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Salvatore Vallone
Io e mia madre Romanzo
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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale. © 2018 Segmenti Editore - Francavilla al Mare
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Ho onorato il Padre e la Madre e sono rimasta schiava. Ho ucciso il Padre e la Madre e sono rimasta sola. Ho riconosciuto il Padre e la Madre e sono rimasta libera.
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L’ultimo inganno e la prima verità
Il mito di Eros e Psiche rappresenta il penoso conflitto delle passioni turbolente e il drammatico destino dei desideri umani. Com’è triste l’amore! Eros, il dio dell’amore e il più bello fra gli immortali, cerca la sua parte femminile e la sua armonia in Psiche. Com’è esigente l’amore! Psiche, vergine e fanciulla, cerca la sua parte maschile e la sua armonia in Eros. Com’è povero l’amore! Ognuno cerca se stesso nell’altro e in tanto egoismo si illude di dare. Narciso, mostrando la sua tragica verità, sogghigna intriso del sangue delle sue ferite e solitario grida: “io sono l’universo.” Ognuno cerca la fine in se stesso e in tanta angoscia si illude di vivere. Thanatos, la morte, arriva sornione in compagnia delle Moire e si presenta come la più grande beffa della tua vita; Cloto svolge dal fuso lo stame, Lachesi lo misura e Atropo lo taglia. È inevitabile che, finché respiri e ti batte il cuore, la Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata
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fonte dell’energia e la casa delle pulsioni desiderano possedere anche la tua anima: il tuo Eros giace nel buio con la tua Psiche e la sensualità del corpo desidera sempre l’intensità psichica. Ansie, tumulti, estasi, delusioni, amarezze, paure, minacce, fughe e divieti: è forse questo il tortuoso sentiero dell’amore? Sì, è proprio questo il tortuoso sentiero dell’amore! La passione si imbatte, prima o poi e non a caso, nel decalogo paterno, nella seduzione materna, nella gelosia delle sorelle e nell’invidia dei fratelli. La passione incontra sulla sua strada l’ardore e il coraggio, la violenza e la remissività, il dolore e il piacere di lasciarsi ancora una volta ferire dall’acuminata freccia di un folle dio bendato. La passione produce le fantasie e i pensieri di suicidio, il desiderio di vivere e di morire. E allora? Lasciati pur ferire dalla freccia di quel dio bendato, il folle che vaga per i boschi della Tracia in cerca di un rito che soddisfi la sua sfrenata sete d’orgasmo, l’invasato che concede l’estasi soltanto ai suoi seguaci. Con Dioniso si esce dal freddo anonimato e si gode finalmente della passione di sentire e di servire solo se stessi. Ma l’emozione non basta e la ragione si ribella. L’ultimo inganno e la prima verità si consumano sotto la luce di un sole ancora una volta greco. Psiche ha in grembo Edonè, l’amore del proprio destino e il piacere di vivere, ma il crudele Thanatos continua ad abitare sotto le stelle.
