Come funzionano i testi
1 La costruzione del testo narrativo 2 Il narratore e la focalizzazione 3 Funzione e ruolo dei personaggi 4 Raccontare una storia: i tempi e i luoghi 5 Le forme della narrazione
I libri e il mondo
La letteratura delle origini
1 La costruzione del testo narrativo
1 La costruzione del testo narrativo
2 Il narratore e la focalizzazione
2 Il narratore e la focalizzazione
3 Funzione e ruolo dei personaggi
3 Funzione e ruolo dei personaggi
4 Raccontare una storia: i tempi e i luoghi
4 Raccontare una storia: i tempi e i luoghi
5 Le forme della narrazione
5 Le forme della narrazione
Il teatro
1 La costruzione del testo narrativo 2 Il narratore e la focalizzazione 3 Funzione e ruolo dei personaggi 4 Raccontare una storia: i tempi e i luoghi 5 Le forme della narrazione
volume A
Come funzionano i testi (Strumenti)
Letteratura e cinema (Strumenti)
I libri e il mondo (Antologia)
Cittadinanza (dopo ogni unità dell’antologia)
10 libri bellissimi (Antologia)
Poesia e canzoni (Strumenti)
La poesia e il mondo (Antologia)
Cittadinanza (dopo ogni unità dell’antologia)
10 poesie bellissime (Antologia)
volume B
Come funzionano le poesie (Strumenti)
Il teatro
volume C
Il mito
C100 K40
M100 K30
C50 Y100 K30
M100 Y50
C90 Y50
Y5 K5
L’epica
C10 Y25
Letteratura delle origini
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Raccontare una storia: i tempi e i luoghi
Vivian Maier, Autoritratto, 1955
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come funzionano i testi
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el 2007 John Maloof, un ragazzo che stava cercando delle testimonianze fotografiche su Portage Park, un sobborgo di Chicago, comprò all’asta per meno di 400 dollari gli oggetti stipati in un box per il quale, da tempo, non veniva pagato l’affitto. John Maloof si trovò in mano una serie di scatoloni con migliaia di negativi e di rullini ancora da sviluppare e un foglietto, su cui era scritto il nome “Vivian Maier”: provò a fare alcune ricerche, ma non scoprì nulla. Incuriosito, sviluppò i negativi: ne vennero fuori un’infinità di fotografie scattate fra gli anni Cinquanta e Sessanta nelle strade di New York e Chicago: volti e scene della realtà urbana americana fotografati in un tempo e in un luogo precisi. Due anni dopo John Maloof trovò per caso, in un necrologio, il nome della sconosciuta fotografa e scoprì che Vivian Maier era nata a New York, nel 1926, e che aveva passato la sua vita lavorando come bambinaia tra Chicago e New York. Figlia di un americano e di una donna francese, Vivian aveva scoperto la fotografia grazie a un’amica della madre, e aveva cominciato a scattare foto fin da ragazza, negli anni in cui lei e la madre avevano vissuto in Francia. Era tornata in America nel 1938, e aveva cominciato a lavorare come bambinaia; ma si era comprata una Rolleiflex professionale e nei momenti liberi, con metodo e discrezione, aveva continuato a scattare fotografie. John Maloof ha raccontato nel film-documentario Alla ricerca di Vivian Maier l’incredibile storia di questa donna che, forse senza rendersene conto, ha messo insieme una straordinaria collezione di street photography, raccontando la realtà americana del dopoguerra attraverso un’attenta osservazione delle persone nei luoghi della loro vita quotidiana. Le fotografie di Vivian Maier sono immagini molto personali ma, allo stesso tempo, sono immagini che fanno riflettere sulle dinamiche della società americana degli anni Cinquanta e Sessanta. Guardarle è un po’ come leggere i romanzi dei grandi scrittori dell’Ottocento: ci si diverte, si resta affascinati, ma s’impara anche molto della realtà sociale di un determinato luogo in una determinata epoca. Facciamo un paio di esempi. Charles Dickens ambienta il suo romanzo Tempi difficili nella città di Coketown, fatta di «mattoni rossi o, per meglio dire, di mattoni che sarebbero stati rossi se fumo e cenere lo avessero permesso»: con una sola frase, lo scrittore riesce a farci capire quanto fosse terribile la vita nelle fabbriche inglesi del XIX secolo (Dickens, infatti, usa questo nome di fantasia, Coketown, ‘Città del carbone’, ma ha in mente la cittadina di Preston, nei pressi di Manchester, che aveva visitato, rimanendo sconvolto per le condizioni di vita dei lavoratori). 4. Raccontare una storia: i tempi e i luoghi
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In Ferragus, una delle novelle che formano il grande ciclo romanzesco della Commedia umana di Honoré de Balzac, scopriamo Parigi e le sue strade: Vi sono a Parigi certe vie disonorate quanto può esserlo un uomo macchiato d’infamia; ed esistono vie nobili, e vie semplicemente oneste, e giovani vie sulla cui moralità il pubblico non si è ancora pronunciato; vi sono vie assassine, vie più vecchie di quanto non sia vecchia una vecchia matrona, vie stimabili, vie sempre pulite, vie sempre sporche, vie operaie, lavoratrici, mercantili. Insomma, le vie di Parigi hanno qualità umane, ed imprimono in noi con la loro fisionomia certe idee da cui non possiamo difenderci. Vi sono vie dall’aspetto equivoco dove non vorreste abitare, e vie dove situereste di buon grado la vostra dimora. Alcune, come rue Montmartre, hanno una bella testa e finiscono a coda di pesce. Rue de la Paix è una via larga, una grande via; ma non risveglia nessuno dei pensieri graziosamente nobili che colgono un animo sensibile lungo rue Royale e manca certo della maestosità che regna in place Vendôme. Se ve ne andate a passeggio per le vie dell’Ile Saint-Louis, a spiegare la tristezza che si impadronisce di voi bastano la solitudine, l’aria tetra delle case e delle grandi dimore deserte. (H. de Balzac, Ferragus, traduzione di C. Lusignoli, Mondadori, Milano 2001)
In queste descrizioni, le città di Preston e di Parigi non sono entità astratte ma scenari concreti, ambienti reali: ne leggiamo, e – anche a distanza di tanti anni – ci sembra di essere lì, a vedere coi nostri occhi. Uno scrittore, se è davvero grande (e Dickens e Balzac lo erano certamente), sa darci questa sensazione.
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I tempi della storia: epoca, distanza e durata L’epoca Ogni opera di fantasia ha un suo tempo, cioè è situata in un determinato momento storico: Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ad esempio, è ambientato nella seconda metà dell’Ottocento; la vicenda di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo si svolge nella Parigi del XV secolo, al tempo di re Luigi XI. L’epoca in cui è ambientata una storia può essere dichiarata esplicitamente sin dal principio. Pensiamo alla precisione con cui Manzoni data la vicenda che sta per narrare nelle prime pagine dei Promessi sposi: «Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio…». In altri casi, invece, l’epoca del racconto deve essere dedotta dal lettore grazie a elementi interni al testo. Nella prima pagina delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar parla in prima persona un imperatore (Adriano, appunto) che, malato, racconta quanto gli pesi partecipare alle «lunghe cerimonie di Roma». Attraverso le sue parole capiamo subito, anche in assenza di riferimenti temporali precisi, in quale momento storico cade la vicenda: il II secolo dopo Cristo. All’inizio del romanzo Ivanhoe, dopo avere detto dove si svolge la vicenda (in Inghilterra), Walter Scott precisa – con lo scrupolo di uno storico – il quando: È questo il nostro scenario; la data della nostra storia è verso la fine del regno di Riccardo I, quando il suo ritorno dalla lunga prigionia era divenuto piuttosto un desiderio che una speranza per i suoi disgraziati sudditi, soggetti frattanto a ogni sorta di oppressione feudale. I nobili, il cui potere era divenuto esorbitante durante il regno di Stefano, e che erano stati ridotti a un minimo di obbedienza alla corona dalla prudenza di Enrico II, avevano adesso ripreso tutta la loro antica licenza, disprez-
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come funzionano i testi
zando i deboli interventi del Concilio di Stato, fortificando i loro castelli, aumentando il numero dei loro dipendenti, riducendo a vassallaggio tutti i loro vicini e cercando con ogni mezzo di porsi ognuno alla testa di forze tali da poter partecipare attivamente ai disordini nazionali che sembravano imminenti. (W. Scott, Ivanhoe, traduzione di U. Dèttore, Newton Compton, Roma 2016)
Con il puntuale riferimento ai re normanni Enrico II e Riccardo I, il celebre “Cuor di leone”, Scott fa capire che il romanzo si svolge nel XII secolo. A volte il narratore è ancora più preciso e dettagliato: basti pensare, oltre che al brano dei Promessi Sposi appena citato, all’inizio dell’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert: Il 15 settembre 1840, verso le sei di mattina, il Ville-de-Montereau pronto a partire fumava grosse volute davanti al quai Saint-Bernard. Gente arrivava ansando; botti, cavi, ceste di biancheria intralciavano la circolazione; i marinai non rispondevano a nessuno; la gente si urtava; tra i due tamburi, casse e bagagli si ammucchiavano, il chiasso era dominato dal vapore che sfuggiva fischiando da placche di lamiera e avvolgeva ogni cosa in una nuvola biancastra; mentre la campana a prua suonava senza sosta. (G. Flaubert, L’educazione sentimentale, traduzione di P. Bianconi, Bur, Milano 2007)
La presenza di indicatori temporali molto precisi («sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628», «Il 15 settembre 1840, verso le sei di mattina») crea un effetto di verosimiglianza: il lettore è portato a pensare di trovarsi di fronte a una vicenda realmente avvenuta. Alcune volte, però, le notazioni spazio-temporali vengono inserite non tanto per dire al lettore dove e quando si svolge la vicenda quanto per creare il clima, l’atmosfera adatta a ciò che sta per essere narrato. In Frankenstein di Mary Shelley, la creatura mostruosa prende vita non – poniamo – a mezzogiorno di una giornata estiva, ma «in una cupa notte di novembre», mentre la pioggia batte contro i vetri: Fu in una cupa notte di novembre che vidi la realizzazione delle mie fatiche. Con un’inquietudine che rasentava il parossismo, misi assieme attorno a me gli strumenti della vita con cui avrei potuto infondere una scintilla di esistenza nella cosa inanimata che giaceva ai miei piedi. Era già l’una del mattino; la pioggia picchiettava lugubre contro i vetri e la mia candela era quasi consumata quando, alla fievole luce che si stava esaurendo, io vidi aprirsi l’occhio giallo, privo di espressione, della creatura; respirava a fatica, e un moto convulso agitava le sue membra. (M. Shelley, Frankenstein, traduzione di Paolo Bussagli, Newton Compton, Roma 2016)
Ma non sempre al narratore importa precisare il tempo del racconto. È per esempio il caso del Castello, uno dei romanzi del grande scrittore boemo Franz Kafka: il protagonista, l’agrimensore K., sembra vivere e agire in un mondo che sta fuori dal tempo. All’inizio del libro leggiamo semplicemente che «era tarda sera quando K. arrivò». La sera di quale giorno, in quale mese o anno? E dove arrivò, in quale città, in quale nazione? Non lo sapremo mai, e quest’aura di mistero contribuisce moltissimo all’atmosfera cupa, minacciosa del romanzo: Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande castello. K. si fermò a lungo sul ponte di legno che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel vuoto apparente. 4. Raccontare una storia: i tempi e i luoghi
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I luoghi della storia Ogni vicenda si svolge non solo in un’epoca ma anche in uno spazio determinato, uno spazio che può essere caratterizzato in modo convenzionale, come accade nelle fiabe (il bosco, la casetta di Cappuccetto Rosso ecc.), o può essere descritto solo a grandi linee, oppure in modo particolareggiato. Spazi chiusi Alcuni scrittori sono abilissimi nella descrizione degli ‘interni’. Cele-
berrime sono per esempio le pagine in cui Balzac descrive la pensione della signora Vauquer in Papà Goriot: Questo primo ambiente emana un odore ineffabile, che bisognerebbe chiamare “odore di pensione”. Sa di rinchiuso, di muffa di rancido. Provoca una sensazione di freddo, di umido al naso, penetra gli abiti. Ha il sentore di una sala dove si è cenato. Puzza di dispensa […]. Ebbene malgrado quei banali orrori, se la confrontaste con la sala da pranzo attigua, la trovereste elegante e profumata come un boudoir. Tutta rivestita di legno, una volta era dipinta di un colore, oggi indefinibile, forma uno sfondo su cui la sporcizia ha impresso i suoi strati, creando delle figure bizzarre. Alle pareti vi sono delle credenze attaccaticce, sulle quali sono allineati portatovaglioli di metallo marezzato, caraffe incavate e opache, pile di piatti di porcellana spessa a bordi blu, fabbricata a Turnai. (H. de Balzac, Papà Goriot, traduzione di G. Pallavicini Caffarelli, Oscar Mondadori, Milano 2011)
Eccoci trasportati in un ambiente piccolo-borghese con qualche pretesa d’eleganza e signorilità: con pochi tratti, e senza parlarne mai direttamente, Balzac ci ha già detto moltissime cose sulle persone che tra poco entreranno in scena nel romanzo. Spazi aperti Altri scrittori, invece, prediligono gli spazi aperti. O meglio: certi ge-
neri letterari sollecitano la descrizione degli spazi aperti. Tipico il caso dei romanzi d’avventura. Ecco per esempio la descrizione con cui si apre il più famoso romanzo di Emilio Salgàri, Le tigri di Mompracem: La notte del 20 dicembre 1849 un uragano violentissimo imperversava sopra Mompracem, isola selvaggia, di fama sinistra, covo di formidabili pirati, situata nel mare della Malesia, a poche centinaia di miglia dalle coste occidentali del Borneo. Pel cielo, spinte da un vento irresistibile, correvano come cavalli sbrigliati, e mescolandosi confusamente, nere masse di vapori, le quali, di quando in quando, lasciavano cadere sulle cupe foreste dell’isola furiosi acquazzoni; sul mare, pure sollevato dal vento, s’urtavano disordinatamente e s’infrangevano furiosamente enormi ondate, confondendo i loro muggiti cogli scoppi ora brevi e secchi ed ora interminabili. Né dalle capanne allineate in fondo alla baia dell’isola, né sulle fortificazioni che le difendevano, né sui numerosi navigli ancorati al di là delle scogliere, né sotto i boschi, né sulla tumultuosa superficie del mare, si scorgeva alcun lume; (E. Salgari, Le tigri di Mompracem, Fabbri, Milano 2005)
Mondi fantastici Ma nei libri possiamo incontrare anche luoghi fantastici, come
l’universo descritto nella Biblioteca di Babele da J.L. Borges: L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, circondati da ringhiere bassissime. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori: interminabilmente. La distribuzione delle gallerie è invariabile. Venti scaffa210
come funzionano i testi
SEDISCIA VOLUPTAM ATUM ABOR MIN Quid voluptaquam lacil eumquis dolorum eum enisquam, eossequam aut a ata voloraerum facillia sum aliquae dolut a dolore volupicia nimusae lantotatur sam num faccull enducit alit ut voloreprae parunt, quat quam, accus. Musdae endeles diossimagnis maio demporroviti dolorum doluptibus ium dolum aut et quame voluptae ratium vellaccabore quasitist fuga.
li, cinque lunghi scaffali per lato, coprono tutti i lati tranne due; la loro altezza, che è quella dei piani, supera di poco quella di un bibliotecario normale. Una delle facce libere dà su uno stretto atrio, che sbocca in un’altra galleria, identica alla prima e a tutte. A sinistra e a destra dell’atrio ci sono due minuscoli gabinetti. (J.L. Borges, La biblioteca di Babele in Finzioni, a cura di A. Melis, Adelphi, Milano 2014)
Questo «universo» è un luogo che non può esistere nella realtà (nessun edificio può avere un numero «indefinito, e forse infinito» di gallerie e di piani), anche se viene presentato da Borges in modo mirabilmente dettagliato. Ovvero: per essere descritte, le cose non devono per forza essere reali… Dare una descrizione molto dettagliata dell’ambiente in cui si svolge la vicenda fa sì che il lettore dia fiducia al narratore e creda alla verità di ciò che legge, un po’ come si crede alla verità, all’attendibilità delle guide turistiche. All’inizio della seconda parte di Madame Bovary, Gustave Flaubert descrive per alcune pagine la borgata di Yonville-l’Abbaye, fornendo al lettore informazioni molto puntuali: Ai piedi del colle, dopo il ponte, comincia un argine fiancheggiato da giovani pioppi che conduce in linea retta fino alle prime case del paese. Queste ultime sono circondate da siepi, in mezzo a cortili in cui sorgono varie costruzioni, frantoi, rimesse o distillerie, disseminate sotto alberi fronzuti, ai cui rami sono appesi attrezzi vari, quali scale, pertiche o falci. I tetti di paglia, simili a berretti di pelo calcati sugli occhi, scendono, fino a coprire circa un terzo delle basse finestre, i cui grossi vetri convessi sono guarniti da un nodo al centro come quello dei fondi di bottiglia. Contro i muri di gesso, attraversati in diagonale da travicelli neri, cercano sostegno, talvolta, stenti alberelli di pero e le porte al pianterreno sono munite di un cancelletto girevole utile per tener fuori i pulcini che vengono a beccare le briciole di pane ben imbevute di sidro. A mano a mano che si procede, i cortili si fanno più stretti, le case più vicine le une alle altre, le siepi scompaiono; un fascio di felci dondola sotto una finestra, appeso in cima a un manico di scopa; qui c’è la fucina di un maniscalco, più avanti la bottega di un carradore e dinanzi a essa due o tre carretti nuovi ingombrano la strada. (G. Flaubert, Madame Bovary, trad. di Bruno Oddera, Fabbri, Milano 1968)
4. Raccontare una storia: i tempi e i luoghi
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A COLPO D’OCCHIO
Raccontare una storia: la voce e lo sguardo
Mappa interattiva
Per raccontare una storia si deve scegliere Un punto di vista da cui osservare i fatti
Una voce che li racconta In ogni storia c’è Un autore che ha (materialmente) scritto la storia, ed è una persona realmente esistita
Un narratore che racconta la storia
Il narratore può essere esterno alla storia (eterodiegetico)
interno alla storia (omodiegetico) protagonista
palese
testimone
nascosto (“opera che si è fatta da sé”)
Ci possono essere piu’ voci che narrano una storia narratori di 1° grado di 2° grado di 3° grado
Ogni storia è raccontata da un punto di vista (focalizzazione) La focalizzazione può essere interna chi racconta ne sa quanto i personaggi
zero chi racconta osserva la storia dall’esterno, e sa tutto: è un narratore onniscente
esterna chi racconta la storia la vede dall’esterno, e ne sa meno dei personaggi
In una stessa storia il punto di vista può rimanere sempre lo stesso (fisso) o cambiare (variabile).
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come funzionano i testi
1. Indica la risposta corretta. 1. La distanza narrativa è: A il tempo che intercorre tra l’epoca in cui si collocano i fatti e l’epoca in cui essi vengono narrati; b il tempo che intercorre tra l’epoca in cui sono raccontati i fatti e la vita dell’autore; c la distanza dalla verosimiglianza degli spazi descritti. 2. Nelle descrizioni gli scrittori: A fanno ricorso solo alle sensazioni visive e uditive; b possono rappresentare le immagini facendo leva su tutti i sensi; c preferiscono l’uso di tempi momentanei e conclusi. 2. Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false: a) Maggiore è il numero di pagine di un V F romanzo e maggiore è la durata della storia. b) Gli spazi fantastici sono sempre descritti V F in modo indefinito. c) Caratteristiche di una descrizione sono marche temporali, indicatori spaziali, l’uso V F di tempi durativi, ricchezza di aggettivi.
(O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, traduzione di B. Bini, Feltrinelli, Milano 1995)
3. Definisci in forma appropriata il seguente lessico di base. Durata:
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Epoca:
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Descrizione connotativa:
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Descrizione denotativa:
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4. Completa i seguenti periodi. Per una narrazione in presa diretta gli scrittori usano i tempi:
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Nelle fiabe i tempi utilizzati sono:
ESERCITA LE COMPETENZE 5. Leggi i seguenti testi e caratterizzane la descrizione: è più denotativa o connotativa? Sono presenti marche temporali e spaziali? Quali aggettivi rendono efficacemente lo spazio? Quali tratti del personaggio emergono dalla presentazione dello spazio?
Lo studio era colmo di un intenso profumo di rose, e quando la leggera brezza estiva agitava gli alberi
del giardino dalla porta aperta giungeva l’effluvio greve dei lillà o la fragranza più delicata dei cespugli rosa dell’eglantina. […] Sdraiato nell’angolo del divano coperto di gualdrappe persiane, e fumando come suo solito una sigaretta dopo l’altra, Lord Henry Wotton riusciva appena a cogliere il bagliore dei fiori del citiso, dorati e dolci come il miele, i cui tremuli rami sembravano sostenere a stento il peso di quella loro fiammante bellezza; a tratti fantastiche ombre di uccelli in volo guizzavano contro i lunghi drappi di seta ruvida tesi davanti all’ampia finestra con un momentaneo effetto giapponese, ricordandogli quei pittori di Tokyo dai pallidi volti di giada che attraverso un’arte necessariamente immobile tentano di suggerire il senso di velocità e movimento.
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Giunto al borgo, domandò dell’abitazione del dottore; gli fu indicata, e v’andò. All’entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d’un signore e d’un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva: – date qui, e andate innanzi –. Renzo fece un grande inchino: il dottore l’accolse umanamente, con un – venite, figliuolo, – e lo fece entrar con sé nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all’intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s’alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’accartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt’anni addietro, per perorare, ne’ giorni d’apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d’importanza. (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. III)
4. Raccontare una storia: i tempi e i luoghi
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ESERCIZI
VERIFICA LE CONOSCENZE
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Il verso: sillabe, accenti e pause
Glenn Gould a 22 anni negli studi della Columbia Records, mentre suona le Variazioni Goldberg (1955).
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come funzionano le poesie
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lenn Gould è stato uno dei più grandi pianisti del XX secolo, e certamente il più grande interprete di Johann Sebastian Bach, il compositore e organista tedesco del XVIII secolo. Basti pensare che, quando nel 1977 gli Stati Uniti inviarono nello spazio le sonde Voyager 1 e Voyager 2, per far conoscere qualcosa della Terra e della storia dell’umanità a potenziali altre forme di vita, vi inserirono un disco di rame placcato d’oro, il Voyager Golden Record, che porta incisi, oltre a immagini e video, suoni della Terra (dai tuoni al canto degli uccelli e delle balene), le lingue dell’uomo e una selezione di brani musicali, tra i quali anche una registrazione del Preludio e Fuga n. 1 in DO maggiore dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach suonato da Glenn Gould. La genialità e l’eccezionalità di Glenn Gould sono diventate anche la materia del romanzo Il soccombente di Thomas Bernhard, nel quale l’autore ammette di aver smesso di studiare il pianoforte, e di aver poi lasciato la scuola musicale Mozarteum di Salisburgo, dopo aver ascoltato Glenn Gould suonare proprio Bach. A parte il fatto di avere, come Mozart, l’orecchio assoluto (riconosceva l’altezza di una nota senza altri strumenti), Glenn Gould suonava seduto unicamente sulla sedia pieghevole, con gambe regolabili, che suo padre gli aveva fatto costruire, perché con questa poteva stare molto basso rispetto alla tastiera, col viso molto vicino ai tasti e, soprattutto, con il palmo della mano più verticale e le dita più libere nei movimenti. Formidabile, per la critica e il pubblico, era la pulizia del suo tocco, con cui riusciva a suonare le note ben distinte, anche se i tempi di un brano erano molto veloci. Inoltre, spesso accompagnava la melodia canticchiando: era un atto involontario che non solo rendeva più umano il pianoforte, ma consentiva anche al pianista di produrre particolari effetti sonori. A 22 anni, nel 1955, Glenn Gould debutta con il suo primo album. Si tratta delle Variazioni Goldberg (BWV 988, sigla che sta per Bach Werke Verzeichnis, “Catalogo delle opere di Bach”), l’opera per clavicembalo che Bach scrisse negli anni ’40 del Settecento. Consiste in un’aria iniziale, 30 variazioni molto tecniche, e un’aria di chiusura identica alla prima aria. Si racconta che l’opera fu dedicata da Bach all’allievo Johann Gottlieb Theophilus Goldberg, che le avrebbe eseguite di notte per alleviare l’insonnia del conte Hermann Carl von Keyserlingk. È bene sapere che, prima di Gould, nel Novecento, quasi nessuno aveva eseguito quest’opera, neppure i clavicembalisti, per i quali era stata scritta. Le Variazioni Goldberg interpretate da Gould negli studi della Columbia Records superarono tutti i record di vendita di un’opera di musica per solo strumento, e non solo: il disco ebbe un tale successo da lasciare al secondo posto nelle classifiche 1. Il verso: sillabe, accenti e pause
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di vendita addirittura Louis Armstrong. Ascoltando la registrazione, si percepisce immediatamente una tecnica di esecuzione prodigiosa: Gould suona le note staccate (cioè non legate), facendole percepire bene separate, anche in passaggi molto virtuosistici. È un’esecuzione spedita ed energica, che trasmette tutta la giovinezza dell’esecutore e la sua voglia di entusiasmare anche con suoni accesi e spiccate variazioni di durata. Tempo di esecuzione: 38 minuti e qualche secondo. Prima aria: 1 minuto e 53 secondi. Su questa sola partitura Gould è tornato più volte nel corso della sua vita, fino al 1981, l’anno prima di morire, quando si ripresentò negli stessi studi della Columbia Records per reinciderle. Alla fine, questa volta, il cronometro segnò poco più di 51 minuti: 13 minuti in più della prima volta. E per la prima aria: 3 minuti e 5 secondi. Si tratta dello stesso testo e dello stesso compositore (Bach), ma le due interpretazioni, al di là di qualche scelta architettonica differente, raccontano due forme di intensità e di ispirazione differenti, due modi diversi di mettersi in sintonia con i tempi, le note e le loro durate, le pause e le legature. Nell’esecuzione del 1981, Gould dà una visione nuova dell’opera, la ricrea e, in qualche modo, quindi, la compone: i tempi si dilatano e si fanno più distesi, c’è più silenzio tra i battiti musicali, il suono appare più legato, come se il metronomo scandisse più lentamente l’arco temporale di esecuzione. Si percepisce una lentezza che Gould ha conosciuto solo negli ultimi anni della sua vita. Di questo è fatta la musica, in particolare la musica strumentale senza canto: di tempi, di notazioni musicali, che ordinano la durata e la frequenza dei suoni, di suoni e di assenza di suoni, di accenti, di staccati e di legature, in una sequenza ordinata, ma variabile nell’interpretazione, anche solo per istanti che fatichiamo a cogliere. Di tutto questo è costituita anche la poesia, che fin dalle origini è stata intrecciata alla musica. Si potrebbe considerare il testo poetico come una sorta di spartito musicale in cui al posto delle note e del pentagramma troviamo versi costituiti da sillabe, pause alla fine e all’interno del verso, fusioni o separazioni tra i suoni, accenti forti e accenti deboli, che rappresentano le pulsazioni, i battiti musicali. Sono tutti elementi che si susseguono nel tempo e determinano il ritmo, lo scheletro sonoro di un testo. Ed è proprio per questi aspetti che, la poesia si discosta dalla prosa.
