Mosaico napoletano

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Daniela Carelli

Mosaico napoletano Romanzo

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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale. © 2018 Segmenti Editore - Francavilla al Mare

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www.mosaiconapoletano.it

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A mio fratello Adriano, a Gennaro, e a tutti quelli che, come noi, sognano il giorno in cui torneranno a Napoli.

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PARTE PRIMA

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Mille colori...

Ed eccomi di nuovo qui, quando ormai non ci credevo più. Dopo migliaia di giorni passati a immaginare questo momento, struggendomi nella certezza che mai più sarebbe arrivato. Dopo aver pregato di poter smettere di sperare, di poter smettere di soffrire per un semplice luogo, per una città maledetta, disperata, rimpianta, giudicata e condannata senza pietà dal mondo intero; difesa con le unghie, con i denti, con parole gridate fino a sentirmi bruciare la gola, il petto, gli occhi, l’anima. Ma come vi permettete? Che ne sapete voi di quello che significa per quelli come me? Napoli. Una macchina, in strada, scivola lenta alle mie spalle, silenziosa. Mi giro di scatto; giusto il tempo di intravedere sui finestrini oscurati il riflesso del mio viso. Un’immagine in cui stento a riconoscermi. L’immagine di un uomo indurito dal tempo: la mascella serrata, i capelli grigi, lo sguardo spaesato, incredulo, gli occhi cerchiati, scuri e profondi, la forma allungata di un tempo ormai vinta dalla forza di gravità e dall’implacabile peso degli anni. Osservo le mani appoggiate al muretto: sono veramente le mie? Segnate da qualche ruga e da piccole cicatrici Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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pressoché invisibili. Le vene che sporgono come se non riuscissero a contenere tutto questo sangue che sento battere nei polsi, nelle tempie. Mi faccio forza e guardo di nuovo di fronte a me. Il Vesuvio... il mare. Cerco di resistere alla voglia di gridare. Sto qua, sono io. Mi riconosci? Tu sei sempre tu. Sempre uguale eppure così diversa. Che t’hanno fatto, ammore mio... Che t’hanno fatto... Cerco inutilmente di distogliere lo sguardo. È troppo dolorosa la nostalgia che sento nonostante io sia qui, nonostante possa di nuovo guardarti, viverti. Non se ne va. È un sentimento che ha radici troppo profonde, una sete che non trova pace né tregua. La luce mi ferisce gli occhi, scava cunicoli che mi trapassano la testa e arrivano in fondo fino al petto, alle viscere. Quanto tempo. Tanto. Troppo. Un tempo interminabile. Mentre stavo in America fingendo che tutto andasse bene. E in fondo era così. In qualche modo ero felice, quando ero sveglio. Ma la notte... la notte quella voce mi tormentava. Un richiamo. Un dolore sottile che si insinuava nelle pieghe dei sogni e ancora al mio risveglio, in un piccolo gesto quotidiano, in una frase sentita in tivù. Che ne sanno ammore mio, che ne sanno loro di me, di te, di noi, di come eravamo, di cosa eravamo? Ma io no, io nun me ne scordo. Certe cose non si possono dimenticare, e tu lo sai amore, lo sai. E lo sa pure questo sole che mi osserva mentre ti guardo. E sorride. E un po’ sorrido anch’io. E un poco piango. Quanti colori, quanti? In questo panorama fatto di mil10

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le sfaccettature, mille anfratti e spazi in cui mare e cielo si fondono e confondono in infiniti riflessi, come tessere di un mosaico, pezzi di vita, di storie, di ricordi... ricordi...

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Briciole di rosso

Rosso Passione Il sorriso di mia madre era rosso passione, come il nome del suo rossetto preferito. Era uno dei pochi lussi a cui indulgeva. Mi piaceva quando indossava il suo rossetto; l’attenzione con cui lo stendeva sulle labbra carnose per poi sporgerle con fare civettuolo; il modo in cui si ravviava i capelli scuri, folti e lucidi come castagne, per rimirarsi con i begli occhi neri che le brillavano compiaciuti. Quando mi sorrideva, quasi mi emozionavo. Era bella come una diva di Hollywood. Bella assai. E giovane. “Peppì, ma che tiene ‘a guardà? Perché mi fissi così? E perché ti nascondi?” Mi tirò il braccio per stanarmi dall’angolo in cui mi ero isolato per spiarla. “E viene a ccà. Ormai ti ho preso e non mi sfuggi!” Tenendomi saldamente mi sollevò in grembo e dopo aver vinto ogni mia falsa resistenza mi stampò un bacio sulla bocca. “Sei contento mo?” esclamò ridendo di gusto mentre guardavamo i nostri riflessi nello specchio della toletta Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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“Adesso lo tieni pure tu il rossetto che ti piace tanto...” “Mamma, a me mi piace quando te lo metti tu. O ti credi che so’ licchione?” “Si dice ricchione” disse sorridendo divertita. Poi parve ripensarci e facendosi seria mi redarguì “Anzi non si dovrebbe dire proprio questa brutta parola. Da chi l’hai imparata?” “Gianni lo dice sempre quando vede passare il ragazzo del salumiere.” E cercando di imitare il cipiglio da duro di mio fratello maggiore “Ué ué, guarda chi c’è! Buongiorno licchio’!” Compresi immediatamente di aver commesso un grosso errore. Il sorriso di mia madre sparì quasi non fosse mai esistito. La bocca all’ingiù, simile a quella dei clown tristi, che mi mettevano sempre un po’ paura. Si alzò di scatto rischiando quasi di farmi cadere a terra, mi accarezzò i capelli distrattamente e si precipitò fuori della sua stanza da letto urlando: “Gianni, disgraziato, addò staje?” Non ebbi il coraggio di seguirla. Restai fermo, seduto sul pavimento con l’aria intontita e quel sapore di rossetto che sembrava avere perso tutta la sua dolcezza. “Mamma... ma... che...” la voce di mio fratello suonò sorpresa, priva della baldanza che sfoggiava dall’alto dei suoi dieci anni con me, minore di cinque. Ascoltai, con crescente preoccupazione, le grida inframmezzate a rumori di sedie che strusciavano sul pavimento per poi cadere. Corsi in tinello più veloce che potevo. La scena che mi si presentò era familiare: mia madre brandiva una pantofola e cercava di colpire inutilmente Gianni che si era trincerato dietro una delle sedie mentre 14

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cercava di capire. “Mamma, non ho fatto niente, giuro!” gridò supplice. “See see... tu non fai mai niente!” e giù colpi a vuoto. “Fammi sentire: com’è che chiami Ciro?” “Ciro chi?” “É inutile che fai ‘o scemo per non andare alla guerra!” rispose inviperita. “Ciro, ‘o guaglione d’ ‘o salumiere.” Un lampo di consapevolezza accese gli occhi di mio fratello, rimpiazzato istantaneamente dall’espressione più innocente che gli riuscì di mettere insieme: “Gesù, e come lo devo chiamare: Ciro!” La sua mano fu raggiunta da un colpo di pantofola ben assestato. “Ahi! Forse... Ciruzzo?” azzardò conciliante. Gli occhi di mia madre presero a lanciare fiamme. Furibonda allargò le narici, al punto che avrei giurato di avere visto fuoriuscirne del fumo. Scattò decisa verso la cucina; il rumore di stoviglie che giunse da lì risuonò minaccioso. Sapevamo già cosa stava cercando. Mio fratello mi apostrofò a denti stretti: “Ma che le hai detto?” Non ebbi neanche il tempo di rispondere che Nemesi, dea della giustizia, fece il suo ingresso brandendo un lungo cucchiaio di legno. Vedere mio fratello saltare in aria e correre mi mise così in agitazione che presi a scappare pure io, rischiando stupidamente di restare colpito, cosa mai accaduta fino a quel momento, in quanto, data la mia giovane età, mamma soleva punirmi a scapaccioni sul sedere. Ancora oggi, con Gianni ci capita di ricordare le sue sfuriate, così simili a quelle delle mamme dei nostri amici Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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che, all’epoca, avevano sposato la filosofia comune che mazze e panelle fanno ‘e figlie belle, ossia che pane e mazzate fossero necessari per crescere figli sani ed educati. In particolare ci divertiamo a ricordare la mattina di quell’ottobre del ‘65, in cui per vendicare l’onore del povero Ciro, mamma spezzò ben tre cucchiarelle assestando fendenti a vuoto contro spigoli e parti di mobili. In ogni caso il nostro tentativo di fuga risultò, come sempre, pressoché impraticabile, considerati i sessantacinque metri quadri di suolo calpestabile dell’appartamento in cui vivevamo in quattro, ridotti ulteriormente dalle sedie che Gianni continuò a utilizzare onde frapporre ostacoli tra noi e la furia vendicatrice di mamma. “Ma cosa è successo? Che è ‘sta baraonda?” L’improvviso ingresso di mio padre creò un effetto congelamento. Come statue di ghiaccio rimanemmo bloccati nelle nostre posizioni: mia madre, il braccio destro armato di cucchiarella alzato e la mano sinistra che ghermiva la camicia di Gianni; mio fratello con la testa incassata tra le spalle e le braccia alzate pronte a parare i colpi, e io, al riparo dietro la sua schiena e aggrappato tenacemente alla gamba. “Pietro, e che deve essere successo?” La frase di mamma decretò la tregua e il gruppo scultoreo tornò alla vita. “Hai un figlio maleducato. Ecco cos’è successo.” Papà ci squadrò interrogativo. “Sai come chiama Ciro, il ragazzo del salumiere?” domandò lei, indignata. “Ma chi, il ricchione?” Mamma trasalì, lo piantò in asso e riparò in camera da letto sbattendo violentemente la porta.

