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Il confronto Gabriele Bianchi
Tra i primi cinque giovani leader del futuro secondo la classifica ideata da Forbes
28 anni, diploma all’Istituto Alberghiero di Rosignano Solvay (LI), vincitore di Emergente Sala 2019, l’evento creato da Luigi Cremona e Lorenza Vitali, e da quel momento un pensiero fisso: fare del servizio di sala un mestiere importante agli occhi del mondo. Ci sta riuscendo e lo racconta in questa intervista come se fosse un romanzo ottocentesco dove il riscatto è al centro della trama.
Partiamo dagli inizi, Gabriele: perché la scelta di iscriverti a una scuola alberghiera e quali strade hai percorso da allora?
“La mia carriera è ancora tutta da definire dal momento che ho solo 28 anni ma di strada ne ho già percorsa un bel po’, se così possiamo dire. Papà e mamma avevano un bagno sul mare dove, fin da piccolo, a me piaceva servire il caffè agli ospiti. Ci guadagnavo, come mance, i soldini per i gettoni del go-kart. Una piccola fortuna economica per un bambino, oltre al fatto che mi piaceva molto vedere le persone felici quando portavo loro le bevande. Forse è nato tutto in quei momenti, la vita in un posto turistico, le persone gioiose, la possibilità di un futuro unita alla scarsa voglia di passare molto tempo in una scuola: tutto questo insieme di cose mi ha portato a iscrivermi all’istituto alberghiero. Poi la fortuna, perché senza di questa la vita prende le strade più diverse: in terza sostituisco un mio compagno ad un concorso nazionale che prevedeva, come vincita, un tirocinio di due anni all’Enoteca Pinchiorri a Firenze. E vinsi. Non finirò mai di ringraziare i professori del mio istituto, avevano la capacità di trasferire, pur in un programma didattico vecchio e superato che non erano loro a decidere bensì l’istituzione, un elemento intangibile ma fondamentale: la passione. Io non ho mai pensato, grazie a loro, di fare altro che non fosse la sala”.
A quell’età all’Enoteca Pinchiorri è stato davvero un incredibile colpo di fortuna. Cosa hai ricavato da quell’esperienza? Così giovane ti ha consentito di capire dove eri collocato? In uno dei ristoranti più famosi nel mondo?
“L’ho imparato stando lì. Avere come maestro Giorgio Pinchiorri significa scoprire che, in una sala di un ristorante, ci passa un mondo intero e tu sei, anche se per le poche ore in cui si svolge il rito, uno dei conduttori del viaggio. Da lui ho avuto un grande insegnamento: la conoscenza di me stesso, di cosa potevo fare per le persone che avevano scelto quel viaggio. Per trasmettere emozione al commensale dovevo prima di tutto capire se ero in grado di farlo con sincerità e, per questo, mi diceva sempre Giorgio, “devi conoscerti, devi trasformare i tuoi piccoli difetti in capolavori. La tecnica va bene, ci mancherebbe, ma è la parte umanistica che devi far emergere”. E così ho fatto, giorno dopo giorno; la livornesità mi ha aiutato, non lo nego”.
Poi sei ritornato a scuola; cosa hai ricevuto dalla scuola alberghiera? Cosa, invece, preferisci dimenticare, se c’è, e cosa manca nella didattica?
“Ho già spiegato come i miei professori sopperissero alle mancanze di una didattica troppo vecchia, grazie alla passione che sapevano infondermi. Loro mi hanno rivelato i pro e i contro di questa professione già in fase di formazione ed è lì che ho imparato ad amare questo mestiere. Cosa manca? Una proposta ministeriale che è quasi totalmente da cambiare; penso, ad esempio, ai food paring alternativi: io ho introdotto, nei miei servizi attuali tè, tisane e kombucha abbinati a piatti sacri della cucina italiana e ne ho ricavato il mio primo libro - Cacio pepe e kombucha – ma anche temi come la divisa vanno affrontati con la leggerezza e il gusto del terzo millennio. Basta con il cravattino nero, la camicia bianca, il tovagliolo sul braccio. Non corrispondono più a come deve presentarsi un giovane, in ogni momento della sua vita. Nonostante ciò voglio dire una cosa importante: la scuola alberghiera non ha niente da invidiare a un liceo se pensiamo però che dietro al cibo ci sono persone, se diamo al cibo il giusto valore, economico e sociale, se ricordiamo che la ristorazione e il turismo rappresentano quasi il 15% del PIL nazionale”.