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Le sillabe La sillaba corrisponde, empiricamente, a un suono o a un gruppo di suoni articolati attraverso un’unica emissione di fiato: mez-zo (due sillabe), cam-mi-no (tre sillabe), vi-ta (due sillabe). Si chiama sillaba tonica quella su cui cade l’accento: mézzo, cammíno, víta. Le sillabe non accentate sono dette atone. In base alla posizione dell’accento, possiamo suddividere le parole italiane in quattro categorie: ––una parola si dice parole piana quando è accentata sulla penultima sillaba. La maggior parte delle parole italiane è piana: bèllo, brùtto, amóre, chitàrra, pulìto...
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come funzionano le poesie
––è tronca quando è accentata sull’ultima sillaba. Per esempio: andò, finì, può, verità, giurì... ––si dice sdrucciola quando è accentata sulla terzultima sillaba. Per esempio: ànima, sòlido, ùtile, cànapa... ––è bisdrucciola quando è accentata sulla quartultima sillaba. Per esempio: dóndolano, àbitano, véndimelo… Il concetto di sillaba tonica è importante perché in base alla posizione dell’accento nell’ultima parola del verso possiamo avere: ––un verso tronco, se l’accento si trova sull’ultima sillaba; ––un verso piano, se l’accento cade sulla penultima sillaba; ––un verso sdrucciolo con accento sulla terz’ultima sillaba. Consideriamo, ad esempio, questi versi dell’Adelchi, una tragedia di Alessandro Manzoni (atto IV, coro): Spar / sa / le / trec / ce / mór / bi / de 1
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sul / l’af / fan / no / so / pèt / to 1
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San / ta / del / suo / pa / tìr 1
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verso tronco
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Il primo verso è sdrucciolo, il secondo è piano e il terzo è tronco. Se contiamo le sillabe grammaticali di ciascun verso, notiamo che il primo ne ha 8, il secondo 7 e il terzo 6. Tutti questi versi, però, sono considerati settenari (cioè versi di sette sillabe). Perché? Per capirlo, e più in generale per identificare correttamente i versi di una poesia, bisogna avere ben presenti alcune regole fondamentali della metrica italiana che riguardano la posizione dell’ultimo accento e il numero delle sillabe.
La posizione dell’ultimo accento Poiché l’accentazione di parola tipica della nostra lingua è quella piana, è sulla base di essa che si stabiliscono la misura e il nome del verso, secondo queste norme. 1. Se il verso è piano (ossia se l’accento cade sulla penultima sillaba), il computo delle sillabe è regolare. Il verso 68 del Cinque maggio di Manzoni, che termina con una parola piana, ha sette sillabe: è quindi, un settenario piano. Del / le / me /mo / rie / scé / se! 1
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2. Se il verso è tronco (cioè se l’accento si trova sull’ultima sillaba), bisogna conteggiare una sillaba in più rispetto a quelle effettivamente presenti. Nel Cinque maggio il verso 72, che termina con una parola tronca, ha sei sillabe: è un settenario tronco. Cad / de / la / stan /ca / màn! 1
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Leonardo Sciascia • Il lungo viaggio
testo guidato
Leonardo Sciascia
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Il lungo viaggio
Leonardo Sciascia (Racalmuto, Agrigento, 1921 – Palermo, 1989) Nel 1981, rispondendo a una sollecitazione del giornalista e scrittore Davide Lajolo, Leonardo Sciascia delineò così il compito dello scrittore: «Fare bene il proprio lavoro. Essere se stessi. Non accettare verità rivelate o fabbricate. Non vedo altra condotta, per me, e altra speranza». In queste parole c’è tutta la sua opera e la sua strenua fiducia nella ricerca e nella ragione: infatti, da questo punto di osservazione scomodo e spesso anche criticato, Sciascia ha analizzato e denunciato i mali della società italiana del Secondo Novecento, dalla mafia alla corruzione politica, dalle ingiustizie sociali alle perversioni del potere. «Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono», aveva già scritto nella prefazione a Le parrocchie di Regalpetra (1956), la sua prima opera, che mette al centro
le drammatiche condizioni delle classi povere, in particolare la vita di chi lavorava nell’estrazione di sale e zolfo. Qualche anno dopo, scrisse il suo romanzo più celebre sulla mafia, Il giorno della civetta, in anni in cui l’esistenza di questo fenomeno criminale veniva sconfessata dalle istituzioni stesse: l’opera racconta l’indagine sull’uccisione del presidente di una piccola cooperativa edilizia. La sua passione civile lo porterà anche all’impegno politico attivo: eletto nel 1979 al Parlamento italiano, partecipò ai lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978. Di questo fatto si era già occupato nel pamphlet L’affaire Moro, denunciando senza mezzi termini le responsabilità della politica per l’uccisione dello statista della Democrazia cristiana.
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l titolo della raccolta a cui appartiene questo racconto è Il mare colore del vino: allude al mare della Sicilia, intenso nel suo colore, ma anche pieno di pericoli. È in questo scenario che sono ambientate le tredici storie, scritte tra il 1959 e il 1972, su temi di varia natura: la mafia, le macchinazioni politiche, le responsabilità del potere, l’emigrazione. A quest’ultimo è dedicato Il lungo viaggio. La situazione è questa: è notte fonda e alcuni contadini si trovano sulla spiaggia tra Gela e Licata. Condividono tutti un sogno, andare in America, e aspettano il signor Melfa, che ha promesso di portarli là clandestinamente. Non sanno ancora, però, quello che li aspetta veramente, perché dopo undici giorni di mare, di notti “soffocanti” passate sottocoperta, scoprono che è tutta una truffa.
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Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata1 che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi. Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata: vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare, aggrumati nell’arida plaga del feudo. Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un’altra deserta spiaggia dell’America, pure di notte. Perché i patti erano 1. cagliata: densa, coagulata come il latte cagliato, rappreso.
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come funzionano i testi
Il suono del mare è respiro di quella belva che era il mondo. Qui l’autore ricorre al linguaggio figurato. Si tratta di una doppia metafora (la sostituzione di un termine con un altro termine che ha con il primo un rapporto di somiglianza): il rumore del mare fa paura e così diventa un «respiro », fatto da una « belva », quale è il mondo con la sua ferocia.
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2. Trenton: città del New Jersey. 3. scapolari: pezzi di stoffa, legati da nastri, portati al petto e sulle spalle da alcuni ordini monastici.
Nella storia le espressioni colloquiali e dialettali dei personaggi si combinano con il linguaggio letterario e colto della voce narrante. Quest’ultima parla un italiano medio, che però può assumere anche una patina desueta e libresca: nell’espressione «aggrumati nell’arida plaga del feudo» aggrumati vuol dire raccolti, ammassati; la plaga è una distesa, il feudo indica un vasto appezzamento di proprietà padronale. Queste parole non servono a innalzare il registro del discorso, ma a far capire quantro arretrato sia il mondo descritto. L’uomo che ha promesso il viaggio, invece, adotta una parlata dialettale. Anzitutto, deforma i nomi delle città americane: Nugioirsi sta per New Jersey, come anche Nuovaiorche per New York. Poi, usa espressioni colloquiali: «non vi fa niente» Il narratore adotta il punto di vista e il linguaggio dei contadini siciliani. Parla per proverbi («chi ha lingua passa il mare» significa che chi è in grado di parlare può oltrepassare il mare, può giungere ovunque). Storpia, poi, due parole inglesi: stores (grandi negozi, magazzini) e farms (fattorie). Coordinazione per asindeto: le parole sono semplicemente giustapposte, senza congiunzioni e senza vigole.
4. terragna: piccola casa a un piano a livello della terra. 5. canterano: mobile a cassettoni per la biancheria. 6. coltri: coperte.
4. Raccontare una storia: i tempi e i luoghi
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TESTO GUIDATO
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questi – Io di notte vi imbarco – aveva detto l’uomo: una specie di commesso viaggiatore per la parlantina, ma serio e onesto nel volto – e di notte vi sbarco: sulla spiaggia del Nugioirsi, vi sbarco; a due passi da Nuovaiorche... E chi ha parenti in America, può scrivergli che aspettino alla stazione di Trenton2, dodici giorni dopo l’imbarco... Fatevi il conto da voi... Certo, il giorno preciso non posso assicurarvelo: mettiamo che c’è mare grosso, mettiamo che la guardia costiera stia a vigilare... Un giorno più o un giorno meno, non vi fa niente: l’importante è sbarcare in America. L’importante era davvero sbarcare in America: come e quando non aveva poi importanza. Se ai loro parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi che riuscivano a tracciare sulle buste, sarebbero arrivati anche loro; «chi ha lingua passa il mare», giustamente diceva il proverbio. E avrebbero passato il mare, quel grande mare oscuro; e sarebbero approdati agli stori e alle farme dell’America, all’affetto dei loro fratelli zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case, alle automobili grandi come case. Duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all’arrivo. Le tenevano, a modo di scapolari3, tra la pelle e la camicia. Avevano venduto tutto quello che avevano da vendere, per racimolarle: la casa terragna4 il mulo l’asino le provviste dell’annata il canterano5 le coltri6. I più furbi avevano fatto ricorso agli usurai, con la segreta intenzione di fregarli; una volta almeno, dopo anni che ne subivano angaria7: e ne avevano soddisfazione, al pensiero della faccia che avrebbero fatta nell’apprendere la notizia. «Vieni a cercarmi in America, sanguisuga: magari ti ridò i tuoi soldi, ma senza interesse, se ti riesce di trovarmi». Il sogno dell’America traboccava di dollari: non più, il denaro, custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la camicia e la pelle, ma cacciato con noncuranza nelle tasche dei pantaloni, tirato fuori a manciate: come avevano visto fare ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o trent’anni tornavano, ma per una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva bel contrasto coi capelli candidi. Erano già le undici. Uno di loro accese la lampadina tascabile: il segnale che potevano venire a prenderli per
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nessuno se la sentiva di dividersi dagli altri. E Trenton chi sa quant’era lontana, chi sa quanto ci voleva per arrivarci. Sentirono, lontano e irreale, un canto. «Sembra un carrettiere nostro», pensarono: e che il mondo è ovunque lo stesso, ovunque l’uomo spreme12 in canto la stessa malinconia, la stessa pena. Ma erano in America, le città che baluginavano dietro l’orizzonte di sabbia e d’alberi erano città dell’America. Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono in direzione della luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: «asfaltata, ben tenuta: qui è diverso che da noi», ma per la verità se l’aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la seguivano camminando tra gli alberi. Passò un’automobile: «pare una seicento»; e poi un’altra che pareva una millecento13, e un’altra ancora: «le nostre macchine loro le tengono per capriccio, le comprano ai ragazzi come da noi le biciclette». Poi passarono, assordanti, due motociclette, una dietro l’altra. Era la polizia, non c’era da sbagliare: meno male che si erano tenuti fuori della strada. Ed ecco che finalmente c’erano le frecce14. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si avvicinarono a leggere: Santa Croce Camarina - Scoglitti. – Santa Croce Camarina: non mi è nuovo, questo nome. – Pare anche a me; e nemmeno Scoglitti15 mi è nuovo. – Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a Filadelfìa: ché io ricordo stava in un’altra città, prima di passare a Filadelfìa. – Anche mio fratello: stava in un altro posto, prima di andarsene a Brucchilin... Ma come si chiamasse, proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa Croce Camarina, leggiamo Scoglitti; ma come leggono loro non lo sappiamo, l’americano non si legge come è scritto. – Già, il bello dell’italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi... Ma non è che possiamo passare qui la nottata, bisogna farsi coraggio... Io la prima macchina che passa, la fermo: domanderò solo «Trenton?»... Qui la gente è più educata… Anche a non capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e almeno capiremo da che parte è, questa maledetta Trenton. Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l’automobilista se li vide guizzare davanti, le mani alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una rapina, ché la zona era tra le più calme; credette volessero un passaggio, aprì lo sportello. 14. frecce: cartelli stradali. 15. Santa Croce Camarina … Scoglitti: nomi di cittadine in provincia di Ragusa.
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Notiamo nel dialogo: • La presenza di storpiature: Brucchilin sta per Brooklyn. • Le costruzioni tipiche del parlato, con pleonasmi (aggiunte non necessarie sul piano grammaticale e logico), ripetizioni di parti del discorso, costruzioni delle frasi lontane dalla norma scritta: «Io la prima macchina che passa, la fermo»; «e almeno capiremo da che parte è, questa maledetta Trenton». • Imprecazioni : «Che trenton della madonna».
Shirley Jackson Tutti conoscono Stephen King, l’uomo che ha venduto più di un miliardo di copie dei suoi romanzi, l’autore di capolavori horror come Misery e di It. Ebbene, King considera Shirley Jackson una dei suoi maestri, e pensa che L’incubo di Hill House (1959) sia la più bella storia di fantasmi scritta nel ventesimo secolo. Eppure pochi conoscono questa scrittrice, nata a San Francisco nel 1916 e morta nel 1965 ad appena 48 anni, dopo una vita amareggiata da un matrimonio infelice, da una grande instabilità psicologica (la Jackson soffriva di depressione), e da malanni fisici dovuti all’abuso di alcool, tabacco ed anfetamine. Ma King ha (ovviamente) ragione: la Jackson ha il raro talento di fare paura attraverso la scrittura: se ne accorsero per primi i lettori della rivista «The New Yorker», dove pubblicò il racconto La lotteria nel 1948; e se ne accorgono oggi gli spettatori della serie televisiva Hill House, tratta appunto dal romanzo L’incubo di Hill House (e chi ama i gialli psicologici non perda l’occasione di leggere Lizzie, il romanzo che ha come protagonista una giovane donna dalle personalità multiple).
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Elsa Morante
Il compagno
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PER LA VERIFICA
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romanzi della Jackson sono pieni di fantasmi e altre creature sinistre. La lotteria no: è un racconto che cerca di rappresentare l’orrore che si cela sotto la superficie delle nostre vite ordinarie. La storia è ambientata in un piccolo villaggio americano di trecento abitanti. Qui, il 27 giugno di ogni anno si tiene una lotteria alla quale prendono parte tutti gli abitanti. Il racconto inizia così: «La mattina del 27 giugno era limpida e assolata, con un bel caldo da piena estate; i fiori sbocciavano a profusione e l’erba era di un verde smagliante. La gente del paese cominciò a radunarsi in piazza, tra l’ufficio postale e la banca, verso le dieci. In certe città, dato il gran numero di abitanti, la lotteria durava due giorni e bisognava iniziarla il 26 giugno; ma in questo paese, di sole trecento anime all’incirca, bastavano meno di due ore, sicché si poteva cominciare alle dieci del mattino e finire in tempo perché i paesani fossero a casa per il pranzo di mezzogiorno». C’è qualcosa di più dolce e piacevole di una mattina d’estate in una cittadina di provincia? Solo che a mano a mano che si procede nella lettura si avverte qualcosa che stride, come se una minaccia misteriosa gravasse sulla vita dei felici abitanti di questo villaggio, e come se questa minaccia venisse… proprio dalla lotteria...
Un silenzio improvviso scese sulla folla mentre Mr Summers1 si schiariva la gola e guadava la lista. «Siamo pronti?» disse a voce alta. «Allora, leggerò i nomi – prima i capifamiglia – e gli uomini vengono qui e prendono un biglietto dalla scatola. Tenete in mano il biglietto ripiegato, e non lo guardate finché non l’hanno preso tutti. Chiaro?». I paesani, che quella cosa l’avevano fatta già tante volte, ascoltarono le istruzioni distrattamente; i più tacevano e si umettavano le labbra, senza guardarsi attorno. Poi Mr Summers levò in alto una mano e disse: «Adams». Un uomo si staccò dalla folla e venne avanti. «Salve, Steve» disse Mr Summers, e Mr Adams disse: «Salve, Joe». Si scambiarono un sorriso svogliato, nervoso. Mr Adams mise la mano nella bussola2 nera e tirò fuori un foglietto ripiegato. Tenendolo stretto per un angolo si voltò e tornò in fretta a posto tra la folla, e stette un po’ discosto dalla sua famiglia, senza guardare la mano. 1. Mr Summers: Mr Summers è il direttore della lotteria. 2. bussola: cassetta che contiene i biglietti della lotteria.
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«Allen» disse Mr Summers. «Anderson. Bentham». «Sembra che non ci sia più tempo fra una lotteria e l’altra» disse Mrs Delacroix a Mrs Graves, nelle file in fondo. «L’ultima lotteria sembra di averla fatta solo la settimana scorsa». «Certo che il tempo vola» disse Mrs Graves. «Clark…Delacroix». «Ecco che va il mio uomo» disse Mrs Delacroix. Trattenne il fiato mentre il marito si faceva avanti. «Dunbar» disse Mr Summers, e Mrs Dunbar andò dritta alla bussola; una donna disse: «Su, Janey» e un’altra disse: «Eccola che va». «Tocca a noi» disse Mrs Graves. Guardò Mr Graves girare intorno alla bussola, salutare gravemente Mr Summers e prendere un biglietto. Ormai tra la folla c’erano qua e là uomini che tenevano nelle loro manone i foglietti ripiegati, rigirandoli nervosamente. Mrs Dunbar e i due figli stavano insieme; Mrs Dunbar stringeva il foglietto. «Harburt… Hutchinson». «Metticela tutta, Bill» disse Mrs Hutchinson, e quelli vicino a lei risero. «Jones». «Ho saputo» disse Mr Adams al Vecchio Warner accanto a lui «che nel villaggio su a nord parlano di lasciar perdere la lotteria». Il Vecchio Warner sbuffò. «Pazzi scatenati» disse. «Se stai a sentire i giovani, non gli va bene niente. Manca poco che vorranno tornare a vivere nelle caverne, nessuno più che lavora, e prova a vivere così per un po’. Una volta c’era un detto, “Lotteria di giugno, spighe grosse in pugno”. In men che non si dica mangeremo tutti erba bollita e ghiande. Una lotteria c’è stata sempre» soggiunse stizzito. «Va già male vedere il giovane Joe Summers che sta lì a scherzare con tutti». «In certi posti le lotterie hanno smesso di farle» disse Mrs Adams. «Ne avranno solo guai» disse risolutamente il Vecchio Warner. «Un branco di giovani scemi». «Martin». E Bobby Martin guardò suo padre farsi avanti. «Overdyke… Percy». «Quanto ci vuole?» disse Mrs Dunbar al figlio maggiore. «Vorrei che si sbrigassero». «Hanno quasi finito» disse il figlio. «Stai pronto a correre da papà a informarlo» disse Mrs Dunbar. Mr Summers chiamò il proprio nome, fece un preciso passo avanti ed estrasse un biglietto dalla bussola. Poi chiamò: «Warner». «Settantasette anni che faccio la lotteria» disse il vecchio Warner passando tra la folla. «Settantasette volte». «Watson». Il ragazzo alto attraversò imbarazzato la folla. Qualcuno disse: «Non essere nervoso, Jack», e Mr Summers disse: «Fai con calma, figliolo». «Zanini». Dopo ci fu una lunga pausa, una pausa col fiato sospeso, finché Mr Summers, levando in alto il suo biglietto, disse: «Va bene, gente». Per un momento nessuno si mosse, poi i biglietti furono aperti. Subito le donne si misero a parlare tutte insieme, dicendo: «Chi è?», «Chi l’ha avuto?», «Sono i Dunbar?», «Sono i Watson?». Poi le voci cominciarono a dire: «Sono gli Hutchinson. È Bill… l’ha avuto Bill». come funzionano i testi
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I paesani avevano dimenticato il rituale e perduto la cassetta nera originaria, ma ricordavano ancora l’uso dei sassi. Il mucchio che i ragazzi avevano fatto in precedenza era pronto; c’erano sassi per terra insieme ai pezzetti di carta svolazzanti usciti dalla bussola. Mrs Delacroix scelse un sasso così grosso che dovette raccoglierlo con entrambe le mani e si volse a Mrs Dunbar. «Vieni, su» disse. «Spicciati». Mrs Dunbar aveva dei sassetti nelle due mani, e disse, ansante: «Io non posso correre. Tu va’ avanti e ti raggiungo». I bambini si erano già muniti di sassi, e qualcuno diede dei sassolini al piccolo Dave Hutchinson. Tessie Hutchinson adesso era al centro di uno spazio sgombro, e tese le braccia disperatamente mentre i paesani la circondavano. «Non è giusto» disse. Un sasso la colpì sul lato della testa. Il vecchio Warner diceva: «Su, su, tutti quanti». Steve Adams era davanti alla folla dei paesani con accanto Mrs Graves. «Non vale, non è giusto» urlò Mrs Hutchinson, e poi le furono addosso. (Shirley Jackson, La lotteria, traduzione dall’inglese di Franco Salvatorelli, Adelphi, Milano 2007)
COMPRENDERE 1. Perché il narratore chiama il suo compagno di classe Arcangelo? 2. Perché i compagni di Arcangelo pensano che la sua famiglia sia benestante? 3. Perché i compagni di Arcangelo provano un sentimento di vendetta nei suoi confronti quando il giovane lascia la scuola? 4. Perché il narratore sembra pentirsi della frase che rivolge ad Arcangelo quando lo incontra in una bottega? RIFLETTERE SULLA LINGUA 5. Prova a spiegare con una breve perifrasi le seguenti espressioni tratte dal racconto che hai letto: • intelligenza limpida e felice: • indole poetica: • umile sollecitudine: • spavento furtivo:
ANALIZZARE 6. Il narratore e Arcangelo sono due personaggi statici o dinamici? Motiva la tua risposta. 7. Completa la seguente tabella: narratore
Arcangelo
caratterizzazione fisica caratterizzazione psicologica caratterizzazione socio-culturale caratterizzazione ideologica
SCRIVERE 8. Il racconto della Morante descrive sentimenti di varia natura: orgoglio, disprezzo, vergogna, vendetta. Ti è già capitato di provare questi sentimenti? Per ognuno di essi, descrivi brevemente la circostanza che lo ha suscitato.
• dolore impietrito e senza scampo:
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Shirley Jackson • La lotteria
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Shirley Jackson
La lotteria Shirley Jackson Tutti conoscono Stephen King, l’uomo che ha venduto più di un miliardo di copie dei suoi romanzi, l’autore di capolavori horror come Misery e di It. Ebbene, King considera Shirley Jackson una dei suoi maestri, e pensa che L’incubo di Hill House (1959) sia la più bella storia di fantasmi scritta nel ventesimo secolo. Eppure pochi conoscono questa scrittrice, nata a San Francisco nel 1916 e morta nel 1965 ad appena 48 anni, dopo una vita amareggiata da un matrimonio infelice, da una grande instabilità psicologica (la Jackson soffriva di depressione),
e da malanni fisici dovuti all’abuso di alcool, tabacco ed anfetamine. Ma King ha (ovviamente) ragione: la Jackson ha il raro talento di fare paura attraverso la scrittura: se ne accorsero per primi i lettori della rivista «The New Yorker», dove pubblicò il racconto La lotteria nel 1948; e se ne accorgono oggi gli spettatori della serie televisiva Hill House, tratta appunto dal romanzo L’incubo di Hill House (e chi ama i gialli psicologici non perda l’occasione di leggere Lizzie, il romanzo che ha come protagonista una giovane donna dalle personalità multiple).
