ISSN 2283-9771
Magazine di arte contemporanea / Anno X N. 38 / Trimestrale free press
SMALL ZINE
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APRILE MAGGIO GIUGNO 2021
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SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea
OMMARIO
TALENT TALENT 3
L’ARTE DI ATTRAVERSARE LA REALTÀ Fabio Sandri - Sabino Maria Frassà
INTERVIEWS 4
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BRUTAL (CASUAL) PHOTOGRAPHY Jacopo Benassi - Valentina Tebala UNA QUESTIONE DI SEMANTICA Francesca Migone - Davide Silvioli LA PRATICA DELL’ENIGMA Iacopo Pesenti - Gregorio Raspa
SPECIAL 10
L’IMPORTANZA DI CURARE CON L’ARTE con Vincenza Ferrara, Catterina Seia - Loredana Barillaro
PEOPLE ART 12
ARTE, SGUARDI E SOTTR’AZIONE Sara Piccinini
DESIGN.ER 14
IL DESIGN DELLA GENTILEZZA Davide Crippa - Loredana Barillaro
PHOTO.&.FOOD 15
CUORE E RAGIONE Tatiana Mura - Luca Cofone
GALLERY.ST 16
LA MIA QUOTIDIANA EMOZIONE Monica Villa - Loredana Barillaro
SMALL TALK 17
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UNA LUCIDA IRONIA Giovanni Duro - Carla Sollazzo QUANDO IL SUONO SI FA ARTE Pier Alfeo - Maria Chiara Wang
Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Stampa Gescom s.p.a. Viterbo Contatti e info +39 3393000574 +39 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Sabino Maria Frassà, Gregorio Raspa, Davide Silvioli, Carla Sollazzo, Valentina Tebala, Maria Chiara Wang Con il contributo di: Sara Piccinini © 2021 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.
In copertina Giovanni Duro ESTATE MESSA A SOQQUADRO, 2020 Acrilico e collage su tela, 100x70 cm Courtesy dell’artista
TALENT TALENT
L’ARTE DI ATTRAVERSARE LA REALTÀ Fabio Sandri
- Sabino Maria Frassà
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fotografico (pavimento) quanto è posto sopra a contatto o più lontano (mobili, lampadari e soffitto). La luce perciò è lo strumento fondamentale della conoscenza. In questo senso Fabio Sandri può essere definito fotografo: l’artista cattura l’essenza della realtà attraverso la luce, ritraendo un mondo sempre sospeso, smaterializzato, fatto di impronte e ombre; la certezza sembra abitare altrove. Eppure nelle sue opere nulla è una finzione: da un lato l’artista registra le impronte lasciate dalla materia sulla carta fotografica, dall’altro riesce a fissare le ombre e le proiezioni dei corpi nella loro dimensione naturale. Le opere, spesso di grande formato, rivelano una realtà monstrum, straordinaria, che fonde la dimensione 1:1 delle impronte con il gigantismo delle proiezioni e delle ombre dei corpi. L’arte di Fabio Sandri è perciò in qualche modo rivelatrice e generosa: è un’arte corale che tenta di mostrarci l’essenza della realtà, è una sorta di abbraccio al mondo che ci circonda e di cui facciamo intimamente parte. I confini scompaiono, i contorni si sovrappongono, tutto precipita nell’opera d’arte di cui finiamo per far parte anche noi spettatori - come ad esempio in Autoritratti e Incarnato - per lasciare un segno, una vaga impronta che si confonde e si fonde con il Tutto. “Ma è possibile, lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi”, (Eugenio Montale, Amare un’ombra, 1971).
egli anni il pubblico ha imparato a riconoscere Fabio Sandri per le sue grandi installazioni ambientali e fotografiche, per lo più realizzate con le tecniche offcamera: intere stanze, sagome di esseri, tutto ciò che ci circonda viene catturato e registrato nelle sue opere. La tensione a una nitidezza e a contorni impossibili è onnipresente: tutto è sfuggente e informe. La frustrazione, dell’indefinito, tipica del lavoro di Sandri, si pone in netto contrasto con il luogo comune che vede - e soprattutto ha visto - nella fotografia il modo più verosimile per ritrarre il mondo che ci circonda. La fotografia per Fabio Sandri è altro dalla restituzione retinica, diventando lo strumento per indagare l’essenza della realtà che si rivela nell’interazione tra materia e luce. Classe 1964, l’artista si forma come pittore negli anni ’80 all’Accademia di Venezia sotto Vedova, di cui si percepisce l’influenza nell’attenzione alla tridimensionalità e al rapporto arte-spazio: le opere di Sandri invadono lo spazio e si fondono con esso perché i confini, come i contorni, non sono qualità proprie della realtà, bensì schematismi attraverso i quali l’essere umano percepisce e conosce ciò che è altro da sé. Il gesto di Sandri, a differenza di quello di Vedova, è un gesto però oggettivante: l’artista risulta regista più che attore dell’opera d’arte, si “limita” a permettere alla realtà di manifestarsi e rendersi visibile in tutta la sua complessità. Ad esempio, nel noto ciclo Stanze l’artista ricopre il pavimento di un intero spazio con carta fotografica per poi attendere che la luce e la materia si incontrino e lascino traccia. Avviene così una sorta di collasso-fusione della tridimensionalità dello spazio: l’opera registra tanto ciò che è sotto il supporto
STANZA, 2004. Prima opera di un ciclo ancora in corso. Courtesy dell’artista.
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INTERVIEWS
BRUTAL (CASUAL) PHOTOGRAPHY Jacopo Benassi
- Valentina Tebala
Valentina Tebala/ Autobiografico, diretto, brutal - o brutal casual, una definizione a cui sei affezionato. Come qualifichi il pensiero che sta dietro al tuo lavoro? Jacopo Benassi/ Non riesco a definirlo perché guardo sempre avanti e odio pensare, lo vivo totalmente giorno dopo giorno. Brutal casual è quando esci di casa per spostare la macchina in pigiama e pantofole con padelle di sugo e il vicino ti becca! Una sensazione di disagio. Io non ho questo problema e forse la mia definizione è proprio questa! Sono il tipo in pantofole che sposta la macchina e non si sente a disagio. VT/ Che tipo di artista sei: un fotografo, un performer, un concettuale? JB/ Mi sento uno scultore con la passione della fotografia che crea e distrugge, un po’ come Gordon Matta-Clark, artista che amo. Ma anche performer… che non recita mai, che cade sulle chitarre e loro suonano mentre mi fotografo in presa diretta, in una sorta di autodocumentazione live. Mi sento molto fotoreporter in trincea! Concettuale no, perché credo si debba pensare troppo per esserlo. VT/ Cosa ha rappresentato per te il Btomic, l’ambiente punk e underground in generale? JB/ Il Btomic è stato per cinque anni un punto di ritrovo per i superstiti della cultura underground. Per me è stato fondamentale perché mi sono confrontato con artisti che mi hanno stimolato alle performance che faccio ora: salire sul palco prima era impensabile, ora no! Per risponderti sul punk, ti dico che io nasco da lì a fine anni Ottanta. La mia cultura nasce da lì, nei centri sociali autogestiti (non quelli di adesso!) e nelle officine meccaniche; anche se stavo reprimendo ciò che ero e solo nel ’95 mi sono liberato da sta corda finta etero e ho detto che sono frocio. Da quel momento ho visto la mia luce (il flash) e non l’ho più mollata! VT/ Sei un autodidatta, e a parte questo non credo ti importi molto della perfezione tecnica nelle tue immagini. Tuttavia hai sviluppato presto uno stile formale piuttosto riconoscibile: il flash sparato sui soggetti (volti, corpi nudi, altrui o il tuo, piante, statue, pantofole), il bianco e nero, il taglio ravvicinato. Ecco, io noto nei tuoi scatti un grande senso estetico per il dettaglio, dove lo zoom interpreta le linee, i volumi, la texture della pelle. Roland Barthes scriveva sul lavoro di Robert Mapplethorpe: “Mapplethorpe fa passare i suoi primi piani di sessi dal pornografico all’erotico fotografando da molto vicino le maglie dello slip: (…) ora io m’interesso alla trama del tessuto”1. Ti ritrovi in queste osservazioni?
