Nell'immensa città mia, la notte

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Gabriella Stanchina

Nell’immensa città mia, la notte Romanzo

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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale. © 2019 Segmenti Editore - Francavilla al Mare Segmenti Editore © 2019 - Riproduzione vietata


Nell’immensa città mia, la notte dalla casa sonnolenta vado via, e pensa la gente: moglie, figlia, e io solo una cosa ricordo: notte. Il vento di luglio mi spazza la strada e c’è musica a una finestra – appena. Ora il vento soffierà fino all’alba attraverso le tenui pareti del cuore. C’è un pioppo nero, e a una finestra – luce, e scampanio sulla torre, e in mano un fiore, e questo passo dietro a nessuno, e questa mia ombra, ma non ci sono io. Luci della città, come fili d’oro, in bocca il sapore di una foglia notturna. Amici, liberatemi dal travaglio del giorno, non sono null’altro che un vostro sogno. Marina Cvetaeva

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I

Un tentativo di descrizione del luogo in cui siamo dovrebbe cominciare dalle colline che arginano il cielo a nord e a sud disegnando i due lati di un rettangolo che non si chiude mai, ma si prolunga all’infinito lungo dorsali curvilinee. O forse sarebbe meglio iniziare dalla strada statale che percorre il fondovalle penetrando nelle viscere dei campi quadrettati, sfondandone la geometria verso un altrove da cui non viene mai nulla. Dove gli aridi profili delle colline e la lama d’asfalto non minacciano più lo sguardo comincia un reticolato di vigneti, giardini e prati inselvatichiti che si inerpicano su pendii di terra rossa. Qua e là ci sono vecchie case coloniche con fienili e colombaie dove la sera tornano gli uccelli, e ripidi sentieri tortuosi costeggiati da muretti di pietre e calce viva. Il paesaggio si raccoglie in un rettangolo centrale, un impluvio verso cui tutto declina. Qui non c’è più smarrimento, né rigoglio disordinato, ma solo silenzio. Tutto qui dove noi siamo è progettato per la quiete. I sentieri vi si arrestano contro come fosse una parete di vetro. Dai sentieri non viene mai nessuno. Il rettangolo è diviso in due grandi campiture. La striscia verde è occupata da un Segmenti Editore © 2019 - Riproduzione vietata

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giardino con querce e pini ombrosi, quella bianca da un edificio di cinque piani, minuscole finestre a intervalli regolari sulle pareti di piastrelle candide. Altrove il verde penetra nelle case con file di gerani sui balconi, e perfino edere che si arrampicano sui muri tremando nella brezza. Qui non ci sono vasi di fiori, le pareti sono asettiche e le finestre chiuse per non fare uscire il silenzio. E dentro il silenzio ci siamo noi. I vivi e i morti si affacciano a cadenze prevedibili per parlare con noi, aprire borse, pacchi regalo, discorsi confezionati con dispacci dall’altrove. Noi camminiamo al centro dell’impluvio, né vivi né morti, percorrendo corridoi rettilinei o sostando sul bordo di letti di agghiacciante candore. Non apparteniamo più alle mani che disfano gli spaghi, agli sguardi che ci interrogano muti. Esistiamo nudamente in corpi inespressivi e vuoti, corpi già fatti luoghi che i morti attraversano sussurrando, e i vivi scavano zolla su zolla per reperire frammenti e cifre di quando eravamo umani. Ora bisognerebbe partire da qui per completare questa descrizione del mondo e tornare indietro, allargandosi a cerchi concentrici al giardino su cui già scende la sera, ai sentieri, ai vigneti color ruggine, più in là, verso il rettilineo di asfalto e l’azzurro enigmatico delle colline. Bisognerebbe, ma non è possibile perché non c’è strada che conduca fuori di noi, e quando si precipita a piombo nel cuore cavo del mondo, nel suo arido impluvio, come noi siamo precipitati, si può solo tentare la ripida parete che ci sovrasta e fatalmente scivolare indietro. E giacere nel buio, ciascuno nella posa scomposta in cui è caduto la prima volta, respirando senza rumore. Sdraiata sul letto guardo il buio che gonfia le finestre e penso con sollievo che anche questo giorno e la sua furia 8

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se ne sono andati. Ora si sente il vento, solo il vento che fruscia tra i rami in giardini remoti, oltre il bordo inarrivabile di noi. Poi cade il sonno.

