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Giulia Camillini

Racconto storie intorno a una tavola

È vero! Ci sono luoghi dell’anima, non è un semplice modo di dire. Per noi uno di questi luoghi è a Cortina d’Ampezzo. Detta così sembra banale, la perla delle Dolomiti un luogo dell’anima? Con un turismo così elitario, ma anche un po’ straccione come sono i parvenu della politica e della finanza che lo frequentano? Cortina in questo caso è solo il territorio amministrativo che ospita il nostro luogo dell’anima, perché quello che descriveremo tra poco si trova nei pressi di un bosco, ad Alverà, vicinissimo a Cortina d’Ampezzo, con una malga poco distante, una strada leggermente impervia per arrivarci quando nevica, una sala calda e accogliente dalle grandi finestre che si affacciano sul silenzio, una montagna di burro che crea dipendenza servita come inizio di un pranzo o una cena che saranno indimenticabili nella memoria di ciascuno: questo luogo del’anima si chiama San Brite ed è il ristorante, o meglio, il progetto di Riccardo Gasparri e di Ludovica Rubbini, sua moglie.

In ladino San non sta per santo bensì per sano, brite invece significa una malga adibita alla vendita di latte fresco. Messi insieme i due termini, oggi, stanno a indicare un ristorante straordinario per il pensiero che ci sta dietro e per le persone che qui lavorano. Ragazze e ragazzi giovani che condividono pienamente l’idea di Riccardo e Ludovica: “Mio padre mi ha insegnato che il lavoro è sacrificio, e che senza sacrificio non esisterebbe la gratificazione, è per questo che nella mia cucina cerco di valorizzare il lavoro della mia famiglia e con essa di celebrare la mia terra. Ecco il segreto, la tradizione di un latte munto la mattina, il sapore di un pino, l’odore di una capra. Il segreto dei miei piatti è che nascono prima gli ingredienti e poi il piatto stesso. Questo legame tiene unite le mie vite e lascia che io possa tramandare ancora e ancora questa storia. Cucinare significa trasformare il profumo dei boschi in un’esperienza di palato e anima” racconta Riccardo.

Chi è Giulia Camillini

È proprio tra i ragazzi che qui lavorano che abbiamo scelto la voce narrante. Per spiegare come e perché ha scelto di venire qui e di fare questo mestiere in sala.

Giulia Camillini non è di quelle parti, anzi le sue ori- gini sono marine, essendo nata e cresciuta a Cattolica, e non si definisce cameriera o altro termine che indica questa professione. Giulia ama definire il suo lavoro come quello di chi racconta storie intorno a una tavola. Bellissima come definizione!

“Questa è la prima volta che mi fanno un’intervista, la cosa mi emoziona e mi rende felice, soprattutto per mia madre; una donna che mi ha sempre lasciato molta libertà ma che forse non ha mai capito bene come mai una ragazza laureata in relazioni internazionali faccia un lavoro da tutti ritenuto faticoso. Spero di riuscire a spiegare che questo invece è un lavoro bellissimo se fatto con il cuore, con persone che condividono le idee, i progetti, le emozioni come sanno fare Riccardo e Ludovica”.

Partiamo dall’inizio, da quando Giulia si diploma al liceo linguistico di Pesaro e si laurea in relazioni internazionali all’università di Bologna. Subito dopo cosa fa? Chiede al proprietario del suo ristorante allora preferito, Le vele di Misano Adriatico, di farle fare una prova in sala.

“Mi ha sempre appassionata la tavola, il ristorante come luogo, un pranzo al ristorante ha il potere di farti star bene e la mia famiglia mi ha sempre insegnato il gusto di stare a tavola. Quella prova ha significato lavorare a Le Vele per sette anni. È stato allora che ho deciso di frequentare il master in Restaurant Manager ad ALMA e da lì iniziare la mia carriera nella ristorazione” spiega Giulia.

Come sei arrivata dal mare alle montagne dolomitiche?

“Avevo finito una bella esperienza alla Gioconda di Gabicce e lo chef resident Davide Di Fabio mi ha chiesto di andare con lui a fare un pop-up ristorativo a Cortina d’Ampezzo, dove ho servito durante la cena a quattro mani di Davide e Riccardo Gasparri. Ho conosciuto lì lo chef patron del San Brite. Poi sono andata a pranzo in malga al Piccolo Brite, poi a cena al ristorante stellato e la sensazione che mi portavo dietro da questi due momenti era rimasta a lungo nella mia memoria. In quel periodo ricevevo molte proposte di lavoro a cui dicevo di no perché le aziende con cui volevo lavorare dovevano colpirmi al cuore prima di tutto. Io ho bisogno di credere in quello che faccio! Un ristorante, per me, non è solo una semplice azienda, deve essere un concentrato di empatia, emozione, rispetto. Riccardo e Ludovica mi sembrava, a ragione, che rappresentassero tutto questo e, quindi, scrissi a loro proponendo la mia candidatura che venne accettata. Nel febbraio dello scorso anno sono arrivata qui e le mie sensazioni hanno subito trovato conferma. Riccardo e Ludovica, anche nelle piccole cose quotidiane danno libro spazio alle persone, ascoltano anche le idee di un’ultima arrivata quale ero io. Cercano, anche nell’organizzazione del lavoro, di rispettare il tempo di ciascuno; offrono un metodo e questa cosa, per me, è molto più importante di mille altre”.

