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CULTURA - Iraq: nel Paese delle «Mille e una notte» - Tarquinia: nel cuore della Tuscia - Tornati dall’inferno di Nikolajewka - Il Museo di Castelvecchio - SPETTACOLI - Piccolo teatro di Milano: Prometeo, il Titano amico degli uomini - Teatro Olimpico di Vicenza: da Euripide a Rousseau - SALUTE - Dieta Mediterranea... e campi 100 anni SCIENZA - Neuroradiologia: viaggio nel cervello alla ricerca del male - SPORT - Il tiro con l’arco - TERRITORIO - Santa Maria Valverde: «Tra storia e natura» - SEGNALIBRO

VERONA

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G I O R N A L E E D I TO DA L LO S T U D I O E D I TO R I A L E G I O R G I O M O N TO L L I

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W W W. V E R O N A - I N . I T



Cultura

IRAQ

Nel Paese delle «Mille e una notte» L’invenzione della scrittura segnò per l’uomo il passaggio dalla preistoria alla storia. Avvenne in Mesopotamia, fra il Tigri e l’Eufrate, all’alba della civiltà

Nella terra dei due fiumi sorsero le città di Ninive, Nimrud e Babilonia che fu uno dei più importanti centri culturali e commerciali del mondo antico

di Alessandra Motta L’attuale Iraq è l’antica Mesopotamia, la fertile piana tra i fiumi Tigri ed Eufrate abitata da sumeri, assiri e babilonesi: il suo nome significa appunto “terra tra i fiumi”. Qui, tra l’VIII e il VII millennio a.C., l’uomo iniziò a coltivare i cereali. Dapprima venivano sfruttate le piogge, poi si iniziarono a costruire rudimentali sistemi di irrigazione, vasche di raccolta e canali per controllare l’acqua dei fiumi.

Verso il 4000 a.C. nacquero le prime città: mentre altrove l’uomo viveva ancora in capanne, l’antico popolo della Mesopotamia costruiva i primi centri urbani, come Ur e Uruk, che divennero città ricchissime al centro di fertili terreni i cui prodotti venivano venduti in cambio di oro e pietre preziose, dando così inizio ai primi traffici commerciali. In questa terra si sviluppò una delle più grandi conquiste culturali dell’uomo: la scrittura. Nata nel 3400 a.C. per documentare i rapporti commerciali, i trasferimenti di prodotti e di bestiame divenne ben presto veicolo per raccontare le imprese dei re e i miti. Gli antichi sumeri scrissero “L’epopea di Gilgamesh”, la più arcaica forma di letteratura giunta in frammenti sino ai nostri giorni: preannuncia le grandi leggende della mitologia greca e

contiene anche una straordinaria anticipazione del Diluvio universale poi narrato nella Bibbia. Ma non è tutto. Una civiltà complessa aveva bisogno anche di regole. Furono i sumeri i primi ad inventare una legge scritta, che veniva a regolamentare in modo chiaro per tutti norme, permessi e divieti. La cultura, la scrittura e le leggi dei sumeri vennero assorbite dai nuovi conquistatori: i ba-

Figure miniate (Manoscritto arabo,1224, Baghdad)

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Cultura Durante la Prima guerra mondiale l’Iraq (in mano all’Impero ottomano) è occupato dagli inglesi e nel 1920 viene affidato in mandato al Regno Unito

Tavoletta del IV millennio a.C. ritrovata ad Uruk: una delle più antiche tracce di scrittura

Il dragone cornuto, emblema di Marduk, il dio adorato nel tempio dell’Esagila in Babilonia

bilonesi. Il re babilonese Hammurabi (1792-1750 a.C.) emanò il codice che porta il suo nome: 282 articoli che dettavano le regole della convivenza civile, dal furto al divorzio. Lo splendore delle città mesopotamiche durò a lungo, in una notevole successione di popoli e regni. Nella terra dei due fiumi sorsero le capitali degli assiri: Ninive, Nimrud e Babilonia, la metropoli che fu il centro culturale e commerciale del mondo antico, una città con una storia millenaria, così ricca e splendida da entrare nel mito. Gli aborriti, arrivati in Mesopotamia attorno al 1900 a.C., scelsero un centro sull’Eufrate come loro capitale. Si chiamava Babilonia, da “Bab-ili”, porta del dio. Iniziarono così le dinastie dei babilonesi con l’avvicendarsi di popoli e sovrani che la resero magnifica: da Nabucodonosor II, che regnò dal 604-562 a.C., ad Alessandro Magno, che vi morì nel 323 a.C. Ci fu un tempo in cui la città era attraversata da due canali e 24 grandi viali, aveva 54 templi e 600 cappelle. Noi ne conosciamo lo splendore dai racconti degli antichi, che descrivevano con stupore palazzi e giardini, come quelli pensili che, secondo la tradizione, vennero costruiti per la leggendaria regina Semiramide: spazi alberati creati su tetti e terrazze, sostenute da colonnati e volte, bagnati con l’acqua dell’Eufrate. Erano considerati una delle sette meraviglie del mondo antico. LA TORRE DI BABELE

Un cumulo di mattoni è quanto resta oggi di un’altra meraviglia di Babilonia: l’impressionante torre Etemenanki, chiamata anche Torre di Babele, alta 90 metri. Era formata da 7 terrazze e coperta di decorazioni; in cima, il tempio del dio Marduk. La fama di Babilonia è entrata anche nella tradizione ebraico-cr istiana. Infatti sotto

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Nabucodonosor gli ebrei vennero deportati a Babilonia. Fu il periodo della “cattività babilonese”, finita nel 539 a.C. Con il declino politico di Babilonia nuovi conquistatori si impadronirono della Mesopotamia: persiani, parti, seleucidi. Ma l’antico Iraq era sempre ricco e le sue città fiorenti. LA CONQUISTA DELL’ISLAM

Di fronte a queste corti raffinate si trovarono gli ultimi conquistatori della Mesopotamia: le tribù di beduini venuti dalla penisola arabica, i combattenti in nome dell’Islam. All’inizio i conquistatori musulmani si stabilirono in campi fortificati, poi in pochi anni i campi divennero città. E nacque la metropoli che doveva diventare il centro del mondo islamico, la sede del califfo e la capitale di un impero vastissimo che andava dall’Asia al Mediterraneo: Baghdad. La città fu fondata nel 762 sulle rive del Tigri dal califfo Al-Mansur che la chiamò “Bag Dad,” dono di Dio. Era in un punto strategico sulle vie carovaniere e marittime, grazie al porto di Bassora posto all’incrocio tra Oriente e Occidente. Basti pensare che a Baghdad si cominciò a produrre anche la carta: un’arte appresa dai Cinesi. Il nuovo materiale, che sostituiva pergamena e papiro, veniva poi venduto fino in Europa. L’importanza della città aumenta con il nipote di Al-Mansur, il califfo Harun Al-Rashid. La sua fama fu tale da farne uno dei protagonisti de “Le mille e una notte”, la raccolta di favole compilata dal XV al XVIII secolo. Harun, nella raccolta, è il prototipo del buon governante, che gira in incognito per la città per ascoltare le lagnanze del popolo. LO SVILUPPO DELLE SCIENZE

Nella realtà Harun era il sovrano di una corte magnifica, un uomo colto che fondò il nucleo della prima università pubblica, la “Casa della sapienza”, che divenne il centro culturale dell’Islam. Qui si svilupparono le scienze, la medicina, l’astronomia e la matematica; si traducevano opere dal greco, dall’ebraico e dal sanscrito.

Chi voleva un libro se ne faceva “copiare” uno dagli scrivani del mercato. Lo splendore di Baghdad fu travolto prima delle guerre civili e, poi, dall’invasione dei Mongoli. Vennero distrutte le opere di irrigazione ereditate dalle popolazioni mesopotamiche compromettendo la fertilità della regione. Baghdad diventò città di provincia dell’Impero ottomano; della capitale dei califfi non è rimasto quasi nulla, solo due monumenti: un palazzo dei califfi e un edificio che ospitava un’università. LA STORIA DEL XX SECOLO

Durante la Prima guerra mondiale l’Iraq (in mano all’Impero ottomano) è occupato dagli inglesi e nel 1920 viene affidato in mandato al Regno Unito. Nel 1921 diventa un regno, con a capo re Faisal. L’indipendenza arriva nel 1032 con la fine del mandato inglese. Dal 1926 incorpora la regione settentrionale di Mussul, abitata da curdi che da allora chiederanno l’autonomia, con guerriglie e rivolte. La monarchia mantiene una politica filoccidentale. Nel 1958 c’è un golpe di militari nazionalisti al governo di Abd al-Karim Qasim, nel ’63 un altro colpo di Stato militare. Nel ’68 un nuovo golpe: si insedia il generale Ahmed Hassan al-Bakr, leader del Ba’th, il partito socialista panarabo. Nel 1979 Saddam Hussein arriva alla direzione del Ba’th e dello Stato. Nel 1980 Saddam Hussein attacca l’Iran per il controllo dello Shatt al-Arab, il fiume che porta al Golfo Persico. Ha il sostegno dei Paesi occidentali e dell’Urss. La guerra dura otto anni e fa 400 mila morti. Nell’agosto del 1990 l’Iraq invade il Kuwait. L’Onu vara sanzioni economiche e autorizza l’uso di “tutti i mezzi necessari” per imporre il ritiro. Si forma una coalizione, sotto la guida degli Stati Uniti. È la Guerra del Golfo. L’operazione “Tempesta del deserto” parte il 17 gennaio del 1991, a fine febbraio l’Iraq è sconfitto. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu impone il disarmo, ma la tensione continua e, il 20 marzo 2003, gli angloamericani danno inizio ad un nuovo conflitto.

