro con Gesù sulla via di Damasco, Saulo è un uomo affascinante, ricco di doti, realizzato, e con un carattere non facile; uno che si impone per la sua personalità. Suscita una vera ammirazione da parte di tanti ebrei. 29


Saulo è un uomo non bello da un punto di vista fisico (ci viene presentato piccolo e tarchiato), ma ha una spiccata personalità: ha idee chiare e sicure circa la religione, il bene e il male. È stato formato alle migliori scuole rabbiniche (anche oggi ci si vanta di essersi laureati in certe università!); conosce alla perfezione tutti i dettami della Legge, anche i più piccoli; con certezza, senza possibilità di dubbio, è convinto che il suo, e solo il suo, è il popolo eletto con il quale Dio ha stabilito per sempre un patto di alleanza, per cui soltanto l’israelita purosangue ha il diritto di essere considerato giusto di fronte a Dio. Fuori dalla sua religione – pensa come tutti gli ebrei – non c’è verità e salvezza: c’è solo eresia e male; quindi chi non è israelita e pretende di insegnare un’altra “verità”, va distrutto, eliminato fisicamente. Per questo, senza dubbi, senza tentennamenti, ma con decisione, vuol mettere ordine nel suo popolo: si mette a disposizione della… “verità” secondo la Legge dei Padri. Vuol distruggere a tutti i costi la “falsità”, uccidendo e annientando chi non la pensa in modo… giusto, cioè come lui! Anche quel giorno, coerente con se stesso e in nome della verità, va… a mettere le cose a posto a Damasco: vuol eliminare i fanatici e fuorviati, i cosiddetti “cristiani”. Saulo è un uomo coerente e determinato in base alla sua “verità”. Tutti gli altri sono “pagani”, non appartenenti al popolo eletto e non mettono in pratica le norme della Legge, compresa la circoncisione. L’INCONTRO Ma Gesù l’aspettava! L’aspettava sul campo fissato da Lui, perché Lui lo voleva per Sé! Gesù non temeva le idee, la posizione di Saulo. Anzi, è molto bello ed esaltante constatare che Gesù per le grandi imprese sceglie le “persone-personalità”, quelle fuori dalla norma e dagli schemi comuni, quelle un po’ pazze! Gesù non vuole i mezzi uomini, le mezze cartucce: se un giovane è insicuro, dubbioso o pauroso, ripiegato su stesso e impegnato a leccarsi le sue ferite, lo guarda e passa oltre, non lo interpella; pare quasi che lo disdegni! Non è “roba” per Lui! Se un giovane è ricco di doti, anche se è com30


pletamente fuori strada, Gesù si “diverte” a disturbarlo, a interpellarlo, a renderlo suo amico e a coinvolgerlo nel suo progetto. Ci pensa Lui, Gesù! La dinamica dell’incontro di Gesù con Saulo la conosciamo, basta leggere il brano degli Atti. Mi limito ad alcuni spunti per la riflessione personale. INASPETTATAMENTE Saulo non si aspettava un tale incontro e nemmeno poteva prevedere una tale esperienza. È Gesù che liberamente ha scelto e ha deciso: l’iniziativa di un incontro personale con un giovane è sempre Sua! Quando vuole e come vuole Lui! L’uomo all’inizio è solo soggetto passivo dell’azione divina. Questo ci insegna che una vocazione è sempre opera di Dio! Gesù aspettava Saulo al momento giusto: quando Saulo era in pace con se stesso perché ormai aveva deciso l’azione da compiere e nessun dubbio agitava il suo cuore; era sicuro di sé, o… pensava di essere sicuro di sé, quindi era psicologicamente indifeso. E lo aspettava nel luogo giusto: sulla strada! Tutti gli incontri più importanti – affermano i Vangeli – avvengono sulla strada, non in casa, perché sulla strada uno non si sente al sicuro, padrone di sé. Il viandante è alla mercé delle intemperie e di chi passa, con buone o cattive intenzioni: ogni passante può interpellarlo. In casa invece si sente lui il padrone: se non vuole, non apre a chi suona il campanello o bussa alla porta. In casa ha tutto il necessario per sentirsi a posto e al sicuro e chiude la porta con dispositivi di sicurezza affinché nessuno lo disturbi nella sua tranquillità o apatia. Nemmeno Gesù può entrare in una tale casa: anche se continua a bussare, nessuno gli apre (pensa ad Apoc 3,20). Saulo invece quel giorno non si trovava… in casa sua. Percorreva la strada per Damasco ed era particolarmente “passibile” di ogni incontro perché era sulla strada e perché non era “circospetto”, non era… in difesa, avendo chiaro il suo progetto ed essendo attorniato dai suoi soldati, i suoi fedeli “collaboratori” pronti a difenderlo; era “in-prudente”, non attento, non “sul chi va là”, e nessuna paura disturbava il suo cuore. Gesù sa cogliere splendidamente questi attimi nella vita delle persone, ancora di più se si tratta di giovani. 31


IL DIALOGO Gesù si pone “di traverso” sul cammino di Saulo, tanto che costui non può evitarlo o girargli attorno: gli deve sbattere contro, deve pestare il naso contro la persona di Gesù. Quindi è costretto a guardarlo… con gli occhi del cuore, ad ascoltarlo e a rispondergli. È Gesù che si presenta, che lo interroga, che conduce il dialogo, perché Lui sa con sicurezza dove vuole portare Saulo; un dialogo fatto di poche parole, ma costringenti; Saulo non può dire: «Ci penserò»; deve dire subito sì, o no, senza nemmeno prevederne le conseguenze. Anche in questo caso Gesù si muove da una circostanza concreta, reale per l’interpellato: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Gesù irrompe nella vita di Saulo senza che lui preveda qualcosa. Durante il colloquio Saulo rimane cosciente e libero, ma non può sottrarsi al dialogo ed è… “liberamente costretto” (!) ad aderire alla proposta, anzi, al comando di Gesù. Deve chiedere a Gesù: «Che cosa vuoi che io faccia?». LE CIRCOSTANZE GIÙ DAL CAVALLO Il cavallo era per Saulo uno strumento e una sicurezza. Penso che in quel momento e proprio perché buttato giù da cavallo, solo, formidabilmente solo, Saulo abbia sentito tutta la forza di Dio e abbia sperimentato che Gesù era molto più forte di lui. Credo che abbia percepito con chiarezza che non poteva divincolarsi da Lui senza dirgli di sì o di no. Quando Gesù interviene nella vita di una persona, specie se giovane, tutte le “cose”, le sicurezze, e anche i progetti, scompaiono. L’uomo si trova da solo, nudo e indifeso di fronte alla forza di Dio, lui e Dio da soli, l’uno di fronte all’altro, talvolta l’uno contro l’altro, ma sempre soli, nessun intermediario e nessun ostacolo è ammesso. Anche oggi, quando Dio irrompe nella storia di un giovane, c’è sempre un momento di “suspence”, di solo a solo, in cui nessuno e niente può aiutare quel giovane a esaminare la proposta di Dio e a prendere una decisione. È ineffa32


bile questa esperienza di solitudine con Dio. Ed è splendida, perché la risposta dell’interpellato, qualunque essa sia, deve essere sua e solo sua! Qui si esercita pienamente la libertà e la responsabilità dell’uomo. ACCECATO La luce permette di vedere le realtà per analizzare e decidere, e per vedere la strada. Saulo viene accecato dalla luce di Gesù quasi per indicare che nell’incontro personale con Dio anche la capacità personale di “vedere”, cioè di giudicare umanamente, di “pesare” la realtà, viene meno. In quegli attimi la luce di Dio si impone all’uomo, in modo sovrumano, lo abbaglia, gli toglie la capacità di vedere umanamente la realtà e nello stesso tempo la luce divina offre all’uomo la capacità di vedere le cose con gli occhi di Dio. Ciò capovolge i nostri giudizi e le nostre scelte. È proprio quello che è capitato sulla via di Damasco: gli altri, gli accompagnatori di Saulo, non cadono da cavallo e non diventano ciechi. La chiamata è solo per Saulo: ogni chiamata è strettamente personale! Gli altri sono soltanto spettatori, anzi, testimoni, non… segretari di Gesù. È sempre vero: quando Dio interviene in modo forte nella vita di un giovane, saltano tutti i criteri umani per valutare, non si vedono più le “cose”, come se tutto attorno fosse sparito per lasciare soli Dio e l’interpellato. Le cose (progetti, problemi, valori, realtà…) non esistono più come prima per quell’uomo: egli vede solo Dio, lo deve guardare in faccia, deve fissare a lungo i suoi occhi negli occhi di Lui, per dargli una risposta dopo aver contemplato il volto di Dio ed essere stato abbagliato dal suo fascino, perché non possa un domani rimangiarsi la decisione presa dicendo: ‘Non lo conoscevo!’ E le cose, allora, diventano diafane e trasparenti: sono tutte una manifestazione di Dio, della Sua ‘alterità’, utili per arrivare a Lui. PRESSO ANANIA Strano, ma vero: Gesù invia il “novello Paolo” dal vecchio Anania per essere accolto ufficialmente nella comunità, quasi per una conferma visibile, sperimentabile e pubblica dell’avvenuta trasformazione di Saulo in Paolo. Solo così gli altri l’avrebbero accet33