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Ma i malumori tra i due duravano sempre poco. Come spesso accadeva, mio padre, ripresosi dallo sbigottimento, la raggiunse in camera da letto e dopo una serie di battibecchi, ne uscì. I begli occhi dalla forma allungata, ridotti a scure fessure minacciose, le labbra piegate severamente all’ingiù e i pugni stretti sui fianchi non facevano presagire niente di buono. Io e Gianni ci scambiammo uno sguardo sgomento preparandoci al peggio. “Che ne dite di andarvi a comprare un bel gelato?” La frase ci spiazzò, e non poco. Guardammo interrogativi l’espressione del suo viso su cui ora inspiegabilmente aleggiava un sorrisetto complice, simile a un timido raggio di sole messaggero di scampata tempesta. Lui, senza attendere risposta, diede i soldi a Gianni e si raccomandò: “Non andate alla cremeria sotto casa, ma alla gelateria, quella in piazza. Tenetevi per mano e camminate lentamente, molto lentamente. La fretta in strada è assai pericolosa...” e rilevando le nostre espressioni interrogative concluse “e poi io e mamma teniamo che parla’. L’avete fatta arrabbiare assai e ci vorrà un po’ di tempo per calmarla. Ci siamo spiegati?” In realtà no, non era chiaro il perché essere stati cattivi ci avesse fatto meritare un gelato, ma ci guardammo bene dall’esternare ogni perplessità. E poi in fondo che importanza aveva, considerato che al nostro ritorno mamma appariva un po’ trafelata e spettinata, ma misteriosamente illuminata dal più bel sorriso rosso passione?

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Rosso corallo “...adesso e nell’ora della nostra morte. Amen” concluse compunta Annarella. “Ma avete sentito che ha combinato la figlia di Sisina?” sussurrò Carmela con aria cospiratrice. “No! C’ha fatto?” chiese Pinuccia allarmata. “Pare che ‘o marito l’ha trovata in atteggiamenti equini cu Don Peppe ‘o macellaio.” “Equini? Uh Maronna mia, Carme’ e che d’è? Me fa ‘mpressione!” “Pinu’, ma che impressione e impressione! Intendeva dire equivoci” sbottò infastidita nonna Filomena; “Carmela, se le cose non le sai dire statte zitta. Equini... Gesù, manco fosse nu cavallo!” “Mi ero scordata: ecco a voi Filomena la professoressa! Equivoci, equini... è ‘a stessa cosa... più o meno...” sentenziò l’altra di rimando. “Ma che caspita dici!” replicò nonna, scandalizzata. “Va buono... ma mo v’avit’ appiccecà?...” intervenne decisa Annarella. “Vi sembra il caso che litighiamo in un momento come questo? E jammo, ja’! Andiamo avanti: Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo...” Quella mattina osservavo incuriosito mia nonna Filomena e le sue vicine di casa mentre, disposte in cerchio, tra un’interruzione e l’altra, recitavano il rosario. Mia nonna, a ben quarantasette anni suonati, era ancora considerata una bella donna, cosa che all’epoca mi pareva assai strana, tenuto conto del numero crescente di piccole rughe intorno agli occhi che, sommate alle tempie che iniziavano a ingrigire, facevano di lei una donna in età avan18

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Scaglie di giallo

Giallo ocra “Mamma, dopo la scuola vado da Giacomo. Ci vediamo oggi pomeriggio o, al più tardi, per cena.” “Ma mangi a casa sua?” domandò. “Sì... Credo di sì.” “Ma che significa credo?” rispose in tono spazientito. “Peppì, tu devi mangiare, te ne stai scendendo da dentro ai panni. Ti stai facendo secco come l’amico tuo capellone. E ti vedo pure strano assai. Ma te fusse ‘nnammurato? Ci manca solo che ti metti cu na giapponese!” “Mamma, John Lennon non sarà bello, ma c’ha le palle esagonali.” Poi prendendola per le spalle le sorrisi ammiccante “E comunque, ammesso e non concesso, non ti piacerebbe avere dei nipotini con gli occhi a mandorla?” Lei si divincolò e mettendo i pugni sui fianchi mi apostrofò minacciosa: “Se tu a sedici anni mi fai un nipotino, che sia bianco, nero o giallo, poco importa. Tieni solo presente che io le palle, diversamente dal tuo amico, te le faccio prima diSegmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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ventare cubiche e poi te le faccio ingoiare a forza di schiaffi! Ci siamo intesi, guaglió?” La osservai con aria fintamente scandalizzata: “Ma da dove viene questa tua propensione alla violenza? Ci manca solo che ti metti a sfilare con le femministe gridando Tremate, tremate le streghe sono tornate. L’indole da strega ce l’hai, non ci devi nemmeno chiedere di tremare perché è una vita che ci metti paura e, inoltre, a differenza delle altre che sono tornate tu non te ne sei mai andata...” Il gesto, ormai solo mimato, del tiro di ciabatta accompagnò la mia uscita. Fischiettando Mind Games, mi avviai deciso al liceo artistico. Mind Games... giochi mentali, trappole infernali in cui mi dibattevo da più di un mese. Un mese intero senza riuscire a cancellare l’immagine di quegli occhi blu. Un interminabile mese in cui avevo provato inutilmente a sradicare dalla mente quel pensiero fisso; ma la sera prima mi ero arreso all’evidenza e oggi ero pronto a tutto: avrei fatto filone a scuola e sarei andato a via Costantinopoli, avrei atteso e osservato attentamente l’ingresso di tutti gli studenti e prima o poi l’avrei vista, l’avrei fermata con una scusa qualsiasi e... Oddio! E se proprio oggi non fosse venuta? Se fosse stata malata, o se magari avesse deciso pure lei di fare filone con le amiche? La mia sicurezza vacillò, ma era troppo tardi per fare marcia indietro. Mi fermai sul marciapiede di fronte all’ingresso del liceo artistico, alla destra dell’entrata del bar. Così avrei potuto vederla anche se avesse deciso di fare colazione. Guardandomi intorno mi sentii molto meno alternativo di quanto immaginavo: con i miei pantaloni a zampa d’elefante, il giubbotto di jeans e i capelli fluenti che mi toccavano appena le spalle, più che Lennon sembravo Mal dei 56

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Primitives in versione mediterranea. La fauna che popolava quei luoghi era notevole e variegata, in confronto noi del liceo scientifico eravamo molto più omologati. Era un tripudio di barbe e chiome fluenti, di gonne zingaresche, salopette, bracciali, e zazzere che sembravano appartenere a dandy usciti da dagherrotipi di fine ‘800. La matrice informale connotava un ambiente indubbiamente sinistroide. Qualcuno rollava canne come se fumare a quell’ora del mattino fosse la cosa più normale del mondo. “Ciao! Ma che ci fai qui... Giuseppe... è il tuo nome, giusto?” L’apparizione improvvisa di Rossella mi fece trasalire. “Ti aspettavo. Volevo rivederti...” Cazzo! Ma non dovevo trovare una scusa? “Ho fatto filone a scuola... e adesso sono qui.” “Ma io tra cinque minuti entro...” rispose costernata. “E io aspetterò che esci.” “Ci vorranno ore...” insisté. “Non ha importanza. Aspetterò. Sempre se ti va che aspetti...” Si sollevò sulle punte dei piedi e mi diede un bacio sulla guancia: “Ci vediamo all’una. Abbiamo una pausa per mangiare, possiamo prendere qualcosa insieme e poi finisco alle tre.” Andò via in una scia di profumo, di pulito, di sciampo e sapone alla lavanda. Andò via portando con sé una parte di respiro, lasciandomi giusto quel poco di alito che mi necessitava per sopravvivere durante la sua assenza. Andò via, evidentemente, portandosi pure quel poco di capacità di ragionare che mi era rimasta, abbandonato come un creSegmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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tino a sorridere al vuoto. Appunto. Mi ritrovò lì, dove mi aveva lasciato, seduto sul marciapiede mentre cercavo di trovare la forza di alzarmi nonostante il cedimento delle gambe che mi prese quando la vidi avanzare verso di me, con una meravigliosa camicia a fiori su cui spiccava il blu dei suoi occhi. “Che dici: ti va di accompagnarmi a mangiare una pizza?” propose allegramente. Ci dirigemmo verso Port’Alba; attraversammo piazza Bellini, con i suoi antichi palazzi monumentali che fanno da corolla alle rovine greco-romane. Ci affacciammo dalla ringhiera per ammirarle. “Non è incredibile?” disse, “pensare che nelle viscere di questa città si nascondono millenni di storia; frammenti di vite riportati improvvisamente alla luce per ricordarci chi siamo stati... chi siamo... e cosa potremmo diventare...” Si sporse pericolosamente, quasi fosse attratta dal richiamo ancestrale di quelle vestigia. Per un attimo temetti che potesse cadere giù e senza pensare l’afferrai per la vita. Avvertii il calore del suo corpo e fui preso da un senso di vertigine. Lei parve non accorgersene. “Amo questa piazza. Amo questa città...” sussurrò sorridendo lieve. Le sorrisi di rimando. Napoli… Non mi era mai parsa così bella. Come lei, Rossella, che continuai a guardare di sottecchi. Sembrava circonfusa da un’aura d’incanto che si riverberava tutt’intorno fino a rendere forme e colori così vividi e vibranti da scuotermi l’anima nel profondo. Era dunque questo l’amore? Anche il cameriere addetto alla distribuzione delle pizze mi sembrò prodigioso: dall’alto della pedana su cui era 58