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II

Cerco di svegliarmi molto presto, quando la luce ha ancora una consistenza di velluto e il comodino al mio fianco, il tavolo e la sedia di fronte a me hanno contorni indecisi. Nel torpore mi addormento e mi risveglio più volte, brandelli di sogni restano impigliati nella luce dorata. So che avrei bisogno di dormire fino a tardi e lo sforzo di tenere le palpebre aperte mi dà un sordo malessere. Ma è così bello essere vasti e silenziosi e andare alla deriva come corpi di annegati, fingere che lo stordimento sarà eterno e la lancetta continuerà a tremare, sfocata, sull’orlo del mattino. Non accade mai. Poco prima delle sette l’ingranaggio si avvia, il sonno si ritira e io resto qui, inutilmente aggrappata a lenzuola fradice di sudore. L’infermiera spalanca la porta, preme l’interruttore e una luce metallica scende dall’alto, sul carrello sferragliante una precaria architettura di confezioni di medicinali vibra e si assesta a fianco del letto. Una lista viene consultata e spuntata, e il giorno si annuncia spingendoti nel palmo della mano un obolo di pasticche, capsule e compresse. L’acqua nel bicchiere di carta è sempre tiepida e amara, le pastiglie si inchiodano in gola. Faccio un altro sforzo per deglutire e quando restituisco il bicchiere l’infermiera è soddisfatta. Dice: «Ecco, Segmenti Editore © 2019 - Riproduzione vietata

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brava», con voce strascicata, come se stesse lusingando un bambino e io accolgo con gratitudine ogni cosa, perché ogni cosa mi dispensa dal pensare. Dove dovrei esserci io, da qualche parte nello spazio buio tra la fronte e la nuca ci sono sillabe che si ripetono, Ecco, brava, sempre più rallentate e impastate e poi lo scricchiolio prolungato di un bicchiere che si accartoccia e cade con allucinata lentezza, e un rivolo d’acqua che cola dal bordo e si gonfia sul ripiano metallico. So che potrei vivere così, in apnea, lasciando che ogni cosa si dilati fino a riempire tutto lo spazio. Non è difficile, basta essere docili e lasciare che la vita viva in tua assenza. Ma poi l’infermiera intercetta il mio sguardo vuoto e mi dice: «Su adesso, si vesta», stavolta senza lusinghe, come dovesse riscuotermi da un pericolo mortale. Allora un’ansia mi prende, mi alzo di scatto e comincio a vestirmi e al contatto con la stoffa delle calze il corpo si addensa. Il corpo si ribella all’estranea ruvidezza del mondo e io comincio a esistere a fior di pelle, una pelle ora fasciata e segnata e costretta dai vestiti. Guardo il tavolo di formica verde, l’acciaio ondulato della sedia, il brillio della polvere nel raggio di luce filtrato dalle veneziane e non c’è nulla che mi appartenga. Non c’è nulla a cui io appartenga, e d’improvviso per contraccolpo mi trovo piantata in questa solitudine, mi riscuoto e mi sembra impossibile non aver avvertito subito il dolore di cui sono fatta, questa ferita che mi ha accompagnato fin dal principio, ed è allora che la lancetta scatta in avanti con uno schiocco sordo e mi rovina addosso il tempo e la condanna del respiro.