tata. Se non fosse passato da Anania, tanti avrebbero potuto ritenere il cambiamento di Paolo un fatto “isterico”, da esaltato, e magari da imbroglione, o un fatto intimistico e soltanto personale, che dura fin che dura. SAULO È PAOLO! Saulo è “capovolto”: ormai è Paolo! Nulla della personalità di Saulo è andato perduto; anzi, ogni capacità personale è valorizzata (pensa al giovane Davide nei confronti di Golia e delle fiere in Sam 17). Dopo l’incontro con Anania Paolo ha riacquistato la vista, ma è una vista “nuova”, o meglio, “cristiana”: vede le stesse persone e le stesse cose di prima, ma in modo diverso. Che strano: quelli che prima erano “nemici” (i seguaci di Gesù), ora sono “fratelli”; quelli che prima erano i difensori della verità e della vera religione (i suoi soldati), ora sono i servitori dell’errore; quella che prima era la vera religione (la legge ebraica), ora è un errore; quello che prima era l’eresia (la dottrina di Gesù), ora è la verità! E così via. Lui stesso, da persecutore diventa apostolo! Sarà infatti proprio Paolo a dire: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che ora vive in me» (Gal 2,20). CHE COSA PREDICA PAOLO? Paolo è stato ammaliato da Cristo, conquistato; anzi è stato rapito da Lui, tanto che tutta la sua predicazione si riassume e si semplifica in una sola parola: “Il Cristo”! Nella lettera ai Filippesi riassume tutta la sua vita nell’affermazione lapidaria: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1,21). Ed ha – afferma – una sola missione, quella di annunciare ai pagani “il Cristo crocifisso” (I Cor 2,2). La dottrina di Paolo non è limitata o parziale; è semplificata al massimo, perché per lui tutto ha valore, significato ed esistenza solo “IN Cristo”! In Lui conosce, adora e glorifica il Padre. Non ha dubbi: è certo che il Cristo, perché risorto, è sempre vivo e operante, è Il Vivente, come afferma l’Apocalisse: «Io sono il Primo e l’ Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre…» (Apoc 1,17 s.). 34


Dove è presente ora il Cristo Vivente? Nella Chiesa, che è il Corpo Mistico di Cristo. Tutto, ma proprio tutto l’insegnamento dell’apostolo Paolo è il Cristo Gesù. Quella di Paolo è viva esperienza personale di ogni giovane “in gamba” che risponde positivamente all’invito di Cristo: dopo che ha detto liberamente il suo “Sì”, vede tutto con occhi nuovi, vede persone, cose, valori con gli occhi di Dio; sì, proprio con gli occhi di Dio. E questo dà una gioia ineffabile! E costringe a coinvolgersi. Mi viene spontaneo dire: provare per credere! UNA VOCE AUTOREVOLE Un maestro indiscusso della Parola di Dio, Carlo Maria Martini, sintetizza in poche frasi la trasformazione di Saulo in Paolo: «Egli (Paolo) viveva non il Vangelo della grazia, ma la legge della autogiustificazione, che gli faceva dimenticare di essere un pover’uomo, graziato da Dio non perché fosse qualcosa in sé, ma perché Dio lo amava… Ecco da dove viene Paolo e la sua violenza ideologica. E la violenza ideologica, frutto di fanatismo e dell’incapacità di capire gli altri se non come sottomessi a se stessi, non è scomparsa ai giorni nostri. Ancora l’uomo cerca una salvezza propria, cerca una autogiustificazione che porta a ogni genere di aberrazioni, pago di un possesso in cui ci si crede totalmente padroni, e non servi, della verità… Verso quale direzione lo ha portato il Signore? Il Signore lo ha portato verso un totale distacco da ciò che prima gli era sembrato sommamente importante. Scrive Paolo nella lettera ai Filippesi: “Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ormai tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,7-8)». Il Card. Martini conclude i suoi approfondimenti su S. Paolo affermando che, nonostante la conversione, anche Paolo ha dovuto affrontare difficoltà e delusioni durante tutta la sua vita: «Paolo sperimenta un abbandono progressivo dei discepoli… Dice: “Nella mia difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro” (2 Tim 4,16). Non è più l’entusiasta delle prime lettere. È un uomo che lotta contro le difficoltà quotidiane, nella solitudine, e lascia trapelare anche un certo pessimismo… Dio ci vuole mostrare in lui che l’uomo viene purificato in tanti modi» (C. M. Martini, Il Vangelo di Paolo, Ancora, pp.15 ss.). 35


PER FINIRE Concludo con un altro Maestro, il card. Anastasio Ballestrero: «Paolo non ha parlato di Cristo per sentito dire. Ha parlato di Cristo perché lo ha visto, perché lo ha conosciuto, lo ha capito, perché è stato amato da Cristo, perché ha amato Cristo e perché a lui si è consegnato vivo. Questo incontro è una realtà inesauribile. È avvenuto sulla strada di Damasco, d’accordo, però la vita di Paolo non è stata una conseguenza, ma la continuazione di quell’incontro… Incontrare Cristo è un cammino che non finisce mai» (A. Ballestrero, Saulo-Paolo, Edizioni Benedettine, pp.13 ss.).

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VENGO Quanto è affascinante la conversione di S. Paolo! Sia per il fatto in sé, sia per il modo in cui è avvenuta. Si rilegge sempre con rinnovato interesse e piacere. Ma è ancora più affascinante, direi… ineffabile, il constatare che anche oggi, come sempre, si verificano tante conversioni a Gesù. E ancora oggi ci sono giovani e ragazze che scelgono Gesù come unica realizzazione della propria vita. È motivo di lode a Dio e di gioia pura il leggere la storia delle moltissime, diverse e talvolta perfino bizzarre vocazioni sacerdotali e religiose.. Sono quasi tentato di tratteggiarvi brevemente la mia “chiamata” sacerdotale. Lo faccio solo come atto di ringraziamento a Gesù e per dire che la vocazione può essere vera anche da piccoli. Gesù non guarda l’età. Era un mattino pieno di sole in un giorno di vacanza. Mi trovavo in cucina (era l’unico ampio ambiente di vita familiare) con fratelli e cugini (anche la mia era una famiglia patriarcale, come si usava allora in Brianza). Li guardavo mentre scrivevano o disegnavano; io no, perché ero troppo piccolo e non frequentavo ancora la scuola elementare. Improvvisamente sentii un rumore, anzi una voce, che mi attraversò la testa (…e il cuore) da un orecchio all’altro e mi gridò: «Va’ a pret!» (sì, proprio in dialetto!). Nient’altro; e da allora non sentii più nessuna voce. Non sapevo ancora chi fossero i preti; però ero sicuro che Qualcuno (!) mi aveva chiamato e invitato, anzi, voleva che mi facessi prete! Lo comunicai subito alla mamma dicendole con sicurezza che era venuto Gesù a dirmi che mi voleva sacerdote. Ovviamente la mamma mi liquidò con un bel sorriso e con un bacione, rimandando il tutto a un “eventuale” futuro. Dopo alcuni anni, come era prevedibile, incontrai dubbi e difficoltà, per cui… stabilii un patto con Gesù dicendoGli: «Tutti i figli che mi darai, te li manderò in seminario, ma io… no!» All’età dell’adolescenza Gesù mi aspettava al varco: grazie alla vestizione di un amico, che sarebbe entrato in seminario, mi… “rimproverò” per il mio mancato coraggio nel rispondere al Suo invito. Tralascio il colloquio che ebbi con Gesù quel giorno: mi limito a dire che dovetti cedere a Lui, sia pure con fatica. Pensate che non volli mai fare il chierichetto perché non vo37


levo entrare in seminario, come invece facevano non pochi chierichetti della mia parrocchia. Tentai perfino di “depistare” l’attenzione di Gesù verso un mio amico dell’oratorio dicendoGli che quel giovane era davvero bravo (ne avevo l’esperienza concreta!) e adatto per essere prete. Invece Gesù volle proprio me! Ironia della sorte: quel mio amico, “adatto per fare il prete”, si sposò, ebbe sette figli tutti maschi, di cui ben tre sono attualmente sacerdoti. È vero: Gesù aveva i suoi progetti a noi sconosciuti. Attualmente io sono un sacerdote felicissimo fino al punto di non riuscire a vedermi se non sacerdote! Talvolta oso perfino firmarmi: “dL, prete felicissimo”. Prova anche tu adesso a richiamare alla tua mente e al tuo cuore qualche esempio di vocazione di tua conoscenza: sarà senza dubbio motivo di gioia e di lode a Gesù. Riprendo il discorso della vocazione, anzi, del mistero delle vocazioni di oggi. Ho dato il titolo “Vengo” a questa riflessione, perché, se è vero che l’iniziativa è sempre di Gesù, è altrettanto vero che Gesù fa dipendere la realizzazione di una vocazione dalla libera risposta del chiamato, o meglio, dell’“invitato”. I Vangeli ci presentano vari esempi di inviti a seguire Gesù. Ne rileggiamo insieme una che mi pare emblematica, quella del cosiddetto “Giovane ricco” (Mt 19, 16-30): «Ed ecco, un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?”. Gli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandament”. Gli chiese: “Quali?”. Gesù rispose: “Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il falso, onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso”. Il giovane gli disse: “Tutte queste cose le ho osservate, che altro mi manca?”. Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!”. Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze. Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”… Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,16-29). 38