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JB/ Non credo. Mi ritrovo di più nella frase di Barthes in cui dice, guardando la foto del pronipote di Napoleone: “quegli occhi hanno visto Napoleone”! TOP! Non è vero che non amo la tecnica. Io fotografo con il flash diretto, ma ho sempre usato macchine costosissime perché amo la definizione (non amo nel mio lavoro le foto mosse o sfuocate), certo le uso come delle fotocamere da 200 euro, come quando compri le usa e getta dove c’è scritto in tre parole come fare uno scatto al buio. Diciamo che la tecnica non serve!
a anni ho scoperto che la scultura mi ispira nel fotografare corpi e viceversa; mi sono auto-ispirato non rendendomene conto. Poi mi sono fidanzato con un restauratore francese: lui è stata la causa del mio amore verso il gesso.”
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VT/ Ritorniamo sulle pantofole da te ritratte ripetutamente: rappresentano più un feticcio, un oggetto d’affezione o una tua auto-proiezione? JB/ Le pantofole sono state il mio primo contatto con il mondo omosessuale. Ho capito che ero gay attraverso loro: le avevo viste indossare al mio vicino e da quel momento non le indossai più perché pensai che se le avessero viste su di me mi avrebbero scoperto (non ero brutal casual). La cosa può far sorridere, ma per me è stato un incubo che solo dopo sono riuscito a esternare con grande rabbia! VT/ Invece, a proposito di Mapplethorpe, pure lui, come te, percepiva nella pratica fotografica una maggiore sintonia con la scultura e quindi altrettanta immedesimazione con il lavoro dello scultore. Il ritrarre spesso i gessi o la statuaria classica - che metti in relazione con i corpi veri - ci conferma questa inclinazione? JB/ Da anni ho scoperto che la scultura mi ispira nel fotografare corpi e viceversa; mi sono auto-ispirato non rendendomene conto. Poi mi sono fidanzato con un restauratore francese: lui è stata la causa del mio amore verso il gesso, che io, a differenza di Mapplethorpe, fotografo quasi sempre mezzo rotto e restaurato, perché penso alla fragilità del gesso come a quella del mio corpo. Dopo essermi rotto la gamba mi sono sempre di più innamorato della scultura, specialmente i calchi. In fondo sono stato restaurato anch’io e curato per mesi da Augustin, il mio compagno. VT/ C’è una forte componente vitalistica nel tuo lavoro: si avverte nei dettagli delle crepe sulle statue, che le umanizzano e sanno di decadenza, di verità, o nelle modalità espositive che usi per le tue mostre, nelle cornici di legno sfregiate. JB/ Come dicevo, amo la fragilità del gesso. Creo sculture che reggono le foto e poi le riporto alla loro natura: le accetto con un’ascia come si fa quando si prende un albero dal bosco o le brucio come se mi servisse per scaldarmi, metto i vetri tagliati volutamente come se fosse un gesto finale che fa uscire l’immagine. Fa entrare chi la osserva! VT/ Dopo le ultime mostre (“Vuoto” al Centro Pecci di Prato e “Past” alla Galleria di Francesca Minini a Milano) e progetti editoriali (Fags, The Belt), dove si dirigerà la tua ricerca? JB/ Intanto vorrei dire che la mostra “Vuoto” al Pecci è permanente. Mi spiego meglio: ho creato un vuoto nel mio studio, per creare poi la mostra da Francesca Minini, ricreando un vuoto dentro il Pecci. Riportando i lavori in studio ho aperto la mia mostra al Pecci che ospiterà grandi artisti nel mio… vuoto! P. S. Devo molto ad Antonio Grulli (curatore bolognese, con cui mi sono spesso confrontato e tuttora lo faccio) e alla famiglia Minini, da Francesca e Alessandra (fondamentali per la crescita del mio lavoro) a Daniela e Massimo, ovvero la persona che disse: “sono vestito brutal casual!” Grazie. R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 43.
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Da sinistra in senso orario: per tutte UNTITLED, 2019. Courtesy dell’artista e Francesca Minini.
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INTERVIEWS
UNA QUESTIONE DI SEMANTICA Francesca Migone
- Davide Silvioli
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ispetto a uno dei tratti maggioritari di tanta contemporaneità, che vede l’adozione di apparati linguistici prolissi per giustificare contenuti superficiali, la ricerca di Francesca Migone, dove i materiali - solitamente poveri - vengono sintetizzati fino all’ermetismo, catalizzando così una pluralità di significati, sembra muoversi in direzione opposta. Leggiamo, dalle sue parole, le proprietà distintive del suo lavoro. Davide Silvioli/ Quali sono state le discipline fondamentali e i momenti più costruttivi della tua formazione?
DS/ Relativamente alla tua ricerca, quali sono gli obiettivi estetici che intendi perseguire e che cerchi di raccontare?
Francesca Migone/ Sono stati svariati i momenti che mi hanno portato a quella che è la mia ricerca attuale. Sicuramente, è stato determinante per me avvicinarmi allo studio dell’arte contemporanea e delle pratiche legate alle installazioni multimediali, all’inizio dell’Accademia a Genova. Erano argomenti, per me, quasi del tutto nuovi, dato che non arrivavo dal liceo artistico e che mi hanno da subito affascinata. Ho anche avuto la fortuna di avere come docenti gli artisti Cesare Viel e Simona Barbera, oltre a Roberta Chioni, importante tessitrice, con la quale ho intrapreso uno studio parallelo dedicato alla tessitura: una tecnica meravigliosa e complessa, che accompagna la mia ricerca in modo costante. Indubbiamente, i miei precedenti studi legati al fashion design e alla moda, fatti sia alle scuole superiori che all’Accademia di Bologna, hanno molto influenzato quella che è la mia pratica, interiorizzando, in particolare, la necessità di comunicare con immediatezza un’idea.
FM/ Trovo estremamente interessante quando un elemento, anche apparentemente poco significativo o semplicemente un dettaglio di un luogo, è in grado di narrare la complessità del contesto in cui si trova. Tentare di raccontare qualcosa attraverso un intervento minimo è sicuramente un punto fondamentale della mia ricerca, ragione per cui utilizzo spesso materiali poveri. Mi affascinano molto quegli oggetti manipolati in modo quasi spontaneo, con lo scopo di renderli funzionali per un qualche tipo di lavoro e che diventano, talvolta, dei residui abbandonati a terra. Sono molto attratta da questo tipo di estetica, che da una parte riesce a raccontare la storia di un oggetto e il contesto in cui è stato creato ma che dall’altra mi dà la possibilità di avere delle suggestioni, che sono invece legate al mio vissuto. Tento quindi di lasciare sempre questa parte di indefinito nei miei lavori, motivo per cui il tipo di lavorazione che eseguo sui materiali che utilizzo è sempre molto scarno e il più possibile essenziale.