Barba e capelli tagliati, divisa si e divisa no, formalità o informalità nel servizio. Sono questi gli argomenti di un dibattito che non coglie l’obiettivo finale: come e cosa deve essere oggi un bravo cameriere?
“Hai perfettamente ragione, questi sono argomenti fuorvianti molte volte. Vedi, ti racconto la mia seconda importante esperienza; l’ho fatta in un ristorante della costa livornese, La Pineta del compianto Luciano Zazzeri. Ero molto timido a quel tempo e Giovanni e Roberto Vanni, rispettivamente maître e sommelier, mi prendevano sempre in giro. Erano due fratelli gemelli e si scambiavano il papillon per farmi impazzire nel riconoscerli, e un giorno risposi davanti ai clienti. Da quel momento ho eliminato la timidezza e tirato fuori la mia personalità. È questo che voglio dire: esiste la personalità, non la barba o i capelli da tagliare, e tramite la personalità anche una barba curata non è più un problema. Con la personalità scegli la divisa che può essere anche un semplice jeans con un grembiule davanti, ma che abbia identità. Tra le cose che ho già fatto, in questi pochi anni, c’è stata la prima sfilata della mia collezione di abiti professionali pensati per il servizio di sala, a Taste lo scorso anno. In sala ciò che davvero conta è l’empatia, e soprattutto la capacità di indirizzare l’ospite, consigliarlo per il meglio in base alla sua serata, all’umore, alla compagnia con cui si trova in quell’occasione. Dimentichiamo troppo spesso il ruolo fondamentale di chi sta in sala: quello di incrementare, con la propria esperienza, il fatturato del ristorante. Come deve essere oggi un bravo cameriere? Deve avere sorriso, empatia, curiosità, amore per la materia, voglia di assaggiare, voglia di studiare i gusti e i bisogni delle persone”.
Andiamo avanti con le tue esperienze dove, mi par di capire, hai fatto tesoro di ogni singola prova?
“Esatto! La terza è stata con i fratelli Cerea, a St. Moritz e a Brusaporto. Da loro ho acquisito la consapevolezza di quanto sia importante il servizio italiano di sala. Perché italiano? Per la maggior apertura al dialogo, meno impostato rispetto a quello francese. Con i Cerea si è creato un rapporto di amicizia che perdura. Poi è stata la volta di Emergente Sala. Quando ho vinto, nel 2019, ho capito che dovevo fare qualcosa di più per dare valore a questo settore della ristorazione, dovevo dare la giusta importanza a quel Premio inaspettato, al lavoro che persone come Luigi Cremona e tu, con questa rivista che mette Sala come prima parola, state portando avanti da anni. Da lì è cominciato il percorso che oggi mi consente di essere il miglior cameriere d’Italia e uno dei cinque giovani leader del futuro secondo la rivista internazionale Forbes. Tutto è però accaduto mentre la pandemia cambiava il mondo. Che fare? Usare gli unici strumenti possibili in quel momento: quelli mediatici. Ho aperto un canale Instagram che oggi ha circa 22.000 follower, sono andato in televisione a diversi programmi – Detto Fatto, Domenica In, La vita in diretta – diventando uno dei primi a parlare di sala in tv. E lì ho scoperto che le cose che dicevo, il linguaggio un po’ irriverente, da buon toscano quale sono, piacevano. Da quella prima esperienza in pieno lockdown è nata la Bianchi Hospitality Management, una società di consulenza che oggi conta 25 strutture a cui offro consulenza e recruiting, con 3.500 profili professionali custoditi nella nostra banca dati”.