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Cultura

VIAGGIO A TARQUINIA

Nel cuore della Tuscia Gli etruschi, un popolo avvolto nel mistero. Si unirono agli italici dopo aver lasciato l’Oriente. Gente che amava la vita e che contribuì alla nascita di Roma I celebri Cavalli alati di terracotta custoditi nel Museo Nazionale di Tarquinia risalenti al IV secolo a.C.

di Giorgio Montolli

dall’erosione prodotta dalle acque meteoriche sui terreni argillosi. In questa zona gli etruschi hanno lasciato preziose testimonianze, soprattutto a Vulci, Tuscania e Tarquinia, la meta del nostro itinerario.

Tre giorni nel cuore della Tuscia, quella parte di territorio che coincide in gran parte con la provincia di Viterbo e che ha come confini a nord la Toscana, a ovest il mare Tirreno, a Sud Roma, a est l’Umbria e la Sabina. Qui si trovano le vaste zone pianeggianti della Maremma viterbese, colline di media altitudine, numerose sorgenti e due laghi di origine vulcanica: Bolsena e Vico. Lungo la media valle del Tevere è visibile il fenomeno dei calanchi derivato

LA CIVITA Venerdì sera. Secondo una leggenda non lontano dal fiume Marta, dove ora si trova il tempio dell’Ara della Regina, da un solco aperto dall’aratro di Tarchon fa capolino un essere divino, un fanciullo

L’incontro tra due civiltà Dall’Egeo dall’Ellesponto e dai porti dell’Asia Minore uomini coraggiosi dirigono le loro navi là dove cala il sole. Portano nel Dna le tracce di grandi culture: quella egizia; quella dei sumeri, degli assiri e dei babilonesi; quella degli ittiti. Di questo periodo, che nella storia greca prende il nome di Età di transizione (1100-800 a.C.), sappiamo che fu un tempo di sconvolgimenti e di devastazioni dovute ai misteriosi popoli del mare prima, ai dori poi. Nell’VIII secolo a.C. il flusso migratorio si fa evidente in Italia e Omero con i suoi poemi riflette il clima del tempo proteso alla conquista di nuovi spazi. I coloni sbarcano a Ischia nel 730 a.C.. Due decenni più tardi fondano Kyme, la Cuma dei romani, gettano poi le fondamenta di Siracusa, Leontini, Catania, Sibari, Crotone e Taranto. Nasce la Magna Grecia. In questa Italia dal 1200 a.C vivono popoli di origine indoeuropea che nel IX secolo (età villanoviana) iniziano a produrre ceramiche con decorazioni geometriche; viene anche

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estratto il ferro, abbondante tra l’Arno e il Tevere. Nell’VIII secolo a.C. c’è un rilevante mutamento nel modo di pensare e di agire di queste genti. È l’incontro tra due civiltà a dar vita agli etruschi: quella italica dei latini, dei fallisci, delle popolazioni umbre e sabelliche e quelle dell’Asia minore e della Grecia. Mentre gli italici villanoviani seppellivano le ceneri dei loro morti dentro urne biconiche, o a forma di capanna, poste dentro un cratere scavato nel terreno, nel periodo successivo all’arrivo dei primi coloni in Campania si ricorre all’inumazione con corredo. L’interesse che gli uomini venuti da Oriente hanno per le risorse minerarie dell’Elba, delle colline Metallifere, dei monti della Tolfa innesca un significativo processo di acculturazione e di differenziazione sociale. Grazie al commercio del metallo le popolazioni italiche acquisiscono quei beni di lusso che costituiscono la peculiarità delle tombe più orientaleggianti del VII secolo a.C., ma anche nuove tecnolo-

gie per la lavorazione della ceramica e quindi, verso l’inizio del VII secolo a.C., la scrittura, che ancora oggi, con la sola eccezione di quella ripetitiva delle epigrafi funerarie, rimane un mistero. Nasce in Etruria una classe sociale che intensifica i commerci marittimi con la Grecia e con l’Oriente accumulando la ricchezza necessaria alla costruzione delle città, allo sviluppo dell’artigianato: un processo che continua fino a tutto il VI secolo a.C., periodo in cui la signoria etrusca controlla un territorio che va dalle Alpi, con la Lega delle Dodici città nella Valle Padana, al golfo di Salerno, con la Lega delle Dodici città campane. Il V secolo segna per gli etruschi l’inizio del declino. Vengono sconfitti a Sud da Cumani e Siracusani, dalle popolazioni sannitiche mentre a nord sono le popolazioni galliche a premere. Nel IV secolo a.C. c’è una rifioritura nei commerci ma inizia anche la conquista sistematica dell’Etruria da parte dei romani (g.m.).

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Cultura L’interesse che gli uomini venuti da Oriente hanno per le risorse minerarie dell’Elba, delle colline Metallifere, dei monti della Tolfa innesca un significativo processo di acculturazione e di differenziazione sociale

di nome Tagete, giovane nell’aspetto ma saggio, che rivela agli etruschi la loro religione. In quel luogo fu costruita Tarchna. L’attuale Tarquinia non si sovrappose alla Civita etrusca ma nacque nell’Alto Medioevo su un colle vicino. Per questo i ruderi della Civita si possono vedere percorrendo in auto per sei chilometri la strada asfaltata in direzione Monte Romano, quindi prendendo sulla sinistra una sterrata e avanzando per circa due chilometri tra salite e discese. Il tempio etrusco del IV secolo a.C. è il più grande giunto fino a noi: possiamo osservare ciò che resta della monumentale scalinata e immaginare le statue in terracotta a

Notizie utili Itinerario: Verona - Tarquinia (Viterbo). Durata: 3 giorni e 2 notti. Percorso: Casello Verona Sud/A4 per Milano / dopo due chilometri A22 direzione Modena / da Modena A1 per Bologna / da Bologna ancora la A1 per Firenze / da Firenze autostrada per Livorno / uscita Rosignano / via Aurelia / Grosseto / Montalto di Castro / Tarquinia. Chilometri: 1270, di cui 1120 per il viaggio (a/r) e 150 per gli spostamenti in loco. Tempi di percorrenza: per raggiungere la meta 6.30 ore, compresa 1 ora per le soste. Periodo consigliato: primavera e autunno. Vie di comunicazione: Porto di Civitavecchia, 10 minuti; aeroporto di Roma Fiumicino, 45 minuti. Dormire e mangiare Hotel: All’Olivo*** (0766 857318). S. Marco*** (0766 842234). Sporting*** (0766 842350). Tarconte*** (0766 856141). Aurelia** (0766 856062). G.H. Helios**** (0766 864615). La Torraccia*** (0766 864375). Velca Mare*** (0766 864380). Miramare* (0766 864020). Pegaso Palace Hotel**** (0766 810027). Torre del sole*** (0766 812242). Paradiso** (0766 814104). Campeggi: Europing (0766 814010 - 0766 840597). Riva dei

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Tarquini (0766 814027). Riviera degli etruschi (0766 814080). Affittacamere: Le Palme (0766 858667). Bed & breakfast: Cortifior (066 868505). Etrusca (0766 857750). Il Giardino (348 7720405). I Tre Portali (0766 840770). Ocresia (0766 855419). Tuscia (0766 856255). Agriturismo: Il Poderino (0766 855553). Podere Giulio (0766 814136). Musei visitabili: Museo nazionale al Palazzo Vitelleschi, Necropoli etrusca, Museo della ceramica, Museo della Civiltà contadina, Museo diocesano di Arte sacra, Etruscopolis. Oasi protette: Saline. Visite guidate: ARCA-Viterbo (368 3524552). AGTUR-Viterbo (349 2934058). Sull’annuario turistico dell’APT di Viterbo, distribuito gratuitamente presso musei e agenzie di Tarquinia, si possono reperire numerose informazioni. Il numero di telefono dell’APT di Viterbo, agenzia di Tarquinia, è 0766 856384; e.mail: infotarquinia@aptviterbo.it. Una miniguida dal titolo “Tuscia, Tarquinia, Tuscania, Canino, Montalto di Castro, Vulci”, in italiano e inglese, distribuita gratuitamente nei musei, permette un primo approccio al territorio.

ornamento di cui rimangono i celebri cavalli alati conservati nel Museo nazionale Tarquiniense. Il verde delle colline, il blu del mare all’orizzonte i colori del tramonto riflessi dalle rovine creano un clima davvero magico. (Orario per la visita alla Civita: dalle 9 alle 13 e dalle 16 alle 18. Sabato dalle 9 alle 12.30). IL MUSEO Sabato mattina. Il Museo Archeologico Nazionale Tarquiniense ha sede nel Palazzo Vitelleschi, capolavoro architettonico del Rinascimento. Entriamo da Piazza Cavour e ci troviamo in un cortile a pianta trapezoidale con porticato ad arco acuto, nel mezzo un pozzo ottagonale. Il museo, con i suoi tre piani e numerose sale è impegnativo: occorrono più di tre ore per visitarlo. Si possono ammirare lapidi etrusche e romane, sarcofagi e rilievi, reperti villanoviani, ceramiche in bucchero, etrusco-corinzie, etrusco-attiche, di età ellenistica e romana. Vasi ispirati al quotidiano o al divino, ai giochi atletici, ai miti greci. Si vedono pitture funerarie autentiche, staccate per motivi di conservazione dalla vicina necropoli di Monta-

rozzi e riportate su tela. Troviamo i famosi cavalli alati che decoravano il frontone del tempio dell’Ara della Regina, oggi considerati il simbolo della città, modellati in terracotta così fine da sembrare oro. (Il museo è aperto dalle 9 alle 19; durante l’estate anche il sabato dalle 21 alle 24. Giorno di chiusura: lunedì. Telefono: 0766.856036. Qui è possibile acquistare per 6 euro il biglietto cumulativo che permette l’accesso anche alla necropoli). LA NECROPOLI Sabato pomeriggio. Tra la collina dove si trova la Civita, a Ovest, e quella dove sorge la città medievale, a Est, su un terzo rilievo centrale c’è la necropoli. Per arrivare si percorre per 3 km l’unica strada in direzione ovest che esce dal centro storico di Tarquinia. In questo tratto di terra, distribuite su un’area di 750 ettari, si trovano circa seimila tombe scavate nel macco, il masso calcareo locale, una sessantina delle quali accoglie le più arcaiche pitture parietali della civiltà italica (dal VII al II secolo a.C.). All’entrata della necropoli viene distribuita una piantina con il percorso dei loculi