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La bellezza e la morte
Avevo vissuto anni travagliati e la mia morbosa sensibilità chiedeva soltanto la medicina della bellezza, un bagno estetico in un luogo dove il sublime della fantasia umana si sposa con l’infinito della natura e la beltà si imbeve d’assurdo. Meritavo lo splendore di un maggio siracusano e un posto privilegiato sui bianchi gradoni di un teatro greco a suo tempo scavato nel calcare dagli irrequieti figli degli dei. È questo l’unico posto al mondo dov’è ancora fascinoso regredire di millenni e trovare le parole giuste per ridire secolari verità travestite da poetiche finzioni. Non è immorale pensare che gli abitanti dell’Occidente, il mitico luogo dove tramonta il sole, non sanno parlare di sé e chiedono in prestito agli antichi Greci il linguaggio giusto per ripetere l’inganno e avvertire vagamente il significato della terribile truffa. Anche la mia mente, del resto, non riesce a parlare con i quarantadue chili del mio corpo e si sente costantemente in debito nei confronti di mia madre per quelle parole che da noi due non sono state mai dette e che in compenso da noi due sono state sempre intuite. Sono seduta con un corpo che non mi appartiene, un Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata
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corpo in affitto che finora ho solo abitato, davanti a un meraviglioso tramonto che ogni giorno offre il suo spettacolo dentro un golfo naturale e fortunatamente dimenticato dagli uomini. La mirabile visione e il perfido incantesimo si possono replicare a volontà sopra qualsiasi rupe dell’acropoli, quella parte alta della città erosa dallo scirocco e dalle piogge acide. Dioniso, il buon dio della follia, è stato accoratamente invocato e si è presentato puntuale all’appuntamento, ma non da solo. Il giovane dio, intraprendente e insoddisfatto, si accompagnava a tre belle signore dai capelli corvini e rivestite di una tunica nera, donne di indefinita età e al massimo della femminilità. Mentre dolcemente mi abbandonavo ai versi di Euripide nella voce suadente di Ilaria Occhini e nel timbro maschio di Ivo Garrani, il flebile lamento di un richiamo alle radici annunciava da lontano un’identità dimenticata. Il lamento si era fatto dolore e la mia vera tragedia iniziava a consumarsi nel mese di maggio e dentro un teatro greco, un luogo bianco di calcare e abitato da millenari fantasmi.
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La fuga e la memoria
La stazione ferroviaria di Siracusa si presenta disadorna nella sua lineare struttura di cultura fascista; il termine “architettura” è sicuramente improprio. Mussolini l’aveva voluta durante gli anni ruggenti del regime come punto di arrivo e di partenza del non più fiacco e ormai nobile “metallo italiano”. E gli italiani? Gli italiani, dimentichi anche di questa offesa, avevano risposto in massa con i fatti e con una canzonetta: “Tripoli, bel suol d’amore, sarai italiana al rombo del cannone”. La lotta per la sopravvivenza e l’ignoranza costringevano i nostri nonni a partire verso la Libia e Siracusa era la testa di ponte più propizia per dissolvere i misteri dell’infelice Africa e per arricchire la miseria del regime. E fu così che per i nuovi coloni, dopo un lugubre treno, era pronta in porto una nave arrugginita. Il duce in persona era venuto con il suo indecoroso seguito di ruffiani e con le sue oscene bisacce di retorica a incitare i cafoni di ogni angolo d’Italia al grande evento della Storia; era necessario rimboccarsi le maniche della camicia nera e traghettare senza rimpianti nell’altra sponda del Mediterraneo. Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata
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Il Fato, ancora una volta il Fato, voleva questo sacrificio per la nazione italiana ed era necessario dar lustro alla patria. Non era possibile tirarsi indietro perché la fame era tanta e il desiderio di ingiustizia non era da meno. La perversa etica del fascismo insegnava a dimenticare in primo luogo se stessi. “Che tempi e che uomini!” Sentenziava in questo modo un vecchio ancora indeciso tra il parkinson e l’alzheimer, un uomo fottuto da una maligna nostalgia e desideroso di sbrodolare dalla bocca la solita arringa in difesa del passato. Ma i turisti erano distratti e attendevano soltanto un treno per scappare in qualche fresco anfratto della penisola e per sottrarsi alla malefica calura di una Sicilia da tempo immemorabile in preda a un indefinito oblio. La stazione ferroviaria e il porto naturale di Siracusa erano stati negli anni trenta i logori grimaldelli per scassinare la povera Libia. Era così iniziata la pacifica occupazione di Tripoli e di Bengasi da parte dei barbari di turno, i sicuri miserabili di ieri e i presunti signori di domani. Colonizzare equivaleva nel gergo fascista a civilizzare e gli italiani avevano storicamente le carte in regola per adempiere l’opera, dal momento che potevano rivendicare radici culturali greche e romane, mentre gli arabi erano rimasti nell’immaginario collettivo semplici beduini del deserto, fanatici frequentatori di moschee e di bordelli, incalliti fumatori di hascish e di safir, indolenti spettatori di tempeste di sabbia e di danze del ventre. Questa povera stazione aveva visto a suo tempo arrivare dalla sponda sinistra del Piave anche i miei nonni e il porto li aveva accolti con i meravigliosi colori di un 12
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Io e mia madre
tramonto sul golfo, uno spettacolo della natura degno dei versi di Teocrito e capace di convincere i più renitenti ad attraversare il mare in cerca di gloria per la patria e di un tozzo di pane per i figli. Dal Veneto i miei vecchi approdarono a Bengasi con tanto appetito e con il desiderio di tanta fortuna. Distrattamente dimenticarono anche le poesie in onore del sole cadente sul golfo di Siracusa, rimasto, suo bengrado o suo malgrado, ancora oggi naturale in onore alla sacra indolenza degli indigeni. La bonaria ingenuità del popolo non riusciva a concepire la guerra come lo strumento inossidabile di uno Spirito assoluto o come la sola igiene del mondo. La bonaria ingenuità del popolo era convinta nei cromosomi che la guerra non aveva mai messo a posto un bel niente e che, al contrario, aveva sempre mandato in rovina gli ambiziosi progetti e le ignobili miserie di tutti quelli che a lei si erano stupidamente affidati nella speranza di sopravvivere con il sostegno di una bieca onnipotenza. E fu così che i miei nonni ritornarono nel Veneto con la pelle abbronzata e incrostata di sabbia, ma ancora in tempo per insegnare ai loro figli a emigrare in Svizzera o in Belgio, nei freddi cantieri della cassaforte del mondo o nelle buie miniere sotto il livello del mare e sempre in terra straniera. È vero che la patria diventa per necessità e per virtù il luogo dove si vive, ma l’ultimo desiderio di ogni esule è quello di morire nel proprio paese. Il solito vecchietto siracusano, ancora indeciso tra il parkinson e l’alzheimer e calato in un logoro completo color cenere, continuava l’elogio di Benito Mussolini e le sue accorate parole disegnavano l’ambiguo profilo di un uomo di mafia e di un buon padre di famiglia. Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata
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Quant’è forte il bisogno del capo! Com’è naturale il bisogno di radici! Nell’aria mezza calda e mezza umida un grido si muove disperato: “hanno ucciso il capo, hanno ucciso il capo, hanno ucciso il capo!” A Giulino di Mezzegra tra i verdi colli comaschi lo hanno ammazzato e in piazzale Loreto tra le grigie strade di Milano hanno esposto il suo corpo al pubblico ludibrio appendendolo per i piedi al tetto di un distributore di benzina come un maiale appena sgozzato. Il capo non era solo, il capo non era stato abbandonato; il corpo nudo di Claretta era al suo fianco. Il falso pudore di un prete partigiano aveva ricoperto con un drappo il pube ricco di peli e privo di vita della giovane donna. La vendetta e l’amore si sposano sempre con la morte e la trasgressione: tutti i figli pagheranno, prima o poi, le colpe dei padri. È questa un’eterna verità o una riciclata menzogna? Ognuno ha diritto alla sua risposta. L’elogio del tempo antico, sempre fascista naturalmente, continuava a uscire con perfetti automatismi dalla scarna bocca del vecchio con tutto il presagio funesto che accompagna simili rievocazioni: “si dormiva con le porte aperte”, “non c’era disoccupazione”, “i treni arrivavano in perfetto orario e qualche volta anche in anticipo”. Quest’ultimo ricordo risuonava come un’autentica beffa per i viaggiatori sudati e distesi sugli sporchi divani della sala d’aspetto in attesa di un treno per sottrarsi ai micidiali raggi di un sole in calore. Imperterrito l’omino mostrava i pochi denti ingialliti e cariati dal fumo di mille “alfa” e nella sua appassionata mistura di dialetto e lingua nazionale lasciava partire bran14
