ISSN 2283-9771
Magazine di arte contemporanea / Anno X N. 37 / Trimestrale free press
SMALL ZINE
Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C
GENNAIO FEBBRAIO MARZO 2021
SOMMARIO TALENT TALENT 3
LA REALTÀ SI SVELA COPRENDOLA Elena Modorati - Sabino Maria Frassà
INTERVIEWS 4
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ESERCIZI DI PUREZZA Giulia Spernazza - Gregorio Raspa IL SANGUE DELLE DONNE Manuela De Leonardis - Valentina Tebala
SPECIAL 8
STREET ART. SE NE PARLA con Valeria Aretusi, Marcello Smarrelli - Loredana Barillaro
PEOPLE ART 1o
RIPENSARE IL PARADIGMA Patrizia Asproni
DESIGN.ER 12
LA BELLEZZA CHE CI SALVA Marisa Coppiano - Loredana Barillaro
PHOTO.&.FOOD 13
IL TEMPO DELL’ASCOLTO Erica Ferraroni - Luca Cofone
GALLERY.ST 14
IL RUOLO EDUCATIVO DELL’ARTE Riccardo Steccanella - Loredana Barillaro
SMALL TALK 15
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RACCONTI VISIVI Andrea Carpita - Carla Sollazzo UN ELEGANTE RAZIONALISMO Daniela Spagna Musso - Loredana Barillaro GENIO ECLETTICO Flavia Tritto - Maria Chiara Wang LIMITE, SPAZIO, MEMORIA Alice Paltrinieri - Davide Silvioli
SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Stampa Gescom s.p.a. Viterbo Contatti e info +39 3393000574 +39 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Sabino Maria Frassà, Gregorio Raspa, Davide Silvioli, Carla Sollazzo, Valentina Tebala, Maria Chiara Wang Con il contributo di: Patrizia Asproni © 2020 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.
In copertina Andrea Carpita BEARDED MAN WITH HAWAIIAN T-SHIRT, 2020 (part.) Oil on linen, 140x100 cm Courtesy dell’artista
TALENT TALENT
LA REALTÀ SI SVELA COPRENDOLA Elena Modorati
- Sabino Maria Frassà
S
le opere di Modorati sono per definizione la negazione di una qualsiasi forma di carotaggio della realtà, in quanto nascono per ricreare un’artificiale stratificazione e dei punti ciechi non accessibili, che l’artista richiede di accettare in quanto tali. In molte opere, come nel caso del ciclo Calendari - in mostra fino al 26 febbraio al Gaggenau DesignElementi di Milano - nemmeno l’artista si ricorda esattamente cosa abbia originariamente scritto o celato all’interno delle opere. La frustrazione - prima - e l’accettazione - poi - di tale mancanza di piena conoscenza è il senso stesso dell’opera e della ricerca umana e artistica di Elena Modorati: la vita è al contempo accettare l’impossibilità di conoscere e conservare ogni cosa, ma è anche imparare che l’insieme e il tutto sono fatti di singoli minimi elementi insostituibili. La gioia non risiede perciò nel possedere e conoscere il dono custodito nella materia, quanto nel viverla, nell’imparare a trasformare la vita da un’attesa dell’ineluttabile in una gioia del godere consapevolmente del singolo momento. Walter Benjamin, autore molto amato dall’artista, scriveva: “Il giorno di festa pervade ogni giorno feriale. Un grano di domenica è nascosto in ogni giorno della settimana, e quanto del giorno feriale vi è in questa domenica”.
e Fontana squarciava la tela alla ricerca dell’infinito, Elena Modorati copre strato dopo strato ciò che lei stessa ha scritto e disegnato per superare il finito e dare forma a una ritrovata memoria universale in grado di conservare traccia di tutta l’umanità. La ricerca artistica di Elena Modorati è da sempre tesa a cogliere e rappresentare l’essenza stessa dell’essere umano, facendo riemergere attraverso il gesto del ricoprire - principalmente con la cera - ciò che ci accomuna e ci rende “simili”: la consapevolezza di sé, dei propri limiti, ma anche del far parte di un qualcosa al di là della nostra soggettività. Del resto, se da un lato ognuno di noi è diverso e unico, è innegabile che condividiamo universali ataviche speranze, paure e sentimenti che non riescono a trovare certe risposte in quel sapere scientifico sempre in divenire che noi chiamiamo genericamente “progresso”. L’arte, come anche la religione, è in fondo il tentativo dell’essere umano di reagire a tale stato di perenne incertezza ontologica universalizzando la propria esperienza, negando, togliendo e/o superando gli stessi limiti fisici propri della nostra vita sulla Terra. In questo senso l’arte concettuale di Elena Modorati si carica di una forte e innegabile valenza spirituale: l’artista scardina la concezione crono-logica del tempo, intesa come successione di momenti, per dare forma a ciò che resta all’umanità del vissuto di ciascuno di noi. In tutte le opere di Elena Modorati è presente questa tensione tra il ruolo del singolo e il tutto, che l’artista intende e vede nella sedimentazione dei resti dell’umanità di ieri, oggi e domani. Questa tensione viene trasmessa allo spettatore che, nel vivere le sue opere, sperimenta un desiderio quasi infantile di scavare letteralmente nella materia artistica per (ri)appropriarsi e comprendere pienamente cosa ci “sia” celato all’interno. Ma
DOMUS, 2016. Cera, marmo. Dal Ciclo CAPRICCI esposto nella mostra “Resti”, dal 10 dicembre 2020 al 26 febbraio 2021 da Gaggenau DesignElementi di Milano. Foto © Francesca Piovesan. Courtesy Cramum e Gaggenau DesignElementi.
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INTERVIEWS
ESERCIZI DI PUREZZA Giulia Spernazza
- Gregorio Raspa
Gregorio Raspa/ Giulia, il tuo lavoro pone in evidenza uno stretto rapporto con il mondo naturale e i suoi riferimenti materiali e simbolici. Tale aspetto è accentuato, ad esempio, dall’inclusione nelle tue composizioni di caduchi elementi vegetali. Quali sono i fattori che maggiormente hanno indirizzato le tue ispirazioni?
arte, si traduce in una ricerca di estrema sintesi formale, armonia ed equilibrio. GR/ Le proprietà di controllo, riduzione e sintesi mimica della realtà, che caratterizzano tutta la tua produzione, trovano perfetta espressione nel ciclo Inside Plexiglas. Per mezzo di quest’ultimo arricchisci la tua consueta narrazione sulla natura con gli effetti di una straniante sospensione temporale. Mi parleresti, in maniera più approfondita, di questi lavori?
Giulia Spernazza/ Quando ero ancora divisa tra pittura e scultura il riferimento al mondo naturale si esprimeva con quadri di astrazione geometrica ispirati al mare, mentre per la scultura raccoglievo del legno eroso sulla spiaggia, nel luogo dove sono nata e tuttora vivo, da utilizzare come supporto o in dialogo con figure umane appena accennate. Negli ultimi anni ho unito questi due linguaggi che corrispondevano alla mia parte introspettiva (pittorica) e quella più istintuale (scultorea). In questo processo gli elementi naturali sono divenuti essenzialmente simboli del concetto di provvisorietà e fragilità.
GS/ La serie Inside Plexiglas parte dall’idea di creare microcosmi in cui collocare pochi elementi in dialogo tra loro. Le teche mi consentono di accentuare il concetto di intimità/ protezione rafforzato con una soluzione formale di leggerezza e sospensione. Spesso realizzo dei trittici, proprio per suggerire un processo di trasformazione, passaggi graduali di addensamento/ rarefazione. Penso all’Opera Natura Pura, la prima della serie, in cui è presente una progressiva riduzione degli strati fino ad arrivare all’inserimento di un singolo elemento naturale, simbolo di purezza.