LIBIA Quando il viaggio si prepara in libreria Da sempre viaggiare significa soprattutto conoscenza. Da questa consapevolezza è nata a Verona l’iniziativa “Turisti non a caso”, grazie allo sforzo congiunto del Caffè letterario della Libreria Rinascita e dell’agenzia di viaggi Darma. Il primo fornisce il supporto culturale, che si traduce in incontri di formazione prima della partenza; la seconda mette a disposizione l’espe-

rienza logistica per un viaggio fuori dalle solite mete, ricco di spunti culturali e di incontri significativi, assicurando una guida locale competente e il maggior livello di confort possibile, pur in situazioni in cui la rete di strutture turistiche a volte è molto semplice. Da 19 al 25 ottobre la meta è la Libia. Visto dal satellite questo Paese appare come una sottile striscia verde che

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Cultura visitabili. Entriamo e raggiungiamo la tomba della Caccia e Pesca (VI secolo a.C.), che i manuali identificano come una delle più belle. Una scalinata ricavata sotto un cumulo di terra ci porta verso il basso; lo spettacolo è meraviglioso: i blu, i verde oliva, i rossi, i neri sembrano freschi, come se fossero stati applicati da poco; sulle onde arricciate del mare color cobalto da una barca giovani pescatori gettano le reti mentre cacciatori lanciano i loro dardi verso uccelli variopinti che numerosi volano nel cielo. Continuando nella vista rimaniamo stupiti per la presenza di leoni, pantere, gazzelle e antilopi. Le figure esprimono un godimento aristocratico e sereno della vita:

banchetti, feste, scene di caccia, matrimoni, danze, giochi all’aperto, competizioni sportive e scene erotiche. Osservando questi capolavori splendidamente conservati, la raffinatezza delle vesti, cerchiamo di immaginare la bellezza di Tarquinia: doveva essere vivace, colorata, pervasa dalla ricchezza, dal soffio della civiltà e della cultura. E infatti da questa città, nel VII secolo a.C. partì un uomo ricchissimo, un pioniere di nome Luchmon che divenne il quinto re di Roma e che passò alla storia come Tarquinio Prisco: un etrusco che trasformò i villaggi sparsi sui sette colli intorno a una palude formata dal Tevere in un luogo urbano che sarebbe diventato il centro di un grande impero.

(La Necropoli è aperta dalle 8.30 alle 19.30 nel periodo estivo e dalle 8.30 alle 16.30 nel periodo invernale. Giorno di chiusura: lunedì. Telefono 0766.856308). LE SALINE Domenica mattina. Percorriamo la litoranea in direzione Sud, verso Tarquinia Lido, per entrare nella Riserva naturale di popolamento animale “Le Saline”, che si estende per 325 ettari. Vediamo alcune folaghe, ma qui si possono osservare aironi cinerini e rosati, fenicotteri, cormorani, martin pescatori e tutti quegli uccelli migratori che dal Nord Africa si spostano in Europa e viceversa. Ci sono anche volpi, istrici, nutrie, ricci, scoiattoli e testuggini. (Per informazioni: Corpo forestale dello Stato, telefono: 0766 864605).

Distribuite su un’area di 750 ettari, si trovano circa seimila tombe scavate nel macco, il masso calcareo locale, una sessantina delle quali accoglie le più arcaiche pitture parietali della civiltà italica (dal VII al II secolo a.C.)

TUSCANIA E RITORNO

divide un mare blu da un altro giallo-ocra: da un lato il Mediterraneo, dall’altro il deserto del Sahara. La Libia è stata fin dall’antichità lo spartiacque fra il mondo dell’Africa bianca e mediterranea, familiare a noi occidentali fin dal tempo di greci e romani, e quello misterioso e sconosciuto dell’Africa nera. Sulla terra non si notano strade o grossi insediamenti urbani, sembra una sterminata distesa di sabbia e rocce. Eppure su questa esile striscia di verde che delimita il golfo della Sirte, su quelle coste – e anche tra quelle sabbie – si sono sviluppate nell’arco dei millenni

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civiltà fiorenti e grandiose di cui si sono conservate inconfondibili tracce protette dalle sabbie del deserto, che solo in tempi recenti, grazie anche al contributo dell’archeologia italiana, sono state portate alla luce e valorizzate. Oggi il viaggiatore che giunge in Libia trova un paese tranquillo e ospitale, dove le città e i suoi abitanti emanano un’atmosfera di grande semplicità e dove il fascino degli splendidi reperti storici e la bellezza dei suoi ambienti naturalistici appagano pienamente lo sguardo e la mente di chi li osserva. Prima tappa del viaggio il nord

Domenica pomeriggio. Sulla via del ritorno vale la pena fare una piccola deviazione per Tuscania per visitare due capolavori del periodo altomedievale: le stupende chiese di San Pietro e di Santa Maria Maggiore che vale veramente la pena di vedere.

Tarquinia, Tomba degli Auguri (540-520 a.C.)

della Libia, la Tripolitania e la Cirenaica, alla scoperta delle culture fenicia, greca e romana, ma anche araba e bizantina. Raggiunta in aereo Tripoli, dopo la sistemazione e il giro di orientamento del primo giorno, lunedì 20 si prosegue visitando a Sabratha l’imponente teatro romano ricostruito dagli italiani negli anni ’30. È il luogo dove si svolse il celebre processo al filosofo Apuleio. La sera volo per Bengasi, in Cirenaica, che alcuni esperti concordano nell’identificare come il giardino delle Esperidi dove secondo il mito crescevano le mele d’oro. Martedì 21 visite a Cirene, il più grande insediamento greco, e Apollonia, con i mosaici delle prime chiese cristiane. Il quarto giorno del viaggio è dedicato alla visita di

Quaser Libia, alla sua basilica Bizantina, a Tolemaide e al fortino turco-italiano di Tocra. Quindi ritorno a Tripoli. Giovedì 23, quinto giorno, visita a Leptis Magna, uno dei luoghi più affascinanti della Libia, sia per la bellezza del luogo che per la ricchezza delle vestigia, prima fenicie, poi cartaginesi ed infine romane, che la videro al massimo splendore. Fu anche patria di imperatori, ma rimase sepolta dalla sabbia per secoli finché gli italiani, agli inizi del Novecento, la riportarono alla luce. Il sesto giorno è dedicato a Tripoli. Saranno visitate la Medina, la Moschea, la Cattedrale e ovviamente il souk. Chi fosse interessato al viaggio può contattare l’Agenzia Darma telefonando al numero 045. 8001383.

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Cultura

PAGINE DI STORIA

Tornati dall’inferno di Nikolajewka Mai più la guerra. Partiti per il fronte Russo nel 1942 tre veronesi sopravvissuti alla ritirata raccontano alle nuove generazioni quei terribili giorni.

di Giovanni Drogo Quel campanile di San Michele Extra, emblema della loro Verona. Ai suoi piedi i giovani alpini Giuseppe detto Lalo, Arturo e Raffaello. Lasciato con un arrivederci, quel campanile, alla partenza per la naja e con la prospettiva di andare a combatterla sul serio, la guerra. Sognato quasi quanto la mamma e la morosa nelle notti insonni della gelida steppa russa e del placido Don, ghiacciato a meno 40°. Riabbracciato alla fine di quella che la storia ha tramandato come ritirata di Russia, ma che forse fu proprio una «straordinaria avanzata all’indietro», come la chiama Alfio Caruso nel suo libro «Tutti vivi all’assalto», pubblicato a 60 anni dalla ritirata, mentre a Verona, per celebrare la ricorrenza, la locale Sezione dell’Associazione nazionale alpini (Ana) ha compiuto a fine luglio una marcia sui luoghi della ritirata, da Rossosc a Nikolajewka. Un libro di testimonianze, quello di Caruso, che ricostruisce appunto, come fecero già Giulio Bedeschi, Mario Rigoni Stern e tanti altri autori, quella ritirata iniziata la sera del 17 gennaio 1943 e conclusasi a Nikolajewka il 26, quando gli alpini dell’Armir (Armata italiana in Russia) provati da fatica, freddo, fame, sete, ferite nel

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«In treno fino al confine con l’Ucraina, passando per l’Austria e la Polonia, e poi a piedi per 400 chilometri fino a Karabut, sul Don. E a 60 anni da quei tragici eventi c’è chi ripercorre le strade della ritirata per non dimenticare l’orrore della guerra e chi dalla Russia non ha più fatto ritorno