Qui sorge spontanea la domanda: come risolvere la crisi di personale che investe il mondo della ristorazione?
“Innanzitutto occorre eliminare un sentimento divisivo che ha connotato la ristorazione per un lunghissimo periodo: l’invidia. È necessario che il settore si unisca, parli una sola lingua, faccia squadra. Solo in questo modo otterrà l’attenzione che merita. Poi è necessario che una professione come la sala diventi attraente per chi decide di perseguirla. Gli chef lo hanno fatto e i risultati si vedono. Tra le cose che devo fare c’è in essere un programma televisivo sulla sala e qualcosa smuoverà. E poi è necessario smetterla di farci autogol da soli, smettere gli atteggiamenti dittatoriali che ancora governano i ristoranti. Un lavapiatti e un comis devono avere il valore che meritano. Anche nei colloqui per assumere si deve dare importanza al lato umano delle persone. È necessaria la trasparenza, dire a un cameriere che quel tavolo ha speso di più grazie alla sua bravura, eliminare il muro che ancora, purtroppo, esiste tra sala e cucina, pagare il giusto alle persone. Soprattutto chiedere scusa alle migliaia di giovani che hanno approcciato a questo mestiere e sono stati trattati come pezze da piedi.
Molto chiaro e tu hai dato vita a un progetto, tra i tanti che passano per la tua testa, che hai definito Rivoluzione Sala. Me ne parli?
“Nel famoso 2019 di Emergente Sala il pensiero che mi perseguitava era uno: far capire che può essere figo lavorare nella sala di un ristorante. Da quel momento ho cominciato a contattare le scuole alberghiere per capire se accettavano alcuni miei interventi. Oggi sono le scuole che mi chiamano, ho un calendario fittissimo di incontri, sono ormai centinaia le scuole dove vado a raccontare, con un linguaggio nuovo, la bellezza e la straordinaria varietà che questo mestiere offre. A volte la scuola ha solo bisogno di una mia testimonianza, altre volte partecipo alla definizione del programma didattico, altre ancora sono semplici colloqui con il personale docente ma sempre, sempre, i ragazzi e le ragazze mi chiamano dopo per mantenere un contatto aperto”.
Parlando di scuola cosa pensi dell’alta formazione, con corsi che costano come veri e propri master, dai 10.000 euro in sù?
“La risposta è: perché devo pagare 20.000 euro per andare a fare il cameriere, mestiere pur sempre artigianale? Mestiere dove ciò che conta oggi sono gli extra per come si sta evolvendo, e in alcuni casi involvendo la ristorazione? Io vengo da una famiglia che non si poteva permettere questo. E io non potevo permettermi il prestito d’onore per una scuola di alta formazione che ci avrei impiegato i primi tre anni di lavoro a restituire. Meglio, molto meglio, avere mille euro per andare a cena in tre ristoranti stellati e vedere come si muovono in sala. Può apparire banale come risposta ma non lo è. Esistono le scuole alberghiere, esistono degli istituti professionali parificati, e so che voi ne parlate più di qualsiasi altra rivista, dove si insegna benissimo questa professione a costo zero. Io aprirò, a Milano, una mia scuola dove si farà integrazione di ciò che si è già imparato all’alberghiero, ma non avrà mai quei prezzi di adesione. La formazione e l’istruzione devono essere libere!”
L’ultima domanda Gabriele: oggi sei anche general manager di un hotel cinque stelle lusso a Martina Franca (TA): come ci sei arrivato e cosa offre quella città?
“Ci sono arrivato per amore: la mia fidanzata ha il padre che gestisce questo hotel – San Martino è il nome – e questo è il motivo principale. Poi però, in questo ruolo, sto imparando a governare i miei istinti, a ragionare su cosa è davvero necessario per far andare avanti la struttura che mi è stata affidata. La Val d’Itria è bellissima e ancora poco conosciuta ma offre davvero tanto: le persone, la cultura e la storia qui hanno grande valore e l’ospitalità che intendo mettere in pratica dovrà tenere in massima considerazione questi valori”.