GR/ Se letto nella continuità della sua evoluzione, il tuo lavoro si presenta come un costante processo di interrogazione sulla forma e la materia. Con il tempo, infatti, la tua ricerca ha raggiunto un livello di tensione concettuale sempre più alto inseguendo, in tutte le sue manifestazioni, qualità come l’equilibrio, il rigore e l’armonia. Quali sono gli aspetti, teorici e formativi, che hanno guidato un simile percorso?
GR/ A ben vedere, non solo il ciclo Inside Plexiglas, ma tutto il tuo lavoro ha uno stretto legame con il tempo. Esso, infatti, può suggerire una dimensione ritmica - penso all’opera Solitudini apparenti (2020), interrogare sulla successione degli eventi - penso all’installazione Casa del Vento (2018) - o testare la durevolezza dell’effimero - penso al ciclo Poesie Materiche (2018). Quanto conta tale aspetto nell’ambito della tua poetica?
GS/ Il mio lavoro ha sempre avuto una forte propensione all’essenzialità della forma e alla delicatezza del colore. In tal senso, la lezione di Morandi e Giacometti è stata fondamentale. Fondendo il linguaggio pittorico e quello scultoreo, con lo sguardo rivolto ai grandi maestri dell’Arte concettuale, ho iniziato ad utilizzare la carta e il tessuto per creare forme tridimensionali semitrasparenti e leggere tese a trascendere la forma attraverso la materia. Non posso non aggiungere che l’evoluzione del mio lavoro è intimamente legata al mio percorso interiore e spirituale che, in
GS/ Il mio lavoro appare soggetto allo scorrere del tempo a causa dell’impiego di elementi effimeri ma, al contempo, emana un senso di immobilità che sembra sospenderlo, oltrepassarlo. In alcune Opere, soprattutto quelle in tessuto, convive un misterioso contrasto tra la materia vissuta e logora, simbolo dell’impermanenza, e il senso di leggerezza e sospensione che ne deriva, la vera essenza al di là delle forme. 4
“I
l mio amore per la Scultura si traduce nell’attitudine ad osservare la tridimensionalità dei singoli elementi e, poi, dell’insieme. Il rapporto con lo spazio mi dà la possibilità di creare un vero e proprio mondo in cui osservare il mio lavoro in maniera totale.”
GS/ La serie dedicata al libro ha subito diverse evoluzioni nel tempo. In maniera graduale ho iniziato a togliere il riferimento alla scrittura, cioè al segno. Il lavoro ha iniziato ad assumere un significato più simbolico: il libro come stratificazione di esperienze, le pagine come parti di noi, che cambiano sovrapponendosi. L’idea ha iniziato inoltre a distaccarsi dalla forma-libro tradizionale con la serie Big Book, dove la stratificazione avviene su grandi dimensioni.
GR/ Nel corso degli ultimi anni hai realizzato diverse opere su grande scala e numerosi interventi installativi. In un lavoro come il tuo, basato sulla stratificazione e la giustapposizione di elementi anche diversi, come l’autodefinizione dell’insieme plastico dialoga con l’ambiente circostante? GS/ Da alcuni anni l’installazione rappresenta una parte importante del mio lavoro. Utilizzando materiali fragili, leggeri e sottili, il rapporto con lo spazio mi pone davanti a degli interrogativi di natura concettuale e formale. Il mio amore per la Scultura si traduce nell’attitudine ad osservare la tridimensionalità dei singoli elementi e, poi, dell’insieme. Il rapporto con lo spazio mi dà la possibilità di creare un vero e proprio mondo in cui osservare il mio lavoro in maniera totale.
GR/ Nelle tue opere pittoriche più recenti il gesto prevale nettamente sul segno e la riduzione cromatica appare una scelta linguistica sempre più netta. È questa, oggi, la parte più intima della tua produzione? GS/ La direzione è proprio questa, e ho intenzione di misurarla sempre di più nello spazio concentrandomi maggiormente sull’installazione.
GR/ Un elemento ricorrente della tua ricerca è senz’altro la forma-libro, da te più volte reinventata con la ricca serie degli Art Book. Sono tantissimi gli artisti che nel corso del tempo si sono cimentati in un esercizio simile, valorizzando quella proprietà primaria del libro che il critico ungherese Lorand Hegyi ha lucidamente individuato nella “intermedietà”, cioè nella capacità di mediare, con perfetta efficacia, tra più sfere cognitive e sensoriali. Nel tuo caso specifico, la forma-libro è utilizzata per veicolare l’idea di una forma-nuova o, più semplicemente, per modellare l’anatomia di una narrazione?
Da sinistra: SOLITUDINI APPARENTI, 2020. Tessuto cerato e filo, 6x2x2 m. Foto © Mattia Morelli. Courtesy dell’artista. OMAGGIO A GIORGIO MORANDI, 2019. Tessuto cerato, 15x25x15 cm. Courtesy Collezione Privata.
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INTERVIEWS
IL SANGUE DELLE DONNE Manuela De Leonardis
“M
i piace pensare agli oggetti non solo nella loro specificità di beni materiali, ma come entità che si caricano di esperienze, emozioni e memorie delle persone a cui sono appartenuti.”
- Valentina Tebala
Valentina Tebala/ Manuela, Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco conclude una serie di progetti artistici che hai ideato e curato tra il 2012 e il 2018 intorno agli objets trouvés. Ci puoi raccontare meglio le tappe di questo ciclo e soprattutto la genesi di questo ultimo progetto? Manuela De Leonardis/ Mi piace pensare agli oggetti non solo nella loro specificità di beni materiali, ma come entità che si caricano di esperienze, emozioni e memorie delle persone a cui sono appartenuti. C’è anche l’ambizione (e la sfida) nel dare all’oggetto una nuova vita attraverso il processo artistico. Sempre in una concezione che vede l’arte mai fine a sé, ma come mezzo per riflettere su tematiche sociali. Sicuramente è presente un filo conduttore tra il ricettario anonimo (Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente), i 128 romanzi d’amore (La grande illusione) e i 68 “panni” dell’ultimo progetto, che va oltre la natura di oggetti trovati. In tutti c’è un’attenzione al femminile e, allo stesso tempo, il desiderio di restituire in maniera corale identità e visibilità a storie in parte sommerse. Ancora una volta una “casualità non causale” mi ha portata a riconoscere in un mercato di Roma, su un banco di vecchi merletti, i panni di lino che un tempo venivano usati per assorbire il sangue mestruale. Quale migliore strumento, poi, per sfidare il tabù delle mestruazioni ancora così radicato nella società contemporanea? VT/ Si tratta al tempo stesso di un’iniziativa espositiva ed editoriale. Per quanto riguarda la mostra, sei arrivata a coinvolgere 68 artiste di paesi, culture e generazioni diverse, che relazionandosi con l’oggetto pannolino hanno rappresentato figurativamente o concettualmente le mestruazioni. Qual è stato il percorso della mostra, e la risposta del pubblico? 6
MDL/ Ho iniziato questo progetto in maniera del tutto istintiva, spedendo il pannolino a un primo gruppo di artiste perché potessero affrontare temi legati al femminile nella piena libertà espressiva. Ho trovato subito grande riscontro, anche da parte di Rossella Alessandrucci/La Stellina Arte Contemporanea che ha collaborato alla realizzazione della prima mostra, nel 2015, presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma dove abbiamo esposto le opere di 14 artiste, tra cui: Maïmouna Guerresi, Silvia Levenson, Ketty Tagliatti, Elly Nagaoka, Susan Harbage Page, Virginia Ryan. È proprio grazie al coinvolgimento anche emotivo delle artiste e del pubblico, il quale ha trovato stimolanti le riflessioni poste nell’affrontare tematiche che vanno dalla nascita, alla sessualità, ai legami, alla violenza e al femminicidio, che il progetto è cresciuto negli anni. Abbiamo avuto diverse tappe espositive, spesso in luoghi “sacri” come nel 2017 nelle celle dell’ex convento di S. Benedetto a Conversano e, soprattutto, nel 2019, nella chiesa romanica oggi Auditorium Vallisa a Bari con l’esposizione, per la prima volta, di tutte le opere (la prossima sarà al Palazzo Fruscione di Salerno in partnership con la Fondazione Filiberto e Bianca Menna, nel corso del 2021) con il