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rovo estremamente interessante quando un elemento, anche apparentemente poco significativo o semplicemente un dettaglio di un luogo, è in grado di narrare la complessità del contesto in cui si trova.”
DS/ Quali sono le circostanze, le condizioni e gli spunti che, generalmente, fanno sorgere in te le premesse per un’operazione artistica? FM/ Inizio sempre da qualcosa che mi incuriosisce, qualcosa che mi domando, che vorrei indagare e che tento di spiegarmi attraverso la ricerca. Ci sono naturalmente problematiche che mi interessano più di altre, in particolare legate a dei luoghi o a delle situazioni. Talvolta, cerco qualcosa di specifico, ma è sempre la curiosità che mi fa iniziare un lavoro. Questa è la ragione per cui nei miei lavori c’è una parte molto importante legata alla ricerca, all’esplorazione e alla documentazione, che si intreccia poi a quelle che sono le mie impressioni e suggestioni. DS/ Anche non necessariamente appartenenti alla storia dell’arte, hai dei riferimenti particolari? FM/ Non è facile dirlo, ho diversi punti di riferimento ascrivibili a diversi ambiti. In questi ultimi mesi è stato fondamentale per me il testo Walkscapes, di Francesco Careri. Inoltre, la fotografia dà sempre un contributo importante al mio lavoro. Più che artisti o correnti artistiche di riferimento, è per me più semplice riferirmi a progetti o lavori specifici. Comunque, naturalmente, ci sono anche degli artisti che amo particolarmente, come Eva Hesse, Joseph Beuys e Luciano Fabro, oltre che tutto il lavoro di Maria Lai.
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DS/ Ritengo che il tuo lavoro abbia la rara facoltà di esprimere efficacemente, attraverso forme minime, scenari complessi. Dove ti sta portando, attualmente, la sperimentazione? FM/ Ti ringrazio molto. Al momento sto cercando di lavorare di più con lo spazio, come base di indagine della mia ricerca e in ugual modo come studio per creare una maggiore relazione e interazione tra gli oggetti che creo e l’ambiente in cui vado ad inserirli. Questo sia che si tratti di uno spazio espositivo, sia che si tratti di uno di un’altra tipologia. Inoltre, sto lavorando particolarmente sulla destrutturazione di diverse tecniche tessili tradizionali, non solo attraverso l’utilizzo di materiali differenti da quelli che normalmente si dovrebbero utilizzare, ma anche dal punto di vista della manipolazione, accentuando o decostruendo specifici passaggi tecnici. Da sinistra: PERCORRERE LA CITTÀ, 2020. PORTUALE, 2019. Foto © Mattia Meirana. Per entrambe courtesy dell’artista.
INTERVIEWS
LA PRATICA DELL’ENIGMA Iacopo Pesenti
Gregorio Raspa/ Iacopo, nella tua pittura il confine tra inconscio e razionalità è costantemente posto in discussione. Con i tuoi dipinti offri scampoli di realtà, per poi traghettare la visione in una dimensione alternativa. Quali sono, nel tuo caso, gli stimoli che suggeriscono la via da seguire nel processo di costruzione dell’opera? Iacopo Pesenti/ Non saprei dire molto a riguardo. Spesso rimango impressionato da un brano musicale, dal personaggio di un romanzo, da un frame cinematografico. Ma questo mi succede anche osservando, ad esempio, la griglia di un tombino. Mi interessa la catena di queste impressioni. Nei casi più fortunati può accadere che, partendo da simili pretesti, si inneschi un moto di esagerazioni e allontanamenti, spesso costellato di ripensamenti per me fondamentali. In questo senso, vedo nell’errore un improvviso e stimolante slittamento. GR/ Da qualche anno lavori come assistente personale di Mario Raciti. In che modo questa importante esperienza ha influito sul tuo percorso di ricerca? IP/ In Mario Raciti ho incontrato un artista di fine intelletto e di rara umanità, che ha saputo attraversare con discernimento il mare delle tendenze e dei movimenti su cui andava rifondandosi il fare artistico del suo tempo. Non si è lasciato incantare da certe sirene teoretiche. In questo vedo un esempio per molti fra noi.
- Gregorio Raspa
GR/ Seppur fondato sul dialogo tra lo spazio e l’energia vitalistica delle figure, il tuo linguaggio pittorico esprime un forte rigore formale, palesato soprattutto per mezzo dell’uso sapiente della geometria e della prospettiva. Quanto contano, nella tua pratica operativa, il controllo sulla composizione e il lavoro di progettazione preliminare necessario al suo raggiungimento? IP/ Direi che l’apparenza rigorosa delle mie immagini rifletta una mia rigidità caratteriale, della quale per ora non potrei privarmi nel dipingere. Da questa hanno origine attriti e dissonanze che sono fondamentali per me. In sostanza, mi adopero per predisporre adeguatamente un campo entro cui una certa tensione possa apparire nitidamente. GR/ Con la serie di dipinti su tavola dal titolo Iperuranio (2016-2018) hai inaugurato un percorso di sperimentazione pittorica rivelatosi decisivo nell’ambito del processo di definizione della tua ricerca. Mi diresti qualcosa in più sulla genesi di questo progetto? IP/ Iperuranio è stato per me il tentativo di disintossicarmi dall’aridità di una certa nozione dell’arte, e scongiurare nel possibile le mie fascinazioni intellettuali di studente. In quest’ottica, ho vissuto tale esperienza come il contrario di un esperimento. Ad ogni modo, credo di aver innescato un meccanismo che mi ha portato a uscire dal sentiero iniziale. Da allora mi impegno per coltivare questo aspetto erratico del lavoro. Per non annoiarmi. 8
GR/ Nella recente serie Enigma (2018) affronti in maniera ancora più decisa il rapporto con il mistero e con l’ignoto esasperando, ad esempio, la tensione metafisica del lavoro, già presente nel ciclo Iperuranio. In tal senso, il titolo stesso della serie, di dechirichiana memoria, sembrerebbe fornire più che un indizio a conferma di quanto appena detto. Mi parleresti di questi lavori? IP/ Personalmente ritengo che tutta la pittura sia metafisica, nella distanza che essa presuppone, e nella sua inevitabile interdipendenza con la realtà comune. Quanto a me, si è forse acuito soltanto il mio senso di responsabilità rispetto ai temi e ai soggetti che mi hanno accompagnato negli ultimi anni. E il tentativo di condensare questi ha comportato d’altro canto un naturale svuotamento. In questo senso, il verde di Enigma è un silenzio assordante, entro cui ogni presenza incide più gravemente. GR/ Se osservati nell’insieme, i singoli dipinti che compongono il ciclo Enigma sembrano definire, come in un grande e apparentemente illogico mosaico, porzioni complementari di uno spazio unico. In esso le figure si succedono, con infinite combinazioni, quasi seguendo una comune traccia sotterranea. Questo senso di interdipendenza fra le opere - ai miei occhi riscontrabile, in senso lato, anche nell’impianto concettuale del lavoro e nel rapporto sintagmatico tra gli elementi in causa esiste realmente? Se sì, che valore assume nell’economia complessiva della serie? IP/ La musica, con i suoi colori e strutture, è per me un’inesauribile fonte di ispirazione. Con Enigma, suggestionato da alcune composizioni di Bach, ho desiderato una serie di dipinti che potesse svilupparsi come un insieme di variazioni su un tema. Confesso che, nella mia fantasia, mi sento un musicista. Penso alla metafora dei Quadri a un’esposizione di Mussorgsky. Vorrei realizzare una serie che mi emozioni come un album dei Genesis. GR/ Sotto l’aspetto formale, il Leitmotiv di questo ciclo pittorico è senz’altro rappresentato dal verde intenso e luminoso impiegato per gli sfondi, di cui parlavi poc’anzi. Un colore quasi ipnotico, steso in maniera uniforme sulla tela. Come è nata l’idea del suo utilizzo prevalente e sistematico? IP/ Già in Iperuranio si notano campiture monocromatiche dalle tinte decise, significative di forze sconosciute che incurvano i margini del quadro come a deformare lo stesso sguardo osservante. Ho sentito il richiamo di quel verde, divenuto via via significativo di un’interiorità sconfinata e sacra, entro cui anche al pensiero più imbarazzante è concesso di incarnarsi, assumendo la dignità di un monumento. GR/ Con il progetto Enigma la tua indagine condotta sul rapporto, complesso e affascinante, tra realtà fenomenica e visione dell’immaginario, ha senz’altro raggiunto un livello di maturità pienamente definito anche se, suppongo, non ancora definitivo. In tal senso, qual è la prospettiva futura della tua ricerca pittorica? IP/ Enigma è stato per me un momento di isolamento meditativo che non credo si sia del tutto concluso. Ad ogni modo, sto lavorando per ridefinire e ampliare il mio repertorio in modo da poter dare corpo a soggetti più sfuggevoli. Sento il bisogno di spazi aperti, e sempre più spesso la mia attenzione si rivolge al cielo. Staremo a vedere.