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poggiato il bancone, scambiava velocemente vassoi vuoti con quelli colmi di pizze appena sfornate, per riporli al caldo nell’espositore di vetro accanto a frittatine di maccheroni e crocché; lo osservai trasognato mentre, come il più abile dei giocolieri, si destreggiava tra la folla di mani tese che porgevano scontrini, ascoltando ordini e distribuendo ogni ben di Dio, tra cui le nostre pizze piegate in quattro; pizze chiate a libretto, da gustare passeggiando. Quando mi porse la mia augurandomi buon appetito non riuscii a mettere insieme nemmeno un grazie. Semplicemente gli sorrisi. Restai fermo, con il braccio sollevato, reggendo la pizza manco fossi la versione partenopea della Statua della Libertà. Sul viso un’espressione di inebetimento così evidente, da provocare la risata mal trattenuta di Rossella e quella dei clienti che attendevano il loro turno. Mi aggregai all’umore generale. Niente, neanche fare la figura dello stupido, poté scalfire quel momento di perfetta felicità. Arrivati a piazza Dante ci sedemmo su una panchina all’ombra di una palma. E fu poesia. Il sole accarezzava la facciata rosa del palazzo del Convitto che parve spalancare le ali ricurve in un abbraccio complice; più in alto le statue delle Virtù si stagliavano nitide sull’azzurro smaltato di un cielo privo di nuvole, come guardiani benevoli a vegliare sulle nostre parole. Una cornice perfetta e al centro noi, seduti su quella panchina, occhi negli occhi. Avrei voluto morirci su quella panchina, invecchiare serenamente ascoltandola parlare, mentre una parte di me inorridiva per il mio stato mentale che sembrava in caduta libera verso la demenza. “Allora ci salutiamo?” disse quando fummo di nuovo davanti all’ingresso del liceo. “Perché, ti dispiace se ti aspetto all’uscita? Potrei accompagnarti a casa... se ti va...” Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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Non dovetti attendere molto. Uscì di lì a pochi minuti e, prendendomi per mano, mi trascinò all’interno della scuola. “Il professore di matematica non c’è, abbiamo un’ora di buco” disse radiosa. “Dai che ci divertiamo! Si fa musica.” La seguii nel giardino di quella strana scuola in cui fare entrare degli estranei pareva la cosa più normale del mondo. Seduto sui muretti, un gruppo di ragazzi aveva attaccato a suonare chi la chitarra, chi delle percussioni improvvisate. Notai che erano più grandi di noi. ”Sono gli studenti dell’Accademia” mi spiegò. “Questo è l’edificio dell’Accademia di Belle Arti che ospita anche il Liceo Artistico.” E si aggregò agli altri cantando con un filo di voce, ai limiti dell’intonazione, Penny Lane dei Beatles e poi Angie degli Stones, Imagine e La canzone del sole. La guardavo e mi guardavo intorno, intrecciando lo sguardo alle chiome degli alberi, tra quelle mura antiche e lei, che cantava abbracciata a un’amica, poi si voltava verso di me e mi sorrideva ancora e ancora. Quando arrivammo a Stairway to Heaven, grazie all’ausilio di una canna che girava di mano in mano, mi sentii veramente in paradiso. L’ora di italiano spezzò l’incanto e mi diede la possibilità di rivivere quei momenti cento volte durante il tempo in cui l’aspettai fuori, abbandonato sul marciapiede in compagnia dei miei pensieri. Poi uscì, prendemmo l’autobus e l’accompagnai fino a casa sua, a via Palizzi. Restammo sotto al portone della bellissima palazzina antica in cui abitava, senza riuscire a trovare un modo per salutarci. “Vuoi salire un po’ da me?” propose. 60

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“Mah... Non so... Non vorrei disturbare...” replicai, incerto. “Nessun disturbo, figurati! Mia madre è abituata: io e mia sorella portiamo sempre i nostri amici a casa.” Mi prese la mano e salimmo le scale. “Ciao Titina!” All’ingresso intercettammo il passaggio di una signora bassina, grassoccia e molto indaffarata. Indossava un camice celeste e portava una pila di asciugamani tra le braccia. “Buongiorno Rossellì. Tutto bene a scuola?” domandò sorridendo e, senza attendere la risposta, aggiunse “Tua mamma è di là in salotto.” Attraversammo un corridoio con quadri che mi sembrarono bellissimi, anche se di arte non capivo niente, ed entrammo in un salotto come ne avevo visti solo al cinema: l’arredamento era molto classico, sontuoso, e talmente lontano dai contesti che ero abituato a frequentare che, ancor oggi, riesco a ricordare quella mia prima visita con un’insolita dovizia di particolari, come fosse accaduto ieri. La madre di Rossella era seduta su un divano crema con delle modanature in oro. Sfogliava pigramente una rivista mentre fumava. “Ciao mami. Ti presento Giuseppe.” Lei mi squadrò con aria disinteressata e svogliatamente accennò un mezzo sorriso e un saluto con la mano. Rossella le somigliava nelle sembianze, ma non nei colori. Lei aveva i capelli più chiari, castano scuro, probabilmente tinti e con meches tendenti al biondo cenere, cotonati e raccolti in una crocchia. I lineamenti più spigolosi e gli occhi scuri, molti bistrati. Quello che più la differenziava dalla figlia era la piega delle labbra, austera, quasi amara e una rigidità che contrastava con il suo abbigliamento molSegmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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to alla moda: un vestito a metà coscia di una tinta tenue con i risvolti verde brillante. Nonostante lo sfarzo che la circondava, non aveva un’aria felice. Il telefono, sul treppiede accanto al divano, squillò. “Pronto?” rispose lei con fare annoiato. “Ah, ciao Marta... come va?” E ci congedò con un gesto pigro della mano, come a voler scacciare delle mosche. Rossella mi precedette in cucina, dove trovammo di nuovo la governante. Mi sorprese la modernità di questo ambiente in netto contrasto con quello del resto della casa. Era una cucina componibile, di quelle moderne, a pannelli alternati in bianco e nero. Bellissima come quelle che avevo intravisto in edicola sulle copertine delle riviste di design. “Tina, ti presento Giuseppe!” esclamò indicandomi. Lei abbozzò un sorriso accennando un saluto con la testa. “Non è che hai preparato una delle tue merende strepitose?” le domandò. “Sì, c’è una bella torta margherita sfornata stamattina. Vi va se la farcisco con la crema gialla?” e accontentandosi dei nostri sorrisi come risposta, concluse “la preparo sciuè sciuè e ve la porto in camera, tra un po’.” “Titina, come fai le cose veloci tu non le sa fare nessuno! Almeno non buone come le tue.” Le diede un bacio a schiocco ed entrammo nella sua cameretta. Come ogni adolescente sognavo di avere una camera tutta per me. Io dividevo la mia con Gianni ed era grande la metà della stanza di Rossella. Provai un moto di profonda invidia per il muro tappezzato di manifesti di Joan Baez e Jim Morrison. In basso, un treppiede sosteneva una chitarra acustica decorata probabilmente da lei, un tavolo da 62

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disegno e un cavalletto con una tela dipinta. Sulla parete a cui era addossato il letto spiccava un murales raffigurante uno splendido arcobaleno. Di fronte alla porta d’ingresso, una porta finestra accedeva a un balcone pieno di piante mai viste. Mi aggiravo per la stanza sfiorando gli oggetti con le dita, i libri sulle mensole e i suoi ninnoli. Mi soffermai sul tableau di sughero su cui aveva attaccato con delle puntine un collage di fotografie: c’era lei da bambina mentre si apprestava a tuffarsi in piscina con un salvagente e una cuffia su cui erano applicati dei grandi fiori colorati, e poi lei e quella che immaginai fosse la sorella, con sorrisi straripanti in cui mancavano i dentini davanti. Poi sempre lei insieme alla ragazza con cui l’avevo sentita cantare, abbracciata, nel giardino dell’Accademia. Ma quella che più mi piacque fu un suo primo piano di profilo, mentre guardava il mare, con un viso così assorto e concentrato, malinconico e sereno che mi turbò e affascinò al contempo. C’era un mondo dietro quello sguardo e io volevo scoprirlo fino alle ultime pieghe. Ci sedemmo sul letto; lei prese la chitarra e accennò qualche accordo stentato mentre io mi sforzavo di accompagnarla cantando, impresa pressoché impossibile dal momento che continuava a interrompersi e ricominciare. Titina ci trovò così, che ridevamo quasi alle lacrime per l’ennesima stecca. Sorridendo ci porse una bella fetta di torta e un bicchiere di coca. Assaporammo con gusto la sofficità del pan di spagna, la deliziosa crema gialla al profumo di limone e a tratti quasi soffocammo, trattenendo a malapena le risate nel ripensare alla penosa performance di pochi minuti prima. Poi furono parole, tante parole e domande tese a scandagliarci, per scoprire i punti in comune e quelli divergenti. Aveva una dolcezza nello sguarSegmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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do e nella voce esile, allegra e a tratti malinconica. Era bella ed eterea come la prima luna al crepuscolo. Poi a un certo punto si alzò: “Ti piace?” Mi chiese indicando il cavalletto su cui poggiava la tela che stava dipingendo. Era un enorme sole fatto di mille pennellate di differenti gialli e arancio, che si infrangevano e si confondevano con quelle del blu e dell’azzurro dello sfondo. Le dissi che lo trovavo vibrante, quasi emanasse un’energia propria. Sembrò estremamente contenta, quasi emozionata. “Amo i colori a olio... e ne amo anche l’odore. A te piace?” Avvicinai il viso al quadro per percepirlo meglio. Annusai a fondo. Non è che proprio mi facesse impazzire, le dissi sollevando la testa. Mi guardò ridendo: “Ti sei sporcato il naso” disse pulendomi una macchiolina gialla che si trasferì sulle sue dita. “È giallo ocra... il mio colore preferito.” Le presi il viso tra le mani e la baciai. Un bacio lieve e persistente. Il mio primo bacio. Un bacio giallo ocra, come il sole che sentii sbocciarmi dentro.

Giallo Napoli “Giuseppe, ti devo parlare.” La frase pronunciata da mio padre mi colse di sorpresa quando, in modo assai insolito, interruppe la visione del telegiornale per prendermi da parte. “Dimmi tutto, pa’.” Il mio tono tradiva una certa preoccupazione. 64