suggestivo allestimento “rouge” dell’architetto Dino Lorusso e il “sound” di voci narranti di Ninni Castrovilli. La presentazione del volume, pubblicato da Postmedia nel 2019 grazie al sostegno della Fondazione Pasquale Battista e all’entusiasmo della direttrice Annalisa Zito, ha poi innescato altri dibattiti interessanti in ambiti diversi, tra cui il Center for European Studies - University of North Carolina a Chapel Hill (USA), la Triennale di Milano per la VI edizione del Tempo delle Donne, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, il Museo Pignatelli di Napoli, il Reparto di Radioterapia Oncologica dell’Ospedale Clinicizzato SS. Annunziata di Chieti, la galleria Forum di Zagabria e la galleria Rigo di Novigrad/Cittanova (Croazia). VT/ A proposito del volume, come si compone? MDL/ Il libro, oltre all’apparato iconografico, è impreziosito dai testi delle artiste: racconti, poesie, filastrocche. L’unica a lasciare volutamente la pagina bianca è stata Sonya Orfalian, che ha affidato il suo messaggio di denuncia del genocidio armeno all’opera fortemente simbolica con la spada. Una lettura trasversale degli argomenti è data inoltre dai contributi di altri autori che vanno dalla linguistica di genere alla ginecologia, da aspetti antropologici alla storia dell’arte contemporanea. VT/ Il sangue è stato elemento ricorrente nell’arte contemporanea sin dai padri e le madri della performance e della body art degli anni Settanta. Molte artiste, in particolare, hanno usato anche brutalmente il proprio corpo e il proprio sangue (persino mestruale) come mezzo di lotta politica e sociale contro le prevaricazioni di genere. Oggi, da ciò che hai potuto rilevare con l’esperienza di questo progetto, qual è l’approccio delle artiste verso tematiche così forti, intime e al contempo universali? Hai notato un fil rouge, delle similitudini di linguaggio e di espressione, tra le artiste coinvolte? MDL/ Delle 68 artiste del progetto Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco solo una, Patrizia Molinari, ha usato il sangue (non mestruale) nella sua opera. Le altre hanno adottato linguaggi diversi, spesso metaforici, con altrettanta forza e intensità. Certamente parliamo di un territorio non tanto di rivendicazioni di istanze femministe, piuttosto di difesa dei diritti costituzionali.
Manuela De Leonardis è Giornalista e Curatrice indipendente. Da sinistra in senso orario: Ilaria Abbiento, COME LA MAREA, 2018. Courtesy dell’artista. Lea Contestabile, SANGUE DEL MIO SANGUE, 2018. Courtesy dell’artista. Novella Oliana, WHAT I NEED TO BE MYSELF ELSEWHERE, 2017. Courtesy dell’artista.
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SPECIAL
STREET ART. SE NE PARLA Loredana Barillaro
L
’arte ha sempre avuto una funzione cruciale nella definizione dello spazio, sia che fosse una grotta da sacralizzare attraverso immagini graffite di mani o animali, oppure il paesaggio indefinito, punteggiato da dolmen e menhir, primordiali segni utili ad orientarsi e a definire lo spazio illimitato. Con la fondazione delle città l’arte diventa parte integrante della progettazione di edifici pubblici e privati, di luoghi condivisi come piazze o porticati, connotando la funzione delle architetture civili, militari, produttive, istituzionali e religiose. Interventi ispirati ad una concezione sempre più estetica dello spazio, in cui l’opera è considerata come concretizzazione del più alto ingegno umano, strumento privilegiato per “comunicare” messaggi (religiosi, politici, sociali), ma anche emozioni e sentimenti. È evidente quanto i processi di rigenerazione urbana siano oggi al centro delle iniziative politiche più all’avanguardia, rivolte allo sviluppo sostenibile delle città e l’arte urbana sembra essere uno degli strumenti a cui ci si rivolge con più interesse. Ripercorrendo la storia della pittura parietale, dall’antichità fino al Muralismo messicano e ai suoi echi europei, ci sono molti elementi condivisi con gli esempi migliori della street art, che preferirei definire pittura murale. Un potente strumento di diffusione e promozione dell’arte contemporanea che, grazie al suo linguaggio immediato, riesce a comunicare in maniera trasversale, raggiungendo in maniera diretta pubblici diversi ed eterogenei. Come qualsiasi intervento artistico rivolto allo spazio pubblico, tali azioni devono necessariamente basarsi sul dialogo tra autori, cittadini, istituzioni, committenti pubblici e privati, per diventare bene culturale condiviso e identitario. Questa imprescindibile funzione di mediazione è stato il ruolo della Fondazione Pastificio Cerere dalla mia nomina a Direttore Artistico. Attraverso un’articolata proposta di incontri, mostre, residenze per giovani artisti e curatori, progetti di arte pubblica e programmi educativi innovativi, abbiamo creato percorsi formativi attraverso l’interazione dei linguaggi artistici contemporanei e la sperimentazione di nuove modalità di partecipazione, coinvolgendo pubblici eterogenei in costante dialogo con enti pubblici, privati e istituzioni culturali di ogni parte del mondo. Nel 2019 abbiamo realizzato un murale a San Lorenzo, su commissione di una società immobiliare, coinvolgendo cittadini, municipio e sovrintendenza. Volevamo che l’intervento dialogasse con il contesto urbano, la sua identità e la memoria storica. È nato così Patrimonio indigeno, di Lucamaleonte, una mappa concettuale del quartiere, un ritratto che ne offre una preziosa chiave di lettura. In risposta alla chiamata della Regione Lazio e ATER, a cui i cittadini del Tufello avevano chiesto di celebrare la memoria del grande Gigi Proietti, abbiamo realizzato il suo ritratto sulla facciata dell’abitazione in cui l’attore ha trascorso l’infanzia. In altri casi, l’intervento è nato da un processo partecipativo, come Dare la parola - il filo del discorso (2020), risultato di un laboratorio di poesia e scrittura creativa di Ivan Tresoldi per un gruppo di studenti del Piaget-Diaz di Roma nell’ambito del nostro progetto Collezione di Classe. Quali vincitori del bando indetto da ATER Roma, in occasione del Centenario del Quartiere Garbatella, stiamo realizzando il murale La Costituzione più bella del mondo, progettato da Marimo | brandlife designers, inoltre il 2021 ci vedrà impegnati in un grande progetto di rigenerazione urbana con il Comune di Pomezia affidato agli artisti Agostino Iacurci e Ivan Tresoldi. Marcello Smarrelli
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uanta Street Art c’è in giro? Persa per sempre la sua indole clandestina diviene oggi parte integrante dell’arredo urbano di molte delle nostre città. Luogo, ideale e fisico, in cui spesso dimensione privata e intervento pubblico divengono una cosa sola, operando in convergenza, in una, talora, moderna forma di celebrazione, così come avveniva nei secoli passati con gli affreschi. Ufficializzata al punto da essere usata da tutti, rischia, nondimeno, di divenire strumento di “distruzione degli equilibri urbani”.
MARCELLO SMARRELLI
Marcello Smarrelli è Direttore Artistico della Fondazione Pastificio Cerere di Roma. Dall’alto: Lucamaleonte, PATRIMONIO INDIGENO, 2018. San Lorenzo (Roma). Foto © SIMPLESTORI di Andrea De Giuli. Courtesy Fondazione Pastificio Cerere. Un ritratto di Marcello Smarrelli. Courtesy Marcello Smarrelli.
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SPECIAL
apita infatti sempre più spesso di imbattersi in interventi “spontanei” all’interno dei centri storici delle nostre città, talvolta “da recuperare” e per questo oggetto di restyling mediante murales di varia fattura, autorizzati da politiche amministrative talvolta prive di mezzi per poter comprenderne il danno o il beneficio. E allora, qual è il rischio che si corre? Esiste una qualche legislazione che ne regoli l’azione? È lecito far rientrare quasi tutto ciò che c’è in giro sotto l’egida della Street Art? Inoltre, come cambiano i circuiti turistici delle città, che forma assumono i nuovi itinerari che si affiancano, così, ai più classici?