Settembre 1942. Sosta durante una marcia di avvicinamento al fiume Don

corpo e nell’animo, combattuta una decina di battaglie lungo il cammino riuscirono a sfondare la linea russa e salvarsi. Sessant’anni dopo, nella sede del Gruppo Ana di San Michele Extra, Giuseppe Morandini detto Lalo, classe 1922, Arturo Peruzzi, classe 1922 e Raffaello Benoni, classe 1921, tutti di San Michele, della Divisione Tridentina, del Sesto reggimento Alpini e del Battaglione Verona, rievocano quei giorni che segnarono la loro vita. «Avevamo vent’anni, gli anni più belli sono andati via così», attacca Morandini. Erano partiti per il fronte russo alla fine di luglio 1942 dopo cin-

que mesi di addestramento alle armi e marce di allenamento sulle colline di Asti. In treno fino al confine con l’Ucraina, passando per l’Austria e la Polonia, e poi a piedi per 400 chilometri fino a Karabut, sul fiume Don (anche se gli alpini in origine erano destinati alla zona montana del Caucaso). Un villaggio di isbe abitato solo da vecchi, donne e bambini. A Karabut, in ottobre, furono scavati dei rifugi sotterranei in vista dell’imminente scontro con i russi, che erano sull’altra sponda del Don. «Calzavamo scarpe di cuoio», racconta Benoni, che in seguito al congelamento ha avuto amputate tutte le dita dei piedi, «e non potevi mai toglierle

perché poi i piedi si gonfiavano e non si rientrava più». I tre alpini ricordano la gentilezza del popolo russo delle isbe, modeste dimore di povera gente che non rifiutava mai di dare un po’ di miele, patate lesse, qualche frittella, in cambio di pane, tabacco e qualche indumento di lana. «Ci curavano anche le ferite. Noi italiani eravamo benvoluti dalla gente russa», racconta Lalo, «i tedeschi invece no. Li ho visti buttare in aria dei bambini russi e sparargli». Nella prima metà del gennaio 1943 i russi sfondarono sulla destra il Corpo d’armata Alpino, formato dalle divisioni Tridentina, Cuneense e Julia. Il 17 sera ini-

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«Si procedeva come sbandati nel gelo, soffrendo la fame e soprattutto la sete, senza dormire, cercando di sopravvivere e non mollare».

Sopra: gennaio 1943. La tragica ritirata di Russia. Sotto: dicembre 1942. Un alpino in trincea.

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ziò la ritirata. «Io sono stato l’ultimo, con le salmerie e il reparto muli, a partire da Karabutt», ricorda Benoni, «e in una slitta cabinata avevo degli incartamenti. Un maggiore mi disse: ricordati che se qualcuno apre la slitta, una pallottola c’è anche per te». «Nella ritirata eravamo come una mandria lunga venti chilometri di soldati senza ufficiali e di ufficiali senza soldati, e ogni tanto passavano sopra di noi degli aerei nemici a bombardare lasciando a terra morti e feriti», dice Peruzzi, che era portaordini e furiere alla Compagnia Comando e ricorda con affetto il tenente Ragnoli, oggi generale in pensione. «Era co-

me un padre. Con noi c’era anche Silvio Lovato, di San Giovanni Ilarione, che fu ferito e a cui in seguito fu amputata una gamba. Diventò poi il capogruppo Ana di San Michele». Rossosc, Podgornoje, Opit. «Si procedeva come sbandati nel gelo, soffrendo la fame e soprattutto la sete, senza dormire, cercando di sopravvivere e non mollare». «In quella ritirata», ricorda ancora Lalo Morandini, «diedi una mano anche al capitano Peppino Prisco, sì proprio l’avvocato Prisco, quello dell’Inter, che in seguito fu presidente nazionale dell’Ana e che poi alle adunate nazionali mi veniva incontro dicendomi “ciao, sassin”. Mi ha regalato anche una maglia di Ronaldo». Il 26 gennaio l’arrivo a Nikolajewka, un dosso alto circa duecento metri, a forma di cerchio, come lo descrive Peruzzi, dove, sotto l’altura a nord passava la ferrovia, con il sottopassaggio che immetteva al paese, presidiato da truppe russe con carri armati, mortai, mitraglie e divisioni di fanteria composte da siberiani e mongoli. La battaglia cominciò al mattino, con i resti dei battaglioni della Tridentina contro quello spiegamento di forze. Una battaglia infernale. «I morti erano numerosissimi», ricorda Peruzzi con

i compagni «e non si passava. Fu una giornata intera di combattimenti. Il sottopasso era un carnaio di morti e a un certo punto, verso sera, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, salì su un carroarmato tedesco e intimò al grido di “Tridentina, avanti” a tutti gli sbandati e i feriti delle varie divisioni sulle slitte che erano sopra la collina di precipitarsi in massa verso il tunnel e di sfondare con la forza delle disperazione. Quella massa umana, scendendo come l’onda di un maremoto tra le mitragliate e le bombe riuscì effettivamente a sfondare a mettere i russi in fuga. Finalmente la strada si liberò». La storia non finì a Nikolajewka. Raggiunto il luogo di sicurezza, rientrati in Italia dopo altre centinaia di chilometri a piedi fino al confine con la Polonia, le strade dei tre alpini di San Michele si separarono. Benoni fu ricoverato per sei mesi ad Asti, in ospedale. Morandini e Peruzzi, dopo un periodo di convalescenza, caddero nelle mani dei tedeschi (diventati nemici, dopo l’8 settembre 1943) e furono fatti prigionieri in Germania fino alla fine della guerra.

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IL MUSEO DI CASTELVECCHIO

Cultura

Come lo vediamo oggi, Castelvecchio di Verona risente notevolmente dell’intervento del maestro d’architettura Carlo Scarpa che sulla struttura lavorò dal 1958 al 1964. L’intervento scarpiano si concretizza con un linguaggio architettonico complesso, il quale si intreccia con gli elementi strutturali preesistenti

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di Alessandra Motta Verona. Da Piazza Bra, percorrendo Via Roma, si arriva a Castelvecchio, sede del Museo civico della città scaligera. Castelvecchio, come lo vediamo oggi, risente notevolmente dell’intervento del maestro d’architettura Carlo Scarpa (Venezia 1906-Tokio1978). Dall’incontro di Scarpa con il direttore del Museo Licisco Magagnato prende forma e cresce l’idea di adeguare al presente, al moderno, la scatola “museion”, ricomponendo in simultaneità i pezzi del tessuto architettonico e la visione dell’opera d’arte. Dal 1958 al 1964, in diverse fasi, l’intervento scarpiano si concretizza con un linguaggio architettonico complesso, il quale si intreccia con gli elementi strutturali preesistenti. L’intervento di Scarpa non termina con il Museo, ma si protende all’esterno , al giardino, al fiume, alla città, nell’intento di suggerire un collegamento con il territorio e la sua storia L’ENTRATA

L’entrata è posta asimmetricamente rispetto al prospetto principale e costituisce l’approccio con il Museo. Il primo itinerario si forma attorno alla galleria, so-

stanzialmente rettilinea: essa è suddivisa in cinque ambienti interni ed uno esterno, addossati al muro che segue, secondo una linea a segmenti spezzettati, il corso dell’Adige. Il percorso è sottolineato dall’andamento longitudinale delle putrelle che sostengono le crociere in cemento armato. Qui sono raccolte opere scultoree del Trecento veronese. La sistemazione dei pezzi è stata studiata evidenziando l’elemento singolo attraverso un sostegno particolare, una luce incidente o uno spazio calcolato. La pavimentazione è disegnata da linee di pietra che riquadrano superfici di cemento grigio, mentre una scanalatura continua stacca il tutto dai muri portanti. Nella prima sala sono esposti pezzi vari, risalenti prevalentemente all’Alto Medio Evo, a sinistra il sacello che si protende slittando verso l’esterno e che forma un’abside accogliente per i pezzi più preziosi di questa prima parte: vetri paleocristiani, ori longobardi e marmi altomedievali. Nelle sale successive sono esposti pezzi della scultura del XIV e XV secolo. Di particolare interesse, nella seconda sala, i tufi del Maestro di S. Anastasia S. Giovanni Battista, S. Marta e S. Cecilia. Nella terza sala elementi neoplastici irrompono per sottolineare i

pezzi scultorei, mentre nella quarta, attorno al capolavoro espressionistico della Crocifissione proveniente da S. Giacomo di Tomba, si trova una struttura funzionale costituita da elementi semplici e razionali. Nella quinta sala si trova l’altorilievo proveniente da S. Martino di Avesa, di scuola toscana, del 1436. Usciti dalla Galleria eccoci nella parte più interessante dell’intervento di Carlo Scarpa. Qui il fortino napoleonico è stato staccato dalle mura comunali distanziando due storie, mettendo in evidenza architetture diverse. Alzando lo sguardo si incontra Cangrande: la statua è posta tra interno ed esterno, sospesa tra due livelli. Variando il punto di vista si modifica la percezione delle linee generatrici di forza, della luce incidente, della solida volumetria. A sinistra ecco il vallo e davanti la Porta del Morbio del XII secolo, scoperto durante i lavori di restauro del 1958. La porta diventa passaggio ideale per arrivare alla reggia, assunta da Scarpa come tramite del percorso museale. Si passa sotto la strada costruita dopo il 1825 che porta al ponte del castello, mentre a destra si nota la vecchia strada del XIV secolo. Giunti nel cortile minore si entra nel mastio, trasformato da Scarpa

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Cultura in struttura ascensionale, cardine del tracciato. Saliti al primo piano, dopo un breve passaggio, si entra nella pinacoteca, disposta su due livelli all’interno dell’antica dimora scaligera. Qui sono raccolti i capolavori della pittura veronese e veneta del Trecento e Quattrocento. Un battiscopa in tufo corre lungo il perimetro delle strutture murarie, come raccordo tra le murature irregolari medievali e la pavimentazione geometricamente composta. Per ogni quadro Scarpa ha cercato una soluzione diversa. In questa prima parte della pinacoteca, troviamo opere di indubbio valore artistico: Polittico della Trinità di Turone, del 1360; Madonna del Roseto di Stefano, della prime metà del XV secolo; Madonna della quaglia attribuita a Pisanello, della prima metà del XV secolo; S.Gerolamo nel deserto di Jacopo Bellini, del XV secolo; Sacra Famiglia e una Santa di Andrea Mantenga, della fine del XV secolo; Madonna della Passione di Carlo Crivelli, della seconda metà del XV secolo; Madonna col Bambino di Giovanni Bellini, della fine del XV secolo. IL BELVEDERE