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”Mamma mi ha detto che c’hai una ragazzina? È vero?” “Sì... ” “Mi fa piacere... Ti stai facendo grande pure tu ed è arrivato il momento di farti lo stesso discorsetto che feci qualche tempo fa a tuo fratello Gianni.” Dietro quella sua aria insolitamente severa cominciai a percepire un certo imbarazzo. “E cioè?” lo incoraggiai. “E cioè... Cioè... Peppì, tu lo sai come sono fatti l’uomo e la donna? Lo sai come si fanno i bambini?” “Papà, e nientedimeno? Mica tengo quattro anni!” “No, ma ne tieni sedici, che è un’età assai pericolosa.” “Pericolosa?” “Eh sì Peppì, pericolosa. Non fare finta di non capire!” Dalla mia faccia intuì che non avevo bisogno di fare finta. Non capivo. Non capivo proprio. “Peppino” ricominciò con fare conciliante, “a quest’età il tuo... coso... il tuo...” “Organo genitale?” “Esatto, quello! Il tuo organo... per così dire... vorrebbe sempre… suonare; dalla mattina quando si sveglia fino alla sera che va a coricarsi tiene sempre un pensiero fisso. È vero o no?” “No.” “No?” “Papà io penso con la testa, mica col... pisello.” “Embè: quando faje ‘o spiritoso in questi momenti te pigliasse a paccheri!” disse mimando il gesto di uno schiaffo. “Vabbè... era per sdrammatizzare un po’...” risposi Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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sorridendo timidamente, e poi tornando serio “Ho capito quello che intendi, ma non è drammatico come credi tu.” “Non lo è ancora, vorrai dire. Peppì, se in determinati momenti, quando sei a cuore a cuore con la tua ragazza, cominci con un bacio, poi scappa una carezza, una carezza di troppo... succede che ti puoi trovare a non capire più niente e a fare cose che non dovresti fare... o meglio, che dovresti... perché, diciamocelo, so’ belle assai da fa’... ma non alla tua età. Alla tua età sono un guaio serio, perché alla tua... alla vostra età le femmine escono incinta solo se le guardi un po’ troppo intensamente, figurati se ci fai all’amore!” “Papà, ma noi non facciamo l’amore.” “Per ora... Peppì, per ora. Ma non si può mai sapere. È per questo che devi essere pronto nell’evenienza in cui le cose... dovessero mettersi male” concluse sibillino. “In che senso?” “Nel senso che devi essere responsabile e non metterti nelle condizioni di combinare pasticci.” Il discorso lo teneva sulle spine e non poco, ma cercò di ritrovare un tono tra il paternalistico e l’accomodante “Allora, senti a me: prima di tutto ti consiglierei ogni volta che sai di dovere incontrare questa ragazza di giocare un po’ per i fatti tuoi con il tuo... coso. Così arrivi già scarico. Hai capito? In seconda battuta cerca di allenarti a mantenere l’autocontrollo. È una cosa che ti servirà nella vita, a prescindere...” “Tu ci riuscivi?” domandai. “Ma che c’azzecco io?” rispose stizzito. “Che c’entra? Stiamo parlando di te!” “Era solo per...” “Ma statte zitto e non mi interrompere in continuazione 66

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che perdo il filo. Insomma: Giuse’, tieni le mani in tasca e se proprio proprio non ci dovessi riuscire... tiè.” E mi porse una confezione di preservativi. “Non mi chiedere come si usano... Non lo so. Magari per quello consulta tuo fratello. L’unica cosa che ti chiedo, per tutti i santi e le madonne, è di farmi campare quieto! Mi posso fidare di te?” “Sì papà” risposi serio. “Oh, adesso va meglio!” esclamò sollevato e poi, in tono compiaciuto propose: “E mo andiamo che sta per cominciare la puntata di Sandokan.” La Tigre della Malesia sancì la fine della prima e unica lezione di educazione sessuale della mia vita. Nonostante la paternale fosse risultata del tutto inutile, compresi le buone intenzioni di mio padre, ma che poteva saperne lui del rapporto che io avevo con Rossella? Lui era un istintivo, un passionale. Non che io non lo fossi altrettanto, ma Rossella per me era qualcosa di diverso, di puro. La sua bellezza diafana, il temperamento artistico, la delicatezza, quella signorilità innata, mai spocchiosa né ostentata, la dolcezza e l’eleganza presente in ogni piccolo gesto e nel modo di parlare, la spiccata sensibilità e l’empatia verso i più deboli, facevano di lei una sorta di paladina della luce; una luce lunare, intensa e mai accecante, una luce che permeava il mondo di poesia e di bellezza. Non è che non la desiderassi. Amavo i baci leggeri che ci scambiavamo, l’intensità degli sguardi e degli abbracci, mai troppo irruenti come per paura mi si potesse spezzare tra le braccia: lei oggetto cristallino appartenente a un’altra dimensione in cui tutto era sospeso, quasi impalpabile, come per un eterno incantamento. Rossella mi faceva fremere, sospirare di un desiderio che non aveva niente di Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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carnale, era piuttosto spirituale, quasi casto, era la voglia di appartenere al suo microcosmo, di fare parte di quella magia che sentivo così lontana eppure così terribilmente attrattiva e fascinosa. La mia era una smania di piacerle. Io che mi sentivo così banale e ordinario, avrei voluto essere il suo eroe, il suo Sigfrido capace di sfidare l’ira di Odino per amore, e invece non riuscivo a staccarmi di dosso Giuseppe Russo, sedicenne appartenente alla piccola borghesia, con la passione per il calcio... e per la musica. Almeno su questo mi salvavo. Almeno un po’. Mancava una settimana a Natale e io andai a fare un giro in centro per comprare un regalo alla mia ninfa dei boschi. Amavo il Natale e quell’atmosfera di attesa, le cene e i lunghi pranzi in famiglia. Camminavo per via Roma. Mi sentivo felice e stupidamente capace di elevarmi a una rinnovata bontà, come recitavano le letterine che componevo a scuola solo fino a pochi anni prima, per dedicarle a mamma e papà. Poesie intrise di promesse sempre uguali, piuttosto noiose eppure, in qualche modo, rassicuranti e piacevoli, come gli applausi che il parentado mi tributava dopo averle lette a gran voce. Mi sentivo così: traboccante di buoni propositi e speranze, in balia di sogni inconfessabili in cui mi vedevo dividere una casa con Rossella, dopo averla sposata nel più classico dei modi. Immaginavo alberi di Natale e presepi addobbati nella nostra casa, pregustavo il suo sguardo adorante mentre ultimavo le decorazioni in soggiorno in attesa dei parenti. Immaginavo incessantemente, dando sfogo alle mie ambizioni più sfrenate. Immaginavo senza inibizioni, come solo gli adolescenti riescono a fare... o almeno quelli di una volta. Oggi ne incontro alcuni per strada che sembrano aver visto già tutto; faccine imberbi funestate dalle espressioni anno68

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iate di chi crede di conoscere la vita e non ha desideri né speranze, nessuna idea di futuro. Li guardo e mi dico che eravamo fortunati a essere così fessi e contenti, ad avere quella capacità ostinata e cieca di sognare. Anche se molti di quei sogni si sono infranti, anche se è stato duro accettarlo, è stato un privilegio potere assaporare quel gusto schietto e sincero, simile all’aroma del buon vino, che solo un certo tipo di autentica felicità riesce a lasciarti impresso nelle papille gustative della memoria. Entrai nella Galleria Umberto I e mi diressi spedito verso la Ricordi. Ogni volta che facevo il mio ingresso nel più grande negozio di dischi di Napoli non riuscivo a trattenere un sospiro di gioia. Mi piaceva perdermi tra gli scaffali e le migliaia di copertine di dischi in vinile. Ma questa volta sapevo ciò che volevo: feci la gincana tra la disco music che riusciva a divertirmi, ma niente di più. Superai la sezione singoli: Fly, Robin, Fly dei Silver Convention, The best disco in town della Ritchie Family, e mi diressi verso lo scaffale dedicato alla musica italiana. Storsi il naso su Non si può morire dentro di Gianni Bella; Ancora tu di Battisti poteva andare, ma io volevo un Long Playing. Finalmente lo individuai: Via Paolo Fabbri 43 di Guccini. Immaginai l’espressione di Rossella nel riceverlo e sorrisi; sarebbe impazzita di gioia: considerava Guccini una sorta di guru di musica e di vita. Mentre fantasticavo alzai lo sguardo e fui colpito da un fulmine a ciel sereno: di fronte a me c’era il manifesto di Wish you were here dei Pink Floyd. Il disegno della stretta tra due mani meccaniche, racchiuso in un cerchio a spicchi colorati che si stagliava sullo sfondo nero mi fece quasi singhiozzare. Dio, quanto lo desideravo! Presi il portafogli e, disperatamente, mi diedi a tirare fuori tutto il contenuto. Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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Niente, non avevo denaro a sufficienza... E se... magari invece dell’intero LP di Guccini avessi ripiegato sul solo singolo dell’Avvelenata, di cui intanto avevo trovato anche la partitura con gli accordi per chitarra? In quel caso avrei risparmiato sul regalo di Rossella e avrei potuto consentirmi una strenna. In fondo non me lo meritavo? Finì che mi presentai alla cassa con, non solo l’LP (e non il singolo) di Guccini, ma anche con lo spartito dell’Avvelenata. Spesi fino all’ultimo spicciolo. La cassiera, algida e compassata, parve non avere il minimo sentore della battaglia che avevo appena combattuto e perso in nome dell’estremo sacrificio. Pensai che le cassiere sanno essere insensibili come pochi. Mi consolai sentendomi un po’ eroe per quel gesto di generosità verso il mio amato bene e tornai a casa con il portafoglio completamente vuoto, in balìa di sentimenti contrastanti. Quell’anno, per la prima volta, i miei mi concessero di andare fuori per il pranzo di Santo Stefano. A mezzogiorno a casa mia fervevano i preparativi: sia nonna Concetta che i nonni materni erano già arrivati con la bisnonna Adele che non perse occasione di rimproverarmi per quel tradimento alle tradizioni di famiglia. L’aria era pervasa da un penetrante profumo di ragù e il mio stomaco cominciò a dare pressanti segni di risveglio. Decisi di ignorarlo, salutai tutti e uscii baldanzoso verso casa di Rossella. Arrivai al suo portone e mi fermai per riprendere fiato. Per l’ennesima volta mi persi nel tipico colore giallo Napoli della sua facciata e nel ricordo di quando Rossella me ne descrisse il tenue calore che permea le mura di tanti palazzi di questa città. Lo stesso calore che sentivo irradiarsi in ogni fibra del mio corpo a dispetto del freddo dicembrino. Cercai di controllare l’affanno regolarizzando 70