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In certe città, dato il gran numero di abitanti, la lotteria durava due giorni e bisognava iniziarla il 26 giugno; ma in questo paese, di sole trecento anime all’incirca, bastavano meno di due ore, sicché si poteva cominciare alle dieci del mattino e finire in tempo perché i paesani fossero a casa per il pranzo di mezzogiorno». C’è qualcosa di più dolce e piacevole di una mattina d’estate in una cittadina di provincia? Solo che a mano a mano che si procede nella lettura si avverte qualcosa che stride, come se una minaccia misteriosa gravasse sulla vita dei felici abitanti di questo villaggio, e come se questa minaccia venisse
romanzi della Jackson sono pieni di fantasmi e altre creature sinistre. La lotteria no: è un racconto che cerca di rappresentare l’orrore che si cela sotto la superficie delle nostre vite ordinarie. La storia è ambientata in un piccolo villaggio americano di trecento abitanti. Qui, il 27 giugno di ogni anno si tiene una lotteria alla quale prendono parte tutti gli abitanti. Il racconto inizia così: «La mattina del 27 giugno era limpida e assolata, con un bel caldo da piena estate; i fiori sbocciavano a profusione e l’erba era di un verde smagliante. La gente del paese cominciò a radunarsi in piazza, tra l’ufficio postale e la banca, verso le dieci.
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Un silenzio improvviso scese sulla folla mentre Mr Summers1 si schiariva la gola e guadava la lista. «Siamo pronti?» disse a voce alta. «Allora, leggerò i nomi – prima i capifamiglia – e gli uomini vengono qui e prendono un biglietto dalla scatola. Tenete in mano il biglietto ripiegato, e non lo guardate finché non l’hanno preso tutti. Chiaro?». I paesani, che quella cosa l’avevano fatta già tante volte, ascoltarono le istruzioni distrattamente; i più tacevano e si umettavano le labbra, senza guardarsi attorno. Poi Mr Summers levò in alto una mano e disse: «Adams». Un uomo si staccò dalla folla e venne avanti. «Salve, Steve» disse Mr Summers, e Mr Adams disse: «Salve, Joe». Si scambiarono un sorriso svogliato, nervoso. Mr Adams mise la mano nella bussola2 nera e tirò fuori un foglietto ripiegato. Tenendolo stretto per un angolo si voltò e tornò in fretta a posto tra la folla, e stette un po’ discosto dalla sua famiglia, senza guardare la mano. 1. Mr Summers: Mr Summers è il direttore della lotteria.
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«Va’ a dirlo a tuo padre» disse Mrs Dunbar al figlio maggiore. La gente guardò attorno in cerca degli Hutchinson. Bill Hutchinson stava fermo, fissando il foglietto che aveva in mano. A un tratto Tessie Hutchinson gridò a Mr Summers: «Non gli hai dato il tempo di scegliere come voleva. Ti ho visto. Non è valido!». «Stai al gioco, Tessie» esortò Mrs Delacroix, e Mrs Graves disse: «C’era lo stesso rischio per tutti». «Zitta, Tessie» disse Bill Hutchinson. «Allora, sentite,» disse Mr Summers «sin qui siamo andati abbastanza svelti, e adesso dobbiamo sbrigarci un altro po’ per finire in tempo». Consultò la lista successiva. «Bill,» disse «tu tiri per gli Hutchinson. Ci sono altri nuclei familiari negli Hutchinson?». «Ci sono Don e Eva» strillò Mrs Hutchinson. «Fagli prendere la loro parte di rischio!». «Le figlie tirano a sorte con la famiglia del marito, Tessie» disse Mr Summers gentilmente. «Lo sai bene come chiunque altro». «Non è valido» ripeté Tessie. «Mi pare di no, Joe» disse Bill Hutchinson con rammarico. «Mia figlia tira con la famiglia di suo marito, è tutto in regola. E io ho solo i bambini, come famiglia». «Allora, per quanto riguarda il sorteggio per famiglie sei tu,» disse Mr Summers, spiegando «e per quanto riguarda il sorteggio per nuclei familiari sei sempre tu, giusto?». «Giusto» disse Bill Hutchinson. «Quanti bambini, Bill?» chiese Mr Summers, per formalità. «Tre» disse Bill Hutchinson. «Bill Jr, Nancy e il piccolo Dave. E Tessie e io». «Sta bene» disse Mr Summers. «Harry, hai ripreso i loro biglietti?». Mr Graves annuì e mostrò i pezzetti di carta. «Mettili nella cassetta, allora» ordinò Mr Summers. «Prendi quello di Bill e mettilo dentro». «Io penso che dovremmo ricominciare daccapo» disse Mrs Hutchinson, più calma che poté. «Ti dico che non è valido. Non gli hai dato il tempo di scegliere. L’hanno visto tutti». Mr Graves mise i cinque foglietti nella bussola, e tutti gli altri foglietti li lasciò cadere a terra, dove il vento li prese e li sollevò, trascinandoli. «Ascoltate, tutti quanti» diceva Mrs Hutchinson alla gente intorno. «Sei pronto, Bill?» chiese Mr Summers, e Bill Hutchinson, dato un rapido sguardo alla moglie e ai bambini, annuì. «Ricordatevi,» disse Mr Summers «prendete i biglietti e teneteli piegati finché ognuno ha preso il suo. Harry, tu aiuta il piccolo Dave». Mr Graves prese la mano del bambinetto, che andò volentieri con lui alla bussola. «Prendi un biglietto, Davy» disse Mr Summers. Davy infilò la mano nella cassetta e rise. «Prendine solo uno» disse Mr Summers. «Harry, tienilo tu per lui». Mr Graves prese la mano del bambino e gli tolse dal pugno il pezzetto di carta e lo tenne; il piccolo Dave, lì accanto, guardava Mr Graves con curiosità. «Ora Nancy» disse Mr Summers. Nancy aveva dodici anni, e le sue amiche di scuola respirarono con affanno mentre lei avanzava dimenando la gonnella e prendeva con delicatezza un biglietto dalla bussola. «Bill Jr» disse Mr Summers, e Billy, come funzionano i testi
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rosso in faccia e con i piedi troppo grandi, buttò quasi giù la bussola nel tirar fuori un foglietto. «Tessie» disse Mr Summers. Lei esitò un momento, guardando attorno con aria ribelle, poi strinse le labbra e andò alla bussola. Estrasse di furia un biglietto e lo tenne dietro di sé. «Bill» disse Mr Summers, e Bill Hutchinson infilò la mano nella bussola e tastò attorno, ritraendo infine la mano con dentro un foglietto. La folla taceva. Una ragazzina bisbigliò: «Spero che non sia Nancy», e il suono del bisbiglio giunse ai margini della folla. «Non è com’era una volta» disse distintamente il vecchio Warner. «La gente non è com’era una volta». «Bene» disse Mr Summers. «Aprite i biglietti. Harry, tu apri quello del piccolo Dave». Mr Graves aprì il foglietto, e tra la folla ci fu un sospiro generale quando lo mostrò e tutti videro che era bianco. Nancy e Bill Jr aprirono i loro foglietti simultaneamente, ed entrambi risero, raggianti, volgendosi alla folla e tenendo i foglietti alti sopra la testa. «Tessie» disse Mr Summers. Ci fu una pausa, e poi Mr Summers guardò Bill Hutchinson, e Bill spiegò il biglietto e lo mostrò. Era bianco. «È Tessie» disse Mr Summers, e la sua voce era smorzata. «Mostraci il suo biglietto, Bill». Bill Hutchinson si avvicinò alla moglie e le tolse a forza il foglietto dalla mano. Aveva una macchia nera, la macchia che Mr Summers aveva fatto la sera prima con la matita grossa nell’ufficio dell’impresa di carbone. Bill Hutchinson levò in alto il biglietto e ci fu un moto nella folla. «Bene, gente» disse Mr Summers. «Vediamo di terminare alla svelta». I paesani avevano dimenticato il rituale e perduto la cassetta nera originaria, ma ricordavano ancora l’uso dei sassi. Il mucchio che i ragazzi avevano fatto in precedenza era pronto; c’erano sassi per terra insieme ai pezzetti di carta svolazzanti usciti dalla bussola. Mrs Delacroix scelse un sasso così grosso che dovette raccoglierlo con entrambe le mani e si volse a Mrs Dunbar. «Vieni, su» disse. «Spicciati». Mrs Dunbar aveva dei sassetti nelle due mani, e disse, ansante: «Io non posso correre. Tu va’ avanti e ti raggiungo». (Shirley Jackson, La lotteria, traduzione dall’inglese di Franco Salvatorelli, Adelphi, Milano 2007)
COMMENTO
UNA STRANA LOTTERIA Quella che sembrava una lotteria è qualcosa di molto diverso: non vengono estratti dei premi ma si decide chi verrà lapidato. Il finale a sorpresa contrasta con il clima di spensieratezza e di festa delle prime pagine. Nel corso del racconto affiorano alcuni indizi che suscitano qualche perplessità nel lettore, gli fanno capire che sta succedendo qualcosa di strano: gli abitanti del villaggio che silenziosi «si umettavano le labbra, senza guardarsi attorno», il
«sorriso svogliato, nervoso» scambiato tra Mr Summers e Mr Adams, gli uomini che rigirano «nervosamente» nelle loro mani i foglietti ripiegati. Quando Tessie Hutchinson protesta («Non è valido») perché il foglietto con la macchia nera è capitato a suo marito Bill, allora il lettore intuisce che si tratta di una lotteria davvero anomala, nella quale sembra meglio perdere che vincere. La tensione crescente esplode nel finale. Al secondo giro, a vincere la lotteria è proprio Tessie. I suoi concittadini – inclusi suo marito e i figli – la
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Shirley Jackson • La lotteria
sommergono di pietre. Era questo il premio per il vincitore: il vincitore muore, sacrificato. Quando La lotteria è uscito sul «The New Yorker», la reazione dei lettori è stata veemente. Il giornale ha ricevuto migliaia di lettere che definivano il racconto «oltraggioso», «orribile» e anche «completamente inutile», e la sua autrice Jackson «perversa» e «sgradevole in modo gratuito». Molti lettori sono rimasti sconcertati perché pensavano che si trattasse di un fatto realmente accaduto e non di una finzione letteraria, dal momento che i redattori del New Yorker non avevano detto da nessuna parte che si trattava di una storia inventata. UNA NORMALITÀ CHE METTE I BRIVIDI La voce narrante non esprime alcun giudizio morale sui fatti, anzi racconta tutto come se si trattasse di una cosa normale. Ed è precisamente questa imperturbabilità (che ricorda per esempio quella del narratore della Metamorfosi di Kafka) a mettere i brividi. Il punto di vista della voce narrante coincide con quello degli abitanti del villaggio, che del resto sono descritti come bravi cittadini che osservano diligentemente le loro tradizioni. In particolare, Mr Summers, il direttore della lotteria, è un «uomo gioviale» e «decoroso» che si rivolge sempre in modo gentile ai suoi compaesani.
LEGGERE E COMPRENDERE 1. Elenca tutti gli indizi sparsi nel testo che possono far pensare a una conclusione tragica. Dopo le prime righe, ti saresti mai aspettato un finale del genere? Quando hai capito che il vincitore della lotteria sarebbe stato ucciso? 2. Come giudica il Vecchio Warner coloro che hanno smesso di fare la lotteria? RIFLETTERE SULLA LINGUA 3. Nella Lotteria prevalgono periodi brevi, frasi coordinate, e le figure retoriche sono poche: è lo stile di un resoconto giornalistico, più che di un racconto di finzione. Secondo te, c’è un rapporto tra questo stile semplice e la storia narrata? ANALIZZARE 4. Secondo te, la voce narrante esprime un giudizio personale sulla vicenda? Nelle sue parole riconosci un atteggiamento di condanna morale, di approvazione o di indifferenza? Motiva la tua risposta citando alcune frasi del testo.
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UN SACRIFICIO PER PROPIZIARSI GLI DEI Che cos’è La lotteria? È una specie di riscrittura moderna del rito del sacrificio umano, diffuso presso molte società primitive. L’autrice voleva in effetti mostrare come anche nella società contemporanea, apparentemente più civile e progredita, gli uomini sviluppano delle pulsioni violente, che possono portare non solo ad augurare la morte ai propri concittadini ma ad uccidere. Nel testo è contenuta un’allusione ai riti sacrificali delle società antiche; infatti il proverbio ricordato dal Vecchio Warner, «lotteria di giugno, spighe grosse in pugno», sottintende la credenza, diffusa nell’antichità, che il sacrificio servisse a propiziarsi gli dei per ricevere in cambio un buon raccolto. Alcuni lettori hanno osservato che la Jackson potrebbe aver pensato, scrivendo il suo racconto, ad un fatto realmente accaduto. Infatti dietro il personaggio di Tessie Hutchinson potrebbe celarsi Anne Hutchinson, un’inglese puritana condannata come eretica ed esiliata dal Massachusetts nel 1637. Ma in realtà non occorre pensare ad alcun preciso riferimento storico. La lotteria è un apologo sulla violenza. Tutti siamo capaci di violenza. E la società, che dovrebbe regolare e sopire la nostra tendenza al male, può invece fomentarla, in nome del rispetto delle leggi e delle tradizioni.
5. Dove è ambientata la vicenda? Quale rapporto c’è, secondo te, tra l’ambientazione e la storia? La stessa storia poteva essere ambientata altrove? Motiva la tua risposta. SCRIVERE E RISCRIVERE 6. La lotteria è anche una riflessione su come uomini apparentemente civili e ben educati possono compiere insieme le peggiori efferatezze. Questa storia ti ha fatto pensare a qualche evento storico più o meno recente o a qualche episodio di cronaca? 7. scrittura creativa Riscrivi la storia facendola raccontare da un narratore interno, per esempio uno degli abitanti del villaggio. Per riuscirci devi provare a metterti nei suoi panni. PARLARE 8. verso l’esame Secondo te, è un caso che nel racconto venga lapidata una donna? Discutine coi tuoi compagni cercando di argomentare la tua tesi.
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Franco Fortini
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Lontano lontano Franco Fortini (Firenze, 1917 – Milano, 1994) Franco Lattes, poi Fortini (dal cognome della madre, preso anche per evitare le persecuzioni verso gli ebrei, dal momento che il padre era ebreo), è stato uno dei più importanti intellettuali del Secondo dopoguerra, di chiare posizioni marxiste: collaborò con il giornale del PSI (Partito socialista italiano), l’«Avanti!», e partecipò attivamente ad alcune riviste di area marxista, tra cui il «Politecnico» di Elio Vittorini e (con Pasolini) «Officina».
Di vastissima cultura (una laurea in Filosofia del diritto e una in Storia dell’arte), fu anche insegnante, saggista, critico letterario, traduttore (di Goethe, Kafka, Brecht), autore di testi per musica (scrisse Quella cosa in Lombardia per Enzo Jannacci) e, più di ogni altra cosa, poeta. Sempre più sfiduciato di fronte ai cambiamenti socio-economici e culturali dell’Italia negli anni ’60 e ’70, maturò nel tempo anche l’amara idea che, in definitiva, la poesia non ha alcun potere sulla Storia e sui drammi dell’umanità.
L
ontano, lontano… fa parte della terza sezione della raccolta Composita solvantur (opera edita nel 1994, che riprende l’epigrafe posta sulla lapide della tomba di Francis Bacon, nella cappella del Trinity College di Cambridge), dal titolo Sette canzonette del Golfo. Il termine canzonette rimanda alla metrica tradizionale adottata dal poeta in contrasto con la straordinarietà del contenuto, la guerra, presente nel sostantivo Golfo, che indica il Golfo Persico, il luogo in cui si volse «un’operazione di ‘polizia’» che ««ammazzò centinaia di migliaia di persone, aprendo una nuova èra nelle relazioni internazionali» (così scrisse il poeta). Precisamente, si tratta della prima guerra del Golfo (2 agosto 1990 – 28 febbraio 1991), che vide contrapposti, con dispegamenti di forze sproporzionati tra di loro, l’Iraq di Saddam Hussein e un coalizione di trentacinque stati (compresa l’Italia) comandati dagli Stati uniti.
Lontano lontano si fanno la guerra. Il sangue degli altri si sparge per terra. 4
Io questa mattina mi sono ferito a un gambo di rosa, pungendomi un dito. Succhiando quel dito, pensavo alla guerra. Oh povera gente, che triste è la terra!
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Non posso giovare, non posso parlare, non posso partire per cielo o per mare. E se anche potessi, o genti indifese, ho l’arabo nullo ! Ho scarso l’inglese !
12
Potrei sotto il capo dei corpi riversi posare un mio fitto volume di versi? Non credo. Cessiamo la mesta ironia. Mettiamo una maglia, che il sole va via.
10. Non conosco l’arabo e conosco ben poco l’inglese. Da notare che Fortini fu uno dei più importanti traduttori in versi del Secondo Novecento italiano. 12. Il poeta si riferisce ai corpi rovesciati o distesi col ventre e la faccia in giù di chi è morto in guerra.
(F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori 2014)
4. Raccontare una storia: i tempi e i luoghi
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Neil Gaiman
Neil Gaiman • The Sandman
The Sandman
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Neil Gaiman (1960) È difficile spiegare in una parola “cosa” sia esattamente Neil Gaiman, oltre che un prolifico narratore inglese di storie fantasy, fantascientifiche e dell’orrore: nella sua carriera, infatti, ha fatto un po’ di tutto, iniziando con le sceneggiature per il fumetto, per il cinema, per il teatro e per la televisione e aggiungendo poi romanzi, racconti, fiabe, poesie e saggi. In tutte le sue storie, lo straordinario irrompe nel mondo reale, mostrandone tutti i limiti. La finzione narrativa può mostrarti un mondo diverso. Può portarti dove non sei mai stato. E una volta che hai visitato altri mondi, proprio come coloro che hanno mangiato il cibo delle fate, non potrai essere mai completamente soddisfatto del mondo in cui sei cresciuto. L’insoddisfazione è una bella cosa: le persone insoddisfatte possono modificare e migliorare i loro mondi, renderli migliori, renderli diversi. […] La letteratura di evasione è semplicemente questo: una narrazione che apre la porta della cella, mostra la luce del sole fuori, ti dà un luogo in cui sei in controllo, con persone con cui vuoi essere. I libri sono luoghi reali, vi assicuro! E, cosa ancora più importante, durante la tua evasione, i libri possono darti la conoscenza del mondo e della tua condizione, ti danno armi, ti danno un’armatura: cose reali che puoi portarti di nuovo nella tua prigione. Abilità e conoscenze e strumenti che puoi usare per fuggire davvero. Come J.R.R. Tolkien ci ha ricordato, gli unici a inveire contro l’evasione sono i carcerieri. (Neil Gaiman, discorso per la Reading Agency, in The view from the cheap seats, Morrow, 2016)
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e vicende narrate nei 75 albi di Sandman, poi raccolti in 10 volumi antologici, sono basate sui sette Eterni, personificazioni dei poteri che guidano tutti i reami della realtà. In particolare, sono raccontate le vicende di Sogno, chiamato dagli umani anche Morfeo, il Plasmatore o, appunto, Sandman, e del rapporto che lo lega ai suoi fratelli (in particolare alla sorella Morte). La macro-storia di Sogno è però solo la cornice in cui sono inseriti decine e decine di racconti diversi fra loro per ambientazione, genere, stile di disegno e di scrittura. Il tema di quasi tutti è l’esistenza di innumerevoli mondi, accessibili proprio grazie all’intervento di Sogno, alcuni già raccontati nelle storie degli umani e altri completamente nuovi. Tutte le storie sono in relazione fra loro in un gioco di rimandi, per cui la nostra realtà diventa solo un mondo fra tanti, dai confini molto deboli. Per esempio, nell’episodio Sogno di una notte di mezza estate (matite e inchiostri di Charles Vess, dal volume Le terre del sogno), la prima rappresentazione della commedia omonima di Shakespeare viene eseguita per volontà di Sogno proprio davanti alle creature fatate protagoniste dell’opera, come il Re delle Fate Oberon, la Regina Titania e il folletto Robin Goodfellow (chiamato anche Puck). I personaggi reali e quelli di finzione iniziano così a mischiarsi, al punto che alcune creature fatate prenderanno il posto degli attori per recitare sé stessi, mentre altre cercheranno di rapire un umano per amore, come il loro alter ego sulla scena. L’episodio, di cui qui si propone la prima metà, è considerato uno dei migliori dell’intera serie.
Dai suoi racconti e da romanzi come Buona Apocalisse a tutti! (Good Omens, 1990, scritto a quattro mani con Terry Pratchett), American Gods (2001) e Coraline (2002) sono stati tratti film e serie TV di grande successo, ma l’opera più famosa di Gaiman resta la saga di The Sandman (1989-1996), lunga graphic novel che è diventata una vera pietra miliare del fumetto e del fantasy, nata dalla collaborazione con vari disegnatori anglosassoni.
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L’episodio inizia con un campo lungo, per poi avvicinare un po’ alla volta l’inquadratura fino al particolare del volto di Shakespeare. È una tecnica molto diffusa sia nel cinema sia nella narrazione: pensa al primo capitolo dei Promessi Sposi (“Quel ramo del lago di Como…”). La figura umana sulla collina identifica subito il luogo: si tratta del Long Man di Wilmington, nell’East Sussex, in Inghilterra, una figura misteriosa legata probabilmente ai culti dei popoli celtici. La didascalia precisa perciò soltanto la data: è il 23 giugno del 1593, giorno del solstizio d’estate (Mid Summer Night), proprio come nella commedia che sarà messa in scena.
Usare elementi nelle vignette a fine pagina che “indichino” la direzione per voltare il foglio è un metodo molto usato per coinvolgere il lettore e spingerlo a proseguire. In questo caso, si tratta proprio di un personaggio (Hamnet, il figlio di Shakespeare) che indica il margine della pagina terminata, ma le pagine seguenti hanno molti altri esempi più sottili.
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Neil Gaiman • The Sandman → Appare qui il protagonista della serie, Sogno, che come spesso accade non viene presentato come tale ai personaggi. I disegnatori che hanno lavorato con Gaiman alla serie raffigurano il protagonista con una serie di infinite variazioni: in questo caso, il disegnatore Charles Vess ha optato per un abito cinquecentesco. Viene inoltre marcata molto la differenza fra i suoi baloon (sfondo nero, scritte bianche, bordo irregolare) e quelli di tutti gli altri personaggi.
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Le ultime due vignette sono costruite in modo simile ma antitetico sia nella battuta sia nella struttura, per sottolineare il botta e risposta quasi teatrale tra i due personaggi e insieme la differenza di prospettiva tra la visione limitata di un essere umano, per quanto geniale, e quella di Sogno.
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Si chiarisce qui l’antefatto: Sogno è uno dei protettori di Shakespeare, e gli ha commissionato il Sogno di una notte di mezza estate specificatamente per la rappresentazione di quella sera in quel luogo. Viene anche mostrato meglio l’ambiente in cui si svolgeranno le vicende, un luogo che sembra inadatto a una compagnia abituata ai migliori teatri di Londra.
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COMMENTO
Neil Gaiman • The Sandman
UN GIOCO DI SCATOLE CINESI Quella che hai appena letto è la prima parte dell’episodio. Fino alla fine, gli avvenimenti procederanno in parallelo con il capolavoro di William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate. Già nel testo originale l’opera contiene un’altra commedia con cui finirà per interagire, umani e fate si trovano a intervenire gli uni nella vita degli altri, ci saranno eventi fantastici e magici e alla fine i mortali spiegheranno con un sogno le cose incredibili cui hanno assistito. Gaiman aggiunge un altro piano della narrazione fingendo che la prima rappresentazione della commedia si sia svolta proprio di fronte alle creature fatate che vi compaiono come personaggi. Il gioco “di scatole cinesi” che usano, cioè di replicazione fra contenuto e contenente, è chiamato mise en abyme in letteratura e nelle arti visive. UN PONTE FRA DUE MONDI Come avviene nel low fantasy, il mondo della fantasia coesiste con quello in cui viviamo, e personaggi comuni provenienti dalla nostra realtà si trovano a confrontarsi con creature soprannaturali. Gaiman sceglie di creare un mondo in cui, sotto la guida di Sogno, realtà e finzione si fondono: il nostro mondo sembra obbedire alle scelte di un narratore tanto quanto quello immaginato da Shakespeare. Sogno, che ha organizzato lo spettacolo, fa da ponte fra i mondi: non solo quello delle fate e quello degli uomini, ma anche quello del racconto
e quello della realtà. Tecnicamente, non c’è nulla a garantire che anche la realtà che vive William Shakespeare mentre recita per Titania e Oberon non sia a sua volta il racconto di uno scrittore, o il sogno di un sognatore – e, in effetti, noi lettori sappiamo che lo è, dato che è parte della graphic novel The Sandman, in particolare dell’episodio Sogno di una notte di mezza estate. E se anche noi, a nostra volta, fossimo i personaggi della fantasia di qualcun altro? Questo renderebbe i nostri sentimenti, le nostre gioie, i nostri problemi meno reali? REALE O FANTASTICO? Come vedrai nei prossimi anni, Shakespeare e molti altri autori si sono spesso chiesti nelle loro opere se ci fosse un confine netto fra realtà e immaginazione: molti scrittori e poeti, essendo creatori di storie, tendono a parlare delle loro fantasie in termini quasi più reali che del mondo concreto. In fondo, lo stesso protagonista di The Sandman, Sogno, rappresenta la possibilità di non rimanere bloccati nella realtà ma di fuggire verso mondi lontani. Il fantasy è il genere che più si presta a questo, ma in fondo il discorso vale per ogni opera di invenzione. Sottovalutare la fantasia solo perché è un’evasione, dice Gaiman, vuol dire non capirne il potere. Il punto è: se i mondi fantastici possono darmi emozioni vere, provocare gioia e dolore, insegnarmi qualcosa, farmi conoscere persone straordinarie e rendermi diverso da chi ero, allora sono davvero soltanto dei sogni?