Attraverso un pontile scoperto che raccorda la reggia con la parte superiore della galleria, si arriva al belvedere. Qui l’intervento scarpiano raggiunge livelli altissimi e si svolge attorno alla statua equestre di Cangrande I. Un percorso a spirale si snoda attraverso fasi temporali, permettendo una visione totale della scultura, isolata e protetta da una copertura-raccordo, tesa fra le mura e il fortino. La statua, della metà del XIV secolo, è il simbolo del Museo e forse il pezzo più celebre della collezione scaligera. Una parete in vetro-legno divide l’area Cangrande dalle sale della pittura del Cinquecento, del Seicento e del Settecento. Questa ala è suddivisa da setti, posti in asse con le murature sottostanti e staccati dalle pareti perimetrali. Sul lato verso l’Adige la regolarità dei setti mette in risalto l’andamento curvo della muratura. Il soffitto è formato da una serie di pannelli gessati, i quali, con super-

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Il Castello nei secoli • Il castello fu costruito a Verona tra il 1354 e il 1356 per volere di Cangrande II della Scala. Cansignorio, dopo l’assassinio di Cangrande II, avvenuto il 14 dicembre 1359, completò la struttura e le decorazioni pittoriche interne. Nel 1375 fu ultimata la costruzione del ponte e del mastio centrale. • Alla Signoria scaligera succedette il dominio dei Visconti e nel 1389 Gian Galeazzo stabilì la sede della “reggenza” nella fortezza. Il 24 giugno 1405 Verona si offrì spontaneamente alla Serenissima ricevendo quella protezione politica che pose fine a contrastanti cambi di potere tra i Visconti ed i Carraresi. Castelvecchio seguì il destino della città e per lunghi anni venne degradato a semplice deposito di munizioni. • Solo nel 1759, dopo 354 anni di dominio, la Repubblica Veneziana pensò di utilizzare la fabbrica disponendola per un “Collegio militare”. Tale scuola rimase fino al 1769, anno di arrivo dell’esercito francese di Napoleone. • Nel 1820 gli austriaci restaurarono il Castello e il Ponte Scaligero; ripristinarono alcuni elementi architettonici della fortezza che ritornò, suo malgrado, ad essere caserma conservando fino al 1923 tale condizione. • Nel 1925 il castello fu trasformato in sede del Museo Civico di Verona. Nel periodo bellico un bombardamento distrusse l’ala nord-est e alcune parti del muro di cinta; nell’aprile del 1945, prima di lasciare l’Italia, i tedeschi minarono i ponti di Verona distruggendo anche quelli di Castelvecchio e della Pietra. Ricostruite le parti bombardate, il Castello ritornò ad ospitare le raccolte.

La statua equestre di Cangrande I della Scala. A sinistra: il ponte di Castelvecchio. Sotto: l’ingresso al Castello.

fici e colori diversi, sottolineano l’andamento cromatico delle tele. Un esempio è dato dal blu cobalto della sala del Settecento che esalta e valorizza la tonalità delle tele di scuola veneta. In questa seconda parte della Pinacoteca troviamo opere di altissima fattura pittorica: il polittico del Cavazzola, della prima metà del XVI sec.; Ritratto di un fanciullo con disegno infantile del Caroto, del XVI sec.; Natività con SS. Gerolamo e Giovanni Battista di Girolamo dai Libri, del XVI sec.; due opere giovanili di Jacopo Tintoretto: Contesa tra le Muse e le Pieridi e Adorazione dei Pastori; Lamento sul corpo di Cristo e Madonna col Bambino, i SS. Giovanni Battista e Ludovico e due donatori di Paolo Veronese; Diana ed Ermione e Bacco e Arianna di Luca Giordano, della fine del XVII sec.; David inorridi-

• Dal 1958 al 1964 il museo fu riordinato e tutta la struttura fu restaurata su progetto dell’architetto Carlo Scarpa. Oltre alla Pinacoteca e alla Galleria delle Sculture, all’interno della struttura funziona una Biblioteca d’Arte, aperta al pubblico; le frequenti mostre temporanee sono allestite in Sala Boggian.

to davanti alle armi di Saul di Sebastiano Ricci, della fine del XVII sec.; Eliodoro si fa consegnare da Onias il tesoro del Tempio di Giambattista Tiepolo, della prima metà del XVIII sec.; Capriccio con

grande casa rustica in riva alla laguna e Capriccio con arco in rovina nella laguna di Francesco Guardi, del XVIII sec. Si conclude con Il caffè, piccola scena familiare di Pietro Longhi, del sec. XVIII.


Spettacoli

PICCOLO TEATRO - MILANO

Prometeo, il titano amico degli uomini Dal supplizio del figlio di Urano si leva l’inno alla giustizia e alla libertà interiore. Quando l’intelligenza si scontra con un potere infantile e mediocre

Una ribellione, quella di Prometeo, in nome di valori spirituali così intensi da essere diventati un riferimento costante nella cultura europea

Uno Zeus inesperto, dispotico e violento che condanna il titano a rimanere legato per 30 mila anni ad una roccia nella lontana regione di Scizia

Franco Branciaroli nella parte di Prometeo. (Foto M. Norberth)

di Giorgio Montolli Dopo il successo ottenuto al Teatro Greco di Siracusa, “Prometeo incatenato” di Eschilo, per la regia di Luca Ronconi, è stato riproposto quest’anno al Piccolo di Milano. Il pubblico è affluito numeroso al Teatro Strehler per assistere alla tragedia che da 2500 anni ripropone il mito del titano punito da Zeus perché troppo amico degli uomini. Prometeo fa parte degli albori della mitologia, caratterizzata da una lotta tra dei che mette contro padri e figli. Urano, che con la Madre Terra aveva generato i Titani, viene deposto dal figlio Crono, il quale è detronizzato dal figlio Zeus. Prometeo sostiene Zeus nella lotta per il potere e in-

sieme creano gli uomini, esseri primitivi, nati da un impasto di argilla, che vivono di caccia, mangiano carne cruda, non posseggono vasi e ciotole e non conoscono i metalli. Esiodo nella sua “Teogonia” ci parla di uno Zeus inesperto, dispotico e violento, timoroso di perdere il potere. E così ci appare nel “Prometeo incatenato”, talmente preoccupato del trono da condannare il titano a rimanere legato per 30 mila anni ad una roccia «Ai lontani confini della terra, nella regione di Scizia», in Ucraina. La colpa di Prometeo, narrata da Esiodo e che fa solo da sfondo al dramma eschileo – probabilmente il secondo di una trilogia andata perduta – è quella di aver donato agli uomini il fuoco per

amore, nonostante il divieto di Zeus, e di aver quindi favorito quel processo di emancipazione, di civilizzazione che di fatto ha avvicinato la terra al cielo. Da qui l’esilio a nord del Mar Nero. Sconcertante per alcune analogie con il Nuovo Testamento, che fanno di Prometeo una figura familiarmente eroica (egli è incatenato, quasi crocefisso per il suo amore nei confronti della razza umana), questo dramma, di cui si continua a discutere sulla data di composizione, si pone anche al di fuori della tradizionale produzione eschilea per la sua carica polemica nei confronti dell’autorità religiosa. Il tutto avviene però in nome di valori spirituali così intensi da essere diventati un riferimento costante nella cultura europea. «Non sono personaggi questi, sono pensieri – ha dichiarato Franco Branciaroli, che ha magistralmente interpretato il titano –. Prometeo è un pensiero. Si parla erroneamente di personaggi, ma egli non è né grasso né magro: è un concetto, e nella tragedia greca ci sono scontri tra concetti. Prometeo è il concetto della giustizia e della libertà». E davvero il dramma rappresenta, insieme alla ribellione, la vittoria dell’intelligenza sull’ignoranza, del coraggio sulla paura, dell’amore sull’indifferenza. Ha scritto Margherita Ventavoli:

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Spettacoli grafica di Margherita Palli aveva trasformato la rupe alla quale è incatenato Prometeo nella statua di un poderoso guerriero accasciato. La roccia era circondata da acqua e in alto si stagliavano le gru che portavano in volo gli attori. Di questo imponente impianto scenografico nella rappresentazione di Milano si sono conservati i due elementi portanti: la statua e l’acqua. A occupare quindi interamente il centro della scena del teatro ecco il colosso, con i suoi sei metri e oltre di altezza e venti di lunghezza, mentre sullo sfondo nero del palcoscenico le varie divinità che fanno visita a Prometeo, hanno volato per mezzo di cavi e imbragature. Ha scritto il critico Renato Palazzi: «Questa scultura di finto marmo alta una decina di metri, di un chiarore abbacinante sotto luci vagamente surreali, col coro delle Ondine è l’altra folgorante invenzione della messinscena ronconiana: è insieme forma antropomorfa e roccia, montagna, elemento del paesaggio, è la rupe

“Piccolo teatro” di Milano Il Piccolo teatro di Milano è stato fondato da Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Il suo sipario si apre per la prima volta il 14 maggio del 1947 con L’albergo dei poveri di Gorkij. Con i suoi cinquecento posti e il suo minuscolo palcoscenico il Piccolo si propone, fin dall’inizio, di essere un teatro d’arte per tutti con un repertorio “misto”: internazionale, ma allo stesso tempo legato alle proprie radici come dice il manifesto che ne suggella la nascita. Si afferma dunque in Italia, per la prima volta, l’idea di un teatro necessario, bene reale dei cittadini, con scelte profondamente innovatrici per quegli anni che privilegiano l’affermazione della regia contro la stanca ripetitività del “grande attore” di stampo ottocentesco. L’altissima qualità estetica unita alla novità di un’organizzazione per i tempi rivoluzionaria, costituiranno i due cardini dell’eccellenza del Piccolo Teatro e del suo trasformarsi in esempio trainante per la scena italiana. Per lungo tempo il Piccolo, diventato Teatro d’Europa per decreto ministeriale nel 1991, potrà disporre solo della piccola sala di via Rovello; ma già dagli anni Sessanta Strehler e Grassi si battono per una sede più grande. E intanto portano il teatro nelle periferie, aprendo le porte, grazie a una politica dei prezzi innovatrice, alle classi meno abbienti. Fra molte vicissitudini solo nel 1998 l’intero complesso di quella vera e propria città del teatro sognata da Grassi e da Strehler sarà pronta. Ma Grassi è ormai morto da più di un decennio e Strehler è scomparso nella notte di Natale del 1997. Oggi il Piccolo Teatro che conta tre sale – quella storica di via Rovello chiamata Sala Grassi, quella sperimentale del Teatro Studio inaugurata nel 1987 e la Nuova Sede chiamata Teatro Strehler –, è diretto da Sergio Escobar mentre a guidare le scelte estetiche è Luca Ronconi.