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III

«C’è una nuova amica!» annuncia l’infermiera, appoggiando una valigia di plastica grigia sul letto accanto al mio. Distolgo l’attenzione dal gocciolio monotono della flebo e guardo la ragazza che indugia nella cornice della porta. L’infermiera mi dice il suo nome ma io lo dimentico subito. Non usiamo nomi tra di noi, non abbiamo necessità di chiamarci. Lei ha i capelli biondi, tagliati corti alla nuca, con tracce di una tintura color rame, occhi spalancati che percorrono le pareti della stanza, labbra pallide, trattenute in un sorriso restio. Svuota la valigia con lentezza meticolosa, dispone tutto in file ordinate. Noto la biancheria infantile, a pizzi e piccoli fiori. Sistema il peluche di un coniglio vicino alla sveglia e alla trousse dei cosmetici che non userà mai. Aspetto che ogni cosa sia stata riposta con scrupolo. Poi parliamo. Io distesa sul letto ad attendere che il tubicino della flebo lentamente mi svuoti in vena la sua solerte consolazione, lei seduta sul copriletto azzurro cenere. Si stropiccia le mani e si accarezza in continuazione i polsi. Sta imparando a diffidare del corpo, ad accertarsi in ogni istante dei suoi confini. È il lento noviziato dello sgomento. «Ho ucciso un bambino», mi dice. Segmenti Editore © 2019 - Riproduzione vietata

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Poi abbassa gli occhi, si ritrae nell’ombra. «No, non è vero, non l’ho ucciso. Ma potrei averlo fatto.» Soppesa il silenzio, traccia cerchi minuti sul lenzuolo. La voce è limpida, monocorde, precisa. A tratti un’incrinatura appena percettibile, come una puntina che passi su un disco rigato. «Quando è successo?» chiedo. Ometto di chiedere cosa. C’è stato un solo vero evento nella nostra vita. Quello che ha posto fine a tutti gli altri eventi. Riconosco quel timbro di voce che è anche il mio, quando parla della vita di prima. C’è come una commozione, un intenerimento subitaneo, un voler farsi piccoli mentre guardiamo nevicare nella bolla di vetro del nostro giardino perduto. «Ero in vacanza nella casa di montagna dei nonni, come tutte le estati. Veramente avrei voluto cambiare, andare con le amiche sull’Adriatico, ma poi ho avuto un presentimento, tu ne hai alle volte?» «Sì», rispondo, «mi capita spesso.» «Bene, ero così indecisa, poi ho ricevuto una telefonata di mia nonna. La sua voce mi è sembrata diversa, più fragile, come se si stesse allontanando da me. Ho temuto che quella sarebbe stata l’ultima estate insieme. Pensavo alla loro morte. Invece è stata la mia.» Continua ad accarezzare con le dita i rilievi della stoffa azzurra, in tondo e in tondo. «Ho deciso che non mi sarei trattenuta più di una settimana. Del resto, già dal primo giorno ho cominciato ad annoiarmi. Mi sono ricordata che nel capanno a duecento metri da casa c’erano un bersaglio e una scatola di freccette. Sono andata a cercarli. C’era una forte afa e nel capan14

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no un odore di polvere e muffa che mozzava il respiro. Ho dovuto spostare dei vecchi tronchi, frugare tra le casse di legno. In una ho trovato una mela avvizzita, era piccola e dura come la testa di un bambino e coperta di una specie di lebbra. L’ho gettata via. Quando ho trovato il bersaglio e sono uscita per appenderlo alla parete del capanno mi sono accorta che sotto le unghie mi era rimasto del sudiciume, mi sono annusata le dita e ho sentito uno strano odore, come di qualcosa che marcisse. Sono andata alla fontana e ho lavato le mani nell’acqua gelida fino a quando sono diventate livide per il freddo. Ma la sporcizia non è andata via. Faceva sempre più caldo. Ai bordi del pascolo l’aria tremava. C’era qualcosa di strano, irreale. Ho lanciato la prima freccetta e ho mancato il bersaglio. Non ero più abituata a tirare, non ci avevo messo abbastanza forza. Mi sono allontanata, ho preso la seconda freccetta e mentre la lanciavo, una bella parabola alta, sono stata accecata da un riverbero. Ho abbassato lo sguardo. Ho scoperto di avere le braccia e la nuca incrostate di sudore freddo. Cercavo di asciugarlo, ma non veniva via. E in quel momento ho sentito l’urgenza di ritrovare la freccetta. Non era sul bersaglio. Non era caduta a terra. Mi sono inginocchiata e ho frugato inutilmente tra l’erba. Sentivo che dovevo trovarla, o qualcosa di terribile sarebbe accaduto. Sul retro del capanno passava una stradina, la usavano ogni giorno i bambini della casa sul monte per scendere alla scuola del paese. La freccetta era lì, al centro della strada, piantata nella terra. Ho pensato a ciò che sarebbe potuto accadere. Una folla di immagini mi si è schiantata nella mente. Ho sentito le grida e le risate dei bambini, ho cercato di avvertirli, ma come in un incubo io gridavo e la voce non mi usciva, e ho visto la freccetta fendere l’aria. E piantarsi nel cranio di un bambino. Ha fatto un rumore assurdo, come il Segmenti Editore © 2019 - Riproduzione vietata