LEGGERE E COMPRENDERE 1. Anche nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare si parla della capacità del letterato di dare forma a cose inesistenti grazie alla sua immaginazione. Nell’ultimo atto, infatti, il duca Teseo paragona l’ispirazione creativa alla follia e all’innamoramento:
Il lunatico, l’innamorato e il poeta sono tutti infarciti di immaginazione: l’uno vede più diavoli che non ne contenga l’inferno: e quello è il lunatico; l’altro, del pari frenetico, vede nel volto d’una egiziana la chiara bellezza di Elena: e quello è l’innamorato. Poi c’è il poeta: l’occhio suo, nello squisito delirio, può contemplare il cielo dalla terra e la terra dal cielo. E mentre la fantasia gli va suggerendo forme di cose sconosciute, la sua penna le ferma; e a quei nulla d’aria dà nome, e sito e dimora. (V, 1) Cosa ne pensi? Davvero i mondi immaginari in cui si rifugia la fantasia non sono poi così lontani dalla realtà? Le cose imparate e vissute in questi “sogni” hanno la stessa importanza delle esperienze fatte nella vita concreta? PARLARE 3. Sei d’accordo con Shakespeare e Gaiman sul fatto che, in fondo, non sia poi così facile distinguere nettamente fra ciò che è reale e ciò che non lo è? Prova a discuterne con i tuoi compagni e con il professore.
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I 400 COLPI Anno: 1959 Regia: François Truffaut Genere: drammatico
Di film con e sui bambini è piena la storia del cinema, e quasi tutti hanno lo stesso difetto: sono girati ad altezza di adulto, quindi portati a guardare l’infanzia dall’alto in basso, con indulgenza o compassione. I 400 colpi (Les Quatre Cents Coups) evita di cadere in questa trappola, grazie al fatto che il film è per molti aspetti un’autobiografia del regista, il francese François Truffaut (19321984), o meglio un’autobiografia del regista da giovane. Truffaut ha avuto un’infanzia tormentata, in parte trascorsa in riformatorio, ed è proprio questa l’esperienza che ispira il film. Egli crea il personaggio di un ragazzino, Antoine Doinel (che è un’evidente proiezione di se stesso bambino), e lo segue attraverso le sue vicissitudini: le liti con i
genitori, le miserie dell’educazione scolastica, i piccoli reati, l’arresto, la detenzione in riformatorio. Tutto questo viene raccontato con grande asciuttezza, resistendo alla tentazione di ricavare dalle disgrazie di Antoine una storia edificante che commuova il pubblico. Antoine non è un bambino “carino e simpatico” come quelli dei film di Hollywood. Al contrario: è taciturno, introverso, ispido. Guarda gli adulti come se fossero marziani, ed è appunto su questa distanza siderale tra il bambino e il mondo circostante che Truffaut imposta il film. Il ritratto di Antoine passa attraverso l’indugio della macchina da presa sul suo volto, sui suoi gesti, spesso insignificanti, quasi che il senso profondo del personaggio stia lì e che l’unica cosa da fare, per afferrare l’anima di Antoine, sia non ascoltarlo bensì, semplicemente, “guardarlo”. Come disse a suo tempo lo stesso Truffaut, nel film «tutto era depurato, ogni gesto era il solo possibile». Da questa grande attenzione per i gesti e gli sguardi di Antoine trapela una forma di rispetto per l’infanzia e le sue ferite nella quale non c’è ombra di paternalismo, nessun atteggiamento pedagogico, nessuna volontà di insegnare o di correggere.
Il film segna inoltre, alle soglie degli anni Sessanta del Novecento, un modo nuovo di concepire il cinema da parte di Truffaut, incline a raccontare storie che lo coinvolgono in prima persona, spesso fortemente autobiografiche, nella convinzione che è opportuno parlare soprattutto di ciò che si conosce direttamente. In seguito, Truffaut si dimostrerà un regista eclettico, capace di allontanarsi dalla sfera del racconto personale realizzando film molto suggestivi sul mondo del cinema (Effetto notte), oppure portando sullo schermo un classico della fantascienza moderna (Fahrenheit 451, dall’omonimo romanzo dello scrittore americano Ray Bradbury) e un paio di romanzi del grande scrittore poliziesco Cornell Woolrich (La sposa in nero, La mia droga si chiama Julie). Truffaut non si dimenticherà però del suo alter ego, tant’è vero che ad Antoine Doinel dedicherà altri quattro film, seguendone gradualmente il passaggio dall’infanzia alla maturità. Ma nessuno di questi riuscirà a cogliere con la stessa efficacia di I 400 colpi le turbolenze emotive del protagonista, nessuno sarà all’altezza di questo assoluto capolavoro.
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Robot ◆
La parola robot viene dalla lingua ceca, dal verbo robota, «lavorare»: i robotnik erano i lavoratori impiegati nei lavori pesanti, alle dipendenze degli aristocratici. Oggi robotnik in ceco significa genericamente «lavoratore». La parola robot fu utilizzata per la prima volta dallo scrittore ceco Karel Čapek, nel 1920, nel suo romanzo RUR, Rossum universal robots, («I lavoratori tuttofare di Rossum»).
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Robot ◆
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Robot ◆
La parola robot viene dalla lingua ceca, dal verbo robota, «lavorare»: i robotnik erano i lavoratori impiegati nei lavori pesanti, alle dipendenze degli aristocratici. Oggi robotnik in ceco significa genericamente «lavoratore». La parola robot fu utilizzata per la prima volta dallo scrittore ceco Karel Čapek, nel 1920, nel suo romanzo RUR, Rossum universal robots, («I lavoratori tuttofare di Rossum»).
La parola robot viene dalla lingua ceca, dal verbo robota, «lavorare»: i robotnik erano i lavoratori impiegati nei lavori pesanti, alle dipendenze degli aristocratici. Oggi robotnik in ceco significa genericamente
SEDISCIA VOLUPTAM ATUM ABOR MIN
SEDISCIA VOLUPTAM ATUM ABOR MIN
SEDISCIA VOLUPTAM ATUM ABOR MIN
Quid voluptaquam lacil eumquis dolorum eum enisquam, eossequam aut a ata voloraerum facillia sum aliquae dolut a dolore volupicia nimusae lantotatur sam num faccull enducit alit ut voloreprae parunt, quat quam, accus. Musdae endeles diossimagnis maio demporroviti dolorum doluptibus ium dolum aut et quame voluptae ratium vellaccabore quasitist fuga.
Quid voluptaquam lacil eumquis dolorum eum enisquam, eossequam aut a ata voloraerum facillia sum aliquae dolut a dolore volupicia nimusae lantotatur sam num faccull enducit alit ut voloreprae parunt, quat quam, et quame voluptae ratium vellaccabore quasitist fuga.
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Raccontare sullo schermo
Vivian Maier, Autoritratto, 1955
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he cos’è un racconto seriale? Per come lo intendiamo oggi, esso non è semplicemente un racconto diviso in parti: la serialità è una modalità narrativa specifica che nasce con la modernità, il cui tratto distintivo è la pianificazione della suddivisione in unità discrete da pubblicare in intervalli di tempo successivi e regolari. Ciò che caratterizza le forme seriali è il rapporto che esse creano tra l’industria che le produce e i lettori/ascoltatori/spettatori che le consumano. Le forme seriali, quindi, «possono essere definite dalla pratica di offrire ai consumatori dei testi narrativi in unità isolate, materialmente indipendenti, rese disponibili a intervalli di tempo diversi ma prevedibili»
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Il racconto seriale I bassorilievi dell’antichità, le Mille e una notte, il Decameron, i classici spacchettati in fascicoli delle biblioteche circolanti settecentesche sono tutti racconti frammentati, ma nessuno di essi è ancora seriale. È solo a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento che in Inghilterra e in Francia si diffonde la pratica di scrivere romanzi direttamente in funzione della serializzazione, in fascicoli o come feuilleton allegato a un giornale. Ciò comporta due cambiamenti fondamentali: innanzitutto l’autore si professionalizza, perché viene pagato dall’editore per ogni episodio e ha dei tempi prestabiliti per la consegna, diventando in sostanza un operaio specializzato della penna; in secondo luogo, la nuova forma di pubblicazione esige lo sviluppo di tecniche narrative apposite, che comporteranno nel tempo una «ipertrofia dell’intreccio» e la perfetta esecuzione dello strumento principale di tutte le narrative seriali: il cliffhanger, la sospensione del segmento nel momento di massima tensione. A questi due elementi, tuttavia, è necessario aggiungerne un terzo: l’interazione con il pubblico. I lettori di The Pickwick Papers di Dickens, pubblicato in venti fascicoli mensili nel 1836, iniziarono presto a inviare all’autore specifiche richieste a proposito del destino di un personaggio o del racconto in generale, ottenendo spesso anche soddisfazione.
Le caratteristiche del racconto seriale Un racconto seriale, quindi, è tale su tre livelli: ––produttivo ––narrativo ––distributivo. Raccontare sullo schermo
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Tutti i medium di massa hanno fatto ricorso alla serialità narrativa, almeno per una fase della loro storia: al cinema i serial ebbero momenti di grande popolarità sin dagli anni Dieci, per poi scomparire negli anni Cinquanta probabilmente a causa dell’avvento della televisione. Il racconto televisivo non è necessariamente seriale, come dimostra la cospicua produzione di film girati appositamente per il piccolo schermo, ma in televisione la serialità ha trovato un terreno particolarmente fertile.
BREAKING BAD Secondo Marc Escola, la concezione diffusa del concetto di «storia», in parte costruito dalla narratologia classica, presuppone il punto di vista del ri-lettore, che conosce il finale e analizza l’intero testo alla luce di esso. Quella del finale, d’altra parte, è un’esigenza che in qualche modo sentiamo connaturata alla lettura stessa. Leggiamo i vari incidenti della narrazione come «annunci e premesse» di quella che sarà la visione organica e coerente del finale [...]: al di là della massa di pagine centrali ancora non lette, il finale invoca l’inizio, lo trasforma e lo arricchisce. Leggiamo solo quegli eventi e quei segni [...] che possiamo interpretare come anelli della catena che poi ci porterà al significato.
Questo discorso resta valido per la serialità chiusa: il finale della prima stagione di True Detective altera la percezione che abbiamo dell’intero testo. Nella serialità aperta però
le cose cambiano: la chiusura di Breaking Bad potrebbe essere letta come consolatoria, ma non intacca la terribile parabola negativa compiuta da Walter White.
Racconti unitari e racconti plurali Nel descrivere le forme narrative del raccon-
to televisivo, distinguiamo innanzitutto tra racconti unitari e racconti plurali, sulla base del fatto che i primi sono concepiti, prodotti e distribuiti in un’unica unità testuale, i secondi in unità distinte, distribuite in successione. Il racconto plurale può assumere le due forme fondamentali del serial e della serie. Le unità che compongono il serial si dicono puntate e sono segmenti non autosufficienti, ordinati secondo una sequenza precisa, ognuno dei quali presuppone tutti i precedenti. L’operazione di serializzazione del racconto è uno «stiramento» sintagmatico che preserva lo scorrere del tempo e la memoria di ciò che è avvenuto in ciascun segmento. Miniserie e continuous serial La forma più elementare di questa operazione è
la miniserie, narrativamente chiusa e composta da un ristretto numero di puntate (normalmente meno di dieci), distribuite in un periodo di tempo relativamente breve. Il continuous serial, invece, ha molte puntate e può essere chiuso, cioè organizzato intorno a un finale già previsto al momento dell’ideazione, o aperto, cioè strutturato per proseguire indefinitamente. Il caso tipico di serial continuo chiuso è quello della telenovela, che può raggiungere le centinaia di puntate ma è destinato ad avere una conclusione, normalmente in una singola stagione televisiva; la soap, 250
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al contrario, viene scritta senza che sia previsto un punto d’arrivo e può proseguire per decenni. L’altra forma fondamentale è la serie, composta da episodi autosufficienti, che possono essere fruiti in qualsiasi ordine e anche solo parzialmente. La messa in serie è un’operazione paradigmatica, che moltiplica il racconto sulla base della declinazione di un prototipo, giocando con un sistema di costanti e variabili, e non presuppone né lo scorrere del tempo né la conservazione della memoria. La forma più blanda di messa in serie è la raccolta o collection, in cui l’unico elemento comune tra gli episodi è la collocazione in uno stesso contenitore, come avveniva con i live anthology drama statunitensi o con i single play inglesi. Nella serie antologica invece gli episodi sono collegati da un tema, un genere, o una cornice, come la figura del narratore in The Twilight Zone. La serie episodica, infine, è invece caratterizzata da un gran numero di costanti, tra cui almeno i protagonisti e l’ambientazione.
Le strategie narrative del racconto seriale Tipicamente, la serie episodica ha anche una trama-base, una formula narrativa che viene ripetuta all’infinito con variazioni. È un racconto necessariamente aperto, poiché non prevedendo progressione non può avere un finale. Il poliziesco episodico classico e la sitcom sono due diffusissimi esempi di serie episodica. Le serie episodiche Le due forme fondamentali pure sono tipi ideali, le cui istanze
concrete sono spesso soggette a sconfinamenti e contaminazioni; è chiaro quindi che sarebbe facile estenderne la tassonomia pressoché all’infinito. Già Eco [1984], nella sua tipologia della ripetizione, osservava che alcuni serial sembrano messi in serie, come le soap che ripetono costantemente gli stessi schemi in momenti diversi; e all’opposto alcune serie hanno qualcosa di serializzato: le strisce dei Peanuts, ad esempio, sono una variazione sulla serie «pura» (serie «a spirale», nella sua classificazione) perché a ogni nuova istanza il personaggio si rivela e si ispessisce. La tensione tra invarianza della formula e continuità narrativa, d’altra parte. PEANUTS In fondo perfino in I Love Lucy i personaggi non riescono a restare sempre uguali a se stessi: nasce il piccolo Ricky, i coniugi Ricardo non sono più una giovane coppia in cerca di fortuna ma una famiglia opulenta e realizzata. L’apparizione della serie serializzata nei primi anni Ottanta però introduce qualcosa di più di una variante,
perché ibrida consapevolmente le «due anime della serialità televisiva»: nonostante il tempo del racconto scorra in maniera evidente [...] si mantiene una forma di ripetitività e ciclicità che è connaturata alla forma stessa della fiction televisiva e che è imprescindibile per il funzionamento dell’intero marchingegno
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Le serie serializzate Le due forme fondamentali pure sono tipi ideali, le cui istan-
ze concrete sono spesso soggette a sconfinamenti e contaminazioni; è chiaro quindi che sarebbe facile estenderne la tassonomia pressoché all’infinito. Già Eco [1984], nella sua tipologia della ripetizione, osservava che alcuni serial sembrano messi in serie, come le soap che ripetono costantemente gli stessi schemi in momenti diversi; e all’opposto alcune serie hanno qualcosa di serializzato: le strisce dei Peanuts, ad esempio, sono una variazione sulla serie «pura» (serie «a spirale», nella sua classificazione) perché a ogni nuova istanza il personaggio si rivela e si ispessisce.
I “piaceri seriali”: la suspense e il “ritorno del già noto” Questa tensione tra progressione lineare e ciclicità è costitutiva, anche perché una delle strategie narrative più efficaci della serie serializzata è la combinazione dei due piaceri seriali per eccellenza: la suspense generata dal cliffhanger tipico del serial e il «ritorno del già noto» tipico della serie. La suspense: il cliffhanger La natura combinatoria della serie serializzata, fra l’altro, è visibile in una delle conformazioni più usate dell’alternanza tra trame episodiche e trame serializzate: le prime sono più direttamente connesse con il genere (poliziesco, ospedaliero, ecc.), le seconde sono più vicine al melodramma e intervengono sulle relazioni interpersonali.
BREAKING BAD Il teaser dell’episodio preso in esame, «Jumpin’ Jack Fleishman»7 (1:14), si apre su un momento visualmenteaggressivo, come è spesso NYPD: quattro detective (Sipowicz, Kelly, Greg Medavoy e James Martinez) sono inun appartamento in cui è stata strangolata una ragazza. Il cadavere livido e completamente nudo è ancora sul letto, 166 con un’espressione grottesca irrigidita sul volto. Intorno un caos di persone in movimento, Kelly che raccoglie freddamente informazioni dal coroner, Sipowicz che è nervoso per
un dente infetto e aggredisce senza motivo il «super» responsabile della gestione del condominio, Medavoy maldestramente intento. Nella prosecuzionecompaiono altri due detective, provenienti da corpi di polizia diversi: Sharon Lasalle, della «special victims units» (specializzata nei reati a sfondo sessuale) e Roy Larson, della sezione «vice» (gioco d’azzardo e droga). I due avranno un ruolo prominente per alcuni episodi per poi scomparire, come spesso accade in NYPD, in una sorta di serializzazione della guest star che è tipica delle serie serializzate.
Il “ritorno del già noto” La collocazione della serie serializzata nelle tassonomie
della serialità è piuttosto problematica, poiché l’ibridazione tra le due forme fondamentali produce risultati profondamente diversi che variano dalla blanda e lentissima progressione delle prime stagioni di House M.D. alla continuità interepisodica di The Wire. Benassi [2011] distingue tra un «feuilleton sérialisant» e una «série feuilletonante », ma la differenza fra le due resta piuttosto oscura, e il sospetto è che l’autore sia stato costretto a fare la distinzione per conservare la coerenza generale «a ben vedere, questa è una delle caratteristiche più seducenti delle serie americane fino ai giorni nostri: quella di saper essere una narrazione a puntate e una narrazione finita soddisfacente». 252
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Narrazione e serie TV La narratologia ha sviluppato un apparato teorico frastagliato, con notevoli discordanze al suo interno, ma ricchissimo e applicabile, con le dovute attenzioni, a tutti i media. La serialità televisiva non fa eccezione, anche se una teoria narratologica completa della serialità televisiva è ancora di là da venire, a causa della giovinezza tanto della forma serie quanto dell’interesse critico nei suoi confronti. Molte delle categorie utilizzabili per l’analisi della narrazione televisiva, in ogni caso, possono essere prese in prestito dalla narratologia del film.
I modi narrativi Dal punto di vista della comunicazione narrativa, infatti, la serie televisiva filmata e il cinema utilizzano lo stesso modo, che Gaudreault [2007] chiama «filmico». Nel sistema elaborato da Gaudreault i modi narrativi sono tre: lo scritturale, che usa la scrittura come veicolo semiotico ed è basato sulla narrazione; lo scenico, che coincide in sostanza con il teatro, basato invece sulla mostrazione; e il filmico, appunto, che combina narrazione e mostrazione sintetizzando una nuova forma di narratività. Non credo sia sostenibile che la serialità e in generale la televisione filmata rappresentino un nuovo modo narrativo, per quanto i contesti di fruizione e le pratiche culturali connesse possano essere diversi. Tanto più che nel momento in cui si accede a Netflix la differenza tra la visione di un film e di un episodio di una serie TV non è più localizzabile a livello di veicolo semiotico.
BREAKING BAD Il teaser dell’episodio preso in esame, «Jumpin’ Jack Fleishman»7 (1:14), si apre su un momento visualmenteaggressivo, come è spesso NYPD: quattro detective (Sipowicz, Kelly, Greg Medavoy e James Martinez) sono inun appartamento in cui è stata strangolata una ragazza. Il cadavere livido e completamente nudo è ancora sul letto, 166 con un’espressione grottesca irrigidita sul volto. Intorno un caos di persone in movimento, Kelly che raccoglie freddamente informazioni dal coroner, Sipowicz che è nervoso per un dente infetto e aggredisce senza motivo il «super» responsabile della gestione del condominio, Medavoy maldestramente intento. Nella
prosecuzionecompaiono altri due detective, provenienti da corpi di polizia diversi: Sharon Lasalle, della «special victims units» (specializzata nei reati a sfondo sessuale) e Roy Larson, della sezione «vice» (gioco
d’azzardo e droga). I due avranno un ruolo prominente per alcuni episodi per poi scomparire, come spesso accade in NYPD, in una sorta di serializzazione della guest star che è tipica delle serie serializzate.
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Fiction / non fiction: documentary drama, mockumentary, reality show &co.
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li autori e i lettori moderni hanno visto nella poesia un genere letterario più alto e più nobile rispetto agli altri. Un “supergenere” attraverso il quale esprimere le verità più profonde con una lingua raffinata, densa e difficile. Ebbene: come fare poesia in una società di massa, nella quale la comunicazione avviene in modo istantaneo e superficiale, e lo spazio della poesia e del romanzo è stato ormai occupato da generi artistici molto più potenti, popolari e immediati, quali il film e la canzone? I bassorilievi dell’antichità Le Mille
e una notte, il Decameron, i classici spacchettati in fascicoli delle biblioteche circolanti settecentesche sono tutti racconti frammentati, ma nessuno di essi è ancora seriale. È solo a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento che in Inghilterra e in Francia si diffonde la pratica di scrivere romanzi direttamente in funzione della serializzazione, in fascicoli o come feuilleton allegato a un giornale. Ciò comporta due cambiamenti fondamentali: innanzitutto l’autore si professionalizza, perché viene pagato dall’editore per ogni episodio e ha dei tempi prestabiliti per la consegna, diventando in sostanza un operaio specializzato della penna; in secondo luogo, la nuova forma di pubblicazione esige lo sviluppo di tecniche narrative apposite, che comporteranno nel tempo una «ipertrofia dell’intreccio» e la perfetta esecuzione dello strumento principale di tutte le narrative seriali: il cliffhanger, la sospensione del segmento nel mo-
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Dida Ihit faccati oreris assumet magnamus, consequam int odi des etur? Ime qui volupietus im non remolore doluptur si ut hitationsedi qui dolut alit alique persperum repudandant atur aliatiis etur, solent, sum nus auditat. Untiandus eicab iur? La cor ad que esequismus moditis Ximuscium aut quam aut et, sam, sedis re odissitius parum re non comnihic te
mento di massima tensione. A questi due elementi, tuttavia, è necessario aggiungerne un terzo: l’interazione con il pubblico. I lettori di The Pickwick Papers di Dickens, pubblicato in venti fascicoli mensili nel 1836, iniziarono presto a inviare all’autore specifiche richieste a proposito del destino di un personaggio o del racconto in generale, ottenendo spesso anche soddisfazione. Gli intellettuali italiani cominciano a porsi il problema della “sopravvivenza” della poesia nella società di massa negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, quando
colanti settecentesche sono tutti racconti frammentati, ma nessuno di essi è ancora seriale. È solo a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento che in Inghilterra e in Francia si diffonde la pratica di scrivere romanzi direttamente in funzione della serializzazione, in fascicoli o come feuilleton allegato a un giornale. Ciò comporta due cambiamenti fondamentali: innanzitutto l’autore si professionalizza, perché viene pagato dall’editore per ogni episodio e ha dei tempi prestabiliti per la consegna, diventando in sostanza un operaio specializzato della penna; in secondo luogo, la nuova forma di pubblicazione esige lo sviluppo di tecniche narrative apposite, che comporteranno nel tempo una «ipertrofia dell’intreccio» e la perfetta esecuzione dello strumento principale di tutte le narrative seriali: il cliffhanger, la sospensione del segmento nel momento di massima tensione. A questi due elementi, tuttavia, è necessario aggiungerne un terzo: l’interazione con il pubblico. I lettori di The Pickwick Papers di Dickens, pubblicato in venti fascicoli mensili nel 1836, iniziarono presto a inviare all’autore specifiche richieste a proposito del destino di un personaggio o del racconto in generale, ottenendo spesso anche soddisfazione.
anche l’Italia – come gli altri paesi occidentali – diventa una società dei consumi, e i media (giornali, radio, tv) entrano in maniera pervasiva nella vita delle persone. Gli autori e i lettori moderni hanno visto nella poesia un genere letterario più alto e più nobile rispetto agli altri, un “supergenere” attraverso il Gli intellettuali italiani coLe Mille quale esprimere le verità più minciano a porsi il problema e una notte, profonde con una lingua della “sopravvivenza” delil Decameron, i classici raffinata, densa e difficile. la poesia nella società di spacchettati in fascicoli Ebbene: come fare poesia massa negli anni Sessanta delle biblioteche circolanti in una società di massa, e Settanta del XX secosettecentesche nella quale la comunicaziolo, quando anche l’Italia – ne avviene in modo istantacome gli altri paesi Gli autori neo e superficiale, e lo spazio e i lettori moderni hanno visto della poesia e del romanzo è stato nella poesia un genere letterario ormai occupato da generi artistici molto più alto e più nobile rispetto agli altri, un più potenti, popolari e immediati, quali il “supergenere” attraverso il quale esprimere film e la canzone? le verità più profonde con una lingua raffinata, densa e difficile. Ebbene: come fare poesia in una società di massa, nella quale I bassorilievi dell’antichità Le Mille e una notte, il Decameron, i classici spac- la comunicazione avviene in modo istantachettati in fascicoli delle biblioteche cir- neo e superficiale, e lo spazio della poesia e
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La realtà, la poesia, il presente
Vivian Maier,
Autoritratto, 1955
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li autori e i lettori moderni hanno visto nella poesia un genere letterario più alto e più nobile rispetto agli altri, un “supergenere” attraverso il quale esprimere le verità più profonde con una lingua raffinata, densa e difficile. Ebbene: come fare poesia in una società di massa, nella quale la comunicazione avviene in modo istantaneo e superficiale, e lo spazio della poesia e del romanzo è stato ormai occupato da generi artistici molto più potenti, popolari e immediati, quali il film e la canzone?