UNA PAROLA DI COMMENTO Gesù è attorniato dai discepoli e dai soliti curiosi: sta proclamando il Regno di Dio. A un certo momento si fa avanti un giovane che Gli chiede con sincerità: «Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?», cioè, per diventare tuo vero discepolo e per essere felice nella vita? In un primo momento sembra che Gesù non lo ascolti; a tutti dice quasi con distacco: «Osserva i comandamenti». Questo è il modo più semplice e concreto per essere vero discepolo di Gesù. A questo punto il giovane afferma con sincerità che li ha sempre osservati. Allora Gesù raccolse il suo sguardo, fissò i suoi occhi negli occhi di quel giovane e lo scrutò fino in fondo, quasi gli interessasse solo lui, e gli disse: «Per essere perfetto, ossia, se vuoi essere mio discepolo autentico e pienamente realizzato, vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri; poi, vieni e seguimi!». In questo sta la più genuina felicità; altrimenti rimarrai… “triste”! Sembra quasi una condanna. È proprio vero: quando un giovane viene invitato da Gesù a seguirLo, costui è… “liberamente costretto” (sì, liberamente costretto) a seguirLo. Allora, e solo allora, troverà la piena realizzazione di sé e la completa felicità. Il testo latino dice: “intuitus et dilexit eum”. È un’espressione particolarmente sintetica e forte; “intuitus” significa: guardare dentro con intensità, scrutare, scandagliare fino nel più profondo della persona. Chissà che cosa prova un giovane che si vede fissato e scrutato dagli occhi di Gesù, quindi amato nella sua persona così com’è! L’innamoramento tra due giovani inizia normalmente, mi pare, dallo sguardo: una ragazza che si vede… guardata, scrutata, contemplata da un giovane, quindi… “desiderata” da lui, si sente rinascere, è felice e realizzata, nient’altro le interessa. Per questo, inevitabilmente e istintivamente si dona, senza paura e senza pensare al domani. Lo stesso splendido mistero di amore si realizza quando un giovane, una ragazza si sente addosso lo sguardo di Gesù. Si accorge di essere afferrato da Lui, interessato a Gesù e coinvolto da Lui. Conseguentemente e senza incertezze Gli dice: «Vengo; Ti seguo». E si sente felice, molto felice! “Et dilexit eum”. In latino il verbo “diligere” significa addirittura “scegliere per amare”. Allora, quel gesto di Gesù “intuitus et 39


dilexit eum” significa: Gesù scruta il cuore di quel giovane e… lo tira fuori dal gruppo dei discepoli “normali” perché gli vuole un bene particolarmente profondo e impegnativo. E vuole renderlo suo amico specialissimo. Adesso guarda solo lui, fissa i suoi occhi solo negli occhi di quel giovane (gli altri sembra che non gli interessino in questo momento), e solo a lui dice: «Vieni e seguimi!». Ma il giovane della parabola – nota il Vangelo – rispose: «Non vengo!». E se ne andò triste! Com’è… buio e desolato un cuore triste! È sempre l’incontro personale con Gesù che sconvolge e trasforma positivamente la vita: il giovane della parabola evangelica si trova con altre persone davanti a Gesù, ma non usa il plurale: «Che cosa dobbiamo fare…», ma: «Che cosa devo fare». Gesù fissa solo lui negli occhi e solo a lui dice: «Una cosa sola ti manca…». Gli altri pare che non esistano in quel frangente, o che si siano dileguati; il dialogo si svolge unicamente tra Gesù e il giovane che Gli pone la domanda. Nemmeno le testimonianze altrui servono per incontrare Gesù in modo profondo e trasformante; sono al massimo degli aiuti che precedono o favoriscono l’incontro con Lui: «Non è più per la tua parola che crediamo», dicono i compaesani della donna samaritana. E aggiungono: «Noi stessi abbiamo udito e sappiamo che è il Salvatore del mondo». Scrive C. M. Martini: «Può dire un Sì coinvolgente con Gesù solo chi ha vissuto una formidabile esperienza affettiva di incontro con Lui, Gesù!». Parole sacrosante! Formidabile – Un tale incontro con Gesù può perfino incutere timore, paura: “formido” significa paura. Esperienza – L’incontro avviene nei fatti di vita concreta, non mediante ragionamenti ed è sempre un incontro personale e vissuto. Affettiva – Ci vuole il cuore: l’incontro con Gesù è affare di cuore! Incontro – Occorre condivisione, vita insieme, collaborazione con Gesù! Tutto quanto ho detto è vero; però, alla fine, mi sorgono alcune domande: In che cosa consiste l’incontro personale con Cristo? Come posso verificare che io ho incontrato personalmente Gesù? Come e quando è 40


avvenuto l’incontro? Se è già avvenuto anche per me, che cosa è cambiato nella mia vita quotidiana? È difficile dare una risposta; personalmente non so rispondere: ritengo giusto fidarmi di Gesù e accettare qualche mistero nella mia vita. Il sì a Gesù è senza dubbio fonte di felicità e beatitudine. Ne dà testimonianza un personaggio molto autorevole, S. Agostino: «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ecco, tu eri dentro di me, io stavo al di fuori e qui ti cercavo, e, deforme quale ero, mi buttavo su queste cose belle che Tu hai creato. Tu eri meco, ed io non ero tuo, tenuto lontano da Te proprio da quelle creature che non esisterebbero se non fossero in Te. Mi chiamasti, gridasti, e vincesti la mia sordità; folgorasti il tuo splendore e mettesti in fuga la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo aspirai e anelo a Te; Ti degustai ed ora ho fame e sete; mi toccasti ed ora brucio di desiderio per la tua pace» (Agostino, Confessioni, libro 10, 27). Nel brano dell’evangelista Matteo ci sono tre verbi che meritano di essere presi in considerazione. “SE VUOI” È sempre Gesù che propone un cammino di sequela per la propria vita, ma vuole in ogni caso la libera risposta dell’uomo, perché l’uomo agisce “da uomo” solo quando esercita la sua responsabilità, cioè impegna se stesso, mente e volontà. Che differenza di comportamento tra il giovane ricco e i primi discepoli: quello se ne andò triste, e probabilmente visse triste, quindi non realizzato, perché non volle accettare l’invito di Gesù; invece le prime coppie di discepoli «Subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono» (Mt 4,22). Dio si propone all’uomo; non si impone! Egli rispetta sempre la libertà di ogni uomo. “VIENI” Che cosa avviene concretamente quando dico a uno, a… Mattia: «Vieni!». Mattia innanzitutto si alza dalla sedia (se è seduto); se Mattia non si alza, io posso gridare fin che voglio, ma non accade nulla. Allo stesso modo, Gesù vuole che colui il quale è invitato ad entrare nella sua profonda amicizia, dopo essersi liberato da ogni attaccamento, si stacchi da se stesso, cioè dal suo modo di pensare e di fare, dalle sue abitudini e paure, dalle sue ostinazioni 41


e attaccamenti, in una parola, da se stesso, da tutto se stesso. Inoltre, il comando di Gesù («Vieni!») esige un ulteriore, continuo cambiamento di spazio fisico e superamento di se stesso, ma finalizzato a Lui, a Gesù. E ciò comporta un ascolto interiore, personale e operativo della parola di Gesù. Se non c’è questa continua conversione di mente e di cuore, Gesù può gridare più volte: “Vieni”, ma non succede niente, la vocazione rimane un invito e non diventa realtà. “SEGUIMI” È un verbo di movimento anche questo; non esprime necessariamente un punto di arrivo, un traguardo. “Seguimi” indica “andare dietro” a Gesù, non solo con Gesù, non a fianco di Gesù, non in sua compagnia. Proprio “dietro”, ossia… mettere i piedi sulle orme lasciate da Gesù. Non è sufficiente pensare come Gesù, volere quello che Lui vuole. “Seguire” esprime un continuo spostamento, … nella vita concreta! Gesù non dice: «Seguimi fino a una certa meta»; non dice nemmeno per quanto tempo o per quale motivo. Nemmeno anticipa come sarà il cammino dietro a Lui: facile e bello, oppure un andare difficoltoso; non assicura il raggiungimento di una meta bella, appagante. Dice invece: «Fa’ quello che faccio io; va’ dove vado io! Segui ME!» – dice Gesù – fosse anche fino al Calvario! Un esempio significativo al riguardo è quello di Carlo Carretto, che fu presidente nazionale dell’Azione Cattolica: ormai da anni nel deserto, fu “invitato” da Gesù a seguirLo fino… all’ultimo foglio di carta, fino all’ultima “soddisfacente” lettera: «Fu a 44 anni (…) la chiamata più seria della mia vita, la chiamata alla vita contemplativa. Essa si determinò nel più profondo della fede, là dove il buio è assoluto e le forze umane non aiutano più. Quante volte dovevo dire di sì senza nulla capire: “Lascia tutto, e vieni con me nel deserto. Non voglio più la tua azione, voglio la tua preghiera, il tuo amore”. E andai nel deserto. (…) Avevo nella mia bisaccia amici: ce n’erano migliaia. (…) Se rimaneva in me una sofferenza nascosta era certamente quella di non poter – al momento della mia partenza per l’Africa – parlare a ciascheduno di loro, spiegare il motivo dell’abbandono, dire che obbedivo a una chiamata chiara di Dio e che, anche se da un’altra trincea, avrei continuato a militare con loro nel campo dell’apostolato. Ma bisognava fare la famosa “liberazione” ed io la feci con co42


