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Il Fenicottero Rosa Gourmet di Faenza
Parola chiave: coinvolgere
Vi capita di chiedervi cosa celi il nome di un ristorante, vale a dire di indagare sul perché si chiami così?
Se spesso la risposta è immediata, a volte invece non lo è ma vale la pena di essere sondata. Scoprire ad esempio che in quel di Faenza è sorto da poco Il Fenicottero Rosa Gourmet, che vuole omaggiare una colonia di 35 fenicotteri rosa - presenze improbabili in Romagna - che popola il laghetto di un parco secolare su cui lo stesso ristorante si affaccia, è solo un primo indizio che a uno spirito curioso innesca altre domande. Perché quei fenicotteri rosa, uccelli esotici, sono lì? Chi li ha voluti e con quale intento? Così facendo si arriva dritti a un’illuminata e generosa famiglia di imprenditori faentini, la famiglia Bucci, che da generazioni qui ci abita e ha fatto dell’apertura della propria casa agli altri, cioè il condividere la bellezza di cui ha amato circondarsi, la propria cifra stilistica.
Quando la location è una storica villa pulsante di vita
Nei pressi del parco sorge Villa Abbondanzi, oggi sede del Fenicottero Rosa Gourmet nonché di cinque splendide suite, che non è altro che il nucleo da cui - a partire dagli anni ’50 - ha preso il via un grande dise- gno: “Il mio nonno paterno, Roberto - racconta Martina Bucci che oggi è direttrice di Villa Abbondanzi Resort - alla morte di suo padre ha scelto fortemente la villa, trasformandola in residenza e ridisegnando personalmente la scenografia naturale del complesso. Lui, con la sua grande passione per i viaggi, la natura, gli animali esotici che, nel possibile, portava a casa ricreandone l’habitat, gli ambienti. Paesaggi diversi: dalla folta vegetazione - quasi selvaggia - che circonda il laghetto all’ampio respiro del giardino fino all’imponenza di alberi autoctoni ma anche di esclusiva rarità, che amava popolare di specie animali.
Per un periodo ha tenuto gli struzzi poi sono arrivati i fenicotteri rosa, che ancora abbiamo cura di conservare, come una sua eredità, ma anche cicogne - che nidificano indisturbate su alti pali - aironi, anatre...
Un senso di ospitalità grandissimo spingeva nonno Roberto, con la complicità di nonna Armida, donna brillante, ad invitare spessissimo amici a casa, un luogo vivo, pieno di libri, di ricordi dei suoi viaggi e di arte”. Oggi Villa Abbondanzi e il suo parco per volere di Massimo, padre di Martina e figlio di Roberto - che ha tanto dello spirito del padre - sono inglobati all’interno di un resort con un’offerta di servizi talmente ricca da giustificare una permanenza di più giorni, certi di poter vivere esperienze sempre diverse, tutte rigeneranti.
Un progetto condiviso
Il Fenicottero Rosa Gourmet ha fatto capolino nel panorama ristorativo giusto tra un lockdown e l’altro, approfittando però di quel periodo lavorativo discontinuo per alzare il livello della propria offerta con interventi significativi, a partire dal restauro del piano terra della villa che avrebbe ospitato il ristorante (precedentemente sito in una location limitrofa) ma anche per ridefinire la composizione di quella brigata, come lo chef Alessandro Giraldi - che con Massimo Bucci ha condiviso il progetto dal suo nascere - aveva bene in mente. Si è dovuti arrivare a marzo 2022 per poter a tutti gli effetti ripartire. Semmai gli accadimenti possano risultare essi stessi segnali di buon auspicio, a settembre 2022 nella colonia di fenicotteri, non così avvezza alle riproduzioni, è nato un piccolo fenicotterino, un simpatico piumoso di indefinito colore grigio chiaro, che oggi zampetta insieme a tutti gli altri compagni, sotto lo sguardo intenerito degli ospiti che non mancano di passare di lì.
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La bellezza di certe esperienze non programmate
La vita insegna, a volte mai abbastanza, che le esperienze non programmate e per le quali non nutri aspettative, semplicemente perché capitano improvvise senza lasciarti il tempo di prepararti, possono avere il potere più che di lasciare il segno di spiazzarti letteralmente.
La serata al Fenicottero Rosa Gourmet è andata proprio così, con un menù degustazione che pietanza dopo pietanza, dalle entrèes alla piccola pasticceria, ha saputo mantenere lo stesso linguaggio e lo stesso livello qualitativo, senza dissonanza alcuna.
Riuscire in questo, ci siamo detti, presuppone che la brigata si parli, comunichi, condivida, ergo chi ne è alla guida abbia una certa mentalità. Ne abbiamo quindi voluto parlare con lo chef Alessandro Giraldi, classe ‘88, che fa questo mestiere perché lo ha scelto, perché i genitori hanno ascoltato la sua volontà e non il tentativo di depi- staggio degli allora professori delle medie, che consigliavano altri studi. Diversamente oggi sarebbe altrove e non conterebbe certamente esperienze come quella al Noma.