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Il disagio della poesia nella società di massa Gli intellettuali italiani cominciano a porsi il problema della “sopravvivenza” della poesia nella società di massa negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, quando anche l’Italia – come gli altri paesi occidentali – diventa una società dei consumi, e i media (giornali, radio, tv) entrano in maniera pervasiva nella vita delle persone. In un primo momento alcuni dei nostri più importanti poeti reagiscono abbassando il tono e il registro dei loro versi, come per adeguare alla prosa della vita contemporanea il loro modo di fare poesia: è il caso di Attilio Bertolucci (che in questi anni pubblica uno dei suoi libri più belli, Viaggio d’inverno), di Pier Paolo Pasolini (che in Trasumanar e organizzar scrive poesie che sembrano dispacci di agenzia stampa) e di Eugenio Montale (che in Satura cambia radicalmente maniera rispetto alla sua precedente raccolta di versi, La bufera, uscita quindici anni prima). In seguito, due atteggiamenti finiscono con il prevalere: quello di chi (come Patrizia Cavalli e Milo De Angelis) crede di poter ricominciare da zero, nutrendo fiducia nelle eterne risorse del genere lirico; oppure quello di chi (come Franco Fortini) punta su un manierismo rassegnato, pessimista ma lucido, e su una poesia “postuma” a se stessa.
Tre tentativi di cambiare stile Nel 1971 escono tre raccolte poetiche molto importanti: Viaggio d’inverno di Attilio Bertolucci, Trasumanar e organizzar di Pier Paolo Pasolini, e Satura di Eugenio Montale. A scriverle sono intellettuali che hanno visioni del mondo e della letteratura distanti e per molti aspetti incompatibili. Eppure questi tre libri, che corrispondono ad altrettante inattese svolte nella carriera dei rispettivi autori, sembrano condividere un sentimento comune: la percezione di vivere un passaggio epocale, che mette in discussione non solo il destino della tradizione letteraria ma anche quello della poesia stessa. 3. La realtà, la poesia, il presente
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RENÉ MAGRITTE
CECI N’EST PAS UNE PIPE Più che un quadro un rebus. O un trattato filosofico. O una riflessione che gioca molto seriamente con i meandri del linguaggio. È l’opera simbolo di Magritte, che piacque tanto a Foucault da dedicargli un saggio. Così la pipa che non è una pipa sfida il modo comune di guardare la realtà. Sulla tela un’immagine dipinta in modo così verosimigliante da non lasciare dubbi. Rappresenta sicuramente un oggetto chiamato pipa. Una didascalia da abbecedario afferma però che no, Ceci n’est pas une pipe. A questo proposito scrisse il filosofo Michel Foucault
nel saggio omonimo: «paragonato alla tradizionale funzione della didascalia, il testo di Magritte è doppiamente paradossale. Si propone di nominare ciò che, evidentemente, non ha bisogno di esserlo (la forma è troppo nota, il nome troppo familiare). Ed ecco che nel momento in cui dovrebbe dare un nome, lo dà negando che sia tale.» La didascalia contesta
dunque il criterio di equivalenza tra somiglianza e affermazione e afferma che la pipa del quadro è solo la rappresentazione di un oggetto tangibile che non ha niente a che vedere con essa. René Magritte (1898-1967), grande protagonista del surrealismo, dipinse più volte durante la sua vita il quadro con la pipa e la sua didascalia; la prima volta nel ’26,
Conta ancora qualcosa la poesia? Montale, Pasolini e Bertolucci sono consapevoli del fatto che la società di massa – con i giornali, con la tv, con il continuo mescolare le regole dell’arte con quelle della comunicazione – mette in crisi la cultura umanistica tradizionale, e che un cambiamento profondo investe soprattutto la poesia che di quella cultura è espressione: è difficile, insomma, continuare a credere nella capacità comunicativa della poesia quando una comunicazione molto più rapida e più facile (e nell’immediato anche più divertente) passa attraverso i media, e quando tutti sembrano interessati, più che alle parole centellinate dai poeti, alle arti di massa e alla lotta politica. Montale, Pasolini e Bertolucci sembrano aver compreso che la società contemporanea estetizzando tutto (ma sempre in modo effimero e superficiale) rende la poesia impotente, e forse impossibile. In modi diversi – con ironia o con rabbia – le loro voci dicono quanto sia difficile continuare a concepire la lirica come “lingua speciale” di fronte a una realtà sempre più ostile o indifferente alla comunicazione in versi. L’esaurimento della lirica Viaggio d’inverno, Trasumanar e organizzar e Satura rappresentano così non solo e non tanto tre esempi di una poesia che “va verso la prosa”, ma – più profondamente – il sintomo di un esaurimento della lirica come genere letterario. Queste raccolte appaiono in un momento storico nel quale il linguaggio della poesia moderna sembra volere non tanto cambiare abito quanto proprio «uscire dalla propria pelle» (Alfonso Berardinelli). 260
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Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini e Attilio Bertolucci Ironia e sarcasmo Tra l’uscita di La bufera e altro (1956) e quella di Satura (1971) trascorrono quindici anni: per l’Italia, quindici anni di impetuosa crescita economica e di profondi cambiamenti sociali e culturali. Eugenio Montale osserva in modo critico questa trasformazione (questo «sviluppo senza progresso», per citare una formula di Pasolini). Poeta tragico per eccellenza, nella sua ultima stagione Montale si affida soprattutto all’ironia e al sarcasmo nei confronti del mondo nuovo che lo circonda, ma anche nei confronti del se stesso di un tempo, inattuale e fuori posto nella società di massa che l’Italia è diventata. Senso di impotenza e abbassamento stilistico Questo mutamento di sguardo comporta novità stilistiche di rilievo. Se nelle sue prime tre raccolte (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro) Montale era rimasto fedele all’idea di una poesia stilisticamente raffinata, che intendeva strappare barlumi di significato e di bellezza a una realtà considerata ostile e disarmonica – pensiamo a I limoni, a Nuove stanze –, con Satura si impone una scrittura dimessa, colloquiale, discorsiva, fondata sul disincanto e sullo scetticismo. Al posto dello stile alto di un tempo, uno stile medio-basso, con frequenti aperture al linguaggio ordinario, quotidiano; al posto di un’idea di lirica forte e ambiziosa, una poesia – e un poeta – in crisi d’identità, che si sente fragile e in via d’estinzione. Montale è sempre stato un pessimista; ma un pessimista disposto a combattere, con le armi della poesia, contro quello che egli stesso chiama «il male di vivere». Con Satura, invece, affiora un senso di impotenza; l’abbassamento stilistico denuncia la rassegnazione di chi sa che nel presente non c’è posto per la grande poesia, perché l’arte di massa nega ogni forma estetica complessa e articolata.
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Eugenio Montale
L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili eugenio montale (Genova, 1896 – Milano, 1981) «Scrissi i primi versi da ragazzo. Erano versi umoristici, con rime tronche bizzarre. Più tardi, conosciuto il Futurismo, composi anche qualche poesia di tipo fantaisiste, o se si vuole grottescocrepuscolare. Ma non pubblicavo e non ero convinto di me». Così raccontava i suoi esordi il poeta Eugenio Montale in uno scritto del 1946 intitolato Intenzioni (Intervista immaginaria). A leggere queste parole, non sembra un debutto straordinario. In effetti Montale, nato nel 1896, non è stato un poeta particolarmente precoce: il suo primo libro, Ossi di seppia, lo pubblica nel 1925, già sulla soglia dei trent’anni. Ma si tratta di un debutto che fa subito intuire ai lettori e ai critici l’eccezionale
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qualità dell’esordiente. Colpisce anche, nel passo dell’Intervista immaginaria, una certa modestia – in inglese ci sarebbe una parola più adatta, understatement – che non ci si aspetterebbe dal più grande poeta italiano del Novecento, destinato a essere nominato senatore a vita nel 1967 e a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1975. Ma il rifiuto della retorica, dei proclami e soprattutto della celebrazione di sé è un tratto che accompagnerà Montale nel corso di tutta la sua carriera. Ne fanno fede i versi di una poesia scritta pochi anni prima della morte, intitolata Per finire: «Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere / ed è già troppo vivere in percentuale. / Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose».
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6. Ezra: il poeta americano Ezra Pound. 7. Alain: pseudonimo di Émile-Auguste Chartier, filosofo francese attivo nella prima metà del Novecento. 10. Silvio: Silvio Tanzi, musicista, fratello di Drusilla, la moglie di Montale. 11. morsura: morso, morsicatura.
(Eugenio Montale, Satura, Einaudi, Milano 2019)
L’ALLUVIONE DEL TITOLO Quella che effettivamente sommerse Firenze nel novembre del 1966, anno in cui la poesia è stata scritta. Montale abita a Milano dal 1948, ma a Firenze ha vissuto per molti anni in compagnia della moglie Drusilla Tanzi (ed è proprio a lei che la poesia si rivolge, come scopriamo negli ultimi due versi: «il mio coraggio fu il primo / dei tuoi prestiti»). Drusilla – la “Mosca” protagonista di molte poesie di Satura – è morta tre anni prima, nel 1963, ma nel «sotterraneo chiuso a doppio lucchetto» (v. 3) della sua casa fiorentina sono rimasti custoditi, stipati (v. 2) molti oggetti cari legati al passato della coppia. I mobili, le carte e le suppellettili sono ora sommersi dal fango e dal combustibile trascinato dall’acqua (l’«atroce morsura / di nafta e sterco» dei vv. 11-12; al v. 16 la «torba»). In avvio di testo vengono paragonati a una sorta di pack, termine inglese che designa i ghiacciai della banchisa polare: macerie e frantumi abbandonati alla corrente.
COMMENTO
Eugenio Montale • L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili
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L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, delle carte, dei quadri che stipavano un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto. Forse hanno ciecamente lottato i marocchini rossi, le sterminate dediche di Du Bos, il timbro a ceralacca con la faccia di Ezra, il Valéry di Alain, l’originale dei Canti Orfici – e poi qualche pennello da barba, mille cianfrusaglie e tutte le musiche di tuo fratello Silvio. Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura di nafta e sterco. Certo hanno sofferto tanto prima di perdere la loro identità. Anch’io sono incrostato fino al collo se il mio stato civile fu dubbio fin dall’inizio. Non torba m’ha assediato, ma gli eventi di una realtà incredibile e mai creduta. Di fronte ad essi il mio coraggio fu il primo dei tuoi prestiti e forse non l’hai saputo.
TITOLINO Questi oggetti cari – immagina il poeta – hanno combattuto e sofferto prima di «perdere la loro identità» (vv. 12-13), distrutti dalla melma. Ecco i
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libri rilegati in un pregiato cuoio rosso detto appunto “marocchino” (i «marocchini / rossi», vv. 4-5); alcuni volumi impreziositi dalle dediche del celebre critico letterario Charles Du Bos, amico di Montale (v. 5); un timbro a ceralacca raffigurante la barba di Ezra Pound, il grande poeta americano vissuto a lungo in Italia, anche lui frequentato da Montale (v. 6); il commento di un altro importante critico francese, Alain, agli Charmes (Gli incanti) di Paul Valéry, capolavoro della lirica del Novecento, al pari dei Canti orfici di Dino Campana, di cui Montale possedeva una rara edizione originale (vv. 7-8). E infine «qualche pennello / da barba» (vv. 8-9), tanti piccoli oggetti e gli spartiti appartenuti a Silvio Tanzi, musicista e fratello di Drusilla (v. 10). Ma è chiaro che tutte queste cose sono simbolo di qualcos’altro; è chiaro, cioè, che «il pack dei mobili, / delle carte, dei quadri» (vv. 1-2) è un equivalente culturale e sentimentale del poeta. Non solo perché questi oggetti alla deriva gli appartengono, o perché incarnano figure illustri della cultura poetica di primo Novecento, cui anche Montale appartiene di diritto; ma soprattutto perché è l’autore stesso, al v. 14, ad associarsi ai cimeli sommersi e corrosi: «Anch’io sono incrostato fino al collo». Da un lato, in primo piano, l’acqua che travolge,
TITOLINO In questo senso, l’immagine del sotterraneo fiorentino «chiuso a doppio lucchetto» (v. 3) ma invaso dall’acqua è quella di una difesa estrema dall’omologazione e dal conformismo. Ma è una barricata che non regge più. A Montale resta soltanto il coraggio (v. 18), ricevuto in prestito dalla moglie:
non più il coraggio di resistere attivamente al «male di vivere», come al tempo degli Ossi di seppia, ma ormai solo quello di testimoniare sarcasticamente, prima di essere spazzato via, la fine irreversibile di una civiltà. LEGGERE E COMPRENDERE 1. Da quale evento ha origine la poesia? 2. Che cosa si intende con «pack dei mobili» (v. 1)? Da che cosa nasce questa immagine? 3. Perché il sotterraneo è «chiuso a doppio lucchetto» (v. 3)? Che cosa contiene? Si tratta di oggetti significativi per il poeta? RIFLETTERE SULLA LINGUA 5. Convivono in questa poesia diversi toni e registri. Individua e distingui le parole che appartengono al lessico quotidiano, a quello specialistico e a quello letterario. ANALIZZARE 6. Una delle figure usate da Montale è l’accumulazione. Distingui gli oggetti della quotidianità da quelli che rimandano alla letteratura. Quali di essi, inoltre, sono legati al presente e quali al passato? SCRIVERE 7. compito di realtà Che cosa accadde a Firenze il 4 novembre 1966? Fai una ricerca da cui ricavare un articolo di giornale da leggere poi in classe. Puoi scegliere di usare il presente, fingendoti un cronista dell’epoca, oppure il passato, rievocando i fatti accaduti.
SEDISCIA VOLUPTAM ATUM ABOR MIN Quid voluptaquam lacil eumquis dolorum eum enisquam, eossequam aut a ata voloraerum facillia sum aliquae dolut a dolore volupicia nimusae lantotatur sam num faccull enducit alit ut voloreprae parunt, quat quam, accus. Musdae endeles diossimagnis maio demporroviti dolorum doluptibus ium dolum aut et quame voluptae ratium vellaccabore quasitist fuga. Multurit rei publici publiam sim
omant? Gere idea quemus publii potatiessa vissis, dierbitam publis, nit, nostris sulis, Cupiem inata conequi tandam et viliu moenamdio hae movemorent, cae, culicutere intem hi, nes auctumu remenat ve, cam nocaet invo, porivere te tiam, coere consuam silie in ta, nox sedo, nonloculissi considea vit, mum nonsum nocchil intrarem prei st ficaequem publiisu vivivere re, ur acchiliem praedet condiss enatidius comnihilic.
3. La realtà, la poesia, il presente
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Eugenio Montale • L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili
riducendoli a inutili cianfrusaglie, gli oggetti-simbolo di un passato culturale e di una memoria personale; dall’altro, in parallelo, gli eventi del presente che assediano la coscienza del poeta stesso e ne mettono in crisi le certezze residue. L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili registra così la cancellazione di una identità personale e collettiva: il tramonto di una cultura autentica e non massificata – incarnata in poeti come Valéry, Pound, Campana, e in critici come Du Bos e Alain – porta con sé il declino della figura di poeta e intellettuale che in quella cultura si era formato; cioè dello stesso Montale: «il mio / stato civile fu dubbio fin dall’inizio», precisa l’autore ai vv. 14-15, riferendosi all’atteggiamento critico e negativo che egli ha sempre manifestato nei confronti del reale («una realtà incredibile e mai creduta», v. 17). Ma solo adesso, nell’epoca della massificazione universale, la morsura (v. 11) ha preso definitivamente il sopravvento, abbattendo le difese che l’arte aveva costruito per resisterle.
Pier Paolo Pasolini • Comunicato all’Ansa (Scelta stilistica)
«L’altra faccia della trasumanizzazione» Trasumanar e organizzar (1971) raccoglie versi scritti tra il 1968 e il 1970; Pasolini spiega così il titolo del suo libro: «voglio dire che l’altra faccia della trasumanizzazione (la parola è di Dante […]), ossia dell’ascesi spirituale, è proprio l’organizzazione». Il verso di Dante a cui fa riferimento Pasolini si legge nel primo canto del Paradiso: «Trasumanar significar per verba / non si poria» (cioè “oltrepassare la condizione umana non può essere descritto a parole”). Per essere “più che uomini”, intende dire Pasolini, occorre prima essere ben organizzati: bisogna cioè pensare allo spirito, all’assoluto, ma bisogna anche essere pratici, agire. Uno scrittore in crisi Alla fine degli anni Sessanta Pier Paolo Pasolini è una figura pubblica, nota anche a chi legge giornali e bestseller ma non segue con regolarità il dibattito letterario. Per il modo in cui intreccia arte e vita, per le questioni che tocca e per il modo in cui le tocca, Pasolini è in quel periodo il poeta che più attrae l’interesse dei mezzi di comunicazione di massa, che lo sollecitano a intervenire sugli argomenti più disparati: politica, cronaca, costume. A questo interesse nei suoi confronti Pasolini reagisce facendo film e scrivendo moltissimo: saggi, racconti, poesie. Ma nelle liriche di Trasumanar e organizzar Pasolini rinuncia a ciò che sta a cuore a ogni buon poeta moderno, cioè a uno stile personale non solo espressivo e potente ma anche originale, unico; il suo modo di rispondere alla crisi dell’umanesimo consiste nel presentarsi polemicamente, di fronte ai media, come “scrittore in crisi”. A Pasolini non interessa più scrivere delle “belle poesie”, e questa rinuncia allo stile è dichiarata esplicitamente in Comunicato all’Ansa (Scelta stilistica):
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Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 – Roma 1975) Fra gli scrittori del secondo Novecento italiano Pier Paolo Pasolini è, molto probabilmente, quello oggi più noto. Nessun altro romanziere, regista o poeta è stato infatti capace di lasciare, nell’opinione pubblica e nella memoria culturale del nostro paese, una traccia personale così forte e riconoscibile. Il suo nome, oggi, è per lo più associato alla chiaroveggenza di alcune pagine saggistiche sulla mutazione catastrofica della società italiana e alle sue dure prese di posizione contro il movimento degli studenti del ’68.
Ma Pasolini, per quanto polemista geniale e controverso, non può essere ridotto solo a questo. Sperimentatore instancabile, è stato infatti poeta, romanziere, regista, sceneggiatore, drammaturgo, critico letterario e giornalista: nella sua non lunga vita (muore ammazzato a cinquantatré anni) ha scritto più di trentamila pagine. E tuttavia, nonostante le sue dimensioni impressionanti, buona parte dell’opera pasoliniana ruota in realtà intorno a un unico problema: il trauma dell’industrializzazione accelerata del nostro paese.
Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo. Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero. Naturalmente per ragioni pratiche. (Pier Paolo Pasolini, Trasumanar e organizzar, Einaudi, Milano 2019)
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Comunicato all’Ansa (Scelta stilistica)
la poesia e il mondo
Metro: versi liberi lunghi, di andamento prosastico (solo l’ultimo è un endecasillabo).
TITOLINO La metrica è informale, modellata sulla sintassi; mancano tutti quelli ingredienti stilistici che in genere associamo alla poesia – gli aggettivi, le metafore, le inversioni sintattiche – e che proprio Pasolini aveva usato con grande abbondanza nelle sue raccolte precedenti. Paradossalmente, il solo “bel verso” della poesia è l’ultimo (endecasillabo): paradossalmente, perché è proprio il verso che dichiara la vocazione pratica, e non estetica, di questa poesia. Quali sono, allora, gli «schemi letterari collaudati» (v. 3) che Pasolini dice di voler adottare? In realtà in Trasumanar e organizzar le formule letterarie sono pochissime. Abbondano invece gli schemi retorici collaudati, più che dalla tradizione lirica, dalla
comunicazione di massa. La grande maggioranza delle poesie di Trasumanar e organizzar somiglia a una trascrizione versificata di articoli di giornale, lettere aperte, recensioni, dichiarazioni di intenti, o, appunto, comunicati stampa. Molte liriche si dichiarano scritte su commissione, e anzi c’è un’intera sezione del libro che si intitola proprio così, Poesie su commissione; quasi tutte hanno l’aria di essere state buttate giù in fretta, a volte per sfida, proprio per reagire a una profonda crisi creativa: ora che la vocazione è vacante – ma non la vita, non la vita – ora che l’ispirazione, se viene, versi non ne produce – vi prego, sappiate che son qui pronto a fornire poesie su ordinazione. LEGGERE E COMPRENDERE 1. L’autore vuole smettere di essere un poeta o di essere un poeta originale? In che cosa consiste la differenza? 2. La libertà alla quale si fa riferimento al v. 2 riguarda la poetica o l’arte? Argomenta la risposta. ANALIZZARE 3. Quali sono gli «schemi letterari collaudati» (v. 3)? 4. Il tono della poesia ti sembra sarcastico o rassegnato? Da quali parole o espressioni puoi ricavare la risposta? SCRIVERE 5. SCRITTURA CREATIVA Scrivi un breve comunicato stampa in versi liberi per denunciare qualcosa o per comunicare una decisione.
Trasumanar e organizzar è il manifesto di una poesia “senza letteratura” e senza ispirazione: una poesia che non solo parla “di ciò” di cui parla di solito la prosa (dei giornali, dei saggi), ma anche “come” ne parla la prosa. Da questo punto di vista la mossa di Pasolini è analoga a quella che Montale compie in Satura (libro che peraltro Pasolini stronca, in quello stesso 1971): il che è stupefacente, se si pensa a quanto diversi fossero questi autori e a quanto poco si amassero. Ma il fatto è che entrambi capiscono che scrivere poesie “come una volta” (come nelle Ceneri di Gramsci o nelle Occasioni) non si può più, che la società italiana non è più in grado di capirle e di accettarle se non esteriormente, per stanca convenzione. Si può allora fare della satira sul proprio tempo (Montale), o si può provare ad articolare i propri pensieri con l’asciuttezza (e la superficialità) dei comunicati stampa (Pasolini), ma la poesia non è più, per nessuno dei due, un genere letterario forte, egemone, sicuro del proprio status: ormai può parlare al lettore contemporaneo soltanto negandosi, dichiarando la propria impotenza. 3. La realtà, la poesia, il presente
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Pier Paolo Pasolini • Comunicato all’Ansa (Scelta stilistica)
COMMENTO
TITOLINO La «scelta stilistica» di cui parla la poesia – «Smetto di essere poeta originale» (v. 1) – è motivata da un’esigenza di libertà: fare letteratura, in senso convenzionale, è improvvisamente sentito come un peso. I nuovi versi di Pasolini non nascono più da una ricerca formale ma da «ragioni pratiche» (v. 4); non solo perché traggono origine da eventi concreti, personali e pubblici, ma anche perché hanno come obiettivo quello di esprimere contenuti che vogliono presentarsi nudi e soli, senza più nascondersi dietro la corazza di uno stile. Significativo è il titolo della lirica che abbiamo appena letto: l’Ansa (acronimo per Agenzia Nazionale Stampa Associata) è, ancora oggi, la principale agenzia di stampa italiana, e la forma del «comunicato» allude al modo breve, secco e impersonale – da comunicato stampa, appunto.