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il respiro e finalmente entrai. Tenendo stretto il pacchetto con il mio regalo tra le mani, mi avviai dalla mia bella che non vedevo da ben tre giorni, praticamente un’eternità. Il mio ingresso fu salutato da Titina che per l’occasione indossava un camice con polsini di pizzo Sangallo e tanto di crestina in pendant. Rilevai che l’espressione del suo viso, falsamente gioviale, tradiva una malcelata insofferenza in netto contrasto con la tenuta da cerimonia che, in realtà, poco le si addiceva. “Buon Santo Stefano, Peppino. Rossella ti aspetta in camera sua. Tra poco sarà pronto in tavola” mi disse con un tono che avrebbe dovuto essere festoso, ma suonò lievemente sconsolato. Rossella mi accolse con quel sorriso che profumava di vaniglia e un bacio lungo e fremente come ali di farfalla. Dopo una serie di effusioni sedemmo sul letto, impazienti di aprire i regali. Lei scartò il suo e, come previsto, mi saltò gioiosa al collo; ma il suo entusiasmo fu niente se paragonato al mio assoluto stupore quando scoprii che il suo pacchetto conteneva, nientepopodimeno che Wish you were here. Mi guardò mentre giravo e rigiravo il disco dei Pink Floyd con un’aria incredula che si rifletté sul suo viso quando, nel ringraziarla, intravide un barlume di commozione nei miei occhi. “Se avessi immaginato di farti piangere avrei evitato... Ti piace, vero?” “Ma certo, stupida... mi piace talmente tanto che...” “Ehi comunistelli!” Marianna, la sorella di Rossella, come d’abitudine entrò senza bussare. “Scusaaate, vi ho per caso interrotto?” chiese canzonandoci, e senza attendere risposta aggiunse “E meno male, dico io. Qua c’è un odore di zucchero filato che dà la nausea, potreste rovinarSegmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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vi l’appetito visto che è pronto in tavolaaa!” Uscì richiudendo la porta con un gesto plateale. Ogni volta che vedevo Marianna non riuscivo a non pensare che avrei dovuto presentarle mio fratello Gianni. Avrebbero fatto il paio come perfetti stronzi di estrema destra. Entrambi con quell’aria eternamente supponente, si sarebbero intesi a meraviglia, da bravi camerati, niente di più; anche perché, considerato il debole che mio fratello aveva per le mediterranee supponevo che Marianna, con quei capelli castani tendenti al biondo e gli occhi cerulei, difficilmente avrebbe potuto ambire a posizioni differenti da quella. Per l’ennesima volta riflettei su quanto fossero diverse le due sorelle: la maggiore era così simile al padre al punto che, senza conoscere i genitori, sarebbe stato impossibile indovinarne la parentela. La ritrovammo in camera da pranzo, seduta a tavola in compagnia della mamma e del papà che occupavano i lati estremi di un tavolo piuttosto lungo e apparecchiato in modo impeccabilmente elegante. Rossella e io prendemmo posto sul lato destro, di fronte alla sorella. Nel vedere la teoria di posate e bicchieri fui preso da un senso di smarrimento. Avvertii la mano di Rossella stringere forte la mia sotto al tavolo, e sollevando lo sguardo verso di lei fui confortato da una strizzatina d’occhi complice. Mi rilassai, o almeno ci provai disperatamente, nonostante l’atmosfera da museo delle cere così dissimile da quella alla quale ero abituato. “Benvenuto Giuseppe.” Il papà delle ragazze mi accolse con una frase che di caloroso non aveva niente, come il sorriso di sua moglie che non riusciva ad abbandonare quella perenne aria annoiata. E in effetti fu una noia mortale mangiare il... 72

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“Brodino di pollo!” annunciò in tono quasi stizzito Titina. “Cara Assunta” la redarguì pazientemente la signora Brancaccio, “come la cuoca ti ha ripetuto più volte, questo è consommé di cappone.” “Sissignora, come volete voi.” Niente da fare, per quanto si sforzasse non le riusciva minimamente di smorzare il tono polemico. “Non le è andato giù che mamma abbia assunto una cuoca per le feste natalizie” mi spiegò Rossella in un sussurro, “avrebbe preferito cucinare lei.” E lo avrei preferito senz’altro anch’io, soprattutto dopo avere assaggiato le portate che seguirono, come quei capelli d’angelo allo zafferano, così insipidi da farmi sì, venire da piangere, ma questa volta non di commozione. Le triglie erano indubbiamente fresche e assai leggere con un filo d’olio d’oliva come unico condimento, ma alle mie papille gustative poco importava; snobbando qualsivoglia forma di salutismo vagheggiavo ostinatamente i mezzi ziti al ragù che a quell’ora sarebbero stati serviti a tavola dai miei. La frutta fresca e il budino all’arancia e cannella non furono male, ma ciò che proprio risultò indigesta fu la conversazione. “Ieri Manlio mi ha detto che lui e Marisa stanno pensando di separarsi.” Il signor Brancaccio annunciò questa notizia con indecifrabile leggerezza, incurante della nostra presenza. “Ma guarda un po’!” rispose acidamente la moglie, “un altro amico che trova il coraggio di liberarsi dalle catene coniugali. Possiamo sperare che presto arriverà il nostro turno?” “Era semplicemente così per dire. Piuttosto tu hai qualSegmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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che consapevolezza di quanto il tuo senso dell’ironia sconfini spesso nella stupidità?” chiese sarcastico. “E a te punge vaghezza che sembrava ci stessi proponendo un brindisi?” rispose lei adeguandosi al tono tagliente del marito. Titina, che passava silenziosamente dietro Marianna per servire il dolce, non riuscì a reprimere un eloquente sguardo rivolto al cielo. “Hai sempre questa fastidiosissima propensione al melodrammatico, Sveva” rincarò lui ostinato. “Tu credi, Edoardo? Magari potrei metterla a frutto. Che dici?” rispose lei che intanto mangiava in punta di forchetta, come se tutto ciò che metteva in bocca fosse saturo di aceto. “Ma sai che è un’idea? Potresti aggregarti a una compagnia itinerante di guitti. Già immagino la tua effige sui cartelloni” insisté lui, beffardo. “Mi sa che devi trovare un’alternativa. Questo regalo proprio non te lo faccio.” “Vedi Giuseppe?” Il suono del mio nome pronunciato ad alta voce da Marianna ebbe l’effetto di una fucilata. “Da noi Santo Stefano, e non solo, si festeggia così: ipotizzando scenari nuovi e insoliti che prevedano tassativamente il disgregamento di questo schifo di famiglia.” Abbandonò la tavola senza terminare il budino. Il padre impassibile commentò rivolgendosi alla consorte: “Nel caso decidessi di seguire il mio consiglio credo che potresti portare la tua figlia maggiore con te. Avete la medesima vocazione per la sceneggiata.” Quella sera, quando tornai a casa trovai anche i miei 74

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zii che, insieme a nonni e cugini, avevano organizzato una tombolata. In un frastuono assordante mi fecero posto a tavola fornendomi di cartelle e fagioli per coprire i numeri. Ripensai a Rossella, al suo palazzo color giallo Napoli, a quel calore di facciata che non era riuscito minimamente a penetrare tra le mura, mentre a casa mia... A casa mia si campava con poco, ma la famiglia era tutto. La mia famiglia era un nucleo palpitante, alimentato da una perenne alternanza di chiari e scuri; ridda di suoni e colori in cui l’amore era palpabile e resistente a intemperie e scosse, vascello inaffondabile che ostinatamente veleggiava, pur beccheggiando tra mille incomprensioni e innumerevoli difficoltà. Era lì, all’interno di quelle mura che mi sembrò di percepire le vibrazioni di quel giallo, che non a caso porta il nome della mia città. Giallo Napoli, luce, soffusa, a tratti malinconica ma vibrante di calore, in precario equilibrio tra caos e quiete. Pervaso di inestinguibile passione.

Giallo oro “Faccia gialla! E fallo ‘stu miracolo!” Mia nonna Concetta, nonna da parte di papà, troppo impegnata nella sua preghiera, parve non fare caso alla frase gridata dalla signora davanti a me che, incurante del dolore che mi infliggeva, era salita sui miei piedi per sollevarsi e gridare alla volta di San Gennaro, pervasa da un delirio che sembrò aver travolto, e stravolto, tutti gli occupanti del Duomo in quel 19 settembre del ‘78. Con sgomento analizzai la gente che avevo attorno: un fiume in piena di individui che, per la festa del Patrono, fin dalle prime ore del mattino, aveva invaso ogni spazio e recesso possibile, compreso (per l’appunto) quello occupato Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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dai miei piedi. Per l’ennesima volta scrutai mia nonna chiedendomi perché mai avessi ceduto alle sue insistenze, pur conoscendo già la risposta: nessuna come lei era capace di allettarmi con moine e promesse di manicaretti divini; la sua cucina era una merce di scambio irresistibile per chiunque e quindi mirava alla gola e, determinata come un molosso, non mollava la presa pur di ottenere i suoi scopi. Eppure nessuno avrebbe potuto indovinare tanta ostinazione in quella donnina minuta che si aggrappava saldamente al mio braccio quasi temesse di venire trascinata via dalla fiumana di fedeli che si ingrossava di minuto in minuto, mentre con gli occhi serrati ripeteva da ore una litania ossessiva. Di fronte a noi, il Cardinale occupava la parte dell’abside antistante l’altare in modo da risultare ben visibile a tutti. Predicava da ore. Ancora una volta invitò i fedeli a unirsi a lui. Ancora una volta lo fissammo rapiti, con il fiato sospeso, mentre agitava inutilmente la reliquia. Ancora una volta, alla vista di quel sangue che sembrò essere irrimediabilmente secco, le preghiere dei devoti si rinnovarono, sempre più accorate, fino a raggiungere parossismi di rabbia e lacrime in cui le benedizioni si confondevano con le bestemmie. Compativo il povero San Gennaro, ora dolcemente blandito e ora fatto oggetto di affettuosi improperi. Il suo volto d’oro (da qui il nomignolo di faccia gialla), ci osservava serio e compassato, impassibile tanto alle suppliche quanto alle offese. L’atmosfera era soffocante. La fatica di respirare a causa della ressa era aggravata dall’ansia impaziente creata dall’attesa di un miracolo che tardava ad arrivare. Finché, alle nove e quarantuno, esplose un boato. Le antiche mura della cattedrale parvero tremare. La mia paura fu tale che, 76