raggio e con una grande fiducia in Dio. Presi l’indirizzario che era per me come l’ultimo legame con il passato e andai a bruciarlo dietro una duna durante una giornata di ritiro. Rivedo ancora i resti anneriti del quaderno trasportati lontano dal vento del Sahara» (Carlo Carretto, Lettere dal deserto). VENGO! CHE PAZZIA, OGGI! Ci vuole un bel coraggio da parte di un giovane, al giorno d’oggi, per rispondere: «Sì, Signore, vengo!». Eppure ce ne sono ancora, e… non pochi (al di fuori dei paesi “ricchi”!). Penso al povero Simon Pietro che ha faticato tutta la notte senza prendere un solo pesciolino, neppure un’acciughetta; eppure, all’invito imprevisto, impensabile e perfino quasi offensivo di Gesù, getta le reti! Il risultato lo conosciamo. Guarda Pietro in quell’istante: non si intende di altre cose, ma di pesca, sì! È il suo campo, proprio suo; non è certamente il campo di Gesù quello della pesca (parlando di Lui come uomo). E quando Pietro si sente rivolgere l’invito di Gesù, che cosa ha sentito dentro di sé? Quel “ma…” (in latino, “autem” significa: all’opposto, per assurdo…) ha risvegliato nel cuore di Pietro uno sconvolgimento, perché, ubbidire a Gesù voleva dire: negare le leggi della natura (Chi va a pescare di mattina?), essere deriso dagli amici, non badare alla stanchezza dopo una notte intera di fatiche… a vuoto; soprattutto comportava negare la propria esperienza, alla quale nessuno è disposto a rinunciare! Eppure, Pietro va contro tutto questo… solo sulla parola di Gesù! Lui, Pietro, l’esperto di pesca, accetta e si lascia coinvolgere da una parola di Gesù, che non si intende affatto di pesca! Che assurdo, umanamente parlando! Questa stranezza, questa assurdità, questa offesa alla… “sicumera” umana, si ripete anche oggi in ogni vocazione sacerdotale o religiosa. Ci vuole un bel coraggio da parte di un giovane di oggi, che si vede “trascinato”, forse “costretto”, a cercare la propria felicità nelle “cose” che il mondo gli offre in abbondanza e con facilità (e senza problemi morali), a dire: «No, non seguo gli inviti del mondo; seguo l’invito di Gesù!», con la certezza che solo lì troverà la sua felicità e realizzazione. È essere contro “il mondo”, os43


sia, vivere non per il proprio interesse, non per il piacere personale egoistico, ma vivere… “per Cristo, con Cristo, IN Cristo”. Riporto una testimonianza… “nostrana”, cioè di casa nostra, delle nostre parrocchie. «Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (S. Agostino) «L’uomo, fin quando non trova una risposta all’incompiutezza della sua vita, un punto fermo nel suo cuore, è irrequieto e insoddisfatto. E proprio dentro a questa debole umanità il Signore si fa spazio e porta armonia, luce, pace, felicità. Così è capitato anche a me: giovane donna in ricerca di un centro di verità forte e saldo nel quale ancorare il proprio cuore e tutta la vita. Era un giorno come tanti altri: era un giorno di lavoro come tanti altri giorni ingolfati da tante cose da fare, tanti incontri, tanti problemi da risolvere, tante esperienze superficiali. Proprio quel giorno una verità ha trapassato la mia mente e il mio cuore: Gesù è la vera bellezza che salva! Non ero in grado di capire che cosa stava succedendo: solo mi “comprendevo” al centro di un amore senza confini che “sentivo” stava risanando tutta la mia vita. Il mio cuore era gonfio di gioia, gli occhi colmi di lacrime e una felicità incontenibile si faceva spazio in me: avevo trovata un roccia di sicurezza! Gesù, il Vivente, era accanto a me e mi stava liberando dal vuoto che abitava dentro me. Trovai, come san Paolo, il mio Anania (Quanto è importante una guida spirituale illuminata e saggia!) che mi aiutò a decifrare e ad elaborare l’esperienza che avevo vissuto. Avevo acquistato, come san Paolo dopo la conversione, uno sguardo nuovo, come se mi fosse caduto il velo che annebbiava gli occhi e il cuore. Gesù, il Vivente, stava risanando le mie ferite, colmando i miei vuoti, dando compiutezza alla mia vita e infine mi faceva dono della sua amicizia. Finalmente avevo trovato il mio punto fermo, il centro di ancoraggio permanente! Allora compresi il dono grande della fede, l’appartenenza alla Chiesa, la frequenza ai sacramenti e cominciai a sentire profondamente l’esigenza di imparare a pregare, a meditare la Parola di Dio, a fare silenzio davanti a Lui nell’adorazione. Sono passati molti anni da quel giorno luminoso, eppure è ancora tutto vivo in me. Riconosco di aver ricevuto un immenso regalo che ha reso la mia vita felice. È proprio vero: si è felici solo se ci si lascia trovare dalla bellezza del Dio Vivente che continua a dirci: “Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3, 20)». N.B. Ora è una carmelitana felicissima da tanti anni. 44


Ora cerchiamo di entrare in questo mistero per scoprire, se possibile, quali sono gli elementi che costituiscono una vocazione. È vero che ogni vocazione è un’esperienza strettamente personale, quindi irripetibile e inenarrabile. Però possiamo chiederci: Ci sono elementi comuni tra le varie vocazioni di consacrazione? Ancora: È vero e perché uno che vive la propria vocazione ‘religiosa’ è realizzato e felice? Mi rifaccio alla mia esperienza sacerdotale e ai non pochi “vocati” che Gesù mi ha fatto incontrare nel mio ministero. Tre sono gli elementi che ho sempre trovato nella vita dei “chiamati”, e che ritengo l’origine della loro felicità: Amore – Libertà – Comunione. AMORE Ogni vocazione, autentica (!), è questione di amore, innanzi tutto da parte di Dio, ma senz’altro è anche una risposta di amore da parte dell’uomo. AMORE DA PARTE DI DIO Mi rifaccio all’episodio del Giovane ricco (Mc 10, 17-22): Gesù, dopo aver guardato fino in fondo il cuore del giovane, lo amò di un amore di amicizia a preferenza degli altri astanti (dilexit = lo amò e lo scelse!). A lui disse, quindi, «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto; poi vieni e seguimi». Sì, la vocazione religiosa e sacerdotale è un amore di predilezione, nel senso che Gesù invita alcuni a diventare suoi amici stretti, ossia a fare parte del gruppo “dei Suoi”, come si esprimono i Vangeli. Perché questo giovane sì; gli altri, no? Non ci è permesso saperlo: fa parte dei disegni di Dio. Spero che nessuno, perché… non invitato, si senta “scartato” – per usare una espressione cara a papa Francesco. AMORE DA PARTE DELL’UOMO Il grande Dante ha riassunto il gioco dell’amore in un solo versetto eloquente: «Amor che a nullo amato amar perdona» (Inferno, canto V, verso 104). L’esperienza di ciascuno di noi ne conferma la verità: quando una persona si sente amata, sente l’esigenza di riamare. 45


Ritengo opportuno sviluppare il pensiero di Dante così: quanto più una persona si sente amata, tanto più sente la necessità, insopprimibile, di riamare. È quello che avviene in una vocazione sacerdotale e religiosa: se un giovane, una ragazza, si accorge di essere amato da Gesù con una particolare intensità e tenerezza, non si mette a ragionare, ma riama totalmente, senza se e senza però, senza pensare al futuro. Riama totalmente, con tutto se stesso, Gesù! Così, scegliendo solo Lui, si trova pienamente felice e realizzato, anche a costo di accantonare i suoi progetti di vita. Tale è la forza dell’amore! Come nell’esperienza umana, amare comporta trovare la propria felicità nel bene dell’altro, così la mia felicità di sacerdote consiste nel cercare il bene dell’Altro, cioè di Gesù! In altre parole, il chiamato trova la sua felicità e la piena realizzazione di sé nel darsi da fare per la “gloria di Dio”, ossia, nello spendersi affinché Dio sia più conosciuto e amato: «Sia santificato il tuo nome», «Venga il tuo regno». Questo è il bene di Dio! Per continuare l’approfondimento della vocazione come amore, è necessario che l’amore ci porti sul piano sponsale, cioè della donazione totale di sé; quindi, anche l’amore di vocazione riguarda e impegna tutta la persona. Pertanto si richiede che sia una scelta libera del chiamato, non una sottomissione subita; che sia una scelta totale: cuore, mente, affetti, sentimenti ecc.; perfino il corpo entra in gioco: da qui l’esigenza della castità! Ancora: l’amore è vissuto quotidianamente, è continuo e riguarda ogni istante e atto della vita quotidiana, è “feriale”; non è limitato ad alcuni gesti e momenti. Si ama… sempre! Non è un atto solo iniziale, limitato all’inizio di un rapporto tra persone. Allo stesso modo Dio ama sempre, ogni giorno; addirittura: “chiama” sempre, mi sceglie ogni giorno. Io, necessariamente, lo riamo ogni giorno e ogni giorno gioiosamente gli ripeto: “Vengo”. Qui sta la fonte della felicità del chiamato. LIBERTÀ In ogni vocazione sono due libertà che si incontrano: quella di Dio e quella dell’uomo invitato da Gesù a seguirLo. Trattandosi di 46