GIOVANI CITTADINI
Il ruolo dell’informazione A partire dalla fine degli anni Cinquanta, con il boom economico, i mass media cominciano a trasformarsi e a ridurre a brand pubblicitari
S
ia le correnti culturali e artistiche (avan- divertente del film Dove vai in vacanza?, in guardie, romanzi, scienze umane) sia le cui Alberto Sordi e la moglie – due persone ideologie politiche. semplici, che non hanno studiato – visitano Così, a poco a poco, le figure dei retori de- la Biennale di Venezia). scritti nella prima metà del Novecento da Una perdita di rapporto con gli aspetti Brancati abbandonano la maschera del co- meno controllabili della realtà non riguarda miziante puro, dell’ideologo o del burocra- solo la scuola, bensì, più in generale, i costute, e indossano quella dei nuovi capipopolo: mi e quasi l’antropologia della nuova classe quei conduttori televisivi che sanno sfruttare media nata con il miracolo economico e dile labili e violente ondate di risentimento so- venuta presto maggioritaria. Si tratta infatti ciale non più indirizzabili da partiti e movi- di una classe che, mancando del retroterra menti. delle borghesie nordeuropee, dell’etica borIntanto gli stili della più raffinata cultura ghese non sembra aver ereditato il senso del moderna vengono riciclati da un mercato rischio e della responsabilità, ma soltanto la culturale ormai industrializzato, in cui di- paura di vivere e l’aspirazione a un successo venta sempre più difficile distinguere tra ormai scisso dal merito e dal valore: è questa opere autentiche e sofisticazioni. la grettezza che – parlando dei rapporti familiari – denuncia Natalia Ginzburg. Uno degli effetti più tipici di questo fenomeno è la mescolanza di Le Mille VIRTÙ E BORGHESIA MEDIO“alto” e “basso”. Le vecchie fore una notte, me di cultura popolare cominCRE Opponendo le virtù più il Decameron, i classici ciano a penetrare nella culdifficili alle virtù che si acquispacchettati in fascicoli tura d’élite (e gli intellettuali siscono facilmente adattandelle biblioteche circolanti dosi al galateo sociale, la scritcominciano, per esempio, a settecentesche trice conduce qui un’implicita occuparsi di forme d’arte pop eccetera polemica contro l’etica di quella come la canzone e il fumetto) piccola o mediocre borghesia che e, viceversa, le sperimentazioni è il bersaglio di molti intellettuali del dell’arte colta vengono volgarizzate allo scopo di renderle appetibili alle masse, tempo (da Gaetano Salvemini a Carlo Levi a per le quali l’accesso alla cultura, un tempo Elsa Morante). riservato a pochi, appare qualcosa di simi- Più di ogni altra, infatti, quella classe media le all’acquisto di un’auto o di un frigo (que- tende a una tranquillità conformista che risto incontro-scontro tra cultura “alta” e ceti duce le virtù grandi alle piccole. Essendo dipopolari è al centro di un episodio molto venuti sempre più abili a evitare i rischi che
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la poesia e il mondo
GIOVANI CITTADINI
SEDISCIA VOLUPTAM ATUM ABOR MIN Quid voluptaquam lacil eumquis dolorum eum enisquam, eossequam aut a ata voloraerum facillia sum aliquae dolut a dolore volupicia nimusae lantotatur sam num faccull enducit alit ut voloreprae parunt, quat quam, accus. Musdae endeles diossimagnis maio demporroviti dolorum doluptibus ium dolum aut et quame voluptae ratium vellaccabore quasitist fuga. Multurit rei publici publiam sim omant? Gere idea quemus publii potatiessa vissis, dierbitam publis, nit, nostris sulis, Cupiem inata conequi tandam et viliu moenamdio hae movemorent, porivere te tiam, coere consuam.
possono scuotere l’esistenza, i piccoli borghesi maturano una «paura di vivere» (r. 65) che trasforma la legittima ricerca di sicurezza in semplice viltà. Per questo la Ginzburg scrive che «è meglio che i nostri figli sappiano fin dall’infanzia, che il bene non riceve ricompensa, e il male non riceve castigo: e tuttavia bisogna amare il bene e odiare il male: e a questo non è possibile dare nessuna logica spiegazione» (rr. 28-30). Solo così si può insegnare la distanza che sempre rimane tra la reale crescita delle persone e la «piccola virtù del successo» (rr. 32-33). Solo così si può sperare che i futuri adulti non identifichino un tale successo con la giustizia tout court; e che dunque non diventino tracotanti quando trionfano, né viceversa si umilino e dimentichino il proprio valore quando vengono sconfitti. Questo pericolo va sventato fin da quella prima gara pubblica in cui rischia di trasformarsi la scuola. IL RISCHIO DEL CONFORMISMO L’enfasi posta sulla “carriera” dei figli induce a farne una mera appendice dei genitori: da esseri do-
tati di una propria inviolabile personalità li si vuole ridurre a parti di sé, a mezzi di affermazione pubblica, e magari a vendicatori delle proprie aspirazioni frustrate. Senza abbandonare il suo tema familiare, la Ginzburg tocca qui in modo efficace un tema socialmente cruciale: quello della contraddizione, connaturata a ogni percorso educativo, tra l’aspirazione a formare persone dotate di autonomia critica e l’esigenza di trasformare i ragazzi in rispettabili membri di una comunità, cioè di un’istituzione che richiede un certo conformismo. GENITORI: REGISTI DIETRO LE QUINTE Anche per queste ragioni, secondo la scrittrice, i genitori devono essere molto cauti nel correggere le inclinazioni apparentemente “devianti” dei loro figli: perfino l’ozio, infatti, può rivelarsi una inattesa fonte di crescita. Da un figlio, ribadisce in un’altra pagina del saggio, «non dobbiamo pretendere nulla» (rr. 7273). Di tutti gli esseri, ricorda la Ginzburg, occorre saper rispettare i peculiari modi di sviluppo. Anziché tentare invano di “salvare”
3. La realtà, la poesia, il presente
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Natalia Ginzburg
L’educazione dei figli
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’attitudine a vedere le cose con uno sguardo limpido e privo di pregiudizi è evidente tanto nei romanzi quanto nei saggi, là dove la Ginzburg riflette sui casi della sua esistenza personale e più in generale sulla vita di tutti i giorni, sulle cose che tutti quanti hanno sotto gli occhi ma spesso non riescono a mettere a fuoco. Il brano che segue è un buon esempio di questa sua capacità di analisi, applicata all’educazione dei figli e alla scuola.
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Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere. Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo a insegnare il rispetto per le piccole virtù, fondando su di esse tutto il nostro sistema educativo. Scegliamo, in questo modo, la via più comoda: perché le piccole virtù non racchiudono alcun pericolo materiale, e anzi tengono al riparo dai colpi della fortuna. Trascuriamo d’insegnare le grandi virtù, e tuttavia le amiamo, e vorremmo che i nostri figli le avessero: ma nutriamo fiducia che scaturiscano spontaneamente nel loro animo, un giorno avvenire, ritenendole di natura istintiva, mentre le altre, le piccole, ci sembrano il frutto d’una riflessione e di un calcolo e perciò noi pensiamo che debbano assolutamente essere insegnate. In realtà la differenza è solo apparente. Anche le piccole virtù provengono dal profondo del nostro istinto, da un istinto di difesa: ma in esse la ragione parla, sentenzia, disserta, brillante avvocato dell’incolumità personale. Le grandi virtù sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, un istinto a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che argomenta, sentenzia, disserta con la voce della ragione. L’educazione non è che un certo rapporto che stabiliamo fra noi e i nostri figli, un certo clima in cui fioriscono i sentimenti, gli istinti, i pensieri. […] Appena i nostri figli cominciano ad andare a scuola, noi subito gli promettiamo denaro in premio, se studieranno bene. È un errore. […] E in genere, credo si debba andare molto cauti nel promettere e somministrare premi e punizioni. Perché la vita raramente avrà premi e punizioni: di solito i sacrifici non hanno alcun premio, e sovente le cattive azioni non sono punite, ma anzi a volte lautamente retribuite in successo e denaro. Perciò è meglio che i nostri figli sappiano fin dall’infanzia, che il bene non riceve ricompensa, e il male non riceve castigo: e tuttavia bisogna amare il bene e odiare il male: e a questo non è possibile dare nessuna logica spiegazione. Al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare una importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo […]. Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la barriera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta una offesa. Allora la poesia e il mondo
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i nostri figli, tediati, s’allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d’un’ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e irrisorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’essere continuamente incompresi e misconosciuti, e di esser vittime d’ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi […]. È falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d’esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi nell’orgoglio, frustrati d’una soddisfazione. Se il meglio del loro ingegno non hanno l’aria di volerlo spendere per ora in nulla, e passano le giornate al tavolino masticando una penna, neppure in tal caso abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse quello che a noi sembra ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti. Se il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra che lo sprechino, buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati su un prato a giocare a foot-ball, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si tratti di spreco dell’energia e dell’ingegno, o se anche questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità dello spirito. […] Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore alla vita. Esso può prendere diverse forme, e a volte un ragazzo svogliato, solitario e schivo non è senza amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato di attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione d’un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita? Noi dobbiamo allora aspettare, accanto a lui, che la sua vocazione si svegli, e prenda corpo. Il suo atteggiamento può assomigliare a quello della talpa o della lucertola, che se ne sta immobile, fingendosi morta: ma in realtà fiuta e spia la traccia dell’insetto, sul quale si getterà con un balzo. Accanto a lui, ma in silenzio e un poco in disparte, noi dobbiamo aspettare lo scatto del suo spirito. Non dobbiamo pretendere nulla: non dobbiamo chiedere o sperare che sia un genio, un artista, un eroe o un santo; eppure dobbiamo essere disposti a tutto; la nostra attesa e la nostra pazienza deve contenere la possibilità del più alto e del più modesto destino. (Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 2019)
3. La realtà, la poesia, il presente
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IL BRANO DÀ BENE L’IDEA Della “voce” con cui la Ginzburg ci parla: una voce insieme modesta e perentoria, che possiede la tranquillità di chi ragiona solo di situazioni vissute sulla propria pelle. Per non cedere alla tentazione di travestirsi, allo scopo di apparire più aggiornati, nel nostro mondo intellettuale occorrono un considerevole coraggio e un senso della propria dignità simile a quello descritto nel brano. QUANTO AL PRIMO ASPETTO Osserviamo come la scrittrice introduce le proprie opinioni: «Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro...» (r. 1), «Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo» (r. 6), «In realtà la differenza è solo apparente» (r. 15), «Le grandi virtù sgorgano da un istinto...» (rr. 17-18). Come si vede da questi esempi, l’autrice alterna affermazioni molto nette, assunzioni di responsabilità segnate dall’uso dell’io (un io dialogante: penso che, io credo che), ad altre in cui l’uso del noi ha lo scopo di sollecitare l’esperienza dei lettori, di coinvolgerli nel discorso, e infine a definizioni “oggettive”. Ne risulta un andamento del pensiero molto mosso e aperto, propenso al dialogo: un pensiero che “ferma dei punti” argomentativi e rilancia il discorso paragrafo dopo paragrafo. QUANTO AL SECONDO ASPETTO l’argomentazione della Ginzburg è un modello di ordine e rigore. Vediamo, per esempio, come la nozione di “istinto”, di per sé mal definibile, si specifica da sé nel giro delle frasi alle rr. 15-20. Un criterio d’ordine è
evidente anche nella composizione complessiva del discorso. Nella prima parte il tema dell’educazione è trattato partendo dalla distinzione tra piccole e grandi virtù; nella parte centrale il tema è quello dell’educazione come liberazione dell’istinto basata sul rispetto; nella parte finale la Ginzburg si concentra sul tema dell’«amore alla vita» (r. 64). I tre “blocchi” argomentativi sono compatti (e corrispondono a diversi punti di vista: la società e la morale; la prospettiva degli adulti; la prospettiva dei giovani) e trattati in maniera molto analitica, con una prosa veloce ed estremamente varia, che alterna frasi brevi a frasi sintatticamente più elaborate. COMPRENDERE IL TESTO 1. In che cosa consiste la differenza tra virtù “piccole” e virtù “grandi”? Che cosa succede quando si educa alle une o alle altre? 2. Su che cosa si fonda, per la Ginzburg, l’educazione? E qual è il suo scopo? 3. Che cosa pensa la Ginzburg della scuola? 4. Perché non funziona il sistema premio-punizione? INTERPRETARE, RIFLETTERE 6. Perché i genitori non avrebbero il diritto di sgridare i figli? 7. Che differenza c’è tra attendere e pretendere? 8. Cerca in rete la celebre lettera di Leopardi al padre del luglio del 1819 (dalle parole «sebbene dopo aver saputo…») e confrontala con il brano proposto. Credi che Leopardi sarebbe stato d’accordo con ciò che dice la Ginzburg?
VERSO L’ESAME
Debate L’impatto ambientale della produzione di cibo rappresenta una delle principali cause del cambiamento climatico. Appare urgente ridimensionare in particolare il consumo di carne, la cui produzione è molto onerosa dal punto di vista ambientale, e cambiare le abitudini alimentari della popolazione, anche attraverso politiche governative mirate; bisogna inoltre incentivare la produzione di alimenti maggiormente sostenibili che possano sostituire efficacemente i prodotti di origine animale.
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la poesia e il mondo
A vostro parere, qual è la strada più efficace da percorrere per limitare l’impatto ambientale dell’agricoltura globale? Organizzate una discussione in classe, dividendovi in due gruppi e seguendo le regole del debate. ▶ TESI 1
Il primo gruppo sosterrà la tesi 1: per limitare l’impatto ambientale dell’agricoltura globale bisogna in primo luogo limitare la produzione di carne bovina attraverso misure legislative governative.
Il secondo gruppo sosterrà la tesi 2: per limitare l’impatto ambientale dell’agricoltura globale bisogna convincere la popolazione a consumare alimenti sostitutivi delle proteine animali, come i legumi. Potete fare una ricerca in rete e raccogliere altre informazioni sull’argomento, per sostenere la vostra tesi nel modo più efficace e focalizzare la discussione su questi punti: a. quali sono le conseguenze negative sull’ambiente della produzione di carne bovina;
b. quali ricerche scientifiche sono state condotte negli ultimi anni su questo tema; c. quanto pesano, anche a livello globale, le abitudini alimentari degli Stati Uniti; d. quali sono i cibi alternativi alla carne che hanno una migliore sostenibilità ambientale; e. quali sono le qualità positive dei legumi, in termini di: – apporto nutrizionale; – sostenibilità alimentare; – fertilità del suolo; – biodiversità.
VERSO L’ESAME
Esposizione orale Dopo avere riflettuto sul concetto di mobilità sostenibile e avere ripensato alle vostre conoscenze ed esperienze, in relazione al vostro territorio, provate a pensare in che modo le politiche di mobilità sostenibile messe in atto finora potrebbero migliorare la situazione. Queste sono le diverse tipologie di intervento: 1. potenziamento del traporto pubblico locale, con corsie riservate e vie preferenziali, sistemi di integrazione tariffaria, strumenti per l’infomobilità; 2. adozione di specifici strumenti di pianificazione, come per esempio il Piano Urbano della Mobilità.; 3. sviluppo della mobilità pedonale, che favorisce l’accessibilità e la fruizione universale degli spazi pubblici, grazie all’eliminazione delle barriere architettoniche nei percorsi, e la realizzazione dei percorsi sicuri casa-scuola e del pedibus; 4. sviluppo della mobilità ciclabile, grazie alla progettazione di Piani strategici per la mobilità ciclistica (Biciplan), alla costruzione di piste ciclabili e all’implementazione di servizi di bike sharing (il noleggio di biciclette pubbliche); 5. attuazione di politiche di tariffazione e pedaggi, come accesso a pagamento in particolari zone urbane, sosta a pagamento, agevolazione dell’interscambio tra automobile e mezzo pubblico, assegnazione di crediti di mobilità; 6. pianificazione della mobilità aziendale, per mezzo della redazione del Piano spostamenti casalavoro, l’implementazione di sistemi di telelavoro e l’introduzione in azienda della figura del responsabile della mobilità;
7. gestione della domanda tramite la moderazione del traffico, le limitazioni della circolazione veicolare, l’introduzione di servizi di car sharing e di trasporto a chiamata, la promozione del car pooling, l’utilizzo di sistemi di information technology per la gestione dei flussi veicolari (per esempio instradamenti ai parcheggi, informazioni in tempo reale sulle strade, navigazione satellitare ecc.). strategie Quali sono, secondo voi, le strategie che possono avere maggiore successo nel contesto in cui vivete? Tenete presente che le città che hanno avuto più successo in questo campo hanno applicato in maniera integrata tutte le modalità di intervento che avete analizzato, in modo che si rinforzassero a vicenda: l’integrazione di queste misure porta a una riduzione notevole dei flussi di traffico veicolare privato e migliora la qualità della vita nei centri urbani. Dopo aver trovato le definizioni richieste, ogni gruppo esporrà brevemente alla classe in che modo si può realizzare l’intervento per la mobilità sostenibile di cui si è occupato. tipologie di intervento Per analizzare queste politiche di sostenibilità dei trasporti in modo più approfondito, vi proponiamo un lavoro di gruppo: la classe si divida in sette gruppi, ciascuno dei quali si occuperà di una delle tipologie di intervento elencate sopra. Ogni gruppo legga attentamente il documento a esso assegnato, sottolineando i diritti dell’uomo che vengono sanciti al suo interno. Ogni studente si
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▶ TESI 1
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I primi passi della nostra letteratura
la letteratura delle origini
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ll’inizio della sua Storia della letteratura italiana (un monumento degli studi letterari, pubblicata nel 1871), Francesco De Sanctis scrive che «il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena». Dunque i primi poeti italiani sarebbero Cielo d’Alcamo (che De Sanctis chiamava per errore Ciullo), un siciliano, e un tale Folcacchiero, senese. Ma la storia letteraria non è qualcosa che sia dato una volta per tutte: si fanno delle scoperte, e queste scoperte possono cambiare sensibilmente il quadro che credevamo di conoscere. Nel secolo e mezzo che è passato dalla Storia di De Sanctis, gli studiosi hanno scoperto molte cose; tra queste che: ––la cronologia della scuola siciliana è diversa da quella «comunemente creduta» ai tempi di De Sanctis, e non ci sono ragioni per attribuire a Cielo d’Alcamo, e men che meno a Folcacchiero da Siena, il ruolo dell’iniziatore; ––esistono testi in versi risalenti agli ultimi anni del XII secolo o ai primi del XIII, scritti per lo più nell’area dell’Italia centrale. Si tratta di testi isolati, che non formano una tradizione, ma che ci permettono di constatare come prima della nascita della scuola siciliana esistessero, in Italia, autori in grado di scrivere versi in volgare.
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La poesia religiosa È difficile immaginare oggi quanto fossero importanti i testi sacri e la preghiera per gli uomini e le donne del Medioevo. Molti di loro, la larga maggioranza, erano analfabeti. Nella vita di ogni giorno, molti non avevano alcun contatto con l’arte figurativa, né con la letteratura, né con la musica. Questo rendeva tali esperienze particolarmente significative e memorabili. Tutti, però, andavano a messa. Tutti partecipavano alle feste religiose. Tutti ascoltavano le prediche, che erano tenute in volgare (mentre la messa era in latino). Tutti partecipavano a battesimi, matrimoni, funerali. Perciò, le occasioni legate alla fede erano quelle in cui le persone normali potevano accedere a una forma d’espressione non puramente comunicativa ma artistica, a testi pensati per una fruizione, per così dire, disinteressata. La musica era quella sacra, la pittura raffigurava soggetti religiosi, gli intellettuali con i quali si entrava più spesso in contatto erano preti e frati: da loro, soprattutto, si imparava la propria visione del mondo. Non è sorprendente, allora, che buona parte della poesia medievale sia poesia religiosa, 1. I primi passi della nostra letteratura
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e che anche molte delle prime poesie in volgare siano preghiere, o testi ispirati alla Bibbia o alle vite dei santi.
Francesco d’Assisi e il francescanesimo Quando parliamo di Francesco d’Assisi non parliamo in prima istanza di uno scrittore, ma di una delle personalità più importanti nella storia della cultura e della spiritualità occidentale (oltre che, dal 1939, del santo patrono d’Italia). E parlarne è difficile perché nel suo caso, più che nel caso di qualsiasi altro uomo del Medioevo, dati storici ed elementi leggendari s’intrecciano in maniera spesso inestricabile e formano – al di là dell’immagine un po’ oleografica del “poverello” – un ritratto complesso, che si presta a interpretazioni disparate. Le prime poesie religiose in volgare: le laudi La poesia religiosa del Medioevo è scritta per lo più in latino: si trattava di testi, di solito in forma di preghiera, che venivano recitati o cantati durante le funzioni religiose, o in particolari occasioni del calendario cristiano. Ma a partire dalla metà del Duecento, soprattutto nell’Italia centrale, si cominciano a trovare le prime tracce di una poesia religiosa in volgare: sono le laudi (o laude), testi in forma di ballata che cantano però non l’amore profano bensì le lodi di Dio, di Maria, di Gesù o di un santo. Per secoli, le laudi saranno uno dei generi poetici più diffusi e popolari della letteratura italiana. Questo anche per una ragione pratica. Esisteva nel Medioevo (ed esiste ancora) un gran numero di confraternite, cioè di gruppi di religiosi e di laici che si riunivano per cantare o recitare insieme dei testi sacri (preghiere, inni, semplici rappresentazioni teatrali). Nel 1233 nasce il movimento degli Alleluianti (che prende il nome dal canto della messa che veniva intonato dai pellegrini), e a quell’occasione risalgono, probabilmente, i primi esempi di questi testi. Del 1260 è la formazione della compagnia dei Disciplinati di Perugia sotto la guida di Raniero Fasani. Da allora in poi, con il fiorire delle confraternite laiche in tutta l’Italia centro-settentrionale, la lauda diventò il più comune dei mezzi di devozione. Un francescano combattivo: Iacopone da Todi Iacopone nasce intorno al 1236 e vive una vita da laico fino agli anni Sessanta del Duecento, quando ha circa trent’anni: si sposa e lavora come procuratore legale. Poi, forse dopo la morte della moglie, ha una crisi spirituale e nel 1268 decide di prendere i voti: diventa frate francescano e vive la seconda metà della sua vita osservando la Regola e militando nell’ala più radicale dell’ordine (gli Spirituali), che professava (contro i Conventuali) l’assoluta povertà. Ma è un uomo severo, combattivo, rissoso: e quando la famiglia Colonna impugna le armi contro papa Bonifacio VIII, lui prende le parti dei Colonna. Ma ha la peggio: nel 1298 viene catturato e imprigionato. Morto Bonifacio, papa Benedetto XI lo libera nel 1304, e lui si ritira nel convento delle clarisse di San Lorenzo, vicino a Todi, dove muore nel 1307. I manoscritti tramandano circa novanta laudi che possono essere attribuite a Iacopone. Si tratta di gran lunga del più cospicuo corpus laudistico personale del Medioevo: Iacopone è cioè il maestro indiscusso del genere, e verrà letto e imitato per almeno tre secoli. Scrive alcune laudi devozionali, dedicate ai santi e alla Vergine. La più celebre, Donna de Paradiso, è una lauda drammatica, che mette in scena 276
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un dialogo tra vari personaggi che assistono alla crocifissione di Gesù (e al centro della rappresentazione c’è Maria, alla quale appunto i fedeli si rivolgono con l’epiteto «Donna de paradiso»). Ma celebri sono soprattutto le laudi in cui Iacopone prende posizione circa le questioni politiche del tempo, o quelle in cui racconta la sua vita, e in particolare le disgrazie che gli sono capitate in seguito alla sua decisione di battersi contro Bonifacio VIII. Fanno parte della prima famiglia le laudi-invettive contro il papa (O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo), o le lettere in versi a personaggi storici come un altro papa, Celestino V (Que farai, Pier da Morrone?), mentre alla seconda appartengono laudi autobiografiche come la celebre Que farai, fra Iacovone?, che il poeta scrisse mentre era imprigionato (vv. 15-19): la presone che m’è data, una casa sotterrata arèscece una privata, non fa fragar de moscune.
Sono stato rinchiuso in un sotterraneo [i sotterranei del convento di San Fortunato a Todi] nel quale sbocca una latrina: l’odore non è quello del muschio.
È un modello di “poesia dell’io” ben diverso da quello che ispira la contemporanea lirica toscana. Il tono brusco e diretto, la violenza delle immagini, la quotidianità del lessico e della sintassi, in una parola il realismo di Iacopone, si avvicinano piuttosto all’altra “scuola poetica”, questa interamente laica, che andava formandosi in quegli anni tra Firenze e Siena: il filone burlesco di Rustico Filippi o di Cecco Angiolieri, che rappresenta una sorta di contraltare borghese e realistico al mondo della “cortesia” tenuto vivo dagli stilnovisti.
Dramma liturgico e sacra rappresentazione Quando ci occuperemo della letteratura dell’età moderna, dal Cinquecento in poi, leggeremo anche molte opere teatrali: dalla Mandragola di Machiavelli alle commedie di Goldoni, dall’Amleto di Shakespeare alle tragedie di Alfieri. Invece in queste pagine relative al Medioevo il teatro è assente. Come mai? Il fatto è che un teatro laico simile a quello che comincerà a essere scritto e allestito nel Rinascimento è quasi assente nel Medioevo italiano. Esistevano, certamente, spettacoli pubblici nei quali mimi e giullari raccontavano le loro storie a un pubblico; ma si trattava appunto di farse ◆ Robot ◆ recitate tutte sulla base di un canovaccio, La parola robot viene dalla lingua non di testi messi in scena da una squadra ceca, dal verbo robota, «lavorare»: i di attori. Diversa era la situazione in ambito robotnik erano i lavoratori impiegati ecclesiastico. Qui esistevano i drammi linei lavori pesanti, alle dipendenze degli aristocratici. Oggi robotnik turgici, cioè testi ispirati ai libri della Bibin ceco significa genericamente bia che venivano recitati dai chierici prima «lavoratore». La parola robot fu utilizzata per o durante le funzioni religiose, in latino. E la prima volta dallo scrittore ceco Karel Čapek, da questi drammi liturgici derivarono quelnel 1920, nel suo romanzo RUR, Rossum universal le prime forme embrionali di teatro che si robots, («I lavoratori tuttofare di Rossum»). Il protagonista del romanzo, Rossum, crea lavoratori definiscono sacre rappresentazioni. La umani perfetti, privi di desideri e di bisogni che differenza tra il dramma liturgico e la sacra potrebbero distoglierli dal lavoro. Il romanzo ebbe rappresentazione può essere fissata attraampia diffusione e contribuì all’affermazione della verso questi punti: parola robot, anche se riferita soprattutto a esseri meccanici, nonostante i “lavoratori-robotnik” del 1. mentre il dramma liturgico veniva recita-
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a lauda di Iacopone Donna de Paradiso non è, in senso stretto, una sacra rappresentazione. Ma è certamente un testo che spesso, se non sempre, doveva essere letto o recitato a più voci, tante quante sono quelle dei personaggi che fanno parte della sua “trama”, vale a dire (1) un messaggero, o un “coro” di messaggeri, che annuncia il martirio di Cristo, (2) Maria e (3) Gesù. In ogni caso, Donna de Paradiso è la prima e più celebre lauda drammatica della letteratura italiana.
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«Donna de Paradiso, lo tuo figliolo è preso, Iesù Cristo beato. Accurre, donna e vide che la gente l’allide; credo che lo s’occide, tanto l’ho flagellato». «Como essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?» «Madonna, ello è traduto, Iuda sì ll’ha venduto; trenta denar’ n’ha auto, fatto n’ha gran mercato». «Soccurri, Madalena, ionta m’è adosso piena! Cristo figlio se mena, como è annunzïato».