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unitamente a quello del santo, avvertii distintamente anche il mio sangue liquefarsi, perdere consistenza e defluire dalle mie guance che intuii essersi pericolosamente sbiancate. A differenza del sottoscritto, nonna Concetta parve tornare tra i vivi e, rianimata, cantava lodi e profondeva benedizioni a destra e manca, alla stregua di una papessa. “Non capisco perché ci sei andato. Non trovi sia ipocrita per uno che si dichiara agnostico?” Quel pomeriggio Rossella, seduta sul lettino della mia camera mi redarguì in tono blandamente polemico. In cuor mio le diedi ragione. Nonostante fossi cresciuto in un ambiente profondamente cattolico ero un miscredente. Forse per la mia indole ribelle e anticonvenzionale o, più semplicemente, perché non mi riusciva di accettare l’esistenza di un Dio indifferente alle innumerevoli brutture che funestano il mondo. Ciononostante tentai di giustificarmi: “Se avessi mangiato il sartù di riso che mi ha preparato a pranzo come ringraziamento, la penseresti diversamente.” “Cibo, cibo... Ci vuole assai poco per comprarti. Ed entrambe le tue nonne lo sanno bene!” Il suo tono pungente mi infastidì non poco, soprattutto perché ci intravedevo una versione edulcorata dei modi di sua madre. Cercai di scacciare quel pensiero che negli ultimi mesi si faceva sempre più pressante. “Baciami, stupida!” le dissi prendendola tra le braccia. Ricambiò il mio bacio svogliatamente e quando le mie carezze si fecero più insistenti si divincolò. “Ultimamente stai diventando un po’ troppo maiale per Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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i miei gusti.” Il suo sguardo disgustato mi ferì. “E tu sembri la monaca di Monza!” le risposi sempre più infastidito. “Ma cosa c’è che non va?” “Rossella, questa domanda dovresti rivolgerla a te stessa. Anzi, sono io a domandarti: cosa ho io che non ti va? Stiamo insieme da due anni; ci amiamo. Non credi siano normali certe voglie?” “Lo sai che abbiamo un patto” replicò ostinata. “Sì, ho capito! All’inizio mi dicesti che volevi fare l’amore appena avessimo raggiunto la maggiore età; poi hai deciso che dovrà essere la notte di fine anno. Non ti ho chiesto il contrario. Ho sempre rispettato questo accordo, ma non mi sembra un delitto se nel frattempo ci concediamo qualche... assaggino.” “Giuseppe, sai come la penso. Quando accadrà voglio che sia perfetto” sentenziò inflessibile. “Ancora? Vorrei capissi che questa tua tendenza al perfezionismo mi sta facendo salire l’ansia da prestazione. Non sarebbe meglio conoscerci un poco?” “Io voglio che sia sorprendente” disse stringendo i pugni. Per un attimo temetti di vederla battere i piedi a terra come una bambina capricciosa. “Eccola di nuovo!” ribattei esasperato, “comincio ad avere la certezza che la sorpresa ci sarà, ma non come la intendi tu.” “Cioè?” Il mio senso di frustrazione crebbe. “Ma ti rendi conto che sarà la prima volta per entrambi e che mi sta venendo il panico? Senza considerare che tu compirai diciotto anni tra pochi giorni.” 78

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“Sì, ma per la fine dell’anno mancano ancora tre mesi e mezzo. Sarà la prima volta in cui i miei, data la mia maggiore età, mi consentiranno di stare fuori per una notte intera. Loro andranno in montagna con gli amici credendo che noi andremo a un veglione e invece...” “E invece saremo nel loro letto in preda ai sudori freddi!” “Ma no, amore. Sarà meraviglioso... e tu lo sai.” Ed ecco spuntare all’improvviso, come una luna che fa capolino in una notte di nuvole, quel suo sorriso lieve di bambina. E inevitabilmente mi si sciolse il cuore. ♫ ♪ Because tonight there are two lovers... ♫ ♪ Alla festa dei diciotto anni di Rossella, con la musica ad altissimo volume, cantavamo tutti a squarciagola il pezzo di Patty Smith. La guardavo mentre, ridendo felice, mi teneva per la vita ammiccando sulle parole della canzone. Per l’occasione il salone di casa sua era stato sgomberato in modo da consentire agli invitati di ballare grazie alla musica di un deejay. Su un lato della stanza un servizio di catering aveva allestito un buffet luculliano. Ripensai alla mia festa per la maggiore età, tenuta pochi mesi prima, in pizzeria con pochi amici selezionati, e sospirai. I soldi non faranno la felicità, ma accidenti se erano divertenti! Fui distratto da Marianna che, considerato il chiasso che faceva per mettersi al centro dell’attenzione, sembrava voler primeggiare a tutti i costi sulla sorella festeggiata. Era spalleggiata dal suo gruppetto di amiche che, a occhio e croce, mi sembrarono essere stronze come lei... e anche notevolmente belle. O almeno: una di loro lo era di certo, pensai quando inaspettatamente mi guardò e arricciando le labbra a cuore mimò il gesto di un bacio. Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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Deglutii. Lei sorrise insinuante in un tripudio di capelli biondo oro e il luccichio di strass dei suoi orecchini appariscenti. Sempre fissandomi si avvicinò con movenze feline. “Invece di guardarmi con quegli occhi da triglia, che ne dici di invitarmi a ballare?” Mi cinse il collo senza neanche darmi il tempo di risponderle. Solo in quel momento mi resi conto che era iniziato un pezzo lento, di quelli che si ballavano tenendosi stretti. Poco distante da noi c’era Rossella. Percepii il suo sguardo interrogativo. Distolsi il mio. ♫ ♪ Pensiero stupendo... nasce un poco strisciando... ♫♪ Sulle note del pezzo della Pravo scoprii che l’amica di Rossella si chiamava Monica, così come scoprii che il mio intuito funzionava alla grande. “E così tu saresti il ragazzo della madonnina infilzata: Santa Rossella Vergine e Martire.” Sì, era senz’altro stronza, non mi ero sbagliato. Decisi di non rispondere. Decisi di avere un atteggiamento distaccato. Decisi di ignorare che si stava strusciando contro di me come una gatta in calore. E decisi pure di tagliarmi il pisello appena ne avessi avuto l’occasione, considerato che iniziava a dare preoccupanti segni di risveglio fregandosene altamente dei miei lodevoli propositi. Segni che non erano sfuggiti nemmeno alla mia focosa dama. “Ma senti senti...” sussurrò leccandosi le labbra. La allontanai di scatto, farfugliando qualcosa e, dribblando Rossella per non incrociarla, mi diressi spedito in bagno. Mi sciacquai ripetutamente la faccia e i polsi con l’acqua fredda, mentre mi incazzavo ad alta voce con me stesso. 80

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“Giuseppe... con chi sei?” La voce di Rossella, accompagnata da una serie di colpi alla porta mi fece sobbalzare. Spalancai l’uscio: “Con chi vuoi che sia?” replicai stizzito. “Mi sembrava stessi litigando con qualcuno” si giustificò lei timidamente. “Sì... beh... Quella cretina con cui ballavo mi ha pestato tante di quelle volte i piedi che non riesco nemmeno a camminare.” Pregai di essere stato convincente. “Non mi era parso, considerato quanto correvi appena un istante fa.” “Ma si può sapere che vuoi?” sbottai sulla difensiva. Mi guardò con un’espressione così addolorata da farmi sentire un miserabile. “Scusami, amore... Non è colpa tua. È che non digerisco le amiche di tua sorella almeno quanto non digerisco lei”, le dissi baciandole gli occhi umidi di lacrime. E aggiunsi allegramente “Ma che ci facciamo qui? È o non è il tuo compleanno? Si deve festeggiare, e al diavolo il resto!” Le afferrai la mano e la portai al centro del salone, le feci cenno di aspettarmi e mi diressi spedito verso il deejay per fargli una richiesta speciale. Tornai da lei sulle prime note del pezzo di Alan Sorrenti e sollevandola in alto tra le braccia cantai a squarciagola. ♫ ♪ Come le stelle noi figli della notte che ci gira intorno... oh oh... ♫ ♪ Fummo immediatamente accerchiati da tutti gli invitati che continuando a tenerla sollevata, e passandola di mano in mano, si unirono cantando in coro: “Noi siamo figli delle stelle...” Ma io mi sentivo piuttosto un figlio di puttana. Un gran figlio di puttana. Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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Qualcuno dice che non è tutto oro ciò che luccica, ma io sembrai non ricordarlo né tenerne conto, considerato tutto ciò che accadde dopo quella sera, in cui l’oro di quei capelli cominciò, mio malgrado, a inquinare i miei sogni di giovane uomo. Oro. Colore caldo e generoso. Simbolo di ricchezza e d’opulenza, ma non nei miei ricordi. No. In un angolo della mia memoria esso impera, legato a doppio filo al palo di quei desideri, che sarebbero stati, ahimé, soddisfatti; signore incontrastato, simbolo gelido come metallo, freddo e indifferente alle sofferenze del mondo quale solo una statua, senza pelle né anima, sa essere.

Giallo limone Trac trac trac! Il suono della chiave che girava nella toppa deflagrò nel vuoto. Con il cuore che batteva forte entrammo a casa di Rossella. Il silenzio era totale. Non poteva essere altrimenti. Non doveva essere altrimenti, considerato che eravamo lì per quello. Eravamo lì per un patto che avrebbe sancito il passaggio alla nostra età adulta e messo la parola fine alla nostra verginità. L’emozione era incontenibile. Quanto la paura. Ci avviammo verso la stanza da letto dei suoi, simili a topi, aggirandoci furtivi, pronti a nasconderci al minimo accenno di presenze umane. Ma, come previsto, non c’era nessuno. La cosa più che confortarmi mi gettò nel panico. Nessuno avrebbe potuto salvarmi. Sentii di odiare Rossella, di odiare i suoi patti scellerati, infantili, sconclusionati. Sentii di odiare me stesso per averli accettati, per averla assecondata in quel delirio da bambina stupida, senza capo 82