Coinvolgere la brigata nella pianificazione del menù
“Ho sempre pensato - ci confida lo chef - che per fare un bel progetto qualsiasi persona che vi prenda parte debba sentirsi molto coinvolta perché questo mestiere richiede tanto a livello personale, familiare, per cui quello che torna indietro dev’essere una soddisfazione personale importante. In più di un’esperienza che ho fatto c’era solo una voce unica e i successi che arrivavano non li sentivi anche un po’ tuoi Ecco, mi sono detto che volevo lasciare spazio di espressione, coinvolgere, tutti. Ho cominciato a leggere un sacco di libri sulle dinamiche a spirale, la programmazione neurolinguistica...per capire come potevo interagire con la squadra. Nel mettere a punto un nuovo menù, operazione che ci impegna per almeno 40 giorni, non decido io solo ma chiamo a raccolta la brigata di cucina e invito ciascuno a portare le proprie idee, dalle entrèes alla piccola pasticceria. Ho quaderni su quaderni dove annoto tutto, l’abilità dev’essere poi il canalizzare e lo sfruttare il più possibile quanto raccolto. Ovviamente rimangono anche spunti che non vengono lavorati e su questo ci attrezzeremo ulteriormente. A questa fase di pianificazione sulla carta segue quella delle prove (non più di un piatto al giorno). Di fatto ci concentriamo su un ingrediente, sulla sua comfort-zone e poi ci allontaniamo il più possibile in termini di acido, cechiamo di inserire l’amaro, la masticazione, la croccantezza, la fluidità... dipende dall’ingrediente da cui partiamo. Poi dobbiamo stare attenti a non oltrepassare il limite oltre il quale la gente non ci seguirebbe più. Molti si fermano all’aspetto piacione, noi cerchiamo di alternare prodotti di nicchia a prodotti poveri combinati in maniera tale che risultino inaspettati come sapore. Dal nocciolo della susina, ad esempio, abbiamo ricavato una maionese poi abbinata alla mazzancolla. Una volta standardizzati i piatti in cu- cina si procede con l’assaggio per la sala, avendo sempre cura di tenere un margine di qualche giorno per aggiustamenti, anche in funzione dell’abbinamento con i vini”.
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La pasticceria, cartina di tornasole di un modus operandi
Una nota di merito va alla pasticceria, che troppo spesso si avverte come un altro mondo, non così bene allineato al resto. Chiediamo se c’è un pastry chef o comunque qualche figura dedicata.
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“Devo dire che sulla pasticceria siamo partiti un po’ più deboli, avevamo una pastry chef, bravissima ma forse non ancora pronta per il fine dining, diciamo con meno slancio sperimentale della cucina. Quando se ne è andata abbiamo deciso, senza voler penalizzare troppo la parte salata, di focalizzarci noi sulla pasticceria. La sfida è stata raccolta da Andrea Serafini a, che è sempre stato nelle partite classiche, probabilmente come stimolo per tener viva la fiamma della passione”.
Riccardo Stratella , che con lo chef ha condiviso l’impegno fin dall’inizio e, a oggi, è l’head chef, conferma la linea: “ È importantissimo – dice – che ciascuno di noi non si focalizzi su una sola partita ma prenda confidenza con tutte, per non diventare statico, fossilizzarsi in un unico ruolo. Il vantaggio di essere giovani, siamo tutti under 30, ci restituisce la voglia di sperimentare cose nuove e di metterci in discussione fra noi”. Ecco spiegato perché Andrea, seppur confortato da esperienze che nel tempo gli hanno fatto apprezzare la pasticceria ha deciso, come mai era accaduto fino ad ora, di mettersi alla prova. “Devo dire che all’inizio ho avuto un po’ di paura: tra il dire e il mettere in pratica possono passarci in mezzo tanti errori che a questo livello costano cari. Tuttavia il ragionare tutti insieme sui piatti cioè il fatto, ad esempio, che io proponga un dessert su cui altri portano il loro contributo di idee, certamente aiuta tanto. Ed è probabilmente anche il motivo per cui si avverte di trovare un filo logico nell’intero menù, dolce compreso”. Ma prima di tutto questo, come ci racconta Marco Fari- na, maître di sala, c’è un appuntamento settimanale, al giovedì, che suona come un impegno a voler fare gruppo, smussare gli angoli che connotano ciascun carattere ma soprattutto stemperare quel non detto che si può accumulare durante il servizio: “Per questo - racconta il maître - ho fortemente voluto un momento di incontro fra sala e cucina in cui guardarci in faccia, chiarire qualche eventuale malinteso, cercare di conoscerci un pochino di più e imparare a stare fra noi, in una parola: crescere, per alimentare quel collante fra sala e cucina che poi al tavolo si percepisce. Poi è chiaro che noi di sala dobbiamo essere aperti a qualsiasi imprevisto e capaci di modellarci rispetto alle esigenze di chi abbiamo di fronte”.
Storia, bellezza, natura stanno tenendo a battesimo un ristorante che da solo vale il viaggio e che non tarderà, ne siamo certi, a imporsi nel panorama della ristorazione per la freschezza delle sue idee e il raffinato piacere che sa regalare al palato.