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VALERIA ARETUSI
Valeria Aretusi è Architetto e cofondatrice di Uovo alla Pop Galleria di Livorno. Dall’alto: Un ritratto di Valeria Aretusi. Foto © Erwin Benfatto. Murale Ligama FIORI DI GLICINE, LE LEGGI LIVORNINE, ottobre 2020. Livorno, scali delle Pietre. Foto © Pier Corradin. Per entrambe courtesy Uovo alla Pop Galleria.
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on parlerei di distruzione degli equilibri ma piuttosto di arte che serve o non serve e nel secondo caso, in cui non ha valore e significato, non è pericolosa ma inutile. La street art si muove sempre in luoghi specifici, marginali, lontani da luoghi vincolati, non è un fenomeno pericoloso per il decoro urbano, certo è che possono esistere casi che commettono errori ma non può essere fatta di tutta un’erba un fascio. Il fenomeno della street art sta scomparendo, pochi sono gli artisti rimasti clandestini e il vero, puro spontaneo fenomeno è rimasto in rari casi, che si aggiungono alla microincursione con poster-art, graffitismo e tag. Spesso si confonde la street art con l’arte urbana, quest’ultima commissionata e accompagnata da permessi e pratiche legali. Per quanto riguarda l’arte urbana i rischi a mio avviso sono questi: cadere nel mero decorativismo, la mancanza di significato-concetto dell’opera, la realizzazione dell’opera che segue la logica del consenso, mancanza di una logica urbana, del rispetto del contesto e dell’inclusione sociale. Inoltre il fatto che in alcuni casi vengano realizzati murales senza particolare cognizione di causa credo sia indipendente dal fatto di crossare un’azione spontanea non autorizzata, anzi di solito capita più che venga pulito il muro anziché coperto da un murale autorizzato. Non esiste per ora una legge assoluta che regoli questa attività. Ora si utilizzano ancora vecchi strumenti dal diritto pubblico, d’autore, codice civile, penale e amministrativo (soprattutto Codice Urbani) ma servirebbe una regolamentazione autonoma sull’arte urbana, che studiasse e tenesse in considerazione le caratteristiche del fenomeno. Segnalo la buona pratica della proposta di legge avanzata dalla Vicepresidente della Commissione Cultura della Regione Lazio, Marta Leonori, legge che prevede che i comuni redigano ogni anno un elenco dei beni e degli spazi disponibili nel loro territorio, da destinare a interventi di street art; potranno anche individuare nuovi “muri liberi” per proporre nuove iniziative. I circuiti turistici nelle città cambiano notevolmente grazie all’arte urbana, se si pensa al fatto che spesso i luoghi scelti sono difficili, periferici e non battuti dal turismo, i percorsi turistici possono quindi attraversare realtà differenti e parallele agli itinerari storici delle città. Questo tipo di arte che ha un messaggio e una integrazione nel tessuto sociale e urbano aumenta l’attrattività urbana ed è un valore aggiunto. Per questo noi della galleria ci occupiamo di progetti di valorizzazione con l’arte urbana con qualità e apporto concettuale, non dimenticando l’inclusione sociale e l’accompagnamento alla fruibilità di questi percorsi con tour organizzati per grandi e bambini. Noi siamo molto felici del lavoro che svolgiamo nel territorio e quest’anno vantiamo anche una grande opera firmata Ligama su un palazzo della Provincia di Livorno, vincolato dalla Soprintendenza delle Belle Arti e lasciato in abbandono in stato di crollo dell’intonaco. Il nostro progetto di arte urbana è stato accettato grazie al suo valore migliorativo sia del tessuto urbano, che del palazzo e anche per il suo valore artistico in memoria di uno spaccato di storia di Livorno delle leggi livornine. Il nulla osta della Soprintendenza per l’opera urbana su immobile vincolato è stato il primo in Toscana. Valeria Aretusi
RIPENSARE IL PARADIGMA Patrizia Asproni
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roprio come la pandemia sta mettendo a nudo le disuguaglianze globali e nazionali, i musei devono riconoscere che essi stessi sono inseriti in un tessuto sociale che si sta rivelando dolorosamente sfilacciato.”
M
i occupo da tanti anni di organizzazioni e istituzioni culturali e gestisco da sempre la complessità che questo implica. Certo, mai avrei pensato che ci saremmo trovati a fronteggiare una crisi come quella che stiamo vivendo. Un doppio schock: quello della pandemia e quello della pervasività del digitale. Il mio intervento vuole quindi essere un momento di riflessione piuttosto che di elencazione e vanto delle cose passate. Per questo credo si debba oggi parlare di “presentificazione del futuro”, discussione sfidante quanto necessaria. Quando Milton Friedman, uno degli economisti liberisti più estremi, scriveva “Soltanto una crisi, reale o percepita, produce un vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano” aveva ragione. Per chi si occupa di Cultura, di Musei, questa è un’opportunità per andare più in profondità piuttosto che ridursi a
uno status quo ante in cui si trasferisce on line ciò che era on site. Proprio come la pandemia sta mettendo a nudo le disuguaglianze globali e nazionali, i musei devono riconoscere che essi stessi sono inseriti in un tessuto sociale che si sta rivelando dolorosamente sfilacciato. Mentre anticipiamo gli effetti sociali e istituzionali del nuovo coronavirus, sembra che valga la pena chiedersi se il “modello di business” che è stato finora inseguito e applicato - il gigantismo di musei e le espansioni di archistar, le mostre blockbusters e il divismo dei direttori - sia ancora sostenibile dal punto di vista finanziario e ambientale. E tenere tutto questo in equilibrio sarà una sfida straordinaria. La mia esperienza come manager attenta alla gestione e al profitto da una parte, e come presidente di musei e fondazioni culturali dall’altra, mi porta dunque a considerare l’attuale ”stato di eccezione” non solo come un vincolo (cosa che ovviamente è), ma come un momento per sperimentare, per sostenere opportunità di ripensamento radicale, per connettere, sostenere e, cosa più importante, diversificare il pubblico, aprire più liberamente collezioni e archivi, renderli davvero accessibili a una gamma completa di cittadini (e non cittadini), in forma non più solo analogica ma digitale democratica, in cui l’internet delle cose interagisce positivamente con le cose fuori da internet, in un nuovo modello di racconto dell’arte e della cultura. Se dovessimo sintetizzarlo in uno slogan, potremmo dire che si tratta di ripensare il paradigma, con l’obiettivo precipuo di ricongiungere in una narrativa culturalmente funzionale passato, presente e futuro. Soprattutto dal punto di vista della connessione tra generazioni. Per questo motivo al Museo Marino Marini Firenze, in cui ricopro la carica di Presidente, al fine di perseguire la missione e il posizionamento del museo come luogo di elaborazione culturale continua e stimolante, laboratorio di sperimentazione in cui è stata abolita la segregazione disciplinare in favore di un dialogo continuo e aperto tra universi di conoscenza, a partire dal 2019 ho creato il ruolo - inedito - del Visiting Director. Come infatti le università più prestigiose si dotano di personalità di alto profilo in possesso di un significativo curriculum scientifico e professionale per favorire l’internazionalizzazione e lo sviluppo culturale, così al Marino Marini, ogni anno il direttore di un museo o di una prestigiosa istituzione culturale viene invitato a creare il programma scientifico/ artistico per il Museo, con il fine di accrescere e potenziare la dimensione internazionale attraverso la promozione di scambi di esperienze. Ad inaugurare il nuovo corso è stato Dimitri Ozerkov, Direttore del 10
PEOPLE ART
Dipartimento di Arte Contemporanea del Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo e del progetto “Ermitage 20/21”, che ha interpretato la realtà e l’essenza del luogo singolare che ospita il museo, proponendo un progetto composito e multiplo rappresentato da un “filo rosso” ideale e fisico. Con “ACCENTS, ACCENTI, АКЦЕНТЫ” Dimitri Ozerkov ha inteso creare un ponte con la nouvelle vague artistica russa coinvolgendo 3 giovani e affermati artisti Irina Drozd, Andrey Kuzkin e Ivan Plusch - che hanno lavorato in residenza nel museo per produrre opere site specific in dialogo con l’intensità e la forza magnetica dei lavori di Marino Marini. La Visiting Director del 2020 è invece Fatma Naït Yghil, Direttrice del Museo Nazionale del Bardo di Tunisi, che ha portato la sua esperienza di donna musulmana a capo del più importante museo della Tunisia. Purtroppo a causa delle restrizioni COVID, Fatma Naït Yghil ha dovuto slittare e modificare il suo programma: è stato organizzato il webinar “Art Gap. Museums and the gender equality global trend” con ospiti da tutto il mondo e un prossimo appuntamento è previsto per gennaio 2021. L’altro progetto che descrive perfettamente la visione del Museo Marini è il Playable Museum Award, un grant da 10 mila euro per idee che immaginino il museo del futuro. Con questo award il museo è diventato un vero e proprio hub di innovazione e sperimentazione, un museo laboratorio di futuro in cui pensare e creare prototipi e idee da poter declinare anche in altri musei. Nelle due edizioni dell’award abbiamo ricevuto oltre 500 progetti, un data-base straordinario di creatività e audacia, immaginazione e tecnologia con cui stiamo creando una piattaforma che metteremo a disposizione di tutti i musei. Una sorta di Tinder culturale su cui si incontrano musei e idee visionarie. I vincitori delle due edizioni sono un giovane ingegnere indiano, Arvind Sanjeev e una giovane PHD napoletana, Greta Attademo, a testimonianza della dimensione ormai globale del museo. Patrizia Asproni è Presidente del Museo Marino Marini Firenze e Presidente della Fondazione Industria e Cultura. A destra: Un ritratto di Patrizia Asproni. Courtesy Patrizia Asproni.