due amori, necessariamente si intrecciano due libertà, perché non è possibile amare per forza. «La vocazione – scrive il convertito e monaco T. Merton – è l’incontro di due libertà, quindi di due amori». DA PARTE DI DIO È subito dimostrato: i Vangeli provano con chiarezza che Gesù chiama a seguirLo da vicino (a diventare “uno dei Suoi”) solo chi vuole Lui e non conosciamo i motivi della scelta; e chiama indipendentemente dai “meriti” del “vocato”: il giovane ricco Gesù lo invita anche se, presumibilmente, sapeva che avrebbe rifiutato; Zaccheo non lo invita a seguirLo; Matteo, sì; le due coppie di fratelli, sì, Andrea e Simone, Giacomo e Giovanni. Non pare affatto che avessero qualche merito speciale che giustificasse l’invito di Gesù. È dipeso solo dalla libera e insondabile scelta di Gesù. È sempre forte e indiscutibile l’affermazione di Gesù: «Io vi ho scelti; non voi avete scelto Me». DA PARTE DELL’UOMO Per me è sempre motivo di gioia grande e nello stesso tempo è anche motivo di confusione il leggere nella Bibbia, specie nel Nuovo Testamento, la volontà di Gesù di far dipendere la realizzazione dei Suoi desideri, anzi, dei Suoi progetti, dalla libertà dell’uomo, fino al punto di far condizionare la realizzazione della volontà di Dio dalla libertà dell’uomo chiamato in causa, quindi dalla responsabilità dell’uomo! Per me questa constatazione è sconvolgente. Gesù propone la sua amicizia, ma non la impone mai. A mio parere è la prova più eclatante della dignità e grandezza dell’uomo. Pensa al valore quasi incomprensibile, ineffabile, umanamente parlando, di quel «Se vuoi…» pronunciato da Gesù al giovane ricco. Pensa al «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta…» di Apocalisse 3, 20. Pensa a tanti altri esempi contenuti nel Nuovo Testamento. È la libertà, quindi la responsabilità personale che dà valore di “atto umano” all’agire dell’uomo. Per lo stesso motivo, affinché una vocazione sia un atto “da uomo”, deve essere compiuto mediante la libertà, altrimenti non potrebbe essere una decisione gradita a Dio, quindi non sarebbe fonte di realizzazione dell’uomo e 47


di felicità. Se una vocazione autentica è questione di responsabilità, non è possibile pensare che una vocazione religiosa sia frutto di emotività o istintività. Oso dire che, anche in vista di una pastorale vocazionale, dobbiamo educare i giovani al buon uso della propria libertà in tutti gli aspetti della vita, e a non agire per istintività o solo emotivamente. COMUNIONE L’amore è il non-egoismo, quindi l’amore non può realizzarsi né esaurirsi nella persona stessa che ama: di sua natura richiede reciprocità e si realizza solo tra persone. Pertanto, l’amore crea la comunione, si concretizza nella comunione. Questa è la realtà, perché l’uomo è a somiglianza di Dio, che è Amore, quindi Comunione. Dio non è “da solo”, non è un individuo “a Sé” (sarebbe egocentrismo assoluto!). Dio è Trinità nell’Unità: questo significa che in Sé stesso Dio è Comunione. E il Verbo si è incarnato per essere e vivere con noi uomini, oltre che con il Padre. L’uomo, perché è “realmente” (ossia nella sua realtà profonda e nella vita) a somiglianza di Dio, “è” una comunione vivente con Dio, in Cristo Gesù. Ed è tendenzialmente in comunione con gli altri uomini. Chi ha risposto positivamente alla chiamata di Gesù (i Religiosi) ha il compito e la gioia di vivere intensamente la comunione con Dio e con i fratelli; altrimenti non vive la sua vocazione con autenticità. Il Religioso è davvero una “comunione vivente” con Dio e con gli altri; almeno è un “segno” sperimentabile di comunione! Quanto più è in comunione con Dio, tanto più è aperto verso gli altri.. Lo afferma anche un personaggio… “di grido”: «Ama Dio e ama il tuo prossimo come te stesso. Ma non so se ai giorni nostri si comprende la ragione ultima per cui l’uomo deve amare l’uomo… Un pagano e un cristiano incontrano un uomo molto povero. Il cristiano gli dà il suo mantello. Il pagano dice al cristiano: “Hai creduto che fosse un dio”. E il cristiano risponde: “No, ho creduto che fosse un uomo”… La ragione determinante che ci fa amare l’uomo, non è l’uomo ma Dio. Se non si guarda l’uomo in Dio, l’amore dell’uomo per l’uomo è impossibile… Se l’uomo non ama Dio, conosciuto o sconosciuto, non potrà amare l’uomo…; oppure amerà solo certi uomini, gli uomini di un gruppo, di una nazione… I moderni han48


no messo l’uomo al posto di Dio. Sono antropocentrici… Il vero motivo dell’amore per l’uomo è che esso è fatto a somiglianza di Dio, che l’altro è come noi creatura di Dio, che ci è fratello, figlio dello stesso Padre. Senza l’amore di Dio non c’è amore per l’uomo» (J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Rusconi, p.295). Sento nelle orecchie una domanda che più di uno mi sta rivolgendo: «La carità dov’è?». S. Paolo dice che la carità è la regina di tutte le virtù (1 Cor 13); e siamo tutti convinti che senza la carità non si può affatto tendere alla santità. È vero, verissimo. Però, io vedo la carità verso i fratelli come l’attuazione multiforme dell’amicizia personale con Gesù. È la conseguenza della propria vita “IN Cristo” e la manifestazione storica di questo rapporto. Le forme della carità sono le più svariate possibili, in base alle esigenze dei fratelli e in base alle qualità personali di colui che ama. Se un Religioso non riesce a dire: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21), in verità e con autenticità, vuol dire che non è in grado di vivere la carità, che è una virtù teologale, e non solo umana o sociale. È una prova “universale”: tutti i cosiddetti “Santi della carità” sono tutti, ma proprio tutti, uomini e donne di intimità profonda con Gesù, persone di… Eucaristia, specie della Adorazione eucaristica! Un chiaro esempio: la santa Madre Teresa di Calcutta. Il card. Martini diceva del beato Clemente Vismara (milanese e missionario in Birmania): «Il Padre che sorride sempre. Egli poteva sorridere perché il suo cuore confidava in Dio; poteva ascoltare con il cuore e parlare con il cuore, perché confidava in quel Dio che parla al cuore… È l’esperienza dell’amore di Dio che ci rende capaci di tendere allo stile di Dio» (E. Apeciti, La vita è bella se donata con gioia, Centro Ambrosiano, p.117).

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CHE VITA È?

Ribadisco l’affermazione che oggi è davvero (o meglio, è ritenuta!) una pazzia accettare l’invito di Gesù a seguirLo senza condizioni, con la convinzione che lì sta la propria realizzazione umana e la propria felicità. Eppure è un fatto innegabile che si verifica ancora ai giorni nostri. Mi chiedo: «Come vive, o come dovrebbe vivere chi è invitato da Gesù a far parte dei… Suoi amici?». Rispondo con una mia convinzione, senza la pretesa di fare delle affermazioni assolute. Riassumo in due parole le caratteristiche qualificanti la vita di un “chiamato”: Eccomi – Vacare Deo. ECCOMI! La Madonna, nel momento dell’Annunciazione, quando si accorse che Dio interpellava proprio lei e solo lei, si unificò in se stessa (cuore, mente, affetti…) in profonda armonia e disse semplicemente: «Eccomi», ossia: Sono qui, Ti ascolto! Il famoso “Fiat” fu una conseguenza inevitabile, una vera necessità interiore, frutto dell’essere presente a Dio con tutta se stessa. Allora, l’Eccomi significa: liberamente, responsabilmente “sto” alla presenza di Dio. Da qui deriva: sintonia con Dio, con il suo modo di pensare e di vedere le realtà e i fatti; significa addirittura… simpatia con Dio, accettazione del suo progetto su di me e include il mio impegno a realizzarlo volontariamente. Vuol dire ancora condivisione delle sue (di Gesù) finalità, missione, esperienza… fino (eventualmente) alla croce. Immagino che, quando l’arcangelo Gabriele comunica a Maria la richiesta di Dio nei suoi riguardi, Ella si trovi come davanti a uno specchio pulitissimo: il volto luminoso del Padre. In questo specchio vede riflessa la sua persona, e… si conosce; anzi, quanto più fissa gli occhi nel Volto divino, tanto più conosce se stessa, si ammira e in sé sperimenta l’amore di Dio. Questo è il risultato della vera contemplazione. 51