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irei che l’apparenza rigorosa delle mie immagini rifletta una mia rigidità caratteriale, della quale per ora non potrei privarmi nel dipingere. Da questa hanno origine attriti e dissonanze che sono fondamentali per me.”
Da sinistra: IPERURANIO, 2017. Tecnica mista su tavola, 90x100 cm. ENIGMA, 2018. Tecnica mista su tela, 90x50 cm, collezione privata. Per entrambe courtesy dell’artista.
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SPECIAL
L’IMPORTANZA DI CURARE CON L’ARTE Loredana Barillaro
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he l’arte curi, nel vero senso della parola, pare un fatto di cui tutti ormai sono convinti. Sono sempre più frequenti, infatti, le ricerche che ci dimostrano quanto l’arte e la sua fruizione contribuiscano a tutelare non più soltanto la sfera emotiva delle persone, ma che siano in grado di agire anche sul funzionamento dell’organismo da un punto di vista medico. A che punto dunque sono gli studi in merito? Quanto è effettivo il connubio fra le sfera dell’arte e quella della salute? Come possono rivoluzionarsi questi due settori nell’ibridazione reciproca degli approcci? E quali i risultati che si avvertono?
VINCENZA FERRARA
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he le arti abbiano un ruolo importante nell’ambito della salute è riportato nella letteratura scientifica come ci indica, anche, il documento dell’OMS del novembre 2019 “Health Evidence Network synthesis report” che ha riportato e descritto oltre 3000 esperienze e i risultati che hanno evidenziato il ruolo determinante delle arti nell’ambito della prevenzione delle malattie, la promozione della salute e il trattamento e la gestione delle patologie che si manifestano nel corso della vita. Dal 1994 l’OMS ha sollecitato la necessità di introdurre specifici programmi nelle scuole e in altri ambienti di apprendimento collegati alle Skills for life per prevenire situazioni di stress e promuovere il benessere quale elemento fondamentale per raggiungere un corretto stato di salute. Alcune ricerche hanno evidenziato che l’“esposizione” alle arti permette la riduzione dello stress, l’incremento dell’autoriflessone e della consapevolezza di sé normalizzando anche la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna o i livelli di cortisolo. Alcune metodologie che utilizzano l’arte hanno dato risultati positivi nell’ambito delle disabilità cognitive, della riabilitazione neurologica e nuovi studi collegati ai neuroni specchio suggeriscono buone previsioni anche per la riabilitazione motoria. Le stesse “arti” sono considerate discipline importanti nell’ambito dell’Educazione di base e Continua in area Medica e Sanitaria. Anche in Italia si stanno introducendo le Medical Humanities come approccio utile per migliorare la relazione di cura e la limitazione dello stress e il Burnout nel Personale di Cura. L’adozione di metodi che considerano l’arte come strumento per l’apprendimento e la promozione del benessere possono
aiutare i professionisti della cura a migliorare le proprie competenze e capacità di empatia, resilienza e tolleranza dell’ambiguità per rispondere anche a situazioni particolari come la Pandemia che si sta vivendo. Gli stessi professionisti possono avere maggiore consapevolezza delle proprietà “benefiche” dell’arte e utilizzarle per la cura in termini “olistici”. Studi di Neuroscienze in corso, d’altro canto, stanno aiutando il settore dei Beni Culturali a comprendere come il Patrimonio possa essere utile per un maggior coinvolgimento dei visitatori, per l’apprendimento, per la promozione del benessere in linea con pratiche internazionali. Diverse sono le esperienze, sia nel settore della formazione degli operatori che nell’ambito della promozione del benessere, che iniziano a dare dei risultati e a incentivare un’attenzione su questa tematica. Gli studi ci dovrebbero proiettare nell’avviare delle sperimentazioni ambiziose anche in Italia affinché il Patrimonio Culturale possa essere utile per la promozione della salute e del benessere e che vedano la collaborazione attiva interdisciplinare. Vincenza Ferrara è Responsabile del Laboratorio di Arte e Medical Humanities della Facoltà di Farmacia e Medicina, Docente di Arte in Educazione Medica e Salute all’Università La Sapienza di Roma. Un ritratto di Vincenza Ferrara. Courtesy Vincenza Ferrara.
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SPECIAL
CATTERINA SEIA
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e di azione, per interventi sistematici e sistemici, basati su competenze, pratiche e politiche integrate, per affrontare le vulnerabilità sociali, di salute, aumentare la resilienza e valorizzare le potenzialità. In questo anno orribile la parola cura è state centrale. Abbiamo compreso che la Salute non è compito esclusivo della Sanità, ma di ogni politica. E il mondo culturale, seppur in ginocchio, ha trovato nuove vie per incontrare i suoi pubblici, per ridisegnarsi pensando al benessere delle persone e delle comunità, in una rinnovata consapevolezza dell’urgenza di tradurre il valore delle Arti nello sviluppo umano e sociale, presupposto per lo sviluppo sostenibile, raggiungendo un pubblico ampio, con esperienze profonde e trasformative. Molte sono le pratiche nel nostro Paese, ma faticano a diventare politiche. Con un ruolo di advocacy, come CCW intendiamo sostenere la trasformazione in corso, con attività di ricerca (ne abbiamo condotte alcune per far emergere progetti e soggetti operativi in tema nel paese), sia accompagnando policy makers nell’innovazione metodologica attraverso interventi di ricerca-azione legati a sfide specifiche (dalla prima infanzia all’invecchiamento attivo, alla cura dei curanti). Ma attenzione, usciamo dalla retorica dell’aspersione della Cultura come incenso per il Benessere, strumentalizzando. La profondità e la qualità dell’esperienza sono determinanti. Per chiarire che cosa intendiamo come welfare culturale, abbiamo curato la prima definizione del neologismo nell’Atlante Treccani e per favorire lo sviluppo delle competenze abbiamo appena lanciato una School per preparare ai cross over culturali, ovvero le relazioni sistemiche e sistematiche tra la Cultura, le Arti e altri ambiti di policy, in primis Salute che saranno gli assi delle politiche delle prossime decadi.