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DESIGN.ER
LA BELLEZZA CHE CI SALVA Marisa Coppiano
- Loredana Barillaro Loredana Barillaro/ Marisa, puoi descriverci il tuo processo creativo? Marisa Coppiano/ Il processo che conduce alla costruzione di un oggetto/progetto prende le mosse da quel sovrapporsi di pensieri ancora informi e contorti, estratti dal bagaglio delle conoscenze legate ai miei molteplici interessi, oggetto di studio costante e pervicace. È poi il foglio bianco il luogo che accoglie i primi appunti di percorso; si tratta non solo di schizzi e appunti ma anche di veri e propri assemblage di carte e talvolta oggetti: i miei collage, piccole partiture distillate da riviste e quotidiani, da cui minuziosamente ritaglio personaggi, oggetti o anche semplici superfici di colore. In tal senso si determina una forte approssimazione del design con l’arte, ove il progetto ne sfiora il confine. La mia progettualità è una narrazione per immagini e il progetto che ne deriva deve essere cangiante, incantatore, non rinunciando a dispensare nutrimento all’immaginazione. LB/ Cosa vuol dire per te fare design e che significato pensi debba avere nella quotidianità delle persone? MC/ Fare design vuol anche dire bellezza, se per bellezza si intende ciò che è in grado di inquietarci, o ciò che è in grado almeno di creare un sussulto, un fremito dello spirito. La bellezza salva, consola, riempie di significato l’esistenza ma al tempo stesso ferisce profondamente e inquieta. Un ambiente bello predispone l’animo a elevarsi, a esplorare nuovi territori. Di fronte ad una bella architettura o a un bell’oggetto possiamo anche piangere; ci commuoviamo, perché la bellezza ci riporta all’enigma della riconciliazione infinita a cui aspiriamo nel profondo del cuore. L’esperienza della bellezza ci proietta verso ciò che è più elevato, verso il regno dei grandi valori, è la forza del trascendente. LB/ Cos’è che prende vita maggiormente nei tuoi progetti, quali aspetti, quali visioni? MC/ Progettare è prima di tutto una mia esigenza di espressione, un bisogno di manifestarmi, di conoscermi. C’è sempre un momento critico e di scoperta in cui mi confronto con me stessa attraverso lo scambio con la committenza; scambio che mi arricchisce e rafforza l’elaborazione del lavoro cui sto attendendo. Nell’affrontare un progetto mi metto innanzitutto in ascolto di scenari che si manifestano nella mia mente, li approfondisco diventandone testimone silenzioso, ambiguo, che scandaglia le possibili realtà attraverso l’elaborazione dell’immagine e la sua traduzione nella rappresentazione complessiva. Accolgo gli spunti e gli ammiccamenti che mi vengono dall’esterno camminando per le strade, leggendo e studiando fenomeni, guardando sì, semplicemente osservando - e da lì prende avvio l’elaborazione dei miei lavori. Penso al progetto come ad un essere camaleontico capace si trasformarsi nel contatto con chi ne diventa fruitore. Non a caso mi sono dedicata e mi dedico all’exhibit design che vive dentro una sorta di provvisorietà legata alla temporaneità della narrazione, pur nel rigore dei contenuti che della rappresentazione restano i capisaldi. La tenda, altro elemento cardine della mia progettualità, è quel diaframma che separa senza alterare gli spazi originali, uno schermo flessibile che, filtrando luce e rumore, circoscrive un potente climax emotivo e trasforma lo spazio con leggerezza. Progettare è un ottimo antidoto al dolore, lenisce le ferite e consente di elaborare la resistenza come condizione unica di sopravvivenza per chi progetta e per la sua poetica. Marisa Coppiano è Designer e Owner di MarisaCoppianoMaison. Dall’alto: Un ritratto di Marisa Coppiano. Foto © Barbara Corsico. THE ENTRANCE, un dettaglio dello studio atelier, sulla parete due collages dell’artista. Foto © Barbara Corsico. Per entrambe courtesy Marisa Coppiano.
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PHOTO.&.FOOD
IL TEMPO DELL’ASCOLTO Erica Ferraroni
Luca Cofone/ Erica, la figura umana nelle tue foto compare sempre come un elemento strumentale alla presentazione delle forme del cibo, è così? Erica Ferraroni/ La figura umana appare e scompare spesso nei miei lavori. Sicuramente non è l’elemento principale ma ricopre comunque una parte importante, quando presente. Grazie ad esso infatti riesco a raccontare parte della storia e a far immedesimare lo spettatore. Difficilmente vedrete figure intere, spesso si tratta solo della presenza delle mani intente a produrre un’azione o ad enfatizzare il soggetto. L’intento è quello di far coincidere l’immaginario di chi osserva con la mia visione fotografica. In questo modo la narrazione potrà assumere una concretezza personale; le mani nella foto diventeranno le mani della persona in ascolto e sarà essa a raccontare la propria storia. LC/ Le tue foto sembrano caratterizzarsi per un’atmosfera soffusa dai toni bassi, da cui emerge poi “l’elemento colore” del cibo. Mi parli di questo tuo modo di costruirne le ambientazioni.