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(Foto M. Norberth)

«Dal supplizio di Prometeo si leva l’inno alla libertà interiore in conflitto con il potere tirannico e all’intelligenza contro la forza bruta; si celebra l’elogio del progresso, innescato dal dono del fuoco, che Prometeo fa agli uomini, con il suo pesante fardello di ambivalenze: progresso come crescita e miglioramento, ma anche come possibile perdita, di valori e di memoria». Rispetto al Teatro Greco di Siracusa a Milano «si è perso in spettacolarità – ha commentato Branciaroli – ma si è guadagnato dal punto di vista del testo, in attenzione». Quella in scena al Piccolo è stata infatti una ripresa di quanto rappresentato in Sicilia, con qualche necessario aggiustamento scenografico e il cambio di tre attori: Luciano Virgilio è stato sostituito da Luciano Roman nel ruolo di Efesto, Warner Bentivegna da Giovanni Crippa nel ruolo di Oceano e Stefano Santospago da Riccardo Bini in quello di Ermes. A Siracusa, l’invenzione sceno-

cui è avvinto il semidio reo di aver donato agli uomini, col fuoco, l’impulso della conoscenza e del sapere scientifico. E lui, Prometeo, non a caso è incastonato lassù, proprio all’altezza della testa, come un’escrescenza del cervello, metaforica incarnazione di quella nostra incurabile malattia che è l’uso del pensiero». La regia di Ronconi è stata superba. «I testi teatrali del passato – ha affermato il regista – a me appaiono come una specie di cannocchiale, una sorta di buco volto al passato, o forse uno spaccato geologico, attraverso il quale possiamo renderci conto non di quanto il passato, per frettolosa analogia, ci sia vicino, ma di quanto ce ne siamo allontanati. È un’operazione della memoria».

«Con Prometeo Eschilo celebra l’elogio del progresso innescato dal dono del fuoco che il Titano fa agli uomini, con il suo pesante fardello di ambivalenze: progresso come crescita e miglioramento, ma anche come possibile perdita, di valori e di memoria»

La platea del Teatro Strehler, a Milano (Foto L. Ciminaghi)

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Spettacoli

TEATRO OLIMPICO - VICENZA

Da Euripide a Rousseau Al 56° ciclo di spettacoli classici in scena le follie dell’amore, tra inganni e metamorfosi Il filo conduttore della metamorfosi attraversa le donne della 56ª edizione del Ciclo degli Spettacoli classici del Teatro Olimpico di Vicenza. «Ho intitolato questa rassegna Amour fou – spiega il regista Luca De Fusco – perché le passioni che incontriamo nel ciclo di quest’anno sono folli, illusorie, aventi come oggetto creature fantastiche, dall’esistenza assai dubbia, che potrebbero essere anche il frutto della fantasia dell’innamorato». “Elena” di Euripide. Regia Marco Sciaccaluga. Traduzione di Caterina Barone. Con Eros Pagni, Frederique Loliée, Mariella Lo Giudice, Sebastiano Tringali. Scene e costumi di Valeria Manari. Musiche di Andrea Nicolini. 11, 12, 13 e 14 settembre alle ore 21. E se la guerra di Troia fosse nata da un atroce inganno degli dei o del caso? È il dubbio introdotto da Euripide nella sua “Elena”. Un testo che parte dall’idea paradossale e provocatoria che a Troia, rapita da Paride non andò Elena, confinata in Egitto, bensì una sua immagine fatta di nuvola. La figura della protagonista si sdoppia in una donna reale, incarnazione dell'ideale di amore coniugale, e in un essere incorporeo che con il suo adulterio infrange la morale dominante. Si tratta di un archetipo del tema del doppio destinato a percorrere le letterature occidentali otto-novecentesca (da Hoffmann a Edgar A. Poe, da Dostoevskij a Conrad, fino agli studi di Freud e di Otto

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Rank). Si sviluppa anche un intreccio avventuroso che prevede inganni e vicissitudini attraverso i quali Elena e Menelao fuggono dall'Egitto e rientrano in patria. In questo senso la tragedia anticipa uno schema compositivo (amori e avventure, ma anche risvolti cupi o drammatici) che sarà poi dei drammi romanzeschi shakespeariani, “La tempesta” prima di tutti. “Il trionfo dell’amore” di Marivaux. Regia Luca De Fusco. Con Ugo Pagliai, Paola Gassman, Mascia Musy. Scene di Antonio Fiorentino, costumi di Giuseppe Crisolini Malatesta. musiche di Antonio Di Pofi, luci di Ermidio Benezzi. 3, 4, e 5 ottobre alle ore 21 e 6 ottobre alle ore 16,30. Con Il Trionfo dell’amore di Marivaux, commedia in tre atti rappresentata per la prima volta a Parigi il 17 marzo 1732, il gioco illusionistico si moltiplica all’infinito come in una galleria di specchi. La giovane principessa di Sparta, Leonide, s’innamora del principe Agide che le contende il trono. Lo trova nella casa-eremo del filosofo Ermocrate e lì alternando travestimenti maschili e femminili riesce a sedurre l’arcigno padrone di casa e la sua bisbetica sorella Leontine, nonché il giovane che da sempre è il suo vero obiettivo. Alla fine Leonide si impadronirà del cuore di tutti e fuggirà dalla “casa eremo” portando con sé il giovane principe.

“Intorno a Pygmalion”. Brani dalle “Metamorfosi” di Publio Ovidio Nasone, dal “Pigmalione” di George Bernard Shaw, acte de ballet “Pygmalion” di Jean Philippe Rameau, melologo “Pygmalion” di Jean Jaques Rousseau e Henry Coignet. Voci recitanti Pino Micol, Gaia Aprea. Balletto MM company, coreografia di Alessandra Panzavolta, orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza diretta da Sergio Balestracci. 17, 18 settembre alle ore 21. È la poesia ad introdurci nello spirito del mito, con la lettura della vicenda di Pigmalione come ce la presenta Ovidio nelle “Metamorfosi”, il grande ciclo dedicato alle trasformazioni nelle vicende umane di personaggi mitici o reali. Pigmalione, re di Cipro, avendo scolpito una bellissima statua di donna se ne innamora, ottenendo da Afrodite che essa prenda vita. Lo spettacolo è costituito da un itinerario di citazioni e riferimenti musicali e drammatici per giungere al culmine dell’intero percorso: il Pygmalion di Jean-Jacques Rousseau. Quest’opera inaugurò un nuovo genere che ebbe discreto successo fino almeno alla metà dell’Ottocento, chiamato “melologo”, in cui la recitazione drammatica si alterna con brani musicali che svolgono una funzione di commento o di anticipazione del testo recitato.

« ...Creature fantastiche, dall’esistenza assai dubbia, che potrebbero essere anche il frutto della fantasia dell’innamorato»


Salute

ALIMENTAZIONE

Dieta mediterranea ...e campi cent’anni

Una ventina di anni fa fu il Senato degli Stati Uniti a definire l’alimentazione tradizionale mediterranea a base di pasta, verdura, frutta, pesce ed olio «il modo più sano di mangiare»

Disegni di Antonella Scolari

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di Alessandra Motta Esistono sufficienti ragioni per amare un modello di vita che per millenni ha fatto riferimento ad archetipi di armonia, bellezza, piacere. Quando questo stile di vita si concentra in una dieta e riceve la consacrazione scientifica della sua validità grazie ad un’enorme ricerca, condotta per decenni con genialità e tenacia da uno dei più grandi uomini di scienza del ‘900, Ancel Keys, è come se si fosse chiuso un cerchio. Si svela a noi una storia affascinante in grado di migliorare la qualità della vita di tutti, di gratificare il turismo e l’agricoltura italiana.