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né coda. Pensai di girare le spalle e andarmene senza dire una parola. Pensai di fuggire. Poi cambiai idea e pensai di schiaffeggiarla. Me ne vergognai. L’abbracciai come a volerle chiedere perdono. Mi sorrise felice. Mi tornò la voglia di schiaffeggiarla. “Siediti vicino a me...” sussurrò dolcemente indicandomi il posto affianco a lei sul letto matrimoniale. Obbedii docile. Le sedetti accanto senza riuscire a fare niente di meglio che osservarmi ostinatamente le punte dei piedi nel tentativo di vincere il senso di vertigine che quel letto così enorme mi provocava. Deglutii ripetutamente. Mi convinsi che avrei dato di stomaco da un momento all’altro. Lei mi prese il viso tra le mani e mi baciò dapprima lievemente, poi insinuando la lingua tra le mie labbra e lentamente quel velo di paure scivolò via, scoprendo i miei istinti, liberandoli come animali tenuti in cattività per troppo tempo. Li avvertii fare capolino timidamente e poi annusare l’aria ebbri di quell’euforia che solo la libertà riesce a dare. Ed eccoli scorrazzare felici, invadere ogni fibra dei miei sensi, ogni terminazione nervosa, decisi a tutto, capaci di muovere le mie braccia, le mani, le dita, rendendole sempre più febbrili nell’esplorare il suo corpo, nello stringere i suoi piccoli seni. La sentii mugolare. Non capii se fosse stato perché le avevo fatto male o per l’eccitazione. E non mi interessò nemmeno capirlo, mentre la spogliavo e mi spogliavo, mentre la leccavo, la mordevo, mentre la baciavo con amore e con rabbia, soggiogato da un senso d’urgenza che prevaleva su tutto. E poi d’improvviso fui dentro di lei. Ottusamente avevo vinto ogni resistenza; come un ariete mi ero spinto avanti con il solo intento di espugnare la fortezza, incurante di tutto e soprattutto del suo sentire. Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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Venni. E fu come essermi tuffato nel mare perché avvertii distintamente tra le labbra il sapore della salsedine. La cosa mi sorprese non poco, fin quando non incontrai i suoi occhi e vidi che piangeva. “Cosa... Cosa...?” farfugliai confusamente. “Mi hai fatto male” disse gelida sollevando le dita, dopo essersi sfiorata tra le cosce. Erano sporche di sangue. Sobbalzai spaventato e urtai il comodino. Sentii un rumore di oggetti che vanno in frantumi. “Il portagioie di mamma!” esclamò incredula. “Hai rotto il portagioie di mamma! Lo hai rotto... lo hai rotto...” Continuò a ripetere questa frase come un disco incantato. Mi abbassai per raccogliere i cocci: era un cofanetto in ceramica di Vietri con il fondo bianco, decorato con disegni blu che si intrecciavano a fronde di limone. La guardai inebetito mentre prendeva dalla borsa i fazzolettini per asciugare i residui di sangue tra le cosce. Ebbi la netta sensazione che insieme al portagioie fosse andato in pezzi tutto il resto: il nostro amore, le poesie, le sue fottutissime aspettative ormai deluse. Tutto. “Mi dispiace...” dissi con un tono che, più che rammaricato, suonò imbarazzato. “Se hai un po’ di colla provo a rimetterlo a posto.” Non rispose. “Vedrai, non si vedrà niente.” Mi guardò come se non mi riconoscesse. “Vai via... Per favore. Vai-via.” Non la rividi più. Nell’aria, il profumo dei limoni sembrò permeare e dare vita ai decori presenti sulla distesa di ceramiche espo84

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ste in uno dei tanti negozi di manufatti artigianali sorrentini. Assorto, mi immersi in quei disegni, ripercorrendo con lo sguardo i tralci di piante di limone con le mille volute verdi e le campiture gialle, arancio, blu, sfiorandoli in punta di dita, perso in quel ricordo che tornava a tradimento, dolorosamente vivido, in quel lunedì primaverile del ‘79. Erano trascorsi pochi mesi dal giorno in cui avevo lasciato quella stanza. Dal giorno in cui ero stato lasciato da Rossella. Avevo provato a richiamarla, ma niente. Mi spiace non c’è, questa era la risposta, breve e concisa. Spietata. Aveva messo un muro tra noi e la cosa bruciava ancora. Bruciava forte. Non perché ne fossi innamorato, no - adesso capivo che non lo ero più, e da un po’ - da quando avevo realizzato che somigliava sempre più al suo mondo snob e sempre meno alla ragazzina dolce e ribelle che avevo conosciuto, ma perché mi dispiaceva sinceramente. Tremavo al ricordo di quella prima volta. Di quanto ero stato maldestro e insensibile. E non me lo perdonavo. Non lo meritava. Ed era assurdo essermi lasciato dietro una scia di disgusto e rancore. Non era così che doveva andare. Ci sono molti modi per chiudere una storia, ma non quello. Quello era inaccettabile. “Giuse’, ma niente niente stessi pensando di sposarti? Volessi fa’ la lista di nozze qui a Sorrento?” Giacomo, uno dei miei compagni di liceo, e di bisbocce, con il quale avevo organizzato quella gita fuori porta, mi ricondusse bruscamente alla realtà. “Mannaggia, mi hai rovinato la sorpresa!” lo rintuzzai prontamente, e mettendomi in ginocchio: “Giacomo Parisi, vuoi diventare mia moglie?” “Definitivamente-no! Al massimo posso diventare tuo marito... capisci a mme!” e mi porse la mano da baciargli. “E mo che dici?” propose ridendo, “vogliamo raggiungere Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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gli altri? Ho una fame che non ci vedo: pregusto già la frittura di pesce che mangerò con te in riva al mare... cuore a cuore.” Sorrento quel giorno era incantevole: spiccava luminosa sul blu cobalto di cielo e mare, come una miniatura di porcellana fine. Raggiungemmo il resto della nostra neo-comitiva, composta da compagni del liceo, sulla strada per Marina Piccola. Gina e Manuela erano impegnate nella loro attività preferita: spettegolare sugli assenti della classe, e Salvio, incurante, cantava a squarciagola portando a spalla il suo nuovo stereo, pagato grazie a mesi di risparmi sulle uscite e di scrocco selvaggio delle sigarette altrui. ♫ ♪ Na tazzulella ‘e cafè, c’ ‘a sigaretta ‘a coppa pe nun vedè...♫ ♪ “Ma non puoi evitare di sfondarci i timpani?” gli chiesi dopo aver silenziato il registratore. “Potrebbero accusarti di disturbo della quiete pubblica e non ho voglia di passare il resto della giornata in questura per spiegare che sei un fruitore irresponsabile di musica, per di più pessima.” “Pino Daniele... pessima musica?” trasecolò “Capolavori come Terra mia e l’ultimo album, che porta il suo nome come titolo, pessima musica? Io arresterei te per insipienza con aggravante di imbecillità acuta!” “Ma per favore! Stai parlando con uno che ascolta gli Zeppelin, i Pink Floyd, mica ‘ste musichette folkloristiche da quattro...” “Musichette folkloristiche?” gridò scandalizzato. Poi allargando le braccia e volgendo gli occhi e i palmi verso il cielo “Signore, perdona loro, non sanno quel che dicono!” “Guarda che lo so benissimo. In radio, ad Alto Gradi86

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mento, lo propongono di continuo. Nun me piace!” insistei cocciuto. “Io non credo che tu abbia ascoltato le parole; come credo, altresì, che se mi concedessi il piacere di prestare attenzione potrei farti ascoltare ‘sto cacchio di album e indurti a cospargerti il capo di cenere, non una, ma mille volte!” “Io credo esattamente il contrario, ma perché tu non possa dire che io do dei giudizi affrettati mi sottopongo a questo supplizio di Tantalo in nome della scienza e della salvaguardia della buona musica.” Armato di spirito di sacrificio, gli strappai lo stereo dalla spalla e lo adagiai sulla mia. Come finì? Finì che dovetti fermarmi ad acquistare le pile di ricambio, non una, ma ben due volte. Finì che le cassette gliele consumai a furia di risentirle. Finì che il giorno dopo mi precipitai alla Ricordi per comprare il primo e il secondo LP di quello che sarebbe diventato il mio idolo, e che tutti a Napoli chiamavamo affettuosamente Pinotto. Finì che il cretino di Salvio si fermò in un negozio di alimentari per comprare cento grammi di ceci secchi che cosparse su una porzione di marciapiede, costringendomi a percorrerla inginocchiato sotto gli occhi dei sorrentini che passavano di là e ridevano sentendomi gridare sotto la sua sferza: “Pinotto è un genio e io un fesso di talento.” Ed era proprio così. Avevo passato una giornata in un luogo splendido come Sorrento, un posto conosciuto in tutto il mondo, senza quasi vederlo, perché era come se fossi a Napoli, e passeggiando tra i suoi vicoli, sul lungomare, mi commuovevo davanti a uno dei suoi panorami, avvertivo gli odori e gli umori della mia città. Pino dava voce alle mie frustrazioni, alla rabbia che ogni ragazzo napoletano sentiva dentro, ma allo stesso tempo mi riscattava, mi Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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raccontava che Napoli è altro: è rinnovamento, alchimia, contaminazione, senso di rivalsa. Napul’ è na carta sporca e nisciuno se ne ‘mporta. Napoli è chi fotte e chi è fottuto, è il ladro e il derubato, è tanto lo stuprato quanto lo stupratore. Napoli che si rispecchia nelle piantagioni lontane dell’America, nei canti blues dei neri, così simili a noi perché discriminati da un Nord che dopo averci razziato ci demonizza, ci rinnega relegandoci ai margini del paese, fingendo di ignorare quella stessa cultura millenaria che saccheggia a proprio uso e consumo quando gli torna utile. Non riuscii a non piangere ascoltando Terra mia, una, due, trenta volte, fino a che non la mandai a memoria. “Ma guarda un po’ chi ti incontro a Sorrento.” L’improvvisa comparsa di Monica, l’amica stronza di Marianna, mi fece andare di traverso la birra. “Ciao... Non ti avevo vista.” E avrei preferito non vederla. “Non mi sorprende, considerate le luci basse del locale e la tua evidente miopia in fatto di donne. Ops! Ma vedo che Santa Maria Goretti stasera non è con te. Come mai? Ti ha lasciato solo soletto per dedicarsi alla preghiera?” domandò fintamente partecipe. Sentii di detestarla. La guardai dritto negli occhi. “Molto, ma molto divertente!” sbottai gelido. “E comunque no, non è con me. Ci siamo lasciati.” “Vorrei poter dire che mi dispiace, ma in realtà me ne frega assai poco. Come mai da queste parti? Anche i tuoi hanno una casa in costiera?” Avrei voluto risponderle che era già tanto che i miei 88