ono così convinta di questo valore, da avervi dedicato in ricerca-azione gli ultimi dieci anni del mio lavoro, nell’umanizzazione degli ospedali, nei processi di risemantizzazione delle scuole come primo libro di testo, nella rinascita delle aree interne, come nella rigenerazione urbana e sociale. Percorsi che sono diventati casi studio. Come la Fondazione Medicina a Misura di Donna, all’ospedale Sant’Anna di Torino, il più grande per la ginecologia e ostetricia in Europa, rinato attraverso le arti, le istituzioni culturali e gli artisti in un grande progetto di alleanza tra Cultura e Salute varato nel 2011. Da questa esperienza ho fondato con altri pionieri del welfare culturale, come risposta alla crisi causata dal primo lockdown, esattamente un anno fa, un centro di ricerca. Il CCW-Cultural Welfare Center ha sede operativa in due luoghi che uniscono idealmente Nord e Sud, due luoghi simbolo dell’innovazione sociale a Torino in Spazio BAC, centro culturale di prossimità al Distretto Sociale Barolo, cittadella della solidarietà operativa dal 1823 e al Farm Cultural Park di Favara (Ag), centro culturale indipendente di riferimento internazionale. Luoghi del possibile. in cui le arti sono risorsa per l’empowerment delle persone e delle comunità, fattori cardine per il benessere biopsicosociale. Alla mia chiamata hanno risposto figure cardine a livello nazionale che provengono da ambiti professionali diversi, abituati a ibridare le competenze per affrontare la complessità, come Alessandra Rossi Ghiglione, Andrea Bartoli, Annalisa Cicerchia, Giuseppe Costa, Luca Dal Pozzolo, Elisa Fulco, Enzo Grossi, Pier Luigi Sacco, Flaviano Zandonai, Irene Sanesi. I fondatori si accompagnano a una Knowledge Community crescente formata da studiosi, practitioner, esperti. Perché un centro studi sul tema? La sfida nella quale siamo immersi, la più grande dal dopoguerra, segna una cesura con il passato per la profondità degli effetti, evidenti e previsti. In un mondo che già viveva criticità importanti sul piano delle disuguaglianze e dello sviluppo sostenibile, la crisi globale pandemica ha prodotto gravi accelerazioni di scala e di impatto con disagi visibili e invisibili che interessano la Salute e la coesione sociale. La faglia delle disuguaglianze si è ampliata ed espone le persone svantaggiate e più fragili al pagamento del prezzo più alto in termini economici, sociali, umani. Le regole imposte dalla gestione sanitaria del Covid-19, con il distanziamento fisico e il drastico ridimensionamento del tessuto relazionale e culturale, sia nello spazio privato che in quello pubblico, incide profondamente su tutti trasformando lo stile di vita, esacerbando emozioni, modificando legami e intaccando valori. La capacità stessa di reagire e ricostruire orizzonti di futuro è sfidata dagli impatti prodotti dal Covid sia sul piano del benessere individuale che sui modelli culturali con cui pensare e realizzare la necessaria trasformazione. In questo orizzonte che è di crisi sanitaria, sociale, economica e culturale, l’Arte e la Cultura costituiscono una risorsa strategica in grado di offrire saperi, metodi, strumenti ed energie a una ripartenza e a una rifondazione sistemica costruita intorno al valore della persona umana per una società della cura. Da sempre le Arti e la Cultura contribuiscono a nutrire le capacità di pensiero e immaginazione, le energie emotive e il benessere psicosociale, le competenze relazionali e sociali su cui si fonda la capacità umana di far fronte alle crisi e sviluppare il potenziale dei singoli e delle comunità. Il più recente studio dell’OMS sul valore delle Arti per il benessere e la Salute (OMS, novembre 2019 che come CCW abbiamo tradotto in italiano su autorizzazione OMS) le conferma come importanti risorse per la cura, la promozione di stili di vita sani e la costruzione di equità e di qualità sociale e sostiene l’esigenza di sviluppare un approccio di welfare culturale trasversale alle politiche in campo di Salute, Sociale, Educazione e Cultura. La trasformazione in corso di ogni sistema - culturale, sociale, sanitario, economico, educativo, le linee guida degli Sdgs politiche EU, il piano nazionale di ripresa e resilienza - aprono uno spazio inedito di innovazione
Catterina Seia è Presidente di CCW-Cultural Welfare Center, Co-Founder e Vicepresidente di Fondazione Fitzcarraldo e Fondazione Medicina a Misura di Donna. Un ritratto di Catterina Seia, a sinistra, all’Ospedale Sant’Anna di Torino.
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ARTE, SGUARDI E SOTTR’AZIONE Sara Piccinini
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li interrogativi, gli scarti dello sguardo, i cortocircuiti, le corrispondenze, gli svelamenti appartengono a ognuno di noi e assumono forme diverse nel momento in cui non si impone una lettura univoca, corretta, definitiva.”