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guscio di un uovo che si screpola. Non c’era sangue, ma il bambino era morto, e io l’avevo ucciso. Non so come spiegarlo, tutto accadeva e non accadeva, come in un sogno.» Fa il gesto di asciugarsi una lacrima. Ma non sta piangendo. Gli angeli non piangono. E lei per un attimo ha visto il mondo con gli occhi freddi e tristi degli angeli. Un mondo in cui tutto è compiuto e irrevocabile, una fragile sfera di buio dove candide piume scendono nel silenzio. «Ho pensato di andare a costituirmi ai carabinieri. Ma potevo denunciare un delitto che non era stato commesso? Eppure avrei voluto andare lì e gridare: Non vedete? Se una volta posso avere ucciso, potrei avere ucciso sempre. Nessuno passava sulla strada in quell’istante: è una cosa così piccola questa, una coincidenza così gratuita. Se solo questa piccolezza mi rendeva innocente, potrei avere ucciso incalcolabili volte. Sono colpevole di tutto il male compiuto, anche di quello che non conosco. Ora lo so, e dal momento che l’ho saputo mi sono chiesta come ho potuto vivere ignorandolo. C’era tanta sciocca distrazione in quella felicità che avrei meritato di morire solo per quello. E invece sono viva e non c’è nessuna giustificazione per questo.» Il suo monologo si interrompe, lo sguardo trema indeciso per un attimo tra il pianto e lo smarrimento, poi le labbra si distendono di nuovo in un sorriso di inesprimibile dolcezza. Non ha più bisogno di me, lo so, né di nessun altro interlocutore. Sorride a tutti e a nessuno. Esco spingendo il treppiedi della flebo. L’Avvocato è seduto sul corridoio. Le braccia conserte, lo sguardo che cerca un orologio invisibile, saldamente concentrato nell’attesa del suo turno che non verrà mai. «È una ragazza nuova?» chiede. 16

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«Sì. » «Che cos’ha? » «Ha ucciso un bambino», rispondo. Lui non batte ciglio, accoglie la rivelazione con indifferenza. Non è vero, naturalmente. Ma sono parole vere quelle che di solito ci scambiamo o solo cenni per segnalare la nostra precaria esistenza? Per non scivolare l’uno nell’altro, e ferirci, e farci male? La realtà è una superstizione a cui abbiamo smesso di concedere ascolto. Tutto può essere detto, con la certezza che ogni offesa, assurdità o incongruenza sarà accettata. Non resistere più, non avere una forma definita, arrenderci all’onda che ci attraversa. Essere trasparenti è la nostra strategia di riduzione del dolore. Lei ancora non lo sa, c’è ancora un’enfasi tragica in ciò di cui narra. Mentre uscivo dalla stanza mi ha afferrato il polso e guardandomi per la prima volta, guardandomi davvero, mi ha sussurrato: «Sai, quella sera ho saputo da mia nonna che la casa sul monte era disabitata da mesi. Non c’era più nessun bambino. Non avrebbe comunque potuto esserci. E questa, se ci pensi», mi ha detto mostrando i suoi denti bianchissimi e finalmente ridendo della sua calma disperazione, «questa è la cosa veramente terribile.»

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Prima Edizione: 2019 ISBN 9788899713188 © 2019 Segmenti Editore - Francavilla al Mare Psiconline® Srl - 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A

Sito web: www.segmentieditore.it e-mail: redazione@segmentieditore.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi.

Finito di stampare nel mese di febbraio 2019 in Italia da Services4media Srl - Bari (BA) per conto di Segmenti Editore (Marchio Editoriale di Psiconline® Srl)

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