Cosa ti piace di più del San Brite?

“Mi piace il lato umano! Mi piace raccontarne la storia, la filosofia che sta dietro a un piatto, quando metto il piatto davanti al commensale non ho un’unica definizione per spiegare quel momento. In sala non si servono piatti, si serve davvero un’emozione e non è un modo di dire abusato. Non qui! C’è un pensiero in ogni dettaglio, è questo che rende il San Brite un luogo dell’anima, c’è il desiderio di far dimenticare agli ospiti il tempo, proiettarli in una dimensione diversa per qualche ora, di gioia, di divertimento, di benessere”.

Si parla tanto, molte volte a sproposito, delle difficoltà di questa professione di sala, qual è il tuo pensiero?

“Quale lavoro, se ben fatto, non richiede impegno?! Io credo che ci sia una narrazione che va cambiata quando si parla di questo settore. Oggi ci sono ragazze e ragazzi, pur laureati come me, che scelgono questo mestiere, perché? Perché è bellissimo aver a che fare, ogni giorno in modo diverso, con persone di tutto il mondo. Offrire loro un momento di piacere. La narrazione, invece, usa ancora parole come fatica, sacrificio. Ma quale sacrificio può mai essere avere libero il mercoledì anziché il sabato? Dipende da cosa ci metti dentro al tuo tempo libero. La difficoltà più grande sta proprio lì, nel cambiare la mentalità di chi pensa che il sabato libero sia più bello di un altro giorno. E cambiare anche la visione da caserma che resiste in alcuni ristoratori. Trasparenza nelle azioni, rispetto di chi lavora per rendere sempre bello il tuo ristorante. Queste sono le cose da fare e qui, al San Brite, sono una realtà ogni giorno. È per quello che sono qui e ci voglio restare”.

I dieci pomodori che hanno cambiato il mondo

È da libri come questo che si scatena nelle persone il piacere della lettura. William Alexander, giornalista del New York Times, ha davvero girato il mondo per scrivere questa incredibile storia del pomodoro in dieci capitoli, a sé stanti tra loro. E lo ha fatto, lo confessa lui stesso, convinto che il pomodoro avesse origini italiane tanto è diffusa la produzione e il consumo nel nostro Paese. Solo viaggiando ha, invece, fatto chiarezza sulle origini, sulla storia e sull’importanza che ha adesso questa pianta nel mondo.

È un libro ricchissimo di piccole storie e aneddoti che ne fanno una lettura piacevole dove lo stupore e la sorpresa appaiono all’improvviso ad ogni pagina.

Lo sapevate, ad esempio, che il pomodoro, una volta giunto in Europa dall’America, è stato per tre secoli considerato non commestibile perché la fonte letteraria che ne esaltava l’utilizzo in cucina era inserita in un manoscritto di un frate francescano, Bernardino, che, dall’America nel 1550, aveva scritto la storia e la vita degli indigeni in maniera troppo simpatetica verso i pagani e, quindi, il Vaticano ne ha bloccato la pubblicazione fino al 1829?

Oppure che la decisione se il pomodoro fosse un vegetale o un frutto è stato uno dei dibattimenti della Corte Suprema degli Stati Uniti perché un importatore, tale signor Nix, avrebbe dovuto pagare un dazio pesantissimo se il pomodoro veniva considerato un vegetale?

“L’approccio carico di curiosità dell’autore è contagioso, scrive The Wall Street Journal, e non ci resta che confermarlo!

I dieci pomodori che hanno cambiato il mondo

William Alexander Aboca Edizioni

377 pagine

19,50 euro www.aboca.com

Lorenzo Pace è il presidente dell’Unione Regionale Cuochi Abruzzesi, oltre ad essere un cuoco professionista e docente. La sua vera passione, però, sono i libri che raccontano di storia e contemporaneità del mestiere di cuoco. Ne ha scritti numerosi, tutti estremamente utili per chiunque voglia capire qualcosa di questo mestiere ma l’ultimo – Il cuoco contemporaneo – è il più preciso dei libri che parlano di chef, cucine, cuochi.

È frutto di un’attenzione al cambiamento che ha sempre caratterizzato la sua figura professionale e, in questa pubblicazione, “ancor prima di pensare alle ricette”, Lorenzo Pace mette in luce “una filologia di metodi e prassi utili a svolgere il lavoro di cuoco con sapienza e professionalità”.

Nella prefazione di Niko Romito appaiono molto chiari gli obiettivi che l’autore si pone con questa pubblicazione: “Lorenzo aiuta a districarsi e posizionarsi tra tradizione e avanguardia, a capire che l’evoluzione è naturale anche in cucina e che non bisogna aver paura della tecnologia”.

Lorenzo Pace

D’Abruzzo Edizioni

95 pagine

20 euro www.dabruzzo.it

Il libro serve proprio a questo; con l’esempio aiuta a districarsi tra nuovi strumenti e nuove tecniche. Poi c’è la parte dedicata al menu che è decisamente interessante perché unisce storia e modernità, attraverso un’evoluzione anche delle parole usate nei menu.

Un libro consigliatissimo!

Autore: Guido Parri

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