S
crive Ludwig Wittgenstein: “In arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente”. Questo pensiero, questo sentire, sono parte naturale del mio approccio alle arti, della speciale relazione che scatta, prende forma e si deposita quando entro in contatto con questo tipo di dispositivo - e che può annidarsi quasi ovunque, sulla parete di una galleria, nella piazza di una città, nelle pieghe di una roccia. Gli interrogativi, gli scarti dello sguardo, i cortocircuiti, le corrispondenze, gli svelamenti appartengono a ognuno di noi e assumono forme diverse nel momento in cui non si impone una lettura univoca,
corretta, definitiva. Quando ho iniziato a lavorare alla Collezione Maramotti nel 2007 ero incuriosita dalla particolare modalità di visita che si stava mettendo a punto per la sezione permanente: gratuita ma su prenotazione, accompagnata ma non guidata, per un numero ridotto di visitatori per volta e con una durata media di oltre due ore. Tutto piuttosto distante da quello che avevo conosciuto fino a quel momento e concepito in funzione di un desiderio di condivisione e fruizione della raccolta con caratteristiche molto precise. La motivazione, da parte degli ospiti, a programmare una visita, a raggiungere appositamente un luogo fuori dal centro storico di Reggio Emilia, a prendersi il proprio tempo - un mutuo impegno, nostro e dei visitatori, a dare forma a un appuntamento non casuale né fuggevole. La disponibilità ad essere accompagnati da persone che offrono sintetiche informazioni sulla storia della collezione e che cercano di adattare modi e dialoghi sul percorso interpretando i diversi interessi e tensioni di chi hanno di fronte, lasciando ampio spazio al rapporto intimo e personale con le opere. Per chi conduce le visite si trattava, e ancora oggi si tratta, in fondo, quasi di una performance. Alcuni visitatori hanno faticato a comprendere perché non venissero rilasciati copiosi e rassicuranti flussi di informazioni verticali, generose spiegazioni storicocritiche di quello che avevano davanti, ma la maggior parte di loro ha apprezzato questa insolita esperienza di relazione con gli spazi e le opere, la possibilità di restare in silenziosa contemplazione, la libertà di chiedere qualcosa di più su uno specifico artista o di condividere riflessioni personali. Nella prima sala dell’esposizione permanente ad accogliere gli ospiti si trova una frase di Walter Benjamin sul collezionare (insieme alle didascalie minimali delle opere, che rappresentano l’unica forma di testo esposto lungo il percorso): “Il motivo più profondo del collezionista può essere forse così circoscritto: egli intraprende una lotta contro la dispersione. Il grande collezionista originariamente è colpito dalla confusione, dalla frammentarietà in cui versano le cose di questo mondo (…) Il collezionista riunisce ciò che è affine, in tal modo può riuscirgli di dare ammaestramenti sulle cose in virtù della loro affinità o della loro successione nel tempo”. Penso che in parte questo concetto si possa declinare anche rispetto al legame esclusivo emotivo, intellettuale, spirituale - che ogni individuo intreccia con le opere d’arte. Ognuno, a suo proprio modo, tende a riunire ciò che è affine, a creare connessioni per limitare la dispersione di immagini, di pensieri e di suggestioni. Nel 2019 siamo entrati in contatto diretto 12
PEOPLE ART
con il caleidoscopico universo di Carlo Mollino, architetto, designer, fotografo, personalità massimamente multiforme e inafferrabile del secolo scorso. Enoc Perez, pittore contemporaneo da sempre interessato alle architetture come ritratti e incarnazioni delle utopie, anche di chi le aveva concepite, rivolge per la prima volta il suo sguardo all’interno e dipinge uno scorcio del salotto della casa di Mollino in via Napione a Torino. Il quadro entra nella nostra Collezione e nasce l’idea di sviluppare una mostra che nel 2020 diventerà “Mollino/Insides” (in corso fino al 4 luglio 2021), con un corpus di nuove opere pittoriche di Perez e fotografie di Mollino e di Brigitte Schindler, di cui intercettiamo il lavoro grazie a Fulvio Ferrari (Direttore del Museo Casa Mollino), in cui affiorano gli enigmi racchiusi nella Casa. Anche Mollino, che pare non abbia mai considerato se stesso come un artista e che ha firmato pochissime delle innumerevoli fotografie che ha scattato lungo tutto il corso della sua vita, è stato un collezionista. Una delle sue raccolte più conosciute è quella da cui originano le settanta immagini esposte nei nostri spazi: una miriade di corpi femminili che la fotografia proietta in una realtà altra. Ogni dettaglio di queste fotografie è infatti minuziosamente concepito per consegnare le modelle molliniane a una dimensione di esaltazione estetica e di costruzione di un’immagine ideale del femminile. Uno studio, una riflessione filosofica, un’esplorazione della bellezza della natura per indagare, qui e ora, il senso profondo dell’esistenza passata, presente e futura. Un mistero, quello di Mollino, da attraversare per corrispondenze sottili e sempre con la ragionevole consapevolezza di non poterlo davvero afferrare, né descrivere. Durante il lavoro su questo progetto una frase di Mollino è apparsa ai miei occhi, con la sintesi di uno statement e la piccola vertigine di una mise en abyme, a riallacciarsi in modo circolare al pensiero da cui sono partita: “La migliore spiegazione dell’opera d’arte è la sua silenziosa ostensione”. Sara Piccinini è Direttrice della Collezione Maramotti di Reggio Emilia. A destra: Un ritratto di Sara Piccinini. Foto © Chiara Cottafavi. Courtesy Sara Piccinini.
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DESIGN.ER
IL DESIGN DELLA GENTILEZZA Davide Crippa
- Loredana Barillaro
LB/ Quanto è importante un “buon” design nella vita quotidiana delle persone? DC/ Il “buon” design dovrebbe aspirare ad essere importante nella vita delle persone, questo per definizione intrinseca alla disciplina del design. Disciplina che si occupa di interpretare e di rispondere ai bisogni fisici ed emotivi delle persone, muovendosi così tra i due grandi aforismi storici “la funzione, che bella forma” (A. Castiglioni) e “la forma, che bella funzione” (Alchimia) in un equilibrio instabile come solo la vita può essere. LB/ Raccontami dei progetti che stai seguendo in questo momento.
Loredana Barillaro/ Davide, qual è l’indole che emerge di più dal tuo lavoro?
LB/ Quanto pensi debba contare una certa impronta artigianale nel design contemporaneo?
Davide Crippa/ Il “mio” lavoro è sempre un “nostro” lavoro perché amo condividere e lavorare in team. È per questo che fin da inizio carriera ho sempre firmato i progetti semplicemente come Ghigos o come DHOC - Design for Hospitable City per le ricerche universitarie. Oppure più recentemente come Design Differente nelle sperimentazioni sull’economia circolare e digital fabrication. Probabilmente anche un lavoro che nella scelta di rinunciare all’io per un noi immagina un’altra via per il design, suggerisce un ultimo ismo, il “non-protagonismo”.
DC/ Il disegno industriale nasce con l’industria (e l’utopia dei grandi numeri) ma il design nasce molto prima. Il design nasce dalla ricerca di risposte a bisogni fisici e psicologici, è più ancestrale e si lega al “saper fare” tipico dell’artigiano. L’artigianato quindi svolge uno dei ruoli principali nella transizione del gusto e delle dinamiche d’uso contemporaneo. Dinamiche che vedono nell’autosufficienza a scala locale e nel ritorno della produzione dentro le città la risposta per trasformare le metropoli in “città dei 15 minuti”. 14
DC/ Mi sto occupando di progetti che sono anche processi, cercando quei temi che mi sembrano centrali nella mia disciplina. Progetti di rigenerazione nella periferia milanese, che mi piace chiamare “urbanistica della gentilezza”, come la costruzione del distretto di Repubblica del Design e come l’uscita del libro #regeneration. A volte poi i temi della rigenerazione si mischiano ai temi della sostenibilità e responsabilità e così nascono progetti come Da Cosa Nasce Cosa che lancia una sfida agli abitanti del quartiere: “voi raccogliete kili di plastiche e noi restituiamo kili di design”. Il progetto Da Cosa Nasce Cosa trasforma così la plastica raccolta in “sedute di cortesia” (per il quartiere Bovisa) e oggetti di pubblica utilità (per il quartiere di Lancetti-Isola); il primo lascito di plastica ci è stato fatto dall’associazione Repubblica del Design smantellando l’installazione Monumento del Design del 2019. Progetti di inclusione come EchoSkatePark lo skatepark per ipovedenti pensato per SkateparkItaly e realizzato con gli scarti di produzione e i rifiuti del quartiere. Progetti sulla sostenibilità come l’elettrodomestico Ecotrix pensato per la start-up Frieco che si occupa di rifiuti. E non ultimo per importanza Design Differente un progetto imprenditoriale che apre a Milano il primo centro nella città (e probabilmente in Italia) che trasforma i rifiuti: diventati materiali prima e design dopo. Design Differente è una “fabbrica leggera” dedicata ai temi dell’economia circolare ed è il primo esempio di un format possibile per aprire centri di produzione a scala locale. Questi luoghi guarderanno a temi del futuro - come appunto l’economia circolare - basandosi sul patrimonio e sulla tradizione nel design, e sulla costruzione delle macchine utensili che l’Italia possiede. Un’idea imprenditoriale basata sul riuso e sul riciclo e ispirata dalla creatività. Davide Crippa è Architetto e Co-Founder di Ghigos Ideas. Dall’alto: al centro Davide Crippa con il team di Ghigos Ideas. ECHOSKATEPARK, SkatePark modulare per ipovedenti. Per entrambe courtesy Ghigos Ideas.