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fossero riusciti a comprare l’appartamento in cui abitavamo, ma mi astenni. “No, una semplice gita fuori porta con i compagni del liceo. Ci siamo fermati a bere qualcosa prima di tornare in...” “Ma quanto parli!” esclamò annoiata. “Vieni con me che ti faccio assaggiare una cosa.” E senza attendere risposta mi prese per mano e mi portò al suo tavolo. “Ragazzi” disse rivolta ai suoi amici, “mica avete finito il limone?” Uno di loro senza rispondere le avvicinò un piatto su cui erano adagiate delle grosse fette di limone di Sorrento a cui era stata tolta solo la buccia gialla esterna, lasciando intatto l’albedo talmente spesso che, come avrei scoperto in seguito, viene chiamato pane. Scelse la più grossa, la cosparse di zucchero e la bagnò con qualche goccia di cognac. “E adesso mangiala tutta e poi dimmi” disse imboccandomi con fare insinuante. Era delizioso: appena acre, dolce e succoso. “Non c’era troppo cognac, vero? Non vorrei ti andasse alla testa.” Ero veramente stufo del suo sarcasmo fuori luogo, la ringraziai appena e feci per andarmene quando mi strattonò forte e mi abbracciò dandomi un bacio in bocca. Un bacio rabbioso, quasi a voler rimarcare chi fosse a comandare. Le tirai i capelli per allontanarla da me, ci guardammo come due che sono lì lì per arrivare alle mani e poi la ribaciai, quasi sdegnosamente, come a farle capire che ero io, e non lei, a tenere le redini del gioco. Ma mi sbagliavo, e me ne accorsi quando mi afferrò la mano e mi portò nel bagno del locale. La guardai dapprima confuso, poi quasi Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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inorridito mentre si inginocchiava per abbassarmi i pantaloni e prendermelo in bocca. Il mio tentativo di protesta fu troppo debole. Ero talmente eccitato che venni dopo appena un minuto. Lei non si scompose. Si alzò leccandosi le labbra soddisfatta e senza dire una parola mi lasciò nel cesso con i pantaloni abbassati fino alle caviglie e l’espressione colpevole di un bambino che è stato scoperto con le dita nel vasetto della marmellata. Era il miglior sesso orale che avessi potuto immaginare; non so se perché fosse brava o semplicemente perché era la mia prima volta. Uscii dal bagno e raggiunsi i miei amici. “La tizia di prima ti ha lasciato questo...” mi disse Giacomo porgendomi un bigliettino su cui c’era scritto: Quando ti sarai ripreso chiamami pure a questo numero... Mica credi di cavartela così: la prossima volta ti toccherà ricambiare.” E ricambiai. Molte, molte volte. Con Monica iniziò una storia fatta di continue incazzature, litigi e sesso. Tanto sesso. Scopavamo ovunque e in ogni occasione possibile. Se è vero che alla nostra età non era semplice trovare dei posti adatti, è altrettanto vero che l’ormone iperattivo è diabolico. Andavamo al cinema per toccarci a vicenda, ogni panchina era buona per baciarci e nascondere le nostre carezze sempre più audaci. Fuori ai bagni dei locali la gente faceva la fila in attesa che noi concludessimo. “E allora?” disse polemica, una volta, rispondendo all’espressione poco elegante di un tizio che dopo avere aspettato un quarto d’ora ci vide uscire insieme dalla toilette “Mettiti in tasca quella tua aria scandalizzata e confessa che ti brucia il culo perché non ti puoi permettere di fare altrettanto. Poveraccio!” L’arroganza di Monica mi faceva andare fuori di testa. 90

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E più mi incazzavo e più la volevo. Non credo di averla mai amata, ma forse per un periodo mi convinsi del contrario perché a quell’età non sai distinguere il desiderio dall’amore: è tutto mischiato, confuso in un vortice di sensazioni incomprensibili. La sua mancanza di pudore mi imbarazzava e mi turbava, tanto quanto mi eccitava. Per tutto il resto non mi piaceva: era la classica figlia di papà, di quelle che vestono griffato, che comprano i giornali patinati e imitano le indossatrici. “Sei il solito comunista del cazzo!” era la sua frase preferita quando litigavamo. “Per te, tutto quello che non è di destra è comunista” risposi schernendola. “Perché non lo sei?” “Dipende da cosa sottintende il termine: sono contro le dittature e quindi il comunismo sovietico mi fa orrore quanto quello cinese. Ma se penso ai partigiani italiani, quelli mi piacevano. E mi piacciono pure gli operai. Sono per il popolo... Insomma, il Marxismo è una teoria che trovo assolutamente condivisibile, anche se all’atto pratico è stato spesso travisato e distorto per...” “Che palle!” sbottò esasperata “Eccolo che attacca con le pippe politiche. Tipico!” “Ma tipico di che? Di chi? Saranno meglio quei fascistelli degli amici tuoi che non saprebbero trovarsi il culo nemmeno a disegnar loro una mappa!” replicai offensivo. “Certo che sanno dove ce l’hanno: al sicuro. Ecco dove!” esclamò mentre si rimirava le unghie delle mani con fare palesemente snob. “Ma guarda un po’... Facciamo un applauso al papino che gli presta il Riva per andare a fare i cazzoni in riva al mare, a pavoneggiarsi con le ragazze a bordo del motoscaSegmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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fo con il rischio di smembrare qualcuno che si sta facendo il bagno in grazia di Dio!” “Sei un cretino!” esclamò piccata. “Beh! se lo dici tu ti credo: di cretini te ne intendi. Ce li hai tutti come amici!” insistei beffardo. “Saranno belli i tuoi: un branco di nullafacenti senza né arte né parte. Quello che resta degli hippie... Gli pseudo figli dei fiori! E quello vi mangerete: i fiori che troverete nei campi dove quelli come noi costruiranno palazzi.” “Concordo! È esattamente quello che sarete: palazzinari.” Queste continue discussioni si concludevano invariabilmente nello stesso modo: la ricerca spasmodica di un posto in cui poterci toccare, graffiare, mordere. Era una giostra perversa. “Per il mio compleanno ti farò una sorpresa” mi disse un giorno al telefono. “Veramente per il tuo compleanno la sorpresa dovrei fartela io.” “Lascia stare, bimbo...” “E non chiamarmi bimbo! Sai che mi sta sulle scatole!” “Perché non è quello che sei?” mi canzonò. “Monica, io ho diciotto anni. Sono maggiorenne e non è che compierne ventuno farà di te una donna vissuta” replicai polemico. “Ma se quando ti ho conosciuto non sapevi nemmeno cosa fosse un pompino!” “Ma chi te lo ha detto?” dissi punto sul vivo. “E poi saranno fatti miei. A differenza di te che la sbatti in faccia come fosse la cosa più normale del mondo, io so cosa significa essere riservato.” 92

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“Non mi è parso proprio l’altro giorno quando mi hai...” “E basta!” tagliai corto. “Ok, dai non ti arrabbiare, e soprattutto non spendere i tuoi soldini” mi blandì fintamente premurosa, “fa tenerezza immaginarti mentre rompi il salvadanaio per comprarmi qualcosa di non griffato, cioè di assolutamente inutile e inutilizzabile.” “Sei proprio una stronza!” “Stronza o no, sappi che non scherzo. Non spendere soldi: ho un programmino speciale.” La sera del suo compleanno non volle che l’andassi a prendere, e si presentò sotto casa mia a bordo di una Mini De Tomaso Special, nera con righe color oro sulle fiancate. “Caspita! Ti sei fatta prestare la macchina da tuo padre.” “Scherzi? Questo è il suo regalo di compleanno. È tutta mia” rispose accarezzando con le belle mani curate il volante sportivo in pelle. Se è esistito un momento nella mia vita in cui ho invidiato qualcuno è stato quello: avere una macchina propria era il sogno di qualsiasi ragazzo, allora come oggi. “E non hai visto niente: ta daaa!” esclamò prendendo dal sedile posteriore una bottiglia di Moët & Chandon con due calici. “Fermo!” esclamò prima che potessi stapparla. “Ti porto nella location giusta.” Quella sera ci ubriacammo al Parco delle Rimembranze e dopo aver coperto i finestrini con fogli di carta di giornale, facemmo finalmente sesso indisturbati. Anche se la macchina era un’utilitaria, ci sembrò una reggia e potemmo sperimentare posizioni fino ad allora solo immaginate. Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata

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Le cose tra me e Monica in qualche modo funzionavano; per quanto precario avevamo trovato un nostro equilibrio, ma quell’estate non andai in vacanza con lei e i suoi amici, perché non li sopportavo e poi non avrei potuto permettermi i divertimenti a cui erano abituati. A luglio passai gli esami di maturità e con Giacomo e Salvio, ormai compagni inseparabili, mi concessi una vacanza a Milos, una splendida isola delle Cicladi. Partimmo con zaino in spalla, tenda e sacco a pelo; bivaccammo su spiagge libere. La sera organizzavamo spesso falò e a Monica non ci pensai quasi più, fino al giorno in cui, terminate le vacanze, non si presentò a casa mia. “Giuseppe, c’è un’amica che ti cerca.” Mia madre, in preda a un certo imbarazzo, venne a bussare alla porta della nostra camera. Io e Gianni eravamo sui nostri letti intenti ad ascoltare il nuovo album di Pino Daniele, una delle poche passioni che condividevo con lui. Ci alzammo all’unisono sulle note di Putesse essere allero. “Ciao... Ma che ci fai qui? Quando sei tornata?” La accolsi con una raffica di domande che servivano, più che altro, a coprire il mio impaccio. “Peppì, ma quanto sei maleducato!” Gianni osservò compiaciuto Monica, squadrandola dalla punta dei capelli biondi fino alle dita dei piedi, curati e abbronzati, che calzavano un paio di sandali con il tacco, in vernice turchese. “Ah sì... Lei è Monica... Ti presento mio fratello, Gianni.” Lei gli restituì la stretta di mano e lo sguardo compiaciuto - ma sbagliavo o lo stava... valutando? - Gianni era un bel ragazzo: alto, bruno, con i capelli ricci tagliati corti, vestito con accuratezza quasi maniacale, anche quando era 94

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Prima Edizione: 2018 ISBN 9788899713195 © 2018 Segmenti Editore - Francavilla al Mare Psiconline® Srl - 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A

Sito web: www.segmentieditore.it e-mail: redazione@segmentieditore.it

I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi.

Finito di stampare nel mese di Marzo 2018 in Italia da Services4media srl - Bari (BA) per conto di Segmenti Editore (Marchio Editoriale di Psiconline® Srl)

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