Una precisazione: quando dico “Eccomi”, affermo che la mia è una risposta a un invito precedente di un’altra persona. Qui è addirittura una libera risposta a un invito di Gesù. L’iniziativa di una vocazione è sempre di Gesù! Inoltre: l’Eccomi del chiamato non può essere solo un atto di volontà o un pensiero della mente; è una risposta globale di tutta la persona, e che realizza nella vita concreta con le varie scelte e azioni. È una risposta di vita e per questo diventa fonte della propria realizzazione. Ancora: il mio “Vengo” a Gesù non esprime un semplice atto iniziale, ma un cammino! La vocazione è una risposta… continua, un andare quotidiano e ininterrotto in direzione di Gesù. Come il “Sì” di Maria all’Annunciazione fu una conseguenza necessaria e interiormente costringente, inevitabile dell’Eccomi, e fu un “Sì” rinnovato ogni giorno fino al Calvario; allo stesso modo il “Vengo” di una vocazione religiosa è una conseguenza inevitabile dell’“Eccomi” vissuto dal chiamato; anche il “Vengo” va rinnovato ogni giorno per tutta la vita. Maria SS. “ascolta” Dio! Non solo Lo… “sente”. Per questo motivo Gli apre il “cuore”, si lascia coinvolgere dalla Sua Parola; di conseguenza: impegna tutta la sua vita per Lui! Un innamorato non si limita a “sentire” la voce della persona amata, ma la… “ascolta”! Con quel che segue…! Così il “vocato”, perché la vocazione è vero amore, non si accontenta di “sentire” Gesù, ma Lo “ascolta”; quindi deve dedicare tempo e se stesso a Gesù; stare… “in silenzio” per ascoltarLo, e con il Vangelo in mano! Se possibile, tenterà di… “toccare il mantello” di Gesù! Dice l’ evangelista S. Luca: «Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da Lui usciva una forza che guariva tutti» (Lc 6, 20). Chi è chiamato non può accontentarsi delle preghiere “di regola” (ossia quelle comandate): inevitabilmente è portato a trasformare le sue preghiere in… “contemplazione”, in una preghiera lenta, interiore, in un colloquio con Gesù. Questo è pienezza di vita interiore! Il “Vengo” non esprime che cosa devo fare: dice solo che voglio seguire Gesù, condividere la sua vita: sarà Lui a dirmi che cosa devo fare, cioè che cosa vuole da me. 52


Al giovane ricco Gesù dice: «SeguiMI», non: «Fa’ questo o quest’altro!». La vocazione religiosa consiste nel diventare “amici di Gesù”; tutto il resto è una conseguenza; proprio come due amici: sono amici e basta; il fare qualcosa insieme è una conseguenza. Ovviamente un tale stile di vita suppone un fatto necessario: il primato di Dio, come sottofondo nel cuore e anche come conseguenza coerente nella vita. Scrive Francois Pollien: “Tu non vivrai per Dio, se non quando vivrai di Dio, cioè di quella vita soprannaturale, in cui Dio prende possesso della tua mente, del tuo cuore e dei tuoi sensi, per farti conoscere, amare ed agire soprannaturalmente in vista di Lui... Se solo imparassimo a conoscere, amare e servire Dio collocandolo dovunque al di sopra dell’uomo, noi faremmo lo sola opera seria e la sola necessaria nell’ora presente”. VACARE DEO È una espressione latina che significa: svuotarmi della mia… “carnalità”, per Dio, a vantaggio di Dio! Con il termine “carnalità” intendo tutto ciò che non costituisce la mia persona nella sua realtà profonda; quindi significa: i gusti personali, i desideri sensibili, gli affetti che mi legano; vuol dire anche i propri progetti come intoccabili e irrinunciabili; e tanti altri aspetti di me, che considero come squame, quasi involucro che non fa parte della realtà che sta dentro nel mio cuore. Può sembrare esagerato e qualcuno lo ritiene perfino ingiusto e quasi, quasi disumano. Invece no, perché lo scopo dell’azione di… liberazione dal mio “io” è la presenza attiva dell’amore di Gesù in me. Un innamorato… “svuota” se stesso (progetti, desideri, occupazioni…) per accogliere quelli della persona amata. E così facendo, trova la sua felicità e la sua realizzazione. La stessa cosa avviene per il “chiamato”. Un tale “svuotamento” delle mie “cose”, per me non è una limitazione della mia persona, né un impoverimento della vita; è invece un’esigenza costringente e inevitabile, frutto dell’amore, per lasciare sempre più spazio a Dio nella mia giornata; anzi, per far brillare l’amore di Gesù nella mia vita quotidiana, affinché Lui sia conosciuto di più e amato intensamente, grazie anche alla mia collaborazione. Ovviamente, l’Eccomi e il Vacare Deo esprimono un cammino da per53


correre sempre, perché la vocazione vissuta non è un possesso statico (finirebbe per affievolirsi e forse sparire); è dinamica: va riscoperta ogni giorno e ogni giorno richiede una nuova (ossia: rinnovata e approfondita) risposta. L’esperienza sacerdotale mi convince della verità di quanto ho scritto, anche se può sembrare esagerato nelle conseguenze. Un giovane, invitato da Gesù a seguirLo da vicino, non può accontentarsi di una… buona vita cristiana. Sono convinto che il seguire Gesù esige radicalità nello stile di vita, altrimenti è solamente un “tentativo” di vita religiosa; e come tale non è mai fonte di realizzazione e di felicità. Per vivere seriamente... per Dio, è necessario liberarsi progressivamente delle “squame” del proprio “io”. Un sacerdote, con uno stile assai arguto, brillante e talvolta perfino pungente, scrive: «– … spiegatemi cos’è un monaco. – Lo dovrebbe dire la parola stessa. Il termine deriva dal greco, monos, solo. Ma non bisogna pensare immediatamente alla solitudine del deserto. Più che “essere solo”, monaco significa “essere uno”. Il monaco è, prima di tutto, l’uomo di una cosa sola. È la creatura che vuole avere un cuore solo, un unico comportamento e orientamento nella propria vita. Si tratta di andare a Dio nella totalità, evitando la dispersione, con l’anima e il cuore «non divisi». – Per questo avete disprezzato il matrimonio e le realtà terrestri. – Bada che nel nostro vocabolario non esiste la parola “disprezzo”. Tutto è buono, perché tutto viene da Dio. La legge del monachesimo più autentico è quella del “superamento”, non del disprezzo. – Qual è, allora, la vostra virtù peculiare? – La semplicità, senza dubbio. Che esige un lungo, paziente lavoro di... semplificazione, di purificazione, liberazione da tutto ciò che è accessorio, ingombro, impedimento, duplicità, ricerca di se stessi, per diventare trasparenza di un Altro, per lasciar intravvedere l’Assoluto di Dio. Semplicità implica un processo di riduzione all’essenziale. Pochi ci riescono. Tutti amano la complicazione e l’affastellamento» (A. Pronzato, …ma come avete fatto?, Gribaudi Editore, p.17). Forse è necessario parlare ancora di “ascetica” nella vita religiosa. Il Vacare Deo è proprio una autentica vita ascetica di un Religioso. 54


Anche i veri formatori di personalità cristiane hanno affermato la stessa verità. Riporto qualche pensiero di J. Loew: «È d’importanza fondamentale per gli apostoli comprendere la necessità di una purificazione: Dio accende in noi una fiamma, ma è necessario che essa, prima di tutto, bruci in noi quanto vi è di umano, le nostre tendenze, la nostra natura, le nostre inclinazioni. Non che la natura e le tendenze umane siano cattive; Dio sceglie i suoi servitori e li qualifica per il suo servizio: ma è necessario che tutto scompaia in una alchimia misteriosa fino al punto di non avere altro motivo di agire che l’invito del Signore che manda: “in nomine Domini” (il motto di Paolo VI). Quando la natura e la grazia coincidono, l’azione è piacevole e facile: resta però troppo umana, e Dio conosce meglio di noi come i nostri ripiegamenti su noi stessi e il nostro compiacersi la rendono pesante. Come a Gedeone, al quale Jahvé ridusse più del 99 per cento i soldati (da trentaduemila a trecento) per timore che il popolo si credesse l’artefice della vittoria, così Dio brucia il 99 per cento di noi stessi, ma con l’un per cento che rimane farà meraviglie» (J. Loew, Testimoni dell’invisibile, Borla, p.26). Chi risponde “subito” (ossia, senza incertezza) all’invito di Gesù vive pienamente nella gioia nonostante le prove e le difficoltà. Scrive un sacerdote milanese, don Luigi Pozzoli: «Sofferenza e gioia, passione e risurrezione, sono in Cristo strettamente connesse. E la sequela di Cristo non può eludere la legge del seme che morendo vive… Come è possibile che la gioia coesista con la sofferenza? È possibile se si pensa che la gioia è legata a un processo di liberazione che comporta strappi e lacerazioni. A generare tristezza è l’incurvatura su se stessi, si chiama “amor sui”, o egocentrismo, o narcisismo. I “soddisfatti” hanno il volto della felicità, ma nascondono spesso delusione e disgusto… La gioia è il frutto di un processo dinamico di rimozione di tutto ciò che ingombra, appesantisce, inaridisce… È la gioia di sentirsi cercati con misteriosa, trepida attesa; la gioia di essere amati, di essere liberi, di essere chiamati verso un “oltre” di vita intensa e quindi di beatitudine sovrabbondante» (L. Pozzoli, La beatitudine del naufrago, Ancora, pp.86 passim). Una vocazione autentica richiede di vivere fuori dal comune, in modo “alto”, l’amore per Cristo e per la Chiesa; altrimenti è una vocazione... “rattrappita”. Non è troppo: è necessario amare Cristo in modo esagerato! Leggi con piacere il racconto brioso di A. Pronzato a proposito di un certo santo, detto Sant’Esagerato: 55