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delli di saliva addensata dall’affanno di esser convincente. Sopra la sua testa campeggiava il solito manifesto “vieni in Tunisia”, lo stesso che a suo tempo Claudio Baglioni aveva rievocato in una bella canzone di amore infelice e di esistenza tormentata insieme a un bambino che affondava il viso dentro un bignè; del ragazzino e della sua leccornia neppure l’ombra appariva nel manifesto a dispetto della gustosa pasticceria siciliana. Un treno che non arriva e che deve ripartire è un paradosso o un mistero. La Sicilia è ricca di questi enigmi, ma è sconcertante come riesce a sublimarli in commedia o in dramma e sempre in ossequio alla labilità delle umane cose e della necessaria tensione verso il cielo, tutte convinzioni che ogni uomo d’onore deve sentire in questo stupido mondo prima della dipartita verso le stelle o verso il nulla. Nell’afa pomeridiana, quando l’aria si ferma e accarezza soltanto la superficie del mare senza agitarla, un altro manifesto sopra la testa del solito infame vecchietto, che ormai vomitava in perfetta solitudine, illustrava nella greca terra del mito e nella patria del sofista Gorgia un vago convegno di “Psicoanalisi e dintorni” da tenere nel mese di settembre nella cittadina lombarda di Gorgonzola, un consesso aperto a superbi operatori della psiche sull’ambiguo tema “Eros e Psiche: anoressia mentale e libido”. “Lupus in fabula”; un ineffabile destino e un indegno struggimento dominavano ormai il mio corpo insensibile e inconsistente. Magia, astrologia e alchimia occupavano la mia mente, una mente sbandata tra scienza e prodigio al pensiero che la “mitica” Gorgonzola si faceva presente nella “laboriosa” Siracusa per lo studio della relazione tra la fame impedita e la vita sessuale. Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata
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Avvertivo chiaramente che qualcosa non era finito nel posto giusto tra Gorgonzola e Siracusa, tra la magrezza acquisita e la libido congenita. Eppure il mio corpo è stato tanto ricercato dalla fame sessuale dei miei occasionali amanti e l’ultimo amico ha continuato senza vergogna a palpare il mio scheletro, mentre io da tempo non sentivo lo stesso appetito in casa mia. Sarà poi vera questa sacrilega contaminazione tra un tramezzino non riconosciuto dal cervello e la lubrificazione della vagina? Almeno il dubbio è opportuno. Ho conosciuto tanti professionisti della psiche di scuole diverse e di molte risorse, ma tutti scandalosamente convinti delle loro verità più o meno astruse. Quanti cuculi appollaiati sul nido di altri poveri uccelli! La greca Psiche era una creatura semplice e a occhi chiusi andava ogni notte in ghingheri sotto i divini colpi di Eros. Guai ad aprire gli occhi, perché poteva morire fulminata dalla luce del suo stesso piacere. Com’è assurdo l’amore tra un dio e una fanciulla ricca di carne e povera di sacro! Siracusa mi aveva ben accolto con la sua originale saggezza scritta sui muri: “Sirakaos” dal chiaro sapore politico, “tutti vogliono essere padroni e nessuno è padrone di se stesso” dal chiaro sapore etico, “Dio esiste” dal chiaro sapore metafisico. È decoroso tralasciare i messaggi strettamente personali o riservati alle malefatte degli iniqui potenti del luogo. Assistere alla sacra rappresentazione di una tragedia di Eschilo, di Sofocle o di Euripide era un desiderio del tempo in cui frequentavo il liceo classico facendo quotidianamente in corriera la spola tra Ponte di Piave e Treviso in 16