- Luca Cofone
EF/ Decisamente amo le atmosfere laconiche; espressive ma essenziali, capaci di consegnare il messaggio con pochi elementi. Lavoro esclusivamente con luce naturale e uso una sola fonte di luce, questo mi permette di creare delle situazioni pervase da un senso di quiete e mistero. Credo che questa necessità stilistica dipenda anche da una mia urgenza personale di trovare un luogo tendente all’onirico che contrasti la frenesia e la follia della vita quotidiana. Per la creazione del mio set, studio attentamente gli elementi che lo compongono; mi piace pensare che fotografo ciò che la luce decide di svelare. Per far esaltare il mio soggetto, pongo molta attenzione a tonalità, texture e fisionomia; ogni particolare è intento a creare armonia ed equilibrio. Dedico molto tempo all’osservazione e all’ascolto, ed esso stesso mi suggerisce come interpretarlo al meglio. LC/ Cosa ti appassiona della Food Photography? EF/ La Food Photography è diventata parte essenziale della mia vita, della mia quotidianità. Ci sono voluti molti 13
anni, tanta gavetta, errori, delusioni, tentativi, per arrivare ad essa, ma quando l’ho “incontrata” ho capito immediatamente che non ci saremmo più divise. Ho sperimentato davvero ogni tipo di fotografia negli ultimi 15 anni, ma niente mi ha mai appassionato in questo modo, nulla mi ha mai fatto sentire pienamente appagata. Non fraintendermi, se non avessi fatto il percorso e le esperienze passate, oggi non affronterei la fotografia in questo modo. Grazie alla Food Photography, entro in contatto con la mia parte più profonda e creativa. Attraverso l’osservazione e l’ascolto della natura creo immagini che mi permettono di far chiarezza dentro di me, tassello dopo tassello. Grazie ad essa racconto di me e dei miei ideali. Mi viene da dire che sia quasi liberatorio! Erica Ferraroni è Food Photographer, Stylist, Storyteller. Da sinistra: THE BEET, 2020. Fotografia digitale. ODE TO CARAVAGGIO, 2020. Fotografia digitale. Per entrambe courtesy © Erica Ferraroni.
GALLERY.ST
IL RUOLO EDUCATIVO DELL’ARTE Riccardo Steccanella
- Loredana Barillaro
Loredana Barillaro/ Dimmi Riccardo, che tipo di lavoro intendi svolgere nella nuova sede di Kromya Art Gallery di Verona, che taglio vuoi darvi? Riccardo Steccanella/ Kromya Art Gallery nasce a Lugano nel 2018. Accanto alla sede svizzera, diretta da Tecla Riva, si è deciso di aprire una nuova sede a Verona, nonostante il difficile momento storico che stiamo vivendo, certi che l’arte possa costituire un’importante risorsa per il futuro. Il nostro lavoro sarà orientato all’approfondimento della Pittura Analitica, dell’Optical Art e dei protagonisti della ricerca artistica contemporanea, ma anche alla promozione delle giovani generazioni. Vorremmo contribuire, nel nostro piccolo, a diffondere la conoscenza dell’arte contemporanea sul territorio. Un territorio, quello veronese, ricco di cultura e di storia, da sempre meta del turismo internazionale. Riteniamo, infatti, che le gallerie d’arte debbano avere un ruolo culturale ed educativo preminente, che può esplicarsi solo nel rapporto diretto e costante con la realtà in cui operano. Come prima mostra abbiamo scelto, ad esempio, di proporre una personale di Giorgio Griffa, maestro indiscusso nel panorama internazionale, che solo recentemente nel nostro Paese sta ottenendo i meritati riconoscimenti. Il nostro desiderio sarebbe, inoltre, quello di portare Kromya Art Gallery fuori dai propri spazi fisici, per andare ad incontrare le realtà imprenditoriali del territorio ed instaurare proficue collaborazioni. LB/ Cosa porta con sé la sede di Verona dell’esperienza di Lugano. Le due sedi seguono percorsi comuni oppure c’è una differenziazione dell’approccio e della programmazione? RS/ Kromya Art Gallery Verona è figlia e sorella di Kromya Art Gallery Lugano. Questo significa una linea comune alle due sedi, tracciata da un gruppo affiatato di professionisti, mossi in primo luogo dalla passione per l’arte. Ricerchiamo e proponiamo artisti nei quali riconosciamo elevata qualità del lavoro e capacità di innovazione nel pensiero dell’Arte. L’attività espositiva, sia a Lugano che a Verona, è distinta nelle sezioni denominate “Camere” e “•YOUNG”: la prima si focalizza sui maestri degli anni Sessanta e, più in generale, su artisti già affermati; la seconda è rivolta ad artisti emergenti, affinché possano essere introdotti al pubblico e al mercato. Al contempo le due sedi si interfacciano con il territorio che le ospita, cercando di leggerne le peculiarità e di adattarsi alle specifiche inclinazioni del sentire delle comunità di riferimento. LB/ Cosa vuol dire per te, oggi, fare il gallerista? RS/ Essere un gallerista oggi significa molte cose. È, infatti, necessario contemperare l’animo artistico con quello manageriale. Questo comporta avere una solida competenza in campo storicoartistico, ma anche capacità amministrative e gestionali. Ogni attività deve essere svolta con assoluta professionalità ed orientata alla crescita degli artisti che si trattano e della propria galleria. Solo in questo modo il gallerista può diventare un punto di riferimento per gli artisti e per i collezionisti, capace di sostenere il percorso professionale dei primi e di accompagnare i secondi nella “costruzione” della loro collezione d’arte, fornendo in anticipo informazioni imprescindibili sulle opere, gli artisti e l’andamento del mercato. Ci sono, poi, tante attività che rientrano in una quotidianità più che mai diversificata. In meno di due mesi di attività, abbiamo inaugurato la mostra di Giorgio Griffa e la collettiva Indizi contemporanei (con opere di Marco Casentini, Fabrizio Corneli, Federico Ferrarini, Emanuela Fiorelli, Paola Pezzi, Alex Pinna, Paolo Radi e Paolo Scirpa), la sede di Lugano ha prorogato la mostra di Giovanni Campus e, insieme, abbiamo partecipato a WopArt Fair e ad ArtVerona Digital. Quello del gallerista è un lavoro totalizzante: non ci si ferma mai. 14
Riccardo Steccanella è Direttore di Kromya Art Gallery di Verona. Dall’alto: Un ritratto di Riccardo Steccanella. Foto © Gabrio Tomelleri.“Indizi contemporanei”, installation view, Kromya Art Gallery, Verona. Foto © Alberto Messina, Studio Messina. Per entrambe courtesy Kromya Art Gallery.
SMALL TALK
RACCONTI VISIVI Andrea Carpita
- Carla Sollazzo Carla Sollazzo/ La tua ricerca si basa sulla forza e sulla versatilità delle forme; quali sono gli artisti che ti hanno ispirato e perché? Andrea Carpita/ Mi trovo sempre in enorme difficoltà di fronte ad una domanda simile, perché le risposte possibili sono, in realtà, due: a) fare una lista infinita di nomi; b) ammettere che questi artisti siano troppi. Probabilmente la versatilità di cui parli è un riflesso di ciò che ho appena scritto, infatti non sono mai riuscito a dare una forma ben definita al mio gusto. In oltre 10 anni di pratica pittorica ho cercato di assimilare il più possibile e sintetizzare il tutto con la mia ricerca, ma credo di riuscire a dare una vaga espressione di tutto questo soltanto da poco. Di recente ho riscoperto David Hockney. Rimango sempre senza parole di fronte alla sua apparente semplicità; una ricerca senza fine, senza tempo, eppure ancora così inseribile nel pericoloso termine “contemporaneo”. CS/ Figurativo e astratto: distinti e separati o di pari passo? AC/ Ho appena citato David Hockney che, con estrema coerenza e leggerezza, è riuscito a produrre serie di dipinti figurativi e astratti. In molte di queste opere si fa davvero fatica a capire il confine e credo non ci sia una vera e propria differenza tra queste due categorie nell’azione pittorica, piuttosto la si può trovare nell’intenzione e nella forma. Personalmente ho sempre desiderato pensare poco a tutto ciò. Mi piace invece pensare alla pittura come categoria unica e senza confine. CS/ I tuoi lavori nascono da una fotografia, si sviluppano in digitale e si concludono in pittura; come ha preso forma la tua tecnica artistica? AC/ È il frutto di una serie di riflessioni su tutto ciò che mi attrae, provo un profondo interesse per il taglio fotografico, così come per il disegno e per la pittura e ho cercato di dare forma ad un processo in grado di farmi studiare nel profondo la forma di un’immagine attraverso il medium digitale, per poi riprodurla dando la priorità assoluta alla materia pittorica. CS/ Nei Minimum Portraits affronti il genere del ritratto, portandolo all’astrazione, attraverso un sofisticato lavoro di sottrazione formale; com’è nato e come si è sviluppato questo progetto? AC/ I Minimum Portraits sono stati il mio primo approccio con il medium digitale. Erano ritratti dalle intenzioni fortemente astratte e sono stati le fondamenta di ciò che faccio tuttora. C’è una parola a me molto cara, che ritengo opportuno inserire per concludere quest’intervista: attitudine. È con i Minimum Portraits che ho capito la mia attitudine: nel momento in cui la mia pittura ha raggiunto la sua massima astrazione, ho capito che non sarei mai riuscito a staccarmi dalla mia naturale attitudine figurativa. CS/ Alla domanda “a cosa serve” (la tua arte), cosa mi rispondi?
