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Città di palazzi uguali
from Cassandra 111
by cassandra
NARRATIVA CITTÀ DI PALAZZI UGUALI
Mi capita di vivere le cose con la drammaticità e il protagonismo della tragedia, ma so anche che tutte le persone si comportano come me, e capisco: non esiste una Medea se di Medea ce ne sono due. Figuriamoci se fossimo tutti un po’ Medea, e se tutti i nostri figli morissero uccisi da noi stessi a causa nostra. È fuor di dubbio che anche noi per uccidere dovremmo ritirarci in un palazzo: non sono cose che si possano fare alla luce del sole, tanto nel quattrocento prima di cristo quanto nel duemila dopo. Esiste un profondo odio nel mondo, che già c’era prima di cristo pure lui, e sopra di lui hanno costruito il bel palazzo di Corinto. Credo fosse un modo per celare l’odio sottoterra, ma poi è diventato un monumento funebre. D’altra parte, sotto ogni palazzo si muove un profondo odio e ogni palazzo è un monumento funebre. Ma il palazzo di Cnosso, un palazzo non è mai stato. Oppure tutti i palazzi sono sempre stati palazzi di Cnosso, ma solo all’interno: se entro in un labirinto il Minotauro è l’ultima cosa che scopro. Nel palazzo il profondo odio è nascosto tra le fondamenta. Quante volte i figli popparono dalle mammelle di quella loro madre che li uccise? Voglio dire questo: vivere comune non ha mai smesso di essere società di vergogna: vergogna di noi stessi, genitivo oggettivo. Ciò non toglie che se tutti i Minotauri uscissero dai loro palazzi il Minotauro non ci sarebbe più. E la gente non conoscerebbe più il Minotauro: scriveva Borges che si vede solamente quello che si conosce. Sono Mermero e la mia città è un’accozzaglia di palazzi tutti uguali, giustapposti gli uni agli altri. Sono talmente ripetitivi che mi ci perdo e non riesco mai a trovare il mio. O almeno, non credo di averlo mai trovato. Se sono già stato in un posto non me ne accorgo, ma non mi accorgo nemmeno se non ci sono mai stato. Passo le mie giornate a guardare tutto ciò che mi sembra diverso, il qual passatempo è l’unica possibilità che la vita mi lascia. Ieri ad esempio ho immaginato di terminare un libro e di non iniziarne un altro. Oggi invece racconto quello che ho immaginato ieri. Nel frattempo cammino per queste strade, che alla fine sono
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una sola strada che cambia direzione, e non vedo differenza tra i passi che faccio, dal momento che tutti egualmente non hanno senso. Per guarire da questo pensiero ho studiato i frammenti greci di Eraclito con zelo; col tempo sono diventato seguace di Spinoza. I lunghi anni della mia vita mi hanno svelato che le cose della realtà hanno due sostanziali caratteristiche: sono tutte uguali e tutte diverse. “L’acqua si apre a infinite orme” ma il mare è ancora panthalassa. L’ho detto: mi perdo tra i palazzi della mia città. Molti che dicono di conoscere la mia storia mi ritengono morto, e probabilmente lo sono. Ma come avrei potuto, morto, giacere con tutte le donne che abitano questi stessi palazzi, le quali forse sono un’unica donna, la stessa che generò me e la stirpe degli uomini, e che mi uccise: Medea è insieme mia madre, mia moglie e mia figlia, mia carnefice e vittima, carnefice di altri figli a loro volta carnefici. Per questo anche io ucciderò i miei figli come mia madre ha ucciso me. Esiste un odio che è come il fiume di Eraclito: latente, scorre da più tempo di me e forse ha trovato il senso che io, in questa mia vecchiaia, ancora non ho trovato. Concludo questo mio discorso con l’ossessione morbosa che tormenta da anni i miei sonni e le mie veglie, nella speranza che l’odioso dio me ne liberi: la forma di una spirale sempre centripeta e senza fine, che non termina in un punto ma che continuamente si avvolge verso un centro impossibile e insensato.