«– … se uno fa semplicemente il proprio mestiere di cristiano, lo considerate un tipo bizzarro, perfino un po’ pericoloso, da tener d’occhio perché non crei confusione. Se uno perdona, lo ritenete un eroe. Se un altro compie un gesto profetico, dite che non è capace di stare al proprio posto, «chissà cosa si crede...». Se qualcuno non ha il cuore che batte in vicinanza del portafoglio, lo definite anormale... – ... E se uno è santo, gli ficchiamo in testa l’aureola dell’eccezionale. – Proprio così. Se un individuo non è come gli altri, non si adatta agli schemi comuni, rifiuta le mode, non si iscrive né al partito dei conformisti né a quello degli anticonformisti, gli cucite addosso l’etichetta di «stravagante». Commentate, indispettiti, «vuol fare l’originale», mentre lui è soltanto se stesso. Lo giudicate sprezzantemente incosciente, squilibrato, mentre lui è semplicemente giudizioso» (A. Pronzato, …ma come avete fatto?, Gribaudi Editore, p.169). Un tale racconto non potrebbe essere un invito serio per ogni vocazione cristiana?

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IL SACERDOTE

Una riflessione a parte merita la vocazione sacerdotale, o meglio, il mistero-sacerdote. Una domanda iniziale si pone inevitabilmente: Qual è il compito specifico del sacerdote nella Chiesa? Una risposta sintetica, chiara e completa è offerta dalla Lettera agli Ebrei, cap. V, vv. 1 e 2. La riporto in latino perché è assai incisiva; poi ne faccio la traduzione commentata: «Ex hominibus assumptus, pro hominibus constituitur in iis quae sunt ad Deum: ut offerat dona et sacrificia pro peccatis; qui condolere possit iis qui ignorant et errant». SCELTO TRA GLI UOMINI Precisamente sarebbe: “innalzato” tra gli uomini. Quindi, i sacerdoti sono innanzitutto uomini. Certo, non è una scoperta; però da questa affermazione derivano alcune osservazioni importanti. Prima di tutto ci porta a riconoscere che ogni sacerdote ha delle caratteristiche personali, qualità e doti, ma anche limiti e difetti. Ogni sacerdote ha un suo carattere inalienabile come ogni altro uomo, anche interessi umani proprio suoi, perfino nel campo sportivo. Ciò si verifica anche nello stesso ministero: un prete è più adatto per i giovani, un altro per gli adulti, un altro ancora si sente più portato verso gli ammalati, a differenza di uno che si vede quasi incapace di dedicarsi agli ammalati; uno è più portato per indole a un ministero che definirei ‘interiore’: confessioni e accompagnamento spirituale; un altro invece è tutto azione, sempre in attività e capacissimo di iniziative, di organizzazione ecc. Guai se tutti i sacerdoti fossero identici, quasi formati con uno… “stampino”! Andrebbero bene per alcune categorie di fedeli, ma non sarebbero adatti per tutti gli altri. Per fortuna, Gesù ha voluto che i preti fossero uomini, diversi tra loro, affinché fossero davvero capaci di condividere la vita degli uomini reali, in carne e ossa, con i loro pregi e difetti, che vivono situazioni differenti, molto differenti e talvolta addirittura opposte. Una tale constatazione ci invita a non “inquadrare”, a non “valutare” i singoli sacerdoti in base ai propri punti di vista o desideri, ma ad accettarli e a stimarli ciascuno nella sua identità, perché Ge57


sù li ama così come sono (ciascuno è stato scelto da Lui! e chiamato “per nome”, ossia con la propria individualità) e vuole che ognuno sia “Suo” sacerdote per l’unica Chiesa! CONSACRATO A VANTAGGIO DEGLI UOMINI Gesù sceglie chi vuole, liberamente, e lo “consacra”, cioè lo separa, lo “tira fuori” dal resto degli uomini e dagli interessi umani, lo riserva per Sé, per la gloria del Padre (Questo significa il verbo “consacrare”). Gesù nella preghiera sacerdotale (Gv 17) dice che questi uomini sono tolti, separati dal mondo, affinché vivano solo per il bene spirituale loro e dei fratelli, a loro sevizio. Da ciò risulta chiaro che la missione dei sacerdoti è tipicamente “missionaria”. NELLE COSE CHE RIGUARDANO DIO Non si tratta di un bene generico dei fratelli, ma per aiutarli a vivere il rapporto, personale e comunitario, con Dio. Il sacerdote è “ponte tra Dio e gli uomini”. Il popolo di Dio deve chiedere questo ai suoi sacerdoti, non una particolare capacità organizzativa o di altro genere. Nemmeno deve esigere che sia molto colto, perché è Gesù, solo Lui, che agisce nel sacerdote! Il valore di un prete non consiste affatto nel saper affascinare i fedeli, sia pure per portarli più facilmente a Gesù. Deve operare in modo libero, il più possibile, dalle sue caratteristiche personali; la preghiera autentica del sacerdote suona così: «Gesù, chi mi ascolta, Ti senta; chi mi guarda, Ti veda». AFFINCHÉ OFFRA A DIO IL SACRIFICIO DELLA MESSA PER I PECCATI… Questo è il primo compito del sacerdote; è il suo compito specifico; è addirittura il motivo fondamentale per cui Gesù sceglie e consacra sacerdote un giovane… “comune”: uno che non ha nulla di speciale, che agli occhi nostri (troppo umani) potrebbe giustificare la scelta di Gesù. In nessun altro atto il sacerdote è davvero sacerdote quanto nella celebrazione della Messa. Il sacerdote è per l’Eucaristia! Tutti gli altri compiti nella Chiesa possono essere esercitati, anche ottimamente, dai laici, tranne il sacramento della riconciliazione. Una domanda: Noi aiutiamo il sacerdote a celebrare bene la S. 58


Messa, cioè devotamente, “religiosamente”, con la calma e la dignità necessarie? Oppure gli chiediamo di fare in fretta a… “dire Messa”, tanto è sempre valida perché è un’azione di Gesù!? …E AFFINCHÉ CONDIVIDA LE PROBLEMATICHE DEGLI UOMINI E PERDONI I PECCATI

Qui vedo espresso il compito sacerdotale della carità. Oltre la celebrazione della Messa, il sacerdote ha la missione di essere disponibile, sempre, per le confessioni, perché anche qui agisce direttamente in lui lo stesso Gesù, che è morto proprio per perdonarci ogni peccato. Messa e confessioni sono i due atti specifici e qualificanti l’essere sacerdote. L’ultimo elemento di una autentica vita sacerdotale è la carità, che consiste nel donare tutto di se stesso per le necessità umane e spirituali dei fratelli. L’ambito della carità è così vasto, che ogni specificazione sarebbe una limitazione. Con una parola sola direi: “tutto!”. La carità sacerdotale si allarga a tutti gli aspetti, le necessità umane e spirituali del popolo di Dio. Tende perfino a giungere alle… periferie estreme dell’umanità. A tale proposito è significativo un pensiero del beato Clemente Vismara, missionario milanese e da poco beatificato. Ha risposto prontamente all’invito di Gesù con un “Vengo” totale e si è “trovato” missionario per una intera vita: «Ammiro di più i santi con vita lunga e relativo lungo combattimento che non i santi che se la sbrigavano in verde età. La vita bisogna spenderla per qualche cosa di più duraturo della vita stessa. Che valore ha la vita se non per donarla? Solo offrendola agli altri ci sarà restituita. È legge pagana pensare solo a se stessi, non è da cristiani! La vita non può fiorire se rimane chiusa nei suoi angusti limiti. Essa si rinnova e si moltiplica donandola»… «Sbaglieresti se pensassi che la mia vita è una povera vita. È una vita felice, ricca, piena»… «A me la tristezza non mi ha preso mai, non la conosco, anche se le cose vanno di traverso. Spensieratezza immensurabile, tristezza mai». Così interpreto la vita del sacerdote secondo la lettera agli Ebrei. Oso affermare che, quanto più un sacerdote si impegna a vivere così la sua vita, tanto più è felice, anzi, felicissimo, indipendentemente da ogni circostanza. Provare per credere! Ormai da anni mi firmo “don Luigi, prete felicissimo”. Al sacer59