“N
el momento in cui la mia pittura ha raggiunto la sua massima astrazione, ho capito che non sarei mai riuscito a staccarmi dalla mia naturale attitudine figurativa.”
AC/ Prima di tutto serve a me. Io dipingo per soddisfare un bisogno personale, qualcosa di molto simile ad un istinto: provo un enorme piacere nel costruire un’immagine, trasformarla in pittura ed esplorare in profondità le possibilità della materia, muovendomi all’interno del perimetro di una tela. Sento inoltre la necessità di dare vita ad un corpo di opere in grado di evocare un’atmosfera o suggerire la costruzione di un racconto interiore. Tutto ciò avviene inevitabilmente attraverso il mio sguardo, ma deve potersi riprodurre anche negli occhi dello spettatore. In questo senso, l’arte riesce in qualcosa di unico: stabilire un legame fortissimo e paradossale tra bisogno individuale e collettivo, un gesto profondamente egoistico ed egocentrico che, allo stesso tempo, vuole donarsi completamente all’umanità e all’eternità. Credo che il mio scopo sia questo, creare un legame con il mondo per condividere una visione. CACAO, 2020. Oil on linen, 140x100 cm. Courtesy dell’artista.
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SMALL TALK
UN ELEGANTE RAZIONALISMO Daniela Spagna Musso
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doro il Liberty per la sua forza dinamica e vitale, per l’ispirazione alla natura e per la sua capacità di portarci in un’atmosfera di sogno.”
Loredana Barillaro/ Daniela, quando ci siamo conosciute durante la tua residenza a Viafarini mi ha colpito il tuo particolare approccio all’architettura, me ne parli? Daniela Spagna Musso/ L’interesse per l’architettura è per me interesse per lo spazio, per la memoria, per l’anima dei luoghi, per il senso del tempo. Si è concretizzato nel mio primo lavoro di public art sugli Alberghi Diurni, gioielli dell’architettura Liberty, iniziato nel 2008 e sviluppatosi in molti anni, in collaborazione con Gino Gianuizzi e Bernardo Giorgi ed il supporto del Comune di Bologna, e nella recente ricerca del 2019 sul grande architetto milanese Piero Portaluppi, durante la residenza presso Viafarini DOCVA a Milano. Nel lavoro sui diurni con tutte le azioni, installazioni, performance, fotografie e video, ho cercato negli anni di
riaccendere la memoria su questi luoghi per ripensarli, dove possibile, in un’ottica contemporanea e tutelarli come beni culturali. Nel lavoro sul Portaluppi ho osservato e documentato con immagini fotografiche il suo operato nella città di Milano seguendo come una mappatura immaginaria nella città. Adoro il Liberty per la sua forza dinamica e vitale, per l’ispirazione alla natura e per la sua capacità di portarci in un’atmosfera di sogno, ma contestualmente sono attratta anche dal razionalismo, dalla sua eleganza nella semplicità delle linee, dalla ricerca di funzionalità. Trovo in questi spazi come un’altra dimensione, cercando, forse, di restituirla. LB/ Con la stessa curiosità, ricordo che hai indagato la città di Milano, intesa come spazio vitale, mediante l’uso della stoffa con cui hai realizzato un’installazione quasi a ricreare una veduta della città dal basso verso l’alto, una sorta di via di fuga a perdita d’occhio… DSM/ Mi piace questa tua interpretazione del lavoro Milano Liberty e ti ringrazio per questa tua visione, e così anche lasciare libera l’immaginazione e l’emozione di ogni persona. Posso dirti che questa installazione del 2019 nasce 16
- Loredana Barillaro
dal mio amore per Milano, da una grande energia e gioia. I tessuti presi nei vari mercati dislocati nei tanti quartieri della metropoli, ognuno con la sua storia; i mercati sono dimensioni in cui sento autenticità. In generale sono amante della realtà, necessaria per poi poter sognare. Penso spesso al romanzo di Italo Calvino Le città invisibili e a queste note citazioni dal libro “Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto”, “D’una città non godi le sette o le settanta meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”. LB/ Attualmente porti ancora avanti questa ricerca o stai lavorando su altro? DSM/ Sì, a fine ottobre avrei dovuto fare un’altra installazione a Milano, lavorando sempre con dei tessuti ma, per sicurezza, abbiamo deciso di rimandare. A marzo 2021 sarà presentato un mio lavoro nella mostra locale-internazionale “Note di sguardi” a Bologna, Berlino e Cervia, a cura di Gino Gianuizzi, Giovanna Sarti ed Eva Scharrer. MILANO LIBERTY, 2019. Installazione presso l’Archivio DOCVA Viafarini, Fabbrica del Vapore, Milano. Foto © Leo Torri. Courtesy dell’artista.
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GENIO ECLETTICO Flavia Tritto
“L
- Maria Chiara Wang
a percezione di se stessi e dello spazio circostante, l’accesso alla memoria, ai desideri, alle paure, tutto è alterno e totalizzante nelle notti insonni.”
della mia regione, devastata dall’avanzata del batterio xylella e dalla desertificazione. Vi è poi una riflessione sull’alterità e sull’incontro con la differenza: mettendo al centro la relazione tra un essere alieno e gli alberi ho potuto esplorare un modo diverso di rapportarsi, un (re)agire mosso da una ricerca di simbiosi e da un istinto di cura. Il lavoro è stato, infine, anche un atto di ricongiungimento tra me - ormai aliena - e la mia terra d’origine, nonché una celebrazione del valore identitario e simbolico dei nostri ulivi millenari.
Maria Chiara Wang/ Lo scorso autunno nella personale “Extensa” - a cura di Nicola Zito presso il Museo Nuova Era - è stata proposta la tua produzione video e scultorea più recente, concentrata sul rapporto Uomo-Natura. Ci puoi descrivere questo progetto?
MCW/ Un altro capitolo importante della tua ricerca è dedicato allo studio delle dinamiche dell’insonnia e alla loro concettualizzazione. Come si sviluppa questa indagine e in che modo la trasponi nelle tue opere?