Metro: ballata di settenari, con ripresa di schema yyx e stanza di schema aaax. È lo schema che si definisce “zagialesco”, dal nome di una forma metrica di origine araba, lo zajal, che si era diffusa in Spagna dopo la conquista araba, ed era poi entrata nelle letterature romanze; tale schema allinea appunto tre versi in rima baciata e un verso di chiusa che rima con l’ultimo verso della ripresa. 2. preso: catturato. 4. Accurre: accorri. 5. allide: percuote (allide è latinismo, da allidere). 6. credo … s’occide: mi pare che l’ammazzino. 7. tanto … flagellato: tanto l’hanno flagellato (-o è la desinenza umbra della terza persona plurale: quindi ho = “hanno”). 8-10. Como … pigliato: come può essere che lo si (om, pronome impersonale)
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«Soccurre, donna, adiuta, cà ’l tuo figlio se sputa e la gente lo muta; òlo dato a Pilato». «O Pilato, non fare el figlio meo tormentare, ch’eo te pòzzo mustrare como a ttorto è accusato». «Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, secondo nostra lege contradice al senato». «Prego che mm’entennate, nel meo dolor pensate! Forsa mo vo mutate de che avete pensato». «Traiàn for li latruni, che sian soi compagnuni: de spine s’encoroni,
sia catturato; non … follia: non ha mai commesso colpa; la spene mia: la mia speranza. 12-13. traduto: tradito; Iuda: Giuda (si allude al tradimento di Giuda Iscariota, che denunciò Gesù ai Sommi Sacerdoti per trenta denari); il verbo traduto rinvia al Vangelo di Matteo, 26,15: «quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam?» (“Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?”). 15. fatto … mercato: ne ha fatto un grande affare. 16. Madalena: Maria di Magdala, una delle seguaci di Gesù. 17. ionta … piena: mi è arrivata addosso una piena (del mare), cioè una sventura. 18. Cristo … mena: Cristo viene condotto (al patibolo). 19. como è annunzïato: come hanno detto le profezie.
20. adiuta: porta il tuo aiuto. 22. la … muta: la gente lo porta via. 23. òlo … Pilato: lo hanno dato a Pilato, il procuratore romano in Giudea che fece uccidere Gesù. 25. el’ … tormentare: torturare mio figlio. 26. mustrare: dimostrare. 28. Crucifige: crocifiggetelo. 29. Omo … rege: chi dice di essere re. 31. contradice al senato: va contro il potere del Senato. 32. Prego … entennate: ascoltatemi, vi prego. 33. nel … pensate: pensate al mio dolore. 34-35. Forsa … pensato: forse allora muterete la vostra decisione. 36. Traiàn … latruni: tiriamo fuori dal carcere i ladroni.
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ché rege ss’è clamato!» «O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! Figlio, chi dà consiglio al cor me’ angustïato? Figlio occhi iocundi, figlio, co’ non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ si lattato?» «Madonna, ecco la croce, che la gente l’aduce, ove la vera luce déi essere levato». «O croce, e que farai? El figlio meo torrai? E que ci aponerai, che no n’ha en sé peccato?» «Soccurri, plena de doglia, cà ’l tuo figliol se spoglia; la gente par che voglia che sia martirizzato».
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«Se i tollit’el vestire, lassatelme vedere, com’en crudel firire tutto l’ho ensanguenato». «Donna, la man li è presa, ennella croc’è stesa; con un bollon l’ho fesa, tanto lo ’n cci ho ficcato. L’altra mano se prende,
43. cor me’: mio cuore; angustïato: tormentato, addolorato. 45. co’: come (causale: vale perché). 47. o’ si lattato: dove sei stato allattato 49. che … aduce: che viene portata dalla gente. 50. la vera luce: epiteto di Gesù. 51. déi … levato: deve essere issato. 53. torrai: prenderai. 54. que ci aponerai: di cosa li accuserai? 56. Soccurri … doglia: soccorri, donna piena di dolore. 60. i … vestire: gli togliete i vestiti. 62. com’en … firire: come nel ferirlo crudelmente. 63. l’ho ensanguenato: l’hanno coperto di sangue. 64. la man … presa: gli hanno preso la
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ennella croce se stende e lo dolor s’accende, ch’è plù multiplicato. Donna, li pè se prenno e clavellanse al lenno; onne iontur’aprenno, tutto l’ò sdenodato». «E eo comenzo el corrotto: figlio, lo meo deporto, figlio, chi me tt’ha morto, figlio meo dilicato? Meglio aviriano fatto ch’el cor m’avesser tratto, ch’ennella croce è tratto, stace descilïato!» «O mamma, o’ n’èi venuta? Mortal me dà feruta, cà ’l tuo plagner me stuta, ché ’l veio sì afferato». «Figlio, ch’eo m’aio anvito, figlio, pat’e mmarito! Figlio, chi tt’ha firito? Figlio, chi tt’ha spogliato?» «Mamma, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve mei compagni, ch’él mondo aio aquistato». «Figlio, questo non dire! Voglio teco morire, non me voglio partire fin che mo ’n m’esc’ el fiato.
mano (per inchiodarla sulla croce). 66. con … fesa: con un chiodo l’hanno spaccata. 67. tanto … ficcato: tanto profondamente l’hanno conficcato. 71. plù multiplicato: ulteriormente accresciuto. 72. li … prenno: vengono presi i piedi. 73. clavellanse al lenno: s’inchiodano al legno (della croce). 74. onne iontur’aprenno: aprendo ogni giuntura. 75. l’ò sdenodato: l’hanno snodato, disarticolato. 76. comenzo el corrotto: inizio il lamento funebre. 77. deporto: consolazione. 78. morto: ucciso.
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81. tratto: tolto dal petto. 82. è tratto: è trascinato. 83. stace descilïato: ci sta straziato. 84. o’ … venuta?: dove sei venuta? 86. stuta: spegne, e per traslato “uccide”. 87. ché … afferato: perché lo vedo così angosciato. 88. ch’eo … anvito: (piango) perché ne ho buon motivo. 89. figlio … mmarito: figlio, padre e marito. 94. serve: “servi”, seconda persona singolare del congiuntivo presente. 95. ch’él … aquistato: che mi sono procurato nel mondo. 99. mo … fiato: finché non avrò più respiro.
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C’una aiàn sepultura, figlio de mamma scura, trovarse en afrantura mat’e figlio affocato!» «Mamma col core afflitto, entro ’n le man’ te metto de Ioanni, meo eletto; sia to figlio appellato. Ioanni, èsto mea mate: tollila en caritate, àggine pietate, cà ’l core sì ha furato». «Figlio, l’alma t’è ’scita, figlio de la smarrita, figlio de la sparita, figlio attossecato! Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio,
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figlio, e a ccui m’apiglio? Figlio, pur m’ài lassato! Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo, figlio, perché t’ha el mondo, figlio, cusì sprezzato? Figlio dolc’e placente, figlio de la dolente, figlio, àte la gente mala mente trattato. Ioanni, figlio novello, morto s’è ’l tuo fratello. Ora sento ’l coltello che fo profitizzato. Che moga figlio e mate d’una morte afferrate: trovarse abraccecate mat’e figlio impiccato». (Iacopone da Todi, Donna de Paradiso, in Laude, Einaudi, Milano 2019)
100. C’una … sepultura: che abbiano una sola sepoltura. 101. scura: infelice. 102. trovarse en anfratura: che si ritrovino nel dolore. 103. affocato: soffocato. 105-106. entro … Ioanni: ti metto nelle mani di Giovanni; meo eletto: scelto da me. 108. èsto … mate: ecco mia madre. 109. tollila en caritate: prendila nel tuo amore.
111. cà … furato: che ha il cuore così affranto. 112. (e)scita: uscita dal corpo. 114. sparita: disperata. 115. attossecato: avvelenato (si credeva che Gesù fosse stato avvelenato dalla spugna intrisa di aceto che una delle guardie gli aveva accostato alle labbra). 117. senza simiglio: senza pari. 118. a … apiglio?: a chi mi rivolgo per avere aiuto? 119. pur: davvero.
LA PASSIONE La storia della crocifissione era, per gli uomini del Medioevo, la storia per eccellenza, quella che tutti conoscevano per averla tante volte ascoltata durante le funzioni religiose. Ma i Vangeli raccontano soltanto i fatti: il tradimento di Giuda, il processo a Gesù, la condanna, la flagellazione, la crocifissione. Iacopone, drammatizzando questi fatti, ce li fa vedere attraverso gli occhi della madre di Gesù, e così dà loro una carica emotiva assolutamente inedita, che doveva commuovere profondamente i lettori e, soprattutto, gli ascoltatori di Donna de Paradiso.
COMMENTO
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LA STRUTTURA La lauda è divisa in due parti. Nella prima, dall’inizio al v. 75, si alternano tre voci. Quella di Maria (a partire dal v. 8); quella di un messaggero o di
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126. àte: ti ha. 128. novello: nuovo. 131. fo profetizzato: il martirio di Cristo era stato predetto da Simeone (Vangelo di Luca, 2,35: «E anche a te una spada trafiggerà l’anima»). 132. Che moga: che muoiano. 133. d’una … afferrate: ghermiti da una stessa morte. 134. trovarse abraccecate: ritrovarsi abbracciati.
un “coro” di messaggeri che comunica a Maria ciò che sta succedendo a Gesù, e che sembra solidale con lei (è la voce che apre la lauda, vv. 1-7, e poi torna più volte a farsi sentire); e quella di un altro “coro” che invece incoraggia con il suo grido (Crucifige!) i carnefici (vv. 28-31 e 36-39). Nella seconda partew, dal v. 76 alla fine, invece, il dialogo è soltanto tra Maria e Gesù. Compare anche la figura di Giovanni (v. 108), a cui Gesù affida sua madre: Giovanni è lì che assiste alla scena, Gesù gli rivolge la parola ma Iacopone non lo fa parlare. Né – cosa più importante – in questa lauda parla l’autore. Vale a dire che non c’è una voce “fuori campo” che introduca e commenti gli interventi dei vari personaggi: la scena si presenta ai nostri occhi senza mediazioni, come su un immaginario palco teatrale.
RETORICA, METRO, LESSICO L’eccezionale forza patetica del compianto è dovuta da un lato alla griglia metrico-retorica, dall’altro al lessico. Il compianto è formato infatti da sintagmi dalla struttura elementare, composti dall’appellativo Figlio + uno o più attributi («bianco e biondo», v. 120), o un’apposizione («volto iocondo», v. 121) o un complemento («de la smarrita», v. 113); tali sintagmi vengono ripetuti in
LEGGERE E COMPRENDERE 1 Come si presenta strutturalmente la lauda? In quante e quali parti può essere divisa? 2 Prevale nella lauda una costruzione paratattica o ipotattica? Il polisindeto o l’asindeto? Rispondi con riferimenti al testo e spiegando anche l’effetto generato dalla scelta sintattica più ricorrente. 3 Perché nel testo ritorna insistentemente la figura retorica dell’anafora? RIFLETTERE SULLA LINGUA 4 Il lessico di Iacopone rinvia a un’ampia gamma di registri, da quello colto a quello quotidiano e popolare. Indica nel testo alcuni esempi di queste differenti gradazioni stilistiche.
sequenza, e la ripetizione ha – anche a causa della misura breve dei versi, e della percussività della rima, iterata per tre volte – una musicalità quasi ipnotica, da litania: il senso delle parole passa in secondo piano, e l’attenzione del lettore-ascoltatore si perde nella cadenza sempre uguale del lamento. Quanto al lessico, Iacopone descrive la scena fondamentale della tradizione cristiana, la Passione di Cristo, servendosi di un linguaggio di grande forza realistica: Cristo non viene, genericamente, “ucciso”, ma affocato (v. 103), attossecato (v. 115), martirizzato (v. 59), impiccato (v. 135), e le sue membra sono sdenodate (v. 75), clavellate (v. 73). Al polo opposto dello spettro linguistico, la dolcezza dell’amore materno è resa attraverso epiteti di commovente semplicità: amoroso giglio (v. 41), bianco e biondo (v. 120), bianco e vermiglio (v. 116), volto iocondo (v. 121). IL PIANTO FUNEBRE RITUALE Un’ultima osservazione sul linguaggio. Come ha osservato Paolo Toschi, l’ultima parte della lauda «ricalca la fraseologia dei pianti funebri che le donne del popolo cantavano, ai tempi di Jacopone, a Todi e in tutta l’Umbria. Espressioni d’amore materno come “Figlio, amoroso giglio, figlio, occhi giocondi…” e anche il rivolgersi al morto in discorso diretto come se egli potesse ascoltare (“Figlio, co’ non respondi? […]) trovano riscontro […] nello stile aedico e nel costume del rèpito o corrotto popolare». Vale a dire che in questi versi Iacopone si serve di parole e formule che si adoperavano, anticamente, nelle cerimonie funebri, per esprimere il proprio dolore (rèpito o corrotto sono
5 Il linguaggio della lauda non è solo realistico ma, a tratti, quasi espressionistico, cioè teso a drammatizzare, a caricare emotivamente la scena descritta: per esempio, al v. 75 (sdenodato) o al v. 104 (affocato). Trova altri esempi di questo stile espressionistico. SCRIVERE E RISCRIVERE 6 verso l’esame Se si escludono i primi tre versi, quante sono le strofe del componimento? Questo numero può avere un valore simbolico? PARLARE 7 Si potrebbe dire che, in questa lauda, Iacopone abbia voluto attribuire maggiore centralità alla Passione di Maria piuttosto che a quella del Figlio?
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UN CAPOLAVORO LIRICO Iacopone segue da vicino il testo evangelico, il che significa che non inventa nulla rispetto alla sua fonte. Ma è tutta sua, come si è accennato, la forza patetica del testo, affidata soprattutto a Maria. È vero che anche Gesù manifesta in maniera umanissima il suo dolore nel vedere che la madre è arrivata sotto la croce, ad assistere al suo martirio («O mamma, o’ n’èi venuta? / Mortal me dà feruta, / cà ’l tuo plagner me stuta», vv. 84-86). Ma ad essere davvero straordinaria – tanto da rendere questo testo uno dei capolavori lirici del Duecento – è la capacità che Iacopone ha di convogliare nella voce di Maria l’angoscia di una madre che vede il figlio morire. La donna prima è incredula, perché sa che Gesù non si è macchiato di nessuna colpa (vv. 8-9, «Como esser porria, / che non fece follia»); poi tenta di far cambiare idea a Pilato, vuole dimostrargli come «a ttorto è accusato» (v. 27); poi fa appello al popolo, lo invita a considerare il suo dolore di madre (v. 33 «nel meo dolor pensate»). Ma non c’è nulla da fare, la crocifissione ha luogo (la vediamo attraverso la cronaca fatta dal primo “coro”), e Maria comincia il suo compianto (il «corrotto», v. 76).
METAMORFOSI
At harunt. Et omnia prorpor ehentus, to
tendiost ipsam, si bea volupic ipietum sinveribus et quaspero to cus doluptur sectust, oditaqu atendam, ea core es eicid que nectis rem
Donna de Paradiso • Iacopone da Todi
Umque voluptas quiducil moluptaepuda dolor sinci dolupta ectessequi
Fabrizio De Andrè
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Ottocento
La bella descrizione di una famigliola altoborghese: la voce narrante è il babbo di questa famiglia pseudo tardo ottocentesca all’antica e fuori moda, quasi fuori dal tempo. il progresso e il consumismo/capitalismo corrono veloci e impetuose. M’immagino l’industrializzazione da motore a vapore. Di valori borghesi ma di aspirazione nobile, la parodia di un commerciante austoungarico è allo stesso tempo efficacie e divertente. La famiglia di cui parla però è davvero fuori dal tempo, la canzone si incentra su una metafora dei valori e non sua una puntualizzazione storica.
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Cantami di questo tempo l’astio e il malcontento di chi è sottovento e non vuol sentir l’odore di questo motor che ci porta avanti quasi tutti quanti maschi, femmine e cantanti su un tappeto di contanti nel cielo blu Figlia della mia famiglia sei la meraviglia già matura e ancora pura come la verdura di papà
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Figlio bello e audace bronzo di Versace figlio sempre più capace di giocare in borsa di stuprare in corsa e tu moglie dalle larghe maglie dalle molte voglie esperta di anticaglie scatole d’argento ti regalerò Ottocento Novecento Millecinquecento scatole d’argento fine Settecento ti regalerò la letteratura delle origini
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Quanti pezzi di ricambio quante meraviglie quanti articoli di scambio quante belle figlie da sposar e quante belle valvole e pistoni fegati e polmoni e quante belle biglie a rotolar e quante belle triglie nel mar Figlio figlio povero figlio eri bello bianco e vermiglio quale intruglio ti ha perduto nel Naviglio figlio figlio unico sbaglio annegato come un coniglio per ferirmi, pugnalarmi nell’orgoglio a me a me che ti trattavo come un figlio povero me domani andrà meglio Ein klein pinzimonie wunder matrimonie krauten und erbeeren und patellen und arsellen fischen Zanzibar und einige krapfen frùer vor schlafen und erwachen mit walzer
und Alka-Seltzer fùr dimenticar
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Quanti pezzi di ricambio quante meraviglie quanti articoli di scambio
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quante belle figlie da sposar e quante belle valvole e pistoni fegati e polmoni e quante belle biglie a rotolar e quante belle triglie nel mar. (Fabrizio De Andrè, Mauro Pagani, Ottocento, in Tutte le canzoni, Einaudi, Milano 2019)
Nel prologo quest’uomo non vuole altro che capire: perché c’è gente che non apprezza il capitalismo? se il “motore” è il sistema dell’industria che ci fa campare ricchi e beati a tutti: perché qualcuno ad oggi depreca questo sistema mettendosi “sotto vento” (nascondendosi) questa verità ovvia? (nel dire tutti, cita pure i cantanti che come i poeti sono intellettuali contestatori che spesso si considerano fuori dal sistema, sfruttandone invece di fatto le “potenzialità”, come la pubblicità, la produzione in serie ecc) Figlia della mia famiglia sei la meraviglia già matura e ancora pura come la verdura di papà La figlia femmina, con un carico di valori patriarcali, è figlia della famiglia intera, meraviglia e gioello di tutti, ancora Pura se pure già grande... come la verdura di
papà (dell’orto del nonno pensionato, mi fa venire in mente...). La figlia è quasi un oggetto di scambio, una merce, appunto nel puro stile patriarcale, che trova nuova forma nel capitalismo moderno. Il figlio maschio invece domina la situazione, come si confa ai maschi benestanti, secondo il modello che il capitalismo gli ha cucito: bello e audace, benvestito, abile negli affari e con le donne. Alla moglie invece che immagino con questi vestioni scollati, che si riempie di paccottiglia e compra cose totalmente inutili per saziare le sue voglie e le sue sciccherie, vuole regalare una bella anticaglia senza utilità. Scatole per riporre potenzialmente niente. Non importa cosa debbano contenere e se siano di valore: gliene compra tantissime, una finta anticaglia prodotta anch’essa in serie, sembrerebbe. L’opulenza. Tutto è un pezzo di ricambio, una merce, il corpo paragonato ad una macchina, come a voler parlare
Roberto Vecchioni
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Figlio, figlio, figlio La suggestione del testo medievale è evidentissima, soprattutto nel ritmo, scandito dalla parola “figlio” e da quelle che con essa intrecciano una serie di rime e di assonanze, esaltate dalla resa musicale. Ma il contenuto è spogliato da ogni implicazione sacra; alla madre si è sostituito il padre, principale referente della funzione educativa; al dolore per la morte la preoccupazione per il futuro di un figlio nato e destinato a crescere in un mondo privo di ideali e di valori, un figlio che deve trovare dentro di sé la forza di staccarsi dai modelli e di vivere la sua vita.
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Figlio chi t’insegnerà le stelle se da questa nave non potrai vederle? Chi t’indicherà le luci dalla riva? Figlio, quante volte non si arriva! Chi t’insegnerà a guardare il cielo fino a rimanere senza respiro? A guardare un quadro per ore e ore fino a avere i brividi dentro il cuore? Che al di là del torto e la ragione contano soltanto le persone? 1. I primi passi della nostra letteratura
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Donna de Paradiso • Iacopone da Todi
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Che non basta premere un bottone per un’emozione? Figlio, figlio, figlio, disperato giglio, giglio, giglio luce di purissimo smeriglio, corro nel tuo cuore e non ti piglio dimmi dove ti assomiglio figlio, figlio, figlio soffocato giglio, giglio, giglio, figlio della rabbia e dell’imbroglio, figlio della noia e lo sbadiglio, disperato figlio, figlio, figlio. Figlio chi si è preso il tuo domani? Quelli che hanno il mondo nelle mani. Figlio, chi ha cambiato il tuo sorriso? Quelli che oggi vanno in paradiso. Chi ti ha messo questo freddo in cuore? Una madre col suo poco amore. Chi l’ha mantenuto questo freddo in cuore? Una madre col suo troppo amore. Figlio, chi ti ha tolto il sentimento? Non so di che parli, non lo sento. Cosa sta passando per la tua mente? Che non credo a niente. Figlio, figlio, figlio, disperato giglio, giglio, giglio luce di purissimo smeriglio, corro nel tuo cuore e non ti piglio dimmi dove ti assomiglio figlio, figlio, figlio spaventato giglio, giglio, giglio, figlio della rabbia e dell’imbroglio, figlio della noia e lo sbadiglio, disperato figlio, figlio, figlio. Figlio, qui la notte è molto scura, non sei mica il primo ad aver paura; non sei mica il solo a nuotare sotto tutte due ci abbiamo il culo rotto: non ci sono regole molto chiare, tiro quasi sempre ad indovinare; figlio, questo nodo ci lega al mondo: devo dirti no e tu andarmi contro, tu che hai l’infinito nella mano io che rendo nobile il primo piano; figlio so che devi colpirmi a morte e colpire forte. Figlio, figlio, figlio, disperato giglio, giglio, giglio luce di purissimo smeriglio, corro nel tuo cuore e non ti piglio dimmi dove ti assomiglio figlio, figlio, figlio calpestato giglio, giglio, giglio, figlio della rabbia e dell’imbroglio, figlio della noia e lo sbadiglio, adorato figlio, figlio, figlio. Dimmi, dimmi, dimmi cosa ne sarà di te? Dimmi, dimmi, dimmi cosa ne sarà di te?
la letteratura delle origini
La suggestione del testo medievale è evidentissima, soprattutto nel ritmo, scandito dalla parola “figlio” e da quelle che con essa intrecciano una serie di rime e di assonanze, esaltate dalla resa musicale. Ma il contenuto è spogliato da ogni implicazione
sacra; alla madre si è sostituito il padre, principale referente della funzione educativa; al dolore per la morte la preoccupazione per il futuro di un figlio nato e destinato a crescere in un mondo privo di ideali e di valori, un figlio che deve trovare dentro di sé la forza di
DA IERI A OGGI 1. Leggi questo giudizio di Erich Auerbach (tratto da Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale), e mettilo in relazione con la poesia di Iacopone che hai letto.
Infine deve venir messo in rilievo un terzo fatto, essenziale per il realismo del tardo Medioevo; proprio quel fatto che mi ha indotto a introdurre in questo capitolo il neologismo “creaturale”. Fin da principio è proprio dell’antropologia cristiana il mettere in forte risalto ciò che nell’uomo è soggetto al dolore e alla caducità, e il dato esemplare fu la Passione di Cristo, in cui culmina la salvazione. Però nei secoli XII e XIII a ciò non si congiunse ancora una svalutazione e mortificazione così forte della vita terrena come quella che ormai si fa sentire. Nei precedenti secoli del Medioevo era ancora vivissima l’idea che la società terrena possedesse un valore e una mèta; aveva determinati compiti cui assolvere, aveva da attuare sulla terra una determinata forma ideale per preparare gli uomini al regno di Dio. Trova, poi, dopo aver atto alcune ricerche in rete, i punti di contatto con i testi di De Andrè e di Vecchioni. Qual è l’idea che tutti gli autori condividono? Quali sono, invece, le differenze nella loro visione del mondo? 2. Il sonetto ci dà la risposta di Giacomo alla domanda “Che cos’è l’amore?”. E se questa domanda fosse rivolta a te, come risponderesti (in un breve testo)?
3. COMPITO DI REALTà Un’associazione culturale della tua città ha scelto di affidare a un gruppo di studenti liceali l’organizzazione di un convegno di un giorno, in occasione della giornata mondiale della poesia. Svolgi queste attività: a. individua il tema, l’aspetto da approfondire (per esempio la poesia nella società contemporanea) e i destinatari dell’iniziativa (per esempio gli studenti dell’ultimo anno di scuola secondaria superiore della zona) b. valuta il tempo disponibile c. valuta il budget d. dividiti i compiti con i tuoi compagni, all’interno del gruppo di lavoro e. individua un luogo appropriato per lo svolgimento dei lavori f. individua i relatori e ol coordinatore Per organizzare un convegno è indispensabile capire quanto tempo si ha a disposizione e quali sono le risorse disponibili, fornite anche da eventuali sponsor; è necessario scegliere un luogo adeguato, per esempio la sala congressi di un hotel o l’aula magna di una università, e individuare i possibili relatori anche in considerazione del tema scelto. È importante valutare subito le risorse disponibili, per decidere se invitare ospiti o relatori lontani dalla sede del convegno, per i quali bisogna prevedere la retribuzione per l’intervento, se richiesta, e il rimborso delle spese di viaggio.