UNA SCOPERTA MADE IN USA

Una ventina di anni fa fu il Senato degli Stati Uniti a definire l’alimentazione tradizionale mediterranea a base di pasta, verdura, frutta, pesce ed olio «il modo più sano di mangiare». In verità già molti anni prima Ancel Keys, dell’Università del Minnesota, aveva riconosciuto, dopo lunghi studi, che l’olio di oliva era efficace nella prevenzione dell’arteriosclerosi e dell’infarto. Fu, in un certo senso, il primo ad affermare scientificamente il valore della «Dieta mediterranea» nella quale l’olio d’oliva svolge un ruolo primario, anzi ne rappresenta uno dei pilastri principali insieme con il pane, la pasta, la frutta, gli ortaggi e il vino. Finalmente anche in Italia l’Istituto Nazionale della Nutrizione lanciò una campagna pubblicitaria che definì per le prima volta il nostro antico modello di alimentazione come Dieta mediterranea. Sono passati vent’anni, molte co-

se sono cambiate nell’alimentazione degli italiani e non sempre in meglio, ma piano piano si è scoperta l’esigenza di ritornare ad una alimentazione più legata alla terra, alle stagioni e alla tradizione. La ricerca scientifica ha dimostrato che la Dieta mediterranea è considerata la migliore per prevenire infarti, aterosclerosi, tumori e per evitare l’obesità. Una dieta povera, costruita attraverso i secoli grazie all’apporto di varie culture alimentari che si sono incontrate in quel grande mare che è il Mediterraneo, vero e proprio crocevia di grandi civiltà. IL SIGNIFICATO DEL TERMINE DIETA

Dieta: cosa intendiamo precisamente con questo termine? Spesso, viene spontaneo associare alla parola “dieta” il termine “dimagrante”, ma non è corretto dare per scontato che parlando di dieta ci si riferisca per forza ad un programma di dimagrimento. Il termine dieta deriva dal greco “diaita” e in medicina è stato utilizzato per indicare la ripartizione di cibi e pasti. Con questa parola intendiamo, infatti, un regime alimentare equilibrato e vario,

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Salute MEDICINA

Viaggio nel cervello alla ricerca del male L’Associazione Italiana di Neuroradiologia, di cui Verona ha recentemente ospitato il IXX Congresso Nazionale, raccoglie oltre 500 specialisti La Neuroradiologia è una specializzazione legata sia alla radiologia diagnostica che alla neurologia, ma correlata ad innumerevoli altre specialità: dalla Neurochirurgia alla Chirurgia vascolare, solo per citarne alcune. È la scienza che, attraverso la creazione di immagini, fornisce indicazioni diagnostiche del sistema nervoso centrale, del sistema arterioso e venoso mediante l’utilizzo di specifiche sostanze opacizzanti (i “mezzi di contrasto”). A questo scopo sono utilizzate diverse tecnologie quali la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), la RM (Risonanza Magnetica), l’ecografia, la radiologia tradizionale e l’angiografia. Negli ultimi 10 anni accanto all’aspetto diagnostico si è sempre più affiancato quello terapeutico, consistente nella possibilità di interventi endo-vascolari per la cura di aneurismi, malformazioni artero-venose e tumori vascolarizzati del cranio e della colonna, nonché di biopsie spinali e di interventi percutanei per la stabilizzazione della colonna indebolita da traumi, tumori o da malattie come l’osteoporosi. Esiste inoltre un grande filone di ricerca in quanto le apparecchiature RM più perfezionate rendono possibile lo studio di molti processi fisiologici cerebrali, consentendo praticamente di indagare l’encefalo “al lavoro”. L’Associazione Italiana di Neuroradiologia, di cui Verona ha recentemente ospitato il IXX Congresso Nazionale, raccoglie oltre 500 specialisti. IN EUROPA E IN ITALIA

La Neuroradiologia in Europa nasce prima che negli altri continenti, ma risulta comunque in ritardo rispetto ad altre specialità mediche. Dal momento che sia il cervello che il midollo spinale risultano invisibili ai raggi X, si rese necessaria l’adozione di

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metodologie alternative e lo sviluppo di nuove tecniche di scansione che con il tempo hanno incrementato notevolmente i mezzi a disposizione del personale medico per la diagnosi e la terapia. I ricercatori europei hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo di queste tecniche con un importante sforzo collaborativo tra gruppi di scienziati provenienti da ambiti diversi. Il momento storico più importante per lo sviluppo della Neuroradiologia in Italia è rappresentato dalla riforma ospedaliera del 1969, anno in cui viene introdotto l’esame di idoneità per la disciplina, che fornisce la base normativa sulla quale sono stati poi istituiti i Servizi autonomi di Neuroradiologia in tutta Italia (nel 1969 erano solo due). La persona che ha permesso questo passo è il prof. Giovanni Ruggiero, napoletano, di scuola svedese. Oggi la Neuroradiologia in Italia conta 70 reparti, fra ospedalieri – la maggioranza – ed universitari. Il livello diagnostico e interventistico è ottimo. I neuroradiologi Italiani sono circa 600, il numero più elevato in Europa.

dendo con incremento di addetti e attrezzature (2 TAC, 2 RM, 2 Angiografie; 8 medici, 16 tecnici, personale Infermieristico, amministrativo e ausiliario). Nella regione sono presenti altre 4 strutture (a Vicenza, Padova, Mestre e Treviso). Il Servizio di Neuroradiologia di Verona è stato anche tra i primi a cercare di venire incontro alle esigenze dei cittadini proponendo una Carta dei Servizi che si è integrata perfettamente con la procedura di Certificazione che ha fatto dell’Azienda Ospedaliera di Verona una delle poche istituzioni italiane certificate con la procedura ISO 9001/2000.

A VERONA

È il Dipartimento di Neurochirurgia di Verona (il più grande d’Italia con oltre 120 posti letto e strutture di alta tecnologia e specializzazione), diretto dal Prof. G. Dalle Ore, a dare l’impulso per la formazione delle specialità di Neurorianimazione, Neurochirurgia traumatologica e vascolare e Neuroradiologia. Tocca al dott. A. Benati, neurochirurgo, individuare personale, mezzi e strutture. A Verona la Neuroradiologia si sta espan-

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Salute La ricerca scientifica ha dimostrato che la Dieta mediterranea è considerata la migliore per prevenire infarti, aterosclerosi, tumori e per evitare l’obesità. Una dieta povera, costruita attraverso i secoli grazie all’apporto di varie culture alimentari che si sono incontrate in quel grande mare che è il Mediterraneo, vero e proprio crocevia di grandi civiltà

Pasta e pane: due alimenti alla base della Dieta mediterranea

che soddisfi i fabbisogni nutritivi e possibilmente ci permetta di mangiare con piacere. Per impostare un corretto regime alimentare si possono tenere presenti tre parole chiave: moderazione, varietà e equilibrio. Moderazione, perché gli eccessi alimentari si pagano con sovrappeso e obesità. Inoltre, mangiare smodatamente alcuni alimenti e pochissimo altri può causare stati carenziali. Varietà, perché bisogna mangiare di tutto, sia nell’arco della giornata che durante la settimana; se la dieta è varia, si è più sicuri di ingerire tutte le sostanze necessarie, evitando l’accumulo di quelle nocive, e non incorrendo in carenze alimentari. L’equilibrio serve perché la buona ali-

mentazione deve essere bilanciata: se si introducono troppe calorie, queste si accumuleranno come grasso. Mantenere la corretta proporzione tra le fonti alimentari, inoltre, consente di evitare i rischi caratteristici delle diete squilibrate (ad esempio, come quelle che propongono, per dimagrire, l’abolizione totale dei carboidrati). Per verificare che la nostra dieta quotidiana corrisponda a regole di salute e per scoprire eventuali abitudini errate, è molto utile tenere un diario giornaliero nel quale annotare la composizione dei pasti che assumiamo. Probabilmente rimarremo stupiti nel constatare quanti errori alimentari commettiamo inconsapevolmente, ad esempio il non consumare alimenti freschi e di stagione o l’introdurre troppe calorie. GLI ALIMENTI

Alimentazione mediterranea vuol dunque forse dire alimentazione vegetariana? Non è così. I vegetali, ben combinati fra loro come sa fare la cucina mediterranea, con l’aggiunta di giuste quantità di prodotti animali (carne, con particolare riguardo a quella non bovina, latte, uova, pesce, formaggi) assicurano una alimentazione valida, equilibrata, adatta a qualsiasi età ed in grado

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di ridurre considerevolmente il rischio che insorgano certe malattie che sono tipiche della nostra epoca. LA PIRAMIDE ALIMENTARE

I nutrizionisti per cercare di divulgare le regole per una più sana alimentazione evocano, come è noto, l’immagine della piramide, simbolo ormai universale della «dieta mediterranea». La piramide, molto nota ormai anche in Italia ma elaborata negli Stati Uniti, rappresenta la distribuzione in frequenza e quantità di tutti gli alimenti principali compresi nella Dieta mediterranea. È una semplificazione grafica utile per individuare velocemente la frequenza di consumo consigliata dei diversi alimenti al fine di ottenerne un apporto utile per la dieta quotidiana. Alla base troviamo quelli che possiamo consumare tutti i giorni (pane, pasta, riso, patate), seguiti da frutta, legumi e ortaggi, olio extravergine di oliva, formaggi e yogurt); quelli che andrebbero assunti solo qualche volta alla settimana: (pesce, carni bianche, uova, dolci) al vertice quelli il cui consumo sarebbe meglio limitare ad una volta al mese (carni rosse). A tutto questo deve essere aggiunta costante attività fisica quotidiana.