Flavia Tritto/ “Extensa” è nata con il mio ritorno in Puglia, mia terra d’origine, dopo sette anni di assenza. Fulcro della mostra è stata la videoproiezione di Trust Me With Your Full Weight, filtrata da una rete per la raccolta delle olive, qui scolpita come un tronco di ulivo. Nel video una creatura misteriosa si muove per una terra apparentemente desolata, tessendo un dialogo di movimenti e forme con i suoi abitanti millenari: gli ulivi. Il progetto espositivo è nato dalla convergenza di molteplici urgenze. Vi è stata la voglia di affrontare la questione ecologica globale ripensando il rapporto tra uomo e natura e partendo dalla catastrofe ambientale
FT/ Il mio interesse per l’insonnia è iniziato quattro anni fa, quando questa è venuta a trovarmi. Sin da subito mi sono lasciata ammaliare dalle potenzialità oscure della notte, vivendola come un punto d’accesso privilegiato ai luoghi più profondi del sé. Ho iniziato così, a esperire l’insonnia come uno strumento di auto-coscienza, un’esperienza sensoriale, corporea e cognitiva che non ha eguali nelle ore diurne. La percezione di se stessi e dello spazio circostante, l’accesso alla memoria, ai desideri, alle paure, tutto è alterno e totalizzante nelle notti insonni. Il dormiveglia poi è un fenomeno unico, in cui i confini tra conscio e inconscio si cancellano attraversati da flussi di 17
pensiero ed emozioni incontrollabili. Affascinata da queste dinamiche, le ho poi incrociate con le mie ricerche in campo artistico e filosofico, trovando spunti preziosi in diverse opere e autori tra cui gli Insomnia Drawings di Louise Bourgeois, la Fenomenologia della Percezione di Merleau-Ponty e quella queer di Sara Ahmed. Questo percorso ha portato alla realizzazione di una serie fotografica e di un libro d’artista, Nocturnal Musings on One’s Self, uno scritto al contempo performativo ed analitico in cui porto il lettore nell’universo semi-onirico della mia esperienza d’insonnia. MCW/ Compatibilmente con la situazione di forte incertezza e stasi che stiamo vivendo, hai qualche progetto all’orizzonte di cui raccontarci qualche anticipazione? FT/ Come per chiunque altro, la pandemia ha completamente sconvolto i miei progetti, ma devo dire che, nonostante tutto, sto riuscendo a raccogliere alcuni frutti. Per ora, per il 2021, ho in calendario la mostra “Lo spazio vissuto” presso l’Istituto di Cultura Italiana di Tirana, un intervento performativo allo spazioSERRA di Milano, e una collettiva e una personale nel modenese. EXTENSA, installation view, detail. Courtesy dell’artista.
SMALL TALK
LIMITE, SPAZIO, MEMORIA Alice Paltrinieri
- Davide Silvioli
S
ubliminale, polimorfa, strutturale. Il lavoro di Alice Paltrinieri si distingue per il carattere radicale dei materiali impiegati e per le composizioni drastiche che, tuttavia, riescono a restituire l’esito di un’investigazione sensibile ad aspetti latenti dell’esperienza. Al fine di entrare adeguatamente nei contorni della sua opera, leggiamo le parole dell’autrice, in merito alle caratteristiche, gli sviluppi e agli orizzonti prossimi della sua ricerca.
Davide Silvioli/ Riguardo a metodologia, materiali, estetica e intenzioni, quali sono le costanti del tuo lavoro? Alice Paltrinieri/ Il limite, lo spazio e la memoria. Narro e indago lo spazio, il modo in cui è stato vissuto, il tempo che lo ha consumato e le stratificazioni che si sono formate. È una specie di raccolta dati. Non sono legata a metodologie e materiali in particolare, mi annoio facilmente. DS/ Quali sono le esperienze formative, artistiche o personali che senti abbiano influenzato più significativamente la tua ricerca? AP/ Sono cresciuta con un padre arredatore di set cinematografici e studiando scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma. Per un periodo la mia esperienza professionale si è alternata tra cinema e arte. Poi l’incontro e le collaborazioni per molti anni con importanti artisti che hanno aiutato a definire la mia ricerca. Ho affiancato quasi sempre pittori per cui il mio atteggiamento verso la pittura è di grande rispetto ma non ho mai trovato in essa qualcosa di onesto in cui riconoscermi. Molti di loro hanno contribuito in modo differente alla mia formazione con elementi che oggi fanno parte del mio lavoro: Cesare Tacchi con l’idea del concetto, Piero Pizzi Cannella con la casualità e l’imperfezione nel lavoro, Angela de la Cruz per la fisicità con il lavoro, Mauro Di Silvestre con l’armonia compositiva, Lawrence Carroll con la percezione dello spazio e della luce. Da sempre mi sono ritrovata nella struttura, nell’architettura, cominciando il mio lavoro con sculture in cemento. Un grande cambiamento posso dire sia avvenuto con la vendita della casa di famiglia due anni fa, da quel momento è cominciato un lavoro lento, profondo e intimo che mi sta portando ad una esplorazione del luogo che a volte sprofonda nella miniatura: “La miniatura fa sognare”. DS/ Attraverso quali nuovi percorsi ti sta conducendo, attualmente, la sperimentazione? AP/ L’arte necessita di una nuova possibilità di dialogo, di una riflessione partecipativa. Al momento sto dando priorità a questo bisogno, concentrando il mio lavoro sulla collaborazione con ingegneri, programmatori e sound designer per uno scambio ed uno sviluppo più articolato dei miei progetti. Questo mi dà l’opportunità di esplorare luoghi sconosciuti, dando possibilità altre ai miei lavori. A gennaio 2021 presenterò un nuovo progetto su limite e connessione, in occasione di una doppia personale in Galleria Ramo (la galleria che mi rappresenta al momento in Italia e Svizzera) mentre a febbraio 2022 esporrò un lavoro da spazioSERRA a Milano, che raccoglierà informazioni sul consumo dello spazio, attraverso sensori di presenza e batterie.
“N
arro e indago lo spazio, il modo in cui è stato vissuto, il tempo che lo ha consumato e le stratificazioni che si sono formate.”
220WSWINDOW, 2019. Vetroresina, ferro, plastica e motore, 127x25x25 cm. Courtesy Galleria Ramo.
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I
l Premio Cramum, che unisce artisti di fama internazionale ad artisti under 40, torna dopo due anni a Milano. L’ottava edizione del premio si terrà perciò il 3 settembre 2021 a Villa Mirabello di Milano. Obiettivo del premio è individuare le eccellenze artistiche e sostenere gli artisti più giovani in un momento socio-economico in cui anche l’essere giovani è un elemento di fragilità. Il direttore del premio, Sabino Maria Frassà, ha individuato quale tema dell’anno: (la) natura (è) morta? Rapporto tra egoismo e futuro; tra sostenibilità, antropocentrismo ed ecosistema. Durante la rassegna sarà nominato il vincitore assoluto della manifestazione, al quale verrà consegnato il premio. Lo stesso artista sarà inoltre invitato fuori concorso all’edizione dell’anno successivo, con una mostra site specific negli spazi dello Studio Museo Francesco Messina (o di un’altra sede museale del capoluogo meneghino). I finalisti (nel numero da otto a dodici) avranno la possibilità di prendere parte a una mostra collettiva presso la Villa Mirabello di Milano alla quale parteciperanno anche artisti di fama internazionale (fuori concorso): Bloom&me, Ludovico Bomben (vincitore premio Cramum precedente edizione), Letizia Cariello, Gianluca Capozzi, David LaChapelle, Alberto Emiliano Durante, Ingar Krauss, Fulvio Morella, Paola Pezzi, Elena Salmistraro, Carla Tolomeo. Particolarità del premio è anche mettere in contatto i finalisti con una ricca giuria di esperti del mondo dell’arte contemporanea: Valentina Ardia, Loredana Barillaro, Giulia Biafore, Paolo Bonacina, Ettore Buganza, Cristiana Campanini, Valeria Cerabolini, Jacqueline Ceresoli, Carolina Conforti, Stefano Contini, Camilla Delpero, Riccardo Fausone, Chiara Ferella Falda, Raffaella Ferrari, Antonio Frassà, Maria Fratelli, Giovanni Gazzaneo, Giulia Guzzini, Rosella Ghezzi, Pier Luigi Gibelli, Giuseppe Iannaccone, Alice Ioffrida, Gian Luigi Lenti, Angela Madesani, Achille Mauri, Fiorella Minervino, Fabio Muggia, Annapaola Negri-Clementi, Antonella Palladino, Rischa Paterlini, Francesca Pini, Giovanni Pelloso, Ilenia e Bruno Paneghini, Alessandra Quattordio, Fulvia Ramogida, Iolanda Ratti, Alessandro Remia, Elisabetta Roncati, Livia Savorelli, Massimiliano Tonelli, Nicla Vassallo, Giorgio Zanchetti, Emanuela Zanon.
Per l’immagine del Premio: opera di Carla Tolomeo, (part.). Courtesy Galleria d’Arte Contini.
Qui il link per consultare il bando
https://amanutricresci.com/8-bando-cramum-la-natura-e-morta/
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