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L’ordine, la follia e l’inferno

La riscoperta del mondo classico avvenuta grazie al ritrovamento di numerosi testi latini e greci apre in Italia quello che, in opposizione ai secoli del buio Medioevo, venne chiamato Rinascimento. Ne La scuola di Atene - espressione della rinascita della cultura filosofica classica rivolta alla ricerca di verità e di felicità attraverso l’uso della ragione - Aristotele allunga la mano e indica come unica realtà quella che i sensi riescono a percepire, mentre Platone guarda in alto al mondo delle idee: uomo è animale razionale, in grado di vivere la propria corporeità e contemporaneamente di innalzarsi al di sopra dei propri impulsi più ferini e bestiali. In questo clima di rinascita e di fiducia, il bestiale è quindi degenerazione dell’umano: se la humanitas è caratteristica fondamentale dell’Uomo - non dell’uomo medievale, in balia della natura, della religione e del simbolo, ma dell’Uomo rinascimentale -, allora ciò che non è razionale non è nemmeno umano. Insomma, si diffonde una cultura dell’ordine, cultura del controllo razionale sulle cose, che si adagia facilmente nell’ambiente cortigiano quattrocentesco, in un’Italia che gode di una relativa stabilità economica e in cui le varie signorie riescono a raggiungere un certo equilibrio politico. È a partire da fine quattrocento, quando questo periodo viene interrotto da nuovi ribaltamenti storico-culturali, che qualcosa inizia a cambiare. Nel 1492 la scoperta dell’America, del nuovo mondo, dell’alieno che non era mai stato conosciuto prima; nel 1527 il sacco di Roma, l’umiliazione della capitale della classicità; nel 1545 il Concilio di Trento e l’inizio della Controriforma. L’uomo tenta di aggrapparsi alle precedenti certezze, a interpretare il mondo usando gli stessi strumenti del passato; ma la ragione e il pensiero umano non valgono più, non sono più in grado di leggere oggettivamente il mondo, di fornire una visione unica e assoluta della complessità della realtà. Ma quindi, se la ragione non è più capace di regolare il mondo, cosa differenzia l’uomo dalla bestia? Riporto la strofa 13 del XXIV canto dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, in cui viene rappresentato lo stato di pazzia in cui cade Orlando. “E quindi errando per tutto il paese, Dava la caccia agli uomini e alle fere;

E scorrendo pei boschi, talor prese I capri snelli e le damme leggiere. Spesso con orsi e con cinghiai contese, E con man nude li pose a giacere: E di lor carne con tutta la spoglia Più volte il ventre empì con fera voglia.” Orlando ha perso non solo ogni tratto cavalleresco, ma anche umano: poco prima egli si era denudato (strofa 133 canto XXIII), spogliato della propria identità umana, della propria ragione; ora è un animale, mosso nel suo ininterrotto vagare non da un nobile obiettivo, ma dai più bassi piaceri corporali. Abbassamento, detronizzazione: non più la posizione privilegiata, ma un angolo di una realtà complessa, in cui l’uomo è sempre in balia della sorte e in cui la fragilità della ragione può decretare da un momento all’altro la peggiore delle cadute. Orlando impazzisce per amore, ovvero per un sentimento tutto interno a sé stesso, per un inganno della propria stessa mente. Egli aveva tentato di illudersi, di credere non vera l’unione tra l’amata Angelica e Medoro, ma inutilmente: il paladino è essenzialmente portato alla follia dal contatto con una realtà da lui non accettata, la quale è anche perdita di senso. L’amore di Angelica è infatti il motore delle sue azioni, la ragione per cui ha abbandonato la guerra e intrapreso l’infinito vagabondaggio nella selva: comprendere che tale oggetto del desiderio, che seppur lontano avrebbe premiato la lunga inchiesta, è ormai stato raggiunto da altri, determina in Orlando lo sconforto. E tale sconforto è un dolore totale e devastante, che tocca l’essenza dell’esistenza del cavaliere come di un uomo che si è reso conto della verità: il fine ultimo dell’agire è eliminato, la vita si rivela un grande labirinto senza centro; non c’è più un obiettivo, uno scopo da raggiungere; l’uomo che comprende questa verità è in tutto è per tutto una bestia che vaga in un movimento continuamente centrifugo e centripeto, a caso. La pazzia di Orlando è quindi la pazzia dell’uomo che abbandona l’illusione e viene a contatto con la realtà, una realtà dolorosa, ma ormai inevitabile dal momento in cui la si scopre: tornare all’illusione è impossibile, come è impossibile riottenere il senno (a meno che un fidato amico non lo recuperi per noi andando sulla Luna in groppa a qualche improbabile cavalcatura). A questo punto l’operazione che l’uomo moderno si prefigge non può più essere la fuga nel falso, non può più essere l’alienazione dalla realtà, non più la pretesa di stabilità, ma la ricerca di senso, quel senso che, sostituendosi

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alla ragione, forse potrebbe distinguere davvero l’uomo dalla bestia. Vorrei dunque terminare questo articolo con le parole che Calvino, importante studioso di Ariosto, scrive come conclusione de Le città invisibili: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Inferno, male, intrigo inspiegabile e matassa insolvibile di storie, persone, eventi: questa è mancanza di senso, mancanza di una risposta, di una spiegazione quando si pone la domanda “perché?”. Calvino trova un modo non per uscire da questo labirinto che è la realtà, ma per saperci vivere dentro: appigliarsi con fermezza a qualcosa che “inferno non è”. Marco Polo ha viaggiato per città, è venuto a contatto con la complessità del reale, ma di fronte a Kublai Khan comunque non è in grado di indicare “verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi”: non ha trovato un solo fine, un senso univoco alle cose. Ciò che ha ottenuto è questa consapevolezza: in ogni città che ha visitato e che visiterà, in ogni elemento della realtà, c’è un tratto della città perfetta. Perché la città perfetta è una città frammentata, fatta di attimi discontinui nello spazio e nel tempo che affiorano continuamente e che bisogna saper riconoscere e salvare. E se tutte le città, tutte le cose fanno davvero parte di una grande e unica città infernale, allora questa operazione si fa tanto più importante e necessaria.

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