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Sport ARCIERIA La storia della moderna arcieria risale al Medioevo. Furono probabilmente i danesi ad introdurre l’arco in Inghilterra, inizialmente nel Galles, dove la popolazione lo utilizzò con successo nelle battaglie contro i sassoni. A Verona la disciplina si diffonde grazie alla vicina Vicenza, sede delle basi militari americane. Nel 1973 anche nella città scaligera il primo gruppo di arcieri

Il tiro con l’arco Nella dottrina Zen scagliare la freccia diventa un tirocinio della coscienza

Sembra che sia stato introdotto in Europa dall’Africa con la diffusione di alcune culture neolitiche. In Oriente ittiti, assiri e persiani lo associarono all’utilizzo del carro da battaglia. Anche egiziani, greci e romani ne fecero largo uso

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di Berardo Viola Viene definito “la terza invenzione” dopo il fuoco e la ruota. È l’arco, la cui storia si perde nella notte dei tempi e di cui si trovano le prime tracce già nel paleolitico, come testimoniano alcuni graffiti rupestri scoperti in Spagna. Sembra che sia stato introdotto in Europa dall’Africa, con la diffusione di alcune culture neolitiche. In Oriente, dove l’arco si lega ad una tradizione antichissima, ittiti, assiri e persiani lo associarono all’utilizzo del carro da battaglia. Anche egiziani, greci e romani ne fecero largo uso durante le loro guerre. I classici della mitologia sono ricchi di citazioni a riguardo. Ricordiamo l’arco divino di Eurito, dono di Febo, ereditato da Ifito e donato a Ulisse: è lo stesso che l’eroe

dell’Odissea adopera per uccidere i proci ad Itaca. Attraverso l’Asia questo strumento si diffonde nelle regioni più lontane, comprese le Americhe, ma non in Australia, Polinesia e Micronesia dove rimane sconosciuto. Costruito per consentire di attaccare la preda o il nemico tenendosi a distanza di sicurezza, l’arco presso alcune civiltà è diventato uno strumento legato alla meditazione, dove il tiro si associa a un rito senza nessun fine pratico. Questo è accaduto in alcuni Paesi dell’Estremo Oriente, come il Giappone. Nella “dottrina” Zen, che deriva dal buddhismo (Buddha, VI sec. a.C., India settentrionale), tendere l’arco e scagliare la freccia diventa un tirocinio della coscienza che serve per avvicinarsi

alla realtà ultima. Gli aspetti filosofici connessi a questa disciplina li troviamo anche nel confucianesimo (Confucio, VI-V sec. a.C., Cina). Tornando in Europa, la storia della moderna arcieria risale al Medioevo. Furono probabilmente i danesi ad introdurre l’arco in Inghilterra, inizialmente nel Galles, dove la popolazione lo utilizzò con successo nelle battaglie contro i sassoni. L’arco gallese era corto e pesante ma di una potenza formidabile: le frecce potevano trapassare una porta di quercia dello spessore di 6 cm. Nel 1066 ha inizio la conquista dell’Inghilterra da parte dei normanni e l’arco gallese, modificato nella forma, si diffonde in tutta l’isola. Per la sua lunghezza – 2,10 m. – viene chiamato Long-bow e

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Sport L’attività della Società Arcieri Scaligeri Il tiro con l’arco si diffonde a Vicenza alla fine della Seconda guerra mondiale per la presenza di militari americani appassionati di questa disciplina. Nel 1973 anche a Verona nasce un gruppo; tra i fondatori Giorgio Turrina, Arturo Fusini e Luciano Caloini. Attualmente ci sono 90 iscritti che si allenano su un terreno di 15 mila mq in località Genovesa, sede della Società Arcieri Scaligeri, dove sono presenti bersagli allestiti su tutte le distanze. Il campo è omologato anche per gare internazionali. Si organizzano corsi per principianti due volte l’anno (maggio e settembre) e corsi di perfezionamento tenuti da soci qualificati con patentino di tecnici iscritti all’albo Fitarco. Particolarmente seguito è il settore giovanile dal quale stanno scaturendo campioncini con un futuro invidiabile. Durante il periodo invernale i soci si allena-

Il tiro con l’arco era già comparso come disciplina olimpica a Parigi nel 1900 ma è solo nel 1931, con la nascita della FITA, che questo sport conquista una solida base per una vasta diffusione internazionale

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no in palestra e sono sempre guidati ed allenati dagli stessi istruttori. Dal 1975 la società organizza ogni anno, la prima domenica di giugno, una gara FITA nazionale a cui partecipano circa 200 atleti. Dal 1989, normalmente la prima domenica di febbraio, si svolge al Palazzetto dello Sport una gara Indoor sempre a livello nazionale. Gran parte dei soci partecipa alle gare sia FITA che Indoor per un totale di circa 200 partecipazioni annue su tutto il territorio nazionale. Per contattare la società Arcieri Scaligeri: Turrina Giorgio (presidente): tel. 045.7300177; fax 045.7301250; e-mail: turrina.giorgio@tin.it Zuzzi Enrico (segretario): tel. 045.583288; e-mail: enrico.zuzzi@tin.it Sito Web: www.arcieriscaligeri.it

utilizzato da chi non può permettersi cavalli, armature e bardature. Saranno questi guerrieri riuniti in compagnie di arcieri a sconfiggere la cavalleria francese nelle battaglie di Crècy (1346) e Poitiers (1356). È solo verso la fine del XVII secolo, e quindi in tempi storicamente recenti, che l’arco cede il passo alle armi da fuoco. IL TIRO CON L’ARCO COME SPORT

Nel 1781 viene fondata in Inghilterra la Royal Toxopholite Society che organizza le prime gare di tiro con l’arco. Nel 1879 negli Stati Uniti si costituisce la National Archery Association, mentre la prima gara internazionale si svolge in Francia alla vigilia della Prima guerra mondiale. Anche se il tiro con l’arco era già comparso come disciplina olimpica a Parigi nel 1900, è solo nel 1931, con la nascita della FITA (Fèdèration Internationale de Tir à l’Arc), a cui aderiscono otto Paesi, che questo sport conquista una solida base per una vasta diffusione internazionale. Ironia della sorte con la nascita della Federazione si interrompono le gare olimpiche, riprese solo nel 1972 a Monaco. Col tempo materiali come fibra di vetro, leghe di alluminio e di magnesio sostituiscono il legno di tasso dei Long-bows. Per l’asta delle frecce si utilizzano l’alluminio e il carbonio, per l’impennatura, prima in penne di tacchino, si fa ricorso a materiale plastico e fibre sintetiche utilizzate anche per le corde, prima in fibra naturale oggi in filato di Kevlar. Infine anche gli arcieri subiscono una trasformazione: dovendo poten-

ziare la muscolatura necessitano di allenamento e diventano così dei veri e propri atleti. In Italia l’arco torna con gli alleati alla fine della Seconda guerra mondiale e il suo percorso fino ai giorni nostri recupera parte del valore, in chiave tutta occidentale, che in Oriente lega questa disciplina alla meditazione. Chi oggi sceglie di dedicarsi al tiro con l’arco lo fa anche come autodisciplina, per cercare un equilibrio che sente perduto. Concentrazione, autocontrollo, armonia psicofisica e riscoperta della natura sono in fondo il vero bersaglio a cui oggi l’arciere mira. ARCHI ATTUALMENTE UTILIZZATI

Oggi gli archi in uso sono sostanzialmente due: l’arco olimpico e il compound. L’arco olimpico è

composto da una parte centrale costruita con leghe metalliche o legno e da due flettenti fatti con strati sovrapposti e incrociati di materiali come legno, fibra di vetro, ceramica incollati tra di loro. Nella parte anteriore possono essere posizionati un mirino ed uno stabilizzatore e ai lati altri stabilizzatori o pesi. È ammesso un misuratore di allungo (cliker) e il rilascio della corda si effettua senza ausili. L’arco compound si differenzia da quello olimpico perché alla sommità dei flettenti sono inseriti degli eccentrici che ne aumentano la potenza agendo da leva. Nel compound è ammesso uno sgancio meccanico azionato a dito che permette di lasciare la corda in modo perfetto. Nel mirino è possibile inserire una lente e un ulteriore punto di mira sulla corda.

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Territorio MARANO DI VALPOLICELLA

Santa Maria Valverde «Tra storia e natura» Circa 45 milioni di anni fa, durante l’Eocene, all’inizio dell’era geologica denominata Terziario, il territorio veronese era quasi completamente sommerso

Il fatto che nel passato geologico parte del nostro territorio si trovasse in fondo al mare fa parte del bagaglio culturale di tutti. Molti però hanno una visione errata di questa descrizione paleogeografica

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di Guido Gonzato Arroccata sulla cima di un colle dalla curiosa forma a tronco di cono, la chiesetta di S. Maria Valverde, presso contrada Pezza di Marano (Verona), è collocata in uno dei luoghi più suggestivi della Valpolicella. Dal piccolo spiazzo antistante la chiesetta si gode di un magnifico panorama: i vigneti della Valgatara e i boschi della valle di Fumane, la città in lontananza, la pianura padana fino agli Appennini. Il verde, l’ombra e il silenzio ne fanno un luogo magnifico per una passeggiata ristoratrice. Se la bellezza del luogo è fonte di gioia per qualunque visitatore, il naturalista, o anche solo l’escursionista attento, si accorgono che questo monte racconta una storia complessa e affascinante. Non è un caso, infatti, se il colle di S. Maria Valverde ha la forma di un cono dalla cima mozza. La stradina che sale da contrada Pezza è parzialmente intagliata nel monte e attraversa rocce molto diverse: alcune massicce e di colore chiaro, altre friabili e scure. La scarpata a sud della chiesa presenta delle pareti dall’aspetto insolitamente liscio. A pochi metri di distanza, parzialmente mascherata dalla vegetazione, ecco apparire quella che sembra una trincea: ma non è stata scavata

La chiesetta di S. Maria Valverde a Marano di Valpolicella (Verona)

dalle mani dell’uomo. E sempre lungo la stradina, si vedono delle stalattiti corrose: che cosa ci fanno qui? Le rocce raccontano la storia del luogo dove si trovano. Sono come un libro scritto dalle forze della natura che hanno impresso segni chiarissimi e dal significato profondo per chi sa leggerli. Il geologo riesce a ricostruire la storia di un luogo esaminando le rocce. Che cosa