PHOTO.&.FOOD
CUORE E RAGIONE Tatiana Mura
Luca Cofone/ Tatiana, con le tue foto vuoi trasmettere messaggi importanti, ricordo in tal senso le serie Odi et amo dedicata all’anoressia - che ho trovato sensazionale e di grande impatto emotivo - e Save the Planet. Vuoi raccontarci di questi progetti e di quelli futuri? Tatiana Mura/ La caratteristica delle mie foto è quella di trasmettere un messaggio attraverso l’immagine, e in quest’ottica sono nati i miei progetti Odi et Amo e Save the Planet. Il primo, mostra itinerante, è stato realizzato per affrontare un tema molto delicato senza ricorrere alla strumentalizzazione della figura umana che in questo caso vive un profondo disagio legato anche al proprio aspetto fisico. In realtà in questo progetto il protagonista non è il cibo ma la forchetta, elemento ricorrente che, di volta in volta, viene rappresentata imprigionata, incatenata, vittima dei suoi stessi desideri e rifiuti, in una lotta tra ragione e cuore da cui non riesce mai ad affrancarsi da sola, esattamente come per tutte le vittime dei disturbi alimentari. In Save the Planet, invece, il cibo torna protagonista per sensibilizzare nei confronti dell’inquinamento, con polpi soffocati dalla plastica e uova/pianeta Terra sgretolati. I prossimi progetti vedono un’associazione di cibo con grandi opere pittoriche e il cibo abbinato a disegni realizzati da me. LC/ La Fotografia è considerata Arte, sei
- Luca Cofone
d’accordo? Che qualità deve possedere una fotografia per essere valutata come tale? TM/ Secondo il dizionario, Arte è qualsiasi attività in cui studio, estro personale, conoscenze tecniche, metodo, si fondono per creare un’opera, descrizione che ben si addice alla fotografia in quanto capace di arrivare al cuore di chi la guarda, rendendo interessanti particolari che agli occhi dei più possono sembrare banali, stimolando alla riflessione, come mezzo di informazione e conoscenza. Ma anche nella sua forma più comune, ma non ultima per importanza, congelando espressioni sui volti dei nostri cari che, così facendo, non rischiamo di dimenticare col passare del tempo. LC/ Con il lockdown ci siamo riversati in rete, trovandoci sommersi da corsi online di ogni tipo e di ogni cosa, anche di fotografia. Credi che siano utili, credi che si possano insegnare lo stato d’animo e le sensibilità di una foto? TM/ Il lockdown ci ha immersi ancora di più in rete, costringendoci a rapporti virtuali anche con le persone più care pur di colmare le distanze, quindi credo che tutte le iniziative nate per impegnare il tempo e soprattutto la mente siano da elogiare, di qualunque tipo; nel male necessario qualcuno può aver scoperto interessi mai considerati prima o finalmente può aver trovato il tempo da 15
dedicare a progetti lasciati nel cassetto. In particolare avvicinarsi alla fotografia stimola a riscoprire quello che ci circonda, ma anche noi stessi, è una porta che si apre verso una dimensione tutta da svelare, e che ognuno poi interpreterà a modo proprio. Come diceva il grande fotografo Henri Cartier-Bresson “fotografare è mettere sullo stesso piano mente, occhio e cuore”. LC/ Il tuo lavoro non si limita alla realizzazione di immagini di food a destinazione commerciale, ogni tuo lavoro vuole “dire” e rappresentare, me ne parli? TM/ La mia fotografia è iniziata come food photography classica, partendo dalla mia passione per la cucina, con collaborazioni con ditte del settore poi, parallelamente, si è evoluta verso una forma più astratta, mi sono resa conto che il cibo poteva essere un mezzo per trasmettere un messaggio, che con uno scatto potevo stimolare una riflessione o suscitare una risata senza cadere nella banalità, così sono nati i miei progetti e tutti gli scatti che mi caratterizzano. Tatiana Mura è Food Photographer. Da sinistra: ODI ET AMO. SAVE THE PLANET. Per entrambe courtesy © Tatiana Mura.
GALLERY.ST
LA MIA QUOTIDIANA EMOZIONE Monica Villa
- Loredana Barillaro
Loredana Barillaro/ Monica, quando è iniziato il tuo percorso di gallerista? Monica Villa/ Ho aperto la galleria Villa Contemporanea a settembre 2012 dopo una breve esperienza come curatrice della project room di un’altra galleria monzese. La mia passione per l’arte viene da lontano, ho lavorato per più di dieci anni con Emi Fontana a Milano; la mia formazione artistica parte da lì. La decisione di aprire uno spazio tutto mio è maturata nel tempo, volevo mettermi in gioco e provare a muovere i primi passi da sola. LB/ Quali sono gli artisti con cui lavori, e che genere di arte prediligi? MV/ Lavoro principalmente con artisti giovani, amo la sperimentazione e mi sento affine a quegli artisti che perseguono una ricerca, che riescono a stimolare la mia curiosità e la mia capacità critica. Non mi importa il linguaggio che scelgono, mi importa la forza con la quale si esprimono. Tra gli artisti che amo e che rappresento ci sono Thomas Scalco, Elisa Cella, Adi Haxhiaj, Saba Masoumian, Valentina Perazzini, Elisa Leonini. Sono molto felice e anche orgogliosa di aver mostrato artisti che, negli anni, hanno ottenuto un certo riconoscimento come Francesca Ferreri, Eugenia Vanni, Cosimo Veneziano. LB/ Che tipo di rapporto instauri con i collezionisti? MV/ Alcuni mi conoscono dagli inizi e mi sostengono, con loro c’è un rapporto di stima reciproca e di affetto. Alcuni, conosciuti in fiera, mi hanno poi aperto la porta del loro mondo. Amo visitare le loro collezioni perché raccontano molto, una collezione dice molto di più di mille parole! LB/ Cos’è che ti piace del tuo lavoro? MV/ Amo l’arte in tutte le sue manifestazioni; questo lavoro mi permette di emozionarmi, di aprire la mente, di scoprire nuovi punti di vista. Mi piace pensare alla galleria non come un luogo chiuso, autoreferenziale, piuttosto come uno spazio aperto al confronto e alla sperimentazione. Negli anni all’attività espositiva si è affiancata anche una programmazione di eventi performativi con poeti e performers. Mi piace l’aspetto della scoperta, meno quello commerciale. Ritengo che l’arte sia la manifestazione più alta della creatività umana, non potrà cambiare il mondo ma, sicuramente, lo renderà migliore!
Monica Villa è Direttrice della Galleria Villa Contemporanea di Monza. Dall’alto: Un ritratto di Monica Villa. Thomas Scalco, SILERE, 2020. Installation view. Foto © Viviana Costa. Per entrambe courtesy Villa Contemporanea.