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compagnia del gelo o dell’infida nebbia. Il mio desiderio era stato appagato quando i diritti del corpo erano entrati in conflitto con le imposizioni della mente: il mio “Eros” era irrimediabilmente in guerra con la mia “Psiche”. Mi ridestò da questi tristi pensieri il solito vecchio e fortunatamente con nuovi argomenti. “Noi siciliani ci siamo rimasti veramente male per il fatto della Lega. Robe del tempo dei paladini di Francia. E allora, cara la mia signorina, noi siciliani per vendetta non compriamo più i prodotti del continente, ma solo quelli della nostra terra, che sono anche più buoni, come l’acqua di “Cavagrande” o le mozzarelle del signor “Zappalà”. “Ha capito?” Assolti gli errori storici e benedetta la congruenza dello spirito nazionale, mi è venuta in mente l’autarchia di Mussolini e ho dedotto che nel mio scarno giudizio quel pover’uomo si imbatteva a ogni piè sospinto nella taccia di “fascista”. In quella sala d’aspetto si attendeva ancora un treno che non si poteva comporre per poi ripartire e soltanto perché non era mai arrivato. Poco prima l’impiegato della biglietteria, fiero della sua flemma e fresco del suo ventilatore, mi aveva gentilmente suggerito di attendere con calma e di non preoccuparmi per il fatto che non poteva rilasciarmi il biglietto. “Signorina, abbia pazienza, si è rotta la macchinetta. Adesso bisogna aspettare che si rimetta a posto da sola e non serve chiamare il tecnico perché la sfascerebbe del tutto e per sempre. È una macchinetta capricciosa come le belle donne. Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata
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Lei, signorina, la può e la deve capire.” Tra galanteria e derisione il mio corpo si ribellava in ogni modo e sceglieva l’apatia come soluzione di fuga e con il favore del clima. Il treno aveva un ritardo di dodici ore a causa del solito deragliamento avvenuto nel continente, là dove esiste da sempre il doppio binario con la funzione di distrarre i pigri macchinisti delle Ferrovie dello Stato. Ogni male non viene per nuocere. Il binario unico, di cui da sempre la Sicilia è dotata, è il toccasana per evitare gli incidenti ferroviari. Questa sapida e colorata sequela di scemenze, il dolore per il fatto che Eros e Psiche erano finiti dalla mitica Grecia nell’uggiosa periferia milanese di una Gorgonzola sicura patria di formaggi più che di eroine dalla coscienza ardita, il crescere implacabile della calura, i rumori di ferraglia lungo i binari della stazione in attesa di un treno che non arrivava, una città disordinata e accecata da una gialla luce, un isolotto che conteneva sotto forma di fonte il letto nuziale della ninfa Aretusa ostinatamente innamorata del fiume Alfeo, palazzi bruttissimi di freddo cemento mischiati a preziose rovine greche e scandalosamente dilatati su colline biancastre di calcare, un’atmosfera ibrida e resa ancora più surreale dai raggi del sole al punto di acquistare i connotati di un losco purgatorio, il tutto mi convinse di aver trovato il tempo opportuno e lo spazio giusto per l’ultima trasfigurazione del mio corpo. Adesso volevo e potevo finalmente morire. Ma il cielo ha remato ancora una volta contro il mio desiderio e il tanto odiato vecchietto con una semplice telefonata mi ha restituito alla vita. Si chiamava Salvatore e lo è stato di nome e di fatto. Con il pudore dell’ingratitudine non ho mai sentito il 18
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bisogno di cercarlo e di ringraziarlo. A dispetto del treno una linda ambulanza si è annunciata a sirena spiegata, in pompa magna e appena in tempo per ridare la forza di respirare a una povera anoressica arrivata veramente all’ultima stazione. Adesso avvertivo un vago bisogno di ricostruirmi e di comporre le mie quattro ossa non piÚ in una bara, ma in una cornice psicologica degna della vita.
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Indice
L’ultimo inganno e la prima verità La bellezza e la morte La fuga e la memoria I conflitti e le sconfitte Il tempo giusto e le nuove verità Io sono il mio corpo Io non sono il mio cibo Io sono un’incapace Uccidi la madre I am my body? I am my mind? Il corpo birichino I drammi e le tragedie La tragedia dell’infanzia Il dramma dell’adolescenza I am my mind Il timore di tutto La scena primaria L’angoscia di vivere e l’angoscia di morire La morte in vita Io sono il mio simbolo Il dolore del ritorno al passato e la gioia del ritorno alla vita Segmenti Editore © 2018 - Riproduzione vietata
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