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Una bestia travestita da agnello

Dio di illusioni è il romanzo d’esordio della scrittrice Donna Tartt, romanzo che, nel 1992, l’ha resa una celebrità e l’ha portata, nel 2014, a vincere il premio Pulitzer con il capolavoro Il cardellino. Ambientata in un collegio del Vermont, la storia gira attorno a un gruppo di ragazzi, l’èlite del collegio, che studiano lettere classiche con un insegnante affascinante ed eccentrico e che vivono una vita di eccessi alla ricerca di emozioni forti, forse anche troppo forti. Sono cinque i ragazzi, inavvicinabili perchè freddi, ricchi e snob ma soprattutto perchè sono gli unici che Julian, il professore, ha scelto per frequentare il suo corso. Per questo, risultano da subito irresistibilmente attraenti a Richard, giovane californiano, stanco della sua vita insopportabilmente scialba. Dopo che Richard viene accettato nel corso di Julian, inizia la storia tormentata di questi ragazzi, costellata di segreti, atti osceni, che rendono le dinamiche del gruppo a tratti insostenibili. Un romanzo senza dubbio affascinante, soprattutto per noi adolescenti. Ma farne una semplice, asciutta lettura di intrattenimento è tralasciare la profonda analisi della natura umana che l’autrice dipinge e indaga. Ben presto capiamo che questi sei ragazzi sono tutto tranne che convenzionali, vivono slegati dal presente, che fuggono continuamente, abbandonandosi all’inibizione di alcol, droghe e fumo. Ma questo per loro non è abbastanza, vogliono di più, vogliono la follia dionisiaca, vogliono provare un baccanale. E lo fanno. È da questo punto che la crisi interiore dei personaggi inizia a diventare preponderante e, dopo l’omicidio di un uomo durante il baccanale, ne segue uno ancora peggiore: l’omici-

dio di Bunny Corcoran, uno dei sei ragazzi, il cui crollo è imminente ed è temuto dagli altri perchè potrebbe portarlo alla rivelazione dell’assassinio. Dall’omicidio di Bunny tutto cambia. La realtà acquista tinte più vivide e le emozioni, prima represse da una razionalità prepotente e da un perbenismo di facciata, esplodono imprevedibili. La morte divide la vita e la spinge all’estremo, in un turbinio di conflitti e fraintendimenti che porteranno ad un finale ancora più tragico. Ma tutta la cruenza, la sofferenza sublimano, portando il lettore ad una riflessione sulla poesia del tragico, sul fascino del macabro, che è suggerita da Julian già all’inizio del libro, in una delle sue lezioni sulla tragedia greca. “La morte è la madre della bellezza” disse Henry. “E cos’è la bellezza?” “Terrore” “Ben detto!” esclamò Julian. “La bellezza è raramente dolce o consolatoria. Quasi l’opposto. La vera bellezza è sempre un po’ inquietante.” È la bellezza del sublime, la bellezza dell’orrore, quel brivido che ci percorre quando stiamo sospesi sull’orlo del baratro. Ora, non sta a noi giudicare la moralità, qualora ci fosse, di questo libro, anche perchè non è questo il suo scopo. L’autrice disegna il complesso e lacerante conflitto tra razionale e irrazionale che è presente in ogni essere umano, e più una persona è controllata, più sarà attratta dalla follia e dalla perdita di quel controllo. Perchè l’irrazionale, l’istinto, socialmente ripudiato, ha, proprio per questo, l’attrattiva del proibito. Ed è questo che la Tartt vuole mettere in scena, drammaticamente, sì, ma anche in modo spaventosamente reale, tangibile. È un libro senza filtri, freni o tabù: non c’è miele per far ingoiare la pillola amara. Quella della Tartt è una constatazione, cruda, della bestialità della natura umana e di come l’eccesso, l’incontrollato abbiano un fascino terribile ma magnetico. Fascino che è anche poesia, quella poesia che ritroviamo nelle tragedie greche, negli atti turpi e violenti delle figure mitologiche, che attiravano (e attirano) migliaia di spettatori nei teatri. Ma non c’è nulla da biasimare in tutto ciò, se pensiamo alle emozioni che suscitano in noi il monologo di Amleto sulla vita e la morte, le crude poesie ungarettiane sulla ferocia della guerra, i versi strazianti di Baudelaire. “O dolore, o dolore, il Tempo si mangia la vita e l’oscuro Nemico che ci divora il cuore cresce e si fortifica del sangue che perdiamo.”- C. Baudelaire. È forse proprio da questo carattere poetico della morte che il libro acquista fascino, diventa attraente. Ma anche dalla visione così genu-

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ina che l’autrice restituisce dell’uomo, in tutta la sua fragilità, senza mai giudicare. Infatti, non è possibile individuare dei cattivi, dei personaggi assolutamente malvagi, e degli eroi. Anzi, i concetti stessi di bene e di male impallidiscono, perdono significato davanti a delle dinamiche che mettono in gioco parti più recondite, profonde della personalità. Le scelte dei personaggi non seguono mai una morale socialmente prestabilita e le loro azioni non sono completamente cattive, ma sono piuttosto dettate dalla legge della sopravvivenza. Ma forse anche dalla ricerca di una bellezza crudele, che si nasconde in quello che ci è vietato. Badate bene, in questo articolo non c’è una volontà di giustificare le azioni dei personaggi, come non c’è nel libro. Ma piuttosto vediamo profondamente minata una struttura sociale, che, sotto maschere di rispettabilità difese con gli artigli, cela comunque pulsioni represse. Insomma, l’autrice ci mette in guardia: non tutto è come sembra. Anzi, a volte proprio quello che ci sembra più retto rivela la natura più turpe. Natura che non si può ignorare, che non si può far finta non esista. Certo, l’autrice ci inganna dall’inizio. Il titolo Dio di illusioni è al contempo insidioso ma calzante: si parla di illusione meno di quanto pensiamo, ma ci illudiamo che tutto possa essere una fantasia dei personaggi, un piano racchiuso nelle loro menti, salvo poi renderci conto che il momento della rivelazione, il colpo di scena che ci dirà che è tutto un sogno non arriverà mai. Possiamo dunque pensare che l’irrazionale rimanga solo nelle nostre fantasie, ma apprendiamo amaramente che non è così e che ne siamo addirittura attratti. Perciò, se dobbiamo porci un quesito per tirare le fila: l’uomo è, in fin dei conti, una bestia mascherata da agnello? Sì, o meglio, l’uomo ha la bestia in sè; non è bestia, ma nasconde le pulsioni e gli istinti animaleschi, che la società ha cura di demonizzare per bene. Ma questo non fa scomparire l’irrazionale che è in noi, fa solo diffondere e radicare quell’etica del “salvare le apparenze”. Non educa alla morale, si preoccupa solo di nascondere l’animale agli occhi degli altri. Ma cosa succede quando nessuno guarda?

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