dote si richiede di vivere secondo il cuore di Gesù e la guida della Chiesa. Chi risponde con totalità di cuore “Vengo”, sperimenta una gioia impagabile! I preti sono preti, non laici con la tonaca da prete. È parola di un grande laico, credente e praticante, J. Guitton: «Ho paura che alcuni preti, nel nobile intento di mescolarsi ai fratelli laici, siano tentati di seguirci sul nostro terreno, che rimpiangano di non avere come noi un mestiere, una specializzazione, di non essere dei professionisti, dei tecnici, dei politici, dei sindacalisti, degli operai e dei capi, delle cellule dell’organismo sociale, dei fabbricatori della “storia” temporale, dei padri di famiglia. Ho paura che a furia di voler parlare il nostro linguaggio, di voler adottare i nostri metodi, i nostri atteggiamenti, le nostre ansie, le nostre preoccupazioni temporali, le nostre angosce di uomini politici impegnati, in una parola la nostra vita, corrano il rischio di isterilirsi. Temo anche che vogliano diventare qualcosa come i “direttori” di coscienza laici: psichiatri, terapeuti, sociologi, psicanalisti, esperti di scienze umane. Perché noi laici che lavoriamo a tempo pieno saremmo più avanti di loro anche in questi campi. Ascoltando i giovani seminaristi, ho paura che nutrano qualche rimpianto per non aver scelto la via più larga, facile, familiare, calda e solidale dell’“apostolato laico”. Ho paura che alla sera, quando sono soli, abbiano l’impressione di essere “tagliati fuori dai loro fratelli uomini”, giudicati da questi gente strana, senza famiglia, senza esperienza di vita, un po’ degli sradicati… E allora con una lunga esperienza di vita vorrei dire loro: “Se volete gareggiare con noi o se pretendete guidarci sul nostro terreno di laici, voi perderete. Ma vincerete sempre se vi fortificate con gioia, con energia e semplicità in quello che è il vostro terreno incomunicabile: il sacerdozio. Noi vi chiediamo innanzi tutto e soprattutto di darci Dio, soprattutto con i poteri che voi soli possedete, con l’assoluzione e la consacrazione. Vi chiediamo di essere gli ‘uomini di Dio’, i portatori della Parola atemporale, i distributori dl Pane della vita, i rappresentanti dell’Eterno tra di noi, gli ambasciatori dell’ Assoluto. Noi siamo nel relativo. Noi abbiamo bisogno di vedere in voi l’ Assoluto. Perché noi viviamo nel relativo ma ci muoviamo, respiriamo, siamo nell’ Assoluto… E avendo fame e sete di Assoluto e non trovandolo da nessuna parte allo stato puro, abbiamo bisogno di avere vicino un uomo che è simile a noi ma che, pur nella sua mediocrità e miseria, incarna la nozione di Assoluto, e ci prova con la sua presenza che l’Assoluto può esistere, che anzi è più vicino di quanto non pensiamo”» (J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Rusconi, pp.258-259). 60


Chiudo la riflessione sul sacerdozio con una preghiera di un santo Vescovo, un vero “Padre della Chiesa” del Novecento, il card. Anastasio Ballestrero. «Gesù, sono prete non per mia iniziativa né perché sono superiore agli altri; sono prete perché Tu mi hai guardato, mi hai affiancato lungo la strada della vita e mi hai detto: “Seguimi”; con la perentorietà di un invito colmo di amore, con una trascendenza che ti ha dispensato da tante motivazioni. Non mi hai detto perché né percome, ma: “Vieni e seguimi”. Ma, Signore, dove stai? “Vieni e vedi”. Ma, Signore, che cosa vuoi? “Vieni e ascoltami”. Ma, Signore, che destino avrà la mia vita? “Il mio”, e associandomi al tuo destino, mi hai fatto prete. Guardo Te, divino eterno Sacerdote, là nel Cenacolo, mentre celebravi Tu il primo Sacrificio mistico dell’Eucaristia, che precedeva il sacrifico cruento della croce. E penso a tutti i sacerdoti. Te li affido: sono tuoi, li hai fatti Tu. Consolali! Sono uomini, poveri uomini a volte scoraggiati, a volte avviliti, frustrati… Forse per colpa loro, ma Tu sei Salvatore. O forse Tu li hai fatti passare per un crogiuolo di purificazione come il tuo del Calvario. Sono copia vivente di Te, eterno Sacerdote, primizie della tua redenzione. Sollevali nell’ora della prova, fa’ sentire a ognuno di loro la tua presenza. Donaci, Signore, sacerdoti felici!» (A. Ballestrero, Preghiere, Piemme, pp.119 e 123). UNA PRECISAZIONE: “ALTER CHRISTUS” La Chiesa è solita indicare i sacerdoti con il termine: “Alter Christus”, che significa: “L’altro Cristo”. Non dice: “alius Christus”, che vorrebbe dire: “un altro Cristo”, generico, indeterminato. Invece affermando che il sacerdote, ogni sacerdote è… “l’altro Cristo”, dice un confronto fra due: Gesù e il sacerdote. Non è una differenza secondaria, perché con l’aggettivo “alter” la Chiesa riconosce che il sacerdote è uno solo: Gesù Cristo, e che ogni sacerdote è Gesù Sacerdote nel tempo, nelle situazioni storiche. Non importa che siano tanti numericamente i sacerdoti, perché ognuno fa rivivere Gesù-Sacerdote nel tempo per il bene degli uomini di quel momento. Tutti i sacerdoti sono diversi tra loro e vivono in tempi e situazioni molto diverse, eppure in ognuno di loro vive l’unico Gesù Sacerdote, ossia “il Pontefice” tra gli uomini di un determinato tempo e Dio Padre. 61


PER CONCLUDERE La presentazione o definizione del sacerdote data dalla Lettera agli Ebrei è sintetica; però può dare l’impressione che il sacerdozio sia solo un “servizio” reso al popolo di Dio, quasi qualcosa di esterno al sacerdote stesso, che non dipenda dalla sua persona e dal suo modo di vivere. Se così fosse, il sacerdozio sarebbe una semplice funzione; invece – oserei dire – è una vera trasformazione della sua personalità. È una trasformazione di sé che esige anche un suo personale incontro con Cristo, il Vivente. È vero che è Gesù in persona che agisce in ogni sacerdote, grazie alla consacrazione; è vero che gli atti sacerdotali hanno valore indipendentemente dalla dignità morale del sacerdote; però è una esigenza della persona del sacerdote… che precede la stessa missione sacerdotale. Ancora una volta lascio la parola a un grande formatore di sacerdoti, il card. Ballestrero: «… perché costituito ministro di Cristo, la comunione con lui, che mi fa creatura nuova dentro, è un’esigenza fondamentale. Non sono ministro di un Cristo di cui ho sentito parlare, che conosco attraverso i libri: io Cristo lo devo conoscere personalmente, è una faccenda tra me e lui, … devo raggiungere una tale sintonia con questa persona divina rivestita della mia umanità, per cui diventi vero che non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Come posso annunciare un Cristo che non conosco? Ho bisogno di incontrarlo, il Signore, … Quando Paolo parla del suo apostolato, lo fonda sempre sul fatto di aver visto e conosciuto di persona Gesù… L’istanza di questo rapporto personale con Gesù è fondamentale anche per la vocazione di un prete: è lui che chiama, che conduce, che dà grazia, che trasmette i poteri ricevuti dal Padre, che garantisce la misteriosa efficacia dei nostri gesti sacramentali, che ci configura a sé e ci rende testimoni della sua vita e della sua morte, della sua risurrezione e della sua missione di salvatore. Vivere questo rapporto è dunque qualcosa di addirittura preliminare: bisogna partire dall’incontro con Cristo» (A. Ballestrero, Vieni e seguimi, Piemme, pp.16-17). E il beato papa Paolo VI conclude con autorevolezza: «Il sacerdote è prima di tutto ordinato alla celebrazione del Sacrificio eucaristico, nel quale egli “in persona Christi et nomine Ecclesiae”, offre a Dio sacramentalmente la Passione e la Morte del nostro Redentore, e nello stesso tempo ne fa alimento di 62


vita soprannaturale per sé e per i fedeli, a cui deve fare ogni sforzo per distribuirlo degnamente e largamente; il ministero della parola e quello della carità pastorale devono convergere verso quello della preghiera e dell’azione sacramentale e ne devono trarre ispirazione e sostegno». «Il sacerdote, nella quotidiana morte a se stesso, nella rinuncia all’amore legittimo di una famiglia propria per amore di Cristo e del suo regno, troverà la gloria di una vita in Cristo pienissima e feconda, perché come Lui e in Lui egli ama e si dà a tutti i figli di Dio» (Pensieri di Paolo VI, Edizioni Carroccio, pp.651 ss.). Questa volta oso chiudere con la mia firma: Don Luigi, prete felicissimo!

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Pro manuscripto

Finito di stampare nell’ottobre 2016



Luigi Schiatti

Il Vescovo Mario Delpini, con il suo stile brioso e arguto, scrive: «Se avete letto tutti i libri del mondo e siete informati di tutte le novità, ma non conoscete la via della gioia, non avete ancora imparato nulla della vita. Se avete accumulato ricchezze incalcolabili e avete risorse per soddisfare ogni desiderio, ma non avete la gioia, non possedete niente di veramente importante. Se avete fatto tutte le esperienze e conservate ricordi e cicatrici di imprese straordinarie, ma non avete sperimentato la gioia, non avete ancora provato niente». Chi osa non condividere questo pensiero?

FELICI SE...

L’uomo nella Bibbia


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