1. I primi passi della nostra letteratura
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Il poema della guerra: l’Iliade
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utto iniziò in un giorno di guerra. Erano nove anni che gli Achei assediavano Troia: spesso avevano bisogno di viveri o animali o donne, e allora lasciavano l’assedio e andavano a procurarsi quel che volevano saccheggiando le città vicine. Quel giorno toccò a Tebe, la città di Criseide: presero tutto quello che potevano rubare e se lo portarono alle navi. Quando, nel loro accampamento, i principi achei si divisero il bottino, Agamennone vide Criseide e la volle per sé. Era il re dei re, era il capo degli Achei: la prese e la portò alla sua tenda. Alcuni giorni dopo nell’accampamento arrivò il padre di Criseide, Crise, potente sacerdote di Apollo. Era molto vecchio. Portò dono splendidi e chiede agli Achei, in cambio di quei doni, di liberare la figlia. Tutti i principi achei, dopo averlo ascoltato, e conoscendo la sua saggezza e la sua autorità, si pronunciano per accettare il ricatto e liberare Criseide. Ma Agamennone si rifiutò di consegnare la fanciulla: «Vattene e non tornare, altrimenti non resterai vivo», dice al vecchio sacerdote. Da quel momento la morte e il dolore piombarono sugli Achei. Per nove giorni, i roghi dei soldati morti brillarono senza tregua. Il decimo giorno Achille convocò l’esercito in assemblea e chiese a Calcante, il più saggio fra gli indovini degli Achei, di spiegare ciò che stava accadendo. Calcante rivelò che era stato Apollo a seminare la morte nel campo acheo, per vendicare Crise, suo sacerdote. L’unica soluzione è restituire la fanciulla al padre, ma Agamennone, ancora una volta, si rifiuta di consegnare il suo bottino.
§ La lite tra Agamennone e Achille (Iliade, 102-246)
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… tra loro si alzò l’eroe figlio di Atreo, il potente Agamennone, esasperato: di cieca rabbia i neri precordi1 gli si gonfiavano, come braci le pupille gli ardevano. Dapprima si rivolese a Calcante, guardandolo storto: «Profeta di sventure, mai niente di buono sei solito dirmi: solo guai sempre ti piace vaticinarmi né mai augurio propizio mi svelasti o mandasti ad effetto, e anche ora vieni ad annunciarmi in mezzo ai Danai che il dio dell’arco ci infligge dolori da quando il magnifico riscatto offerto per la giovane Criseide l’epica
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1. precordi: come dice la parola stessa, la zona intorno al cuore. Qui, secondo Omero, hanno sede i sentimenti più violenti.
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rifiutai di ricevere poiché molto desidero tenerla con me e la preferisco addirittura a Clitennestra, la mia sposa legittima, alla quale costei non è inferiore né per bellezza né per statura né per senno o per industria. Ma pure così, se devo, accetto di restituirla: voglio la salvezza, non già la rovina, della mia gente. Ma un premio preparatemi subito sì che non solo io tra gli Agivi resti privo di un dono: non sarebbe giusto. Pensate tutti al premio che, a compenso, possa toccarmi». Gli rispondeva il nobile Achille scattante di piede: «Glorioso figlio di Atreo, fra tutti il più avido, come potranno darti un premio i magnanimi Achei? Non sappiamo di molti beni rimasti indivisi: quelli che razziammo2 dalle città ormai sono stati spartiti3 e non è giusto che l’esercito li metta di nuovo in comune. Ma ora restituisci la giovane al dio e tre e quattro volte tanto noi Achei ti rifonderemo se Zeus ci darà di abbattere le solide mura di Troia». a lui replicando diceva il potente Agamennone: «Valoroso quale tu sei, Achille pari a un dio, non imbrogliarmi! No, non potrai ingannarmi né persuadermi. Tu vuoi, per tenerti stretto il tuo dono, che io resti privo del mio e mi esorti a restituire costei? D’accordo se un premio mi daranno i prodi Achei che sia di mio gusto e l’altro degnamente compensi, ma in caso contrario verrò a prendermi di persona il tuo dono o quello di Aiace4 quello di Odisseo e prevedo che fremerà di collera l’uomo a cui farò visita. Ma di tutto questo ci daremo pensiero un’altra volta. Adesso caliamo in acqua una nave scura e raccogliamo un numero idoneo di rematori, poi carichiamo a bordo le bestie e provvediamo a far salire Criseide bella di guance5. Al comando stia uno del Consiglio, Aiace o Idomeneo6 o magari il nobile Odisseo e tu stesso, Pelide, fra tutti i guerrieri il più formidabile, perché immolando vittime tu ci propizi il signore dell’arco7».
2. razziammo: rubammo. 3. quelli … spartiti: il bottino di guerra veniva diviso in due parti: una era divisa in parti uguali e assegnata per sorteggio, l’altra spettava ai guerrieri più valorosi. In questa seconda parte rientravano le donne fatte prigioniere. 4. Aiace: re di Salamina, uno dei più forti guerrieri greci. 5. bella di guance: espressione formulare. 6. Idomeneo: re di Creta, nipote di Minosse. 7. perché … dell’arco: affinché, sacrificando vittime, tu renda a noi favorevole Apollo.
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Guardandolo storto replicava Achille scattante: «Ohimè, furfante vestito d’insolenza e di avidità, perché qualcuno degli Achei dovrebbe seguirti volentieri per mettersi in marcia o per lottare coraggiosamente con i nemici? Non a causa dei Troiani armati di aste io venni fin qua a far guerra. No, non sono colpevoli verso di me: mai accadde che razziassero8 le mie vacche e i miei puledri, o che tra le fertili zolle di Ftia9 nutrice di uomini devastassero il mio raccolto – molte montagne ombrose si interpongono fra qui e là oltre al mare strepitante. Te, spudorato, seguimmo perché tu ne godessi guadagnando onori per Menelao10 e per te, muso di cane11, dai Troiani: a questo non pensi né di questo ti curi ma ora minacci di togliermi di persona quel dono per cui molto faticai e che mi assegnarono i figli degli Achei. Un premio pari al tuo io non ricevo quando gli Achei espugnano una rocca affollata di gente troiana benché il carico maggiore della guerra feroce lo sostengano queste mie braccia. Se però c’è da spartire, tocca a te un premio molto più grande e con uno piccolo seppur prezioso io torno alle navi sfinito dalla lotta. No, ora rientrerò Ftia poiché è assai meglio che io torni alla mia casa sulle navi ricurve: non credo che resterò qui inonorato a ramazzare12 tesori per te». A lui rispondeva Agamennone capo di genti: «Vattene alla svelta se così il cuore ti detta, io non ti supplico di restare: ho con me altri campioni che mi daranno onore, e ho con me il saggio Zeus. Tu sei per me il più odioso fra i principi nipoti di Zeus:13 Hai sempre in testa risse, zuffe, battaglie. Sei forte, ma questa forza te la donò un dio. Va’, torna a casa con navi e compagni e regna sui Mirmidoni14, io di te non mi curo né mi turbo per la tua ira, anzi desidero farti una promessa. Poiché Febo Apollo mi toglie la figlia di Crise, io con una mia nave e i miei compagni la rispedirò, ma porterò via Briseide bella di guance, il tuo premio, venendo alla tua baracca, sì che tu sappia quanto conto più di te ed eviti chiunque altro di tenermi testa mettendosi alla pari con me». Diceva così, angoscia invase il Pelide e il suo cuore ondeggiò nel petto villoso fra impulsi contrari: se sguainare subito dal fianco la spada affilata, spingere altri alla rivolta e trucidare l’Atride o invece frenare la collera e soffocare l’impulso. Questi pensieri rimuginava15 nella mente e nell’animo l’epica
8. razziassero: rubassero. 9. Ftia: città della Tessaglia, di cui Achille era re. 10. Menelao: fratello di Agamennone e marito di Elena. Secondo il mito la guerra di Troia è stata causata dal rapimento di Elena da parte del troiano Paride. 11. muso di cane: il cane era considerato un animale privo di senso del pudore. L’offesa di Achille è, dunque, molto grave. 12. ramazzare: raccogliere. 13. nipoti di Zeus: principi e sovrani sono, nella mentalità omerica, discendenti di Zeus. 14. Mirmidoni: antica popolazione della Tessaglia, su cui regna Achille. 15. rimuginava: meditava.
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e già estraeva la spada dal fodero quando arrivò Atena16 dall’alto, mandata da Era17 candida di braccia che affetto e cura in pari grado aveva per entrambi. Si fermò dietro il Pelide e gli afferrò la bionda chioma palesandosi18 solo a lui: non la vide nessun altro. Stupì Achille e si voltò. Subito riconobbe Pallade19 Atena. Sinistramente gli balenarono gli occhi e a lei rivolgendosi pronunciava saettanti parole20: «Perché sei di nuovo qui, figlia di Zeus egioco21? forse per assistere ai soprusi di Agamennone Atride? Ma voglio dirti una cosa che avrà effetto sicuro: costui per la sua arroganza perderà presto la vita». Gli disse di rimando Atena agli occhi azzurri22: venni dal cielo a placare la tua furia e spero che tu mi ascolti: mi mandò Era dalle candide braccia che affetto e cura in pari grado ha per entrambi. Su, rinuncia allo scontro, non estrarre la spada! Feriscilo a parole, fagli capire come andrebbe a finire! E voglio dirti qualcosa che andrà sicuramente ad effetto: un giorno ti porteranno magnifici doni, tre volte tanti, per la violenza che hai sofferto. Ma ora calmati e ascoltaci!». Replicando le diceva Achille scattante di piede: «È mio dovere, o dea, rispettare la vostra parola anche se l’ira mi brucia, ma è meglio così: se uno obbedisce ai celesti, poi quelli lo ascoltano». Disse, e sul fodero d’argento fermò la mano poderosa, vi ricacciò dentro la spada, obbedì alle parole di Atena. Si avviava la dea verso l’Olimpo, alla casa di Zeus egioco, fra gli altri celesti. Allora di nuovo il Pelide si rivolse con dure parole all’Atride, né ancora soffocava la collera: «Ubriaco, muso di cane e cuore di cervo, tu che non osi armarti per la battaglia insieme con i tuoi soldati o anche andare a tendere agguati con i primi degli Achei! Sono per te cose più odiose della morte. Tanto più comodo strappare doni per il vasto campo degli Achei a chi ha il coraggio di tenerti testa! Affamatore del popolo, su gente vile tu regni: altrimenti, Atride, sarebbe stato il tuo ultimo abuso! Ma c’è una cosa che voglio dirti con giuramento solenne: per questo bastone scettrato23 che fronde e rami mai più butterà24 una volta staccato da un tronco sui monti né più germoglierà dopo che il bronzo gli sfrondò per sempre scorza e foglie e che ora i figli degli Achei stringono fra le palme quando, giudicando, perpetuano25 le antiche norme per volere di Zeus, ed è giuramento solenne:
16. Atena: la dea della sapienza, alleata dei Greci. 17. Era: la moglie di Zeus, anch’essa alleata dei Greci. 18. palesandosi: mostrandosi. 19. Pallade: tale epiteto, di incerto significato, è spesso accostato al nome di Atena. 20. pronunciava saettanti parole: verso formulare. Le parole attraversano l’aria veloci come frecce. 21. figlia di Zeus egioco: secondo il mito Atena nacque dalla testa di Zeus. Egioco significa dotato di egida, cioè di scudo. 22. dagli occhi azzurri: espressione formulare. 23. bastone scettrato: probabilmente Achille ha afferrato lo scettro prendendolo dalle mani di un araldo. Era consuetudine che nelle assemblee gli araldi tenessero in mano un bastone che consegnavano a chi prendeva la parola. 24. butterà: farà germogliare. 25. perpetuano: tramandano.
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L’IRA DI ACHILLE A noi lettori di oggi può sembrare eccessiva la reazione di Achille alla richiesta fatta da Agamennone di consegnargli il suo premio di guerra, Briseide. Dobbiamo però osservare l’episodio dal punto di vista di uomini che vivevano in una ‘civiltà di vergogna’. In tale contesto, l’onore dell’individuo vale più della vita, più delle vite dei suoi compagni, più della vittoria del proprio esercito. Sottraendo ad Achille la sua schiava, Agamennone ha offeso l’onore del Pelide. Se Achille non facesse nulla, agli occhi dei compagni resterebbe disonorato. Il suo ritiro dalla guerra e la richiesta fatta a Zeus per mezzo di Teti, cioè far prevalere l’esercito troiano perché Agamennone capisca quanto sia importante Achille per vincere la guerra, non ci devono stupire: l’offesa verrà lavata nel sangue degli Achei.
COMMENTO
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un giorno rimpiangeranno Achille i figli degli Achei, dal primo all’ultimo, e tu seppur affranto non sarai in grado di soccorrerli quando per mano di Ettore sterminatore in molti cadranno, e allora ti roderai il cuore furibondo per aver mancato di onorare il migliore degli Achei». Così diceva il Pelide, poi scaraventò a terra il bastone punteggiato di borchie dorate e si rimetteva a sedere. Canta, Musa26, l’ira di Achille Pelide27, l’ira sciagurata che lutti innumerevoli impose agli Achei28, precipitando alla casa dei morti molte anime forti di eroi e facendo dei loro corpi la preda di cani, il banchetto di rapaci: si attuava il piano di Zeus29 da quando, scontratisi, si separarono l’Atride30 capo di genti e Achille divino. Quale dio li spinse a scendere in lotta?
UOMINI E DÈI Nei poemi epici antichi il ruolo delle divinità è fondamentale. Oltre al canto e al ricordo di eventi passati, a una divinità è ricondotta la pestilenza che si abbatte sul campo acheo, portata dalle frecce di Apollo che non tollera l’affronto fatto al suo sacerdote. Anche se Crise è stato offeso solo da Agamennone, a pagare le conseguenze di questo oltraggio saranno i soldati achei: la colpa di uno solo, secondo la mentalità arcaica, si estende all’intero gruppo. Ma non è tutto. Anche le decisioni umane sono causate dalla divinità. I sentimenti che muovono le azioni dell’uomo sono concretizzati in fluidi
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26. Musa: Calliope, una delle nove Muse, protettrice della poesia epica. 26. Achille Pelide: Achille, figlio del mortale Peleo e della divinità marina Teti. Pelide è un patronimico. Ne troveremo molti altri nel corso del poema. 27. Achei: per Omero sinonimo di Greci. 28. il piano di Zeus: più avanti Zeus promette a Teti, madre di Achille, che sosterrà i Troiani finché l’offesa subita dal figlio non sarà risarcita. 29. l’Atride: Agamennone, figlio di Atreo.
vitali che si concentrano in alcune parti del corpo umano. La rabbia di Agamennone dopo la rivelazione dell’indovino Calcante è concentrata nei “neri precordi”, come si legge al verso 103, cioè nella zona intorno al cuore. Più avanti, ai versi 188-192, il cuore di Achille “ondeggia” tra opposte reazioni: sguainare la spada e uccidere Agamennone o trattenere il furore. Anche qui il sentimento è collocato nel “petto villoso”, ma a decidere non è Achille, bensì Atena: l’intervento della dea trattiene la mano del Pelide. Nessuno può vedere Atena tranne Achille che le rivolge la parola. Quello che noi definiremmo un monologo interiore, che ci svela i pensieri di un personaggio, viene portato su un piano diverso e diventa un dialogo tra uomo e divinità. In Omero le emozioni sono reazioni fisiche controllate dalla divinità o da altre forze esterne all’individuo. Se i sentimenti e le azioni umane hanno un’origine divina, per contro gli dèi sono molto simili agli uomini: anche loro provano rabbia, invidia, gelosia, gioia, come dimostra l’ultima parte del canto, ambientata sul monte Olimpo. Zeus teme che, accogliendo la richiesta di Teti, Era, sua moglie, possa infuriarsi, e così avviene. La lite tra Era e Zeus sembra una normale lite tra marito e moglie, con l’intervento di uno dei figli a favore della madre. Gli dèi scherzano proprio come farebbero gli uomini, vedendo il deforme Efesto servire il nettare divino (i coppieri degli dèi erano sempre giovinetti bellissimi). La risata e il tramonto su cui si chiude il canto sembrano smorzare la tensione fin qui accumulata.
§ Ettore e Andromaca: l’ultimo incontro (Iliade, IV, 404-413, 429-502) 420
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Dopo l’uccisione di Patroclo da parte di Ettore, Achille è tornato a combattere e i Troiani, travolti dalla furia degli Achei, sembrano destinati a soccombere. Tuttavia non si arrendono: continuano a lottare e supplicano gli dèi di non abbandonare la città. Per questo Ettore, tornato dentro le mura della città e raggiunto il palazzo reale chiede alla regina Ecuba, sua madre, di offrire un ricco sacrificio ad Atena. Ettore, l’eroe più coraggioso, la più valida difesa dei Troiani vuole rivedere anche solo per un attimo sua moglie Andromaca e suo figlio Astianatte prima di tornare sul campo di battaglia. Sapendolo in città Andromaca si precipita con il bimbo in braccio sulle Porte Scee, dove la raggiunge Ettore: entrambi sentono che si tratta del loro ultimo incontro. Per Andromaca Ettore non è solo il marito amato, è tutta la sua famiglia: i greci hanno ucciso i suoi cari e distrutto la sua città d’origine: lui è tutto per lei, dichiara la donna in versi pieni di emozione. Ettore deve combattere e rischiare in prima persona. È un eroe e quello che più teme è essere accusato di viltà. Ettore, che è un grande guerriero pronto a sacrificare la vita per il dovere e per l’onore, svela qui il suo lato più umano: la pena più grande la proverà per la sua famiglia. Un momento di pace familiare nella furia della guerra: davanti al timore del bambino, Ettore non è più un guerriero, ma un padre affettuoso. L’Iliade è un poema di guerra che esalta la forza e il coraggio dei guerrieri: un padre e una madre si augurano che il loro figlio sia un combattente fortissimo e faccia strage di nemici Ettore accetta fino in fondo il suo destino e ricorda alla moglie che ognuno deve compiere il proprio dovere, anche se la città sta per cadere. Fin dai tempi in cui gli aedi greci cantavano nelle sale dei palazzi le avventure degli eroi della guerra di Troia, le vicende e i personaggi dell’Iliade non hanno mai smesso di esercitare il loro fascino su ascoltatori e lettori: sono passati quasi tremila anni e i suoi eroi – Achille, Odisseo, Ettore e tanti altri – sono ancora vivi nella nostra fantasia. A questi nomi, spesso, riusciamo anche a dare un volto: sulle anfore antiche realizzate lungo le coste del Mediterraneo abbiamo visto raffigurati, per esempio, Achille che gioca a dadi con Nestore, Menelao che insegue Elena, il corpo di Patroclo tra le braccia di Achille... Ma il poema ha ispirato artisti di tutti i tempi, che vi hanno riconosciuto valori e sentimenti universali. Audio
Egli, guardando il bambino, sorrise in silenzio: ma Andromaca gli si fece vicino piangendo, e gli prese la mano, disse parole, parlò così: «Misero, il tuo coraggio t’ucciderà, tu non hai compassione del figlio così piccino, di me sciagurata, che vedova presto sarò, presto t’uccideranno gli Achei, balzandoti contro tutti: oh, meglio per me scendere sotto terra, priva di te; perché nessun’altra dolcezza, se soccombi al destino, avrò mai, solo pene! il padre non l’ho, non ho la nobile madre. […] Ettore, tu sei per me padre e nobile madre e fratello, tu sei il mio sposo fiorente; Il poema della guerra: l’Iliade
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ah, dunque, abbi pietà, rimani qui sulla torre, non fare orfano il figlio, vedova la sposa; ferma l’esercito presso il caprifico1, là dove è molto facile assalir la città, più accessibile il muro; per tre volte venendo in questo luogo l’hanno tentato i migliori compagni dei due Aiaci, di Idomeneo famoso, compagni degli Atridi, del forte figlio di Tideo2: o l’abbia detto loro chi ben conosce i responsi3, oppure ve li spinga l’animo stesso e li guidi!» E allora Ettore grande, elmo abbagliante, le disse: «Donna, anch’io, sì, penso a tutto questo; ma ho troppo rossore dei Teucri, delle Troiane [dal] lungo peplo4 se resto come un vile lontano dalla guerra. Né lo vuole il mio cuore, perché ho appreso a esser forte sempre, a combattere in mezzo ai primi Troiani, al padre procurando grande gloria e a me stesso. Io lo so bene questo dentro l’anima e il cuore: giorno verrà che Ilio sacra perisca, e Priamo, e la gente di Priamo buona lancia: ma non tanto dolore io ne avrò per i Teucri, non per la stessa Ecuba5, non per il sire Priamo, e non per i fratelli, che molti e gagliardi cadranno nella polvere per mano dei nemici, quanto per te, che qualche acheo chitone di bronzo6, trascinerà via piangente, libero giorno togliendoti7: allora, vivendo in Argo, dovrai per altra tessere tela, e portar acqua di Messeìde o Iperea8, costretta a tutto: grave destino sarà su di te. E dirà qualcuno che ti vedrà lacrimosa:
l’epica
1. precordi: come dice la parola stessa, la zona intorno al cuore. Qui, secondo Omero, hanno sede i sentimenti più violenti. 2. razziammo: rubammo. 3. quelli … spartiti: il bottino di guerra veniva diviso in due parti: una era divisa in parti uguali e assegnata per sorteggio, l’altra spettava ai guerrieri più valorosi. In questa seconda parte rientravano le donne fatte prigioniere. 4. Aiace: re di Salamina, uno dei più forti guerrieri greci. 5. bella di guance: espressione formulare. 6. Idomeneo: re di Creta, nipote di Minosse. 7. perché … dell’arco: affinché, sacrificando vittime, tu renda a noi favorevole Apollo.
(Iliade, I, 53-246)
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LEGGERE E COMPRENDERE
PADRONEGGIARE LA LINGUA 5. Riporta qui di seguito gli epiteti formulari attribuiti nel brano a: le troiane
1. Riassumi in un massimo di 10 righe il primo canto dell’Iliade.
i troiani
2. Perché Febo-Apollo punisce gli Achei con una terribile pestilenza?
gli achei
3. Perché Agamennone sottrae Briseide ad Achille? 4. Perché Achille decide di astenersi dal combattere? PADRONEGGIARE LA LINGUA
ESERCIZI
La lite tra Agamennone e Achille
Ettore PARLARE 7. VERSO L’ESAME Individua gli epiteti formulari presenti nel testo per ciascun personaggio e danne una breve spiegazione orale.
5. Spiega le seguenti espressioni presenti nei versi omerici: v. 3: precipitando alla casa dei morti: uccidendo. v. 65: a tal segno: a tal punto. v. 89: concave navi: navi dalla forma ricurva. v. 92: Si rinfrancò il perfetto veggente: l’irreprensibile indovino riprese coraggio. v. 98: la giovane dai mobili occhi: la giovane dagli occhi vivaci. v. 135: i prodi Achei: i valorosi Achei. v. 171: inonorato: disonorato. v. 200: sinistramente gli balenarono gli occhi: gli occhi furono percorsi da una luce minacciosa. v. 212: qualcosa che andrà sicuramente ad effetto: qualcosa che si realizzerà sicuramente. v. 225 cuore di cervo: codardo. ANALIZZARE 6. Individua nel testo omerico eventuali analessi e prolessi e spiegane la funzione. 7. SCRITTURA CREATIVA Descrivi Agamennone e Achille ricercando, nel testo omerico, elementi riconducibili alla caratterizzazione fisica, psicologica e ideologica di questi due personaggi.
Il duello tra Ettore e Achille (Iliade, I, 53-246
▶ p. XXX
LEGGERE E COMPRENDERE 1. Che cosa promette Ettore, e che cosa chiede ad Achille? 2. Achille risponde con un tono ben diverso da quello usato da Ettore: perché? Che cosa ha nel cuore? 3. Quale divinità partecipa al duello? Per quale eroe parteggia? 4. C’è un momento in cui Ettore capisce che per lui è finita: sottolinea nel testo le righe che raccontano di questo momento. PADRONEGGIARE LA LINGUA 5. Achille dichiara di odiare Ettore: quale similitudine usa? 6. Dopo aver perduto l’asta, Ettore combatte con la spada: a che cosa è paragonato tramite una similitudine? 7. Ci sono altre similitudini nel brano che hai letto? Se sì, sottolineale e spiega a chi o a che cosa si riferiscono. ANALIZZARE
Ettore e Andromaca: l’ultimo incontro (Iliade, IV, 404-413, 429-502)
▶ p. XXX
LEGGERE E COMPRENDERE 1. Che cosa chiede Andromaca a Ettore? Perché? 2. Perché Ettore non intende rinunciare alla lotta? 3. Quali sentimenti suscita in Ettore la vista di suo figlio? 4. Da questo brano emerge un quadro della vita degli uomini e di quella delle donne nell’antica Troia: quali sono le loro rispettive attività? SCRIVERE
8. Achille rifiuta qualsiasi patto con Ettore perché odia con tutto se stesso l’eroe troiano: che cosa pensi tu del suo desiderio di vendetta? 9. Quando si rende conto che gli dèi sono contro di lui, Ettore si comporta da vero eroe: anche se sa che sarà sconfitto, vuole combattere fino alla fine. Come giudichi questo atteggiamento? SCRIVERE 10. SCRITTURA CREATIVA Le vicende dell’epica appassionano oggi come ieri perché in quei grandi eroi ciascuno di noi tende a identificarsi. Tu con chi stai? Sei con Ettore o con Achille? Fa’ un breve ritratto del tuo eroe e spiega perché è con lui che ti identifichi.
6. Immagina di essere al posto di Ettore: quale scelta avresti fatto nella sua situazione?
Il poema della guerra: l’Iliade
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