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SMALL TALK
UNA LUCIDA IRONIA Giovanni Duro
- Carla Sollazzo
“È
il nostro organismo, quello che alcuni, a torto o a ragione, considerano il “nostro tempio”, che reagisce agli stimoli esterni, la vita biologica che influenza quella psichica e viceversa.”
Carla Sollazzo/ Signore e Signori è il titolo di una serie di piccole tele, fatte di “parti mancanti”, cosa raccontano queste ultime e cosa raccontano, invece, le parti “presenti”? Giovanni Duro/ La principale parte “mancante”, se si pensa ai classici ritratti, è lo sguardo. Gli occhi delle figure ritratte appaiono socchiusi, in alcuni casi completamente chiusi ad indicare il guardare “oltre”, nel profondo delle cose di questo mondo, i veri mutamenti e le cose invece immutabili che si celano a chi guarda senza sapere o poter vedere. Le “parti presenti” sono le pennellate fluide dei colori acrilici, quasi acquerellati, contrapposti al segno grafico dato dai pennarelli. Le parti anatomiche ritratte, invece, sono spesso ricoperte da eritemi o altre manifestazioni di lesioni cutanee. È il nostro organismo, quello che alcuni, a torto o a ragione, considerano il “nostro tempio”, che reagisce agli stimoli esterni, la vita biologica che influenza quella psichica e viceversa. CS/ “Essere o non essere”: cosa scegli
tu e cosa fai scegliere alla società che rappresenti nelle tue opere? GD/ Il dubbio amletico resta attuale. Lo possiamo vedere soprattutto in questi tempi pandemici. Shakespeare rende Amleto un coacervo di ambiguità e conflitti interiori; se andiamo a ben vedere è il ritratto dell’uomo in ogni epoca storica. Riallacciando questa breve introduzione alla mia ricerca artistica, ho scelto che le mie opere possano essere “diari visivi” del mio cammino di uomo nella vita, e l’ho fatto da quando ho iniziato a dipingere, a sedici anni; una disciplinata e costante ricerca artistica, che mi ha salvato dal “mondo” facendomi rimanere in esso. Della società che rappresento nelle mie opere, faccio scegliere tutto quello che resta al di fuori di questo Limes; a volte ad esempio il sarcasmo è necessario, l’ironia invece la considero quasi sempre necessaria. CS/ Vivere e lavorare in Calabria: quale tra le tue opere rappresenta al meglio questa tua decisione? GD/ Chi sceglie di rimanere o di 17
ritornare a vivere e lavorare in una società disfunzionale, com’è quella calabrese, sa che ha un prezzo da pagare. Da quattro anni, la Cooperativa Sociale di cui sono Vicepresidente ha in gestione i servizi integrati del Museo Civico di Taverna, la cittadina natale di Mattia Preti: ecco, in Calabria svolgo sì un lavoro precario, ma anche bellissimo. Intendevo fare proprio questo quando ho scelto di ritornare in Calabria: lavorare in un settore in cui ho investito anni in formazione e che in questo particolare caso, abbraccia l’arte, la cultura e il turismo. Uno dei temi in cui è più evidente la mia voglia di tornare “a casa” è costituito dai paesaggi che dipingevo qualche anno fa: strani edifici non finiti, in cemento e oro o con bande colorate a mascherare piloni e travi con le anime di ferro a vista; ancora oggi nella serie Avamposti ci sono alcuni richiami visivi a quei paesaggi. L’Arte è Vita e se lo si desidera veramente, la Vita può essere Arte. L’INIZIO DEL VIAGGIO, 2020. Acrilico, collage e pennarelli su tela, 90x80 cm. Courtesy dell’artista.
SMALL TALK
QUANDO IL SUONO SI FA ARTE Pier Alfeo
“L
avorare con il suono, studiandolo, liberandolo da una connotazione prettamente musicale, mi offre la possibilità di inoltrarmi nei suoi meandri profondi dov’è possibile scindere la valenza emotiva, o causale, dalle caratteristiche morfologiche e comportamentali.”
- Maria Chiara Wang
nato un rapporto viscerale con il suono e con le tecnologie che poi mi ha spinto ad ascoltare musica sperimentale, ad appassionarmi alle avanguardie, a produrre dischi, e ad esibirmi in diversi club e festival europei. Ho vissuto in città molto stimolanti, come Bologna, Milano, Rimini e, negli ultimi tempi, Berlino, dove ho avuto modo di ampliare a tutto tondo i miei interessi nei confronti dell’arte. MCW/ Musica e arte sonora, come si combinano questi aspetti nella tua ricerca?
Maria Chiara Wang/ Quando e come è iniziato il tuo rapporto con la musica e la tecnologia? Pier Alfeo/ Il mio percorso è iniziato all’età di 15 anni quando, incuriosito dal campionamento musicale, mi divertivo a registrare e a manipolare su cassette brani hip-hop trasmessi da MTV. Quelle stesse miscelazioni le utilizzavo la sera, insieme a degli amici, per ballare la breakdance all’entrata della nostra scuola. La tecnologia mi ha dato la possibilità di coltivare la vena creativa, pur non avendo possibilità economiche. Da lì è
PA/ Lo studio sul suono è ciò che lega le due aree creative che con il tempo ho imparato a coltivare parallelamente; lo scambio tra queste pratiche è sempre molto forte e agisce in entrambe le direzioni. A monte, lavorare con il suono, studiandolo, liberandolo da una connotazione prettamente musicale, mi offre la possibilità di inoltrarmi nei suoi meandri profondi dov’è possibile scindere la valenza emotiva, o causale, dalle caratteristiche morfologiche e comportamentali. Questo processo mi consente l’accesso a molteplici applicazioni e una consapevolezza grazie alla quale posso mallearlo e indirizzarlo in funzione della visione d’insieme che voglio raggiungere nell’opera finale, musicale o artistica che sia. MCW/ Che applicazioni trova la tecnologia nel tuo lavoro? 18
PA/ La mia risposta a questo tipo di domanda evolve nel tempo parallelamente allo sviluppo della tecnologia. Il processo è interessante perché, così come cambia la tecnologia, cambia anche il nostro modo di interagire con essa, con i relativi pro e contro. Se penso alle nuove frontiere del Machine Learning e dell’Intelligenza Artificiale mi rendo conto che dal punto di vista creativo si potrebbe già parlare di rapporto collaborativo con i mezzi tecnologici. Ho sempre avuto uno scambio con le possibilità tecnologiche che, la maggior parte delle volte, ha veicolato il mio processo creativo, la direzione da prendere per arrivare ad esprimere un concetto, o un’emozione. Oggi mi rendo conto più che mai che il risultato finale si genera insieme, collaborando; così come ascoltare un suono suggerisce delle visioni, anche un algoritmo, una serie di algoritmi o un particolare modello di apprendimento automatico, ti spinge verso dei limiti che possono risultare decisivi nella creazione di un output artistico. Tuttavia preservare un pensiero umano è inevitabilmente sano, si parla quindi di collaborazione e non di sostituzione. PRINCIPLE OF ORGANIZATION, 2019 e INTERFERENCES QUARTET, 2019. In mostra al CAMUSAC di Cassino. Courtesy dell’artista.
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JR | LA FERITA PALAZZO STROZZI, FIRENZE DAL 19 MARZO AL 22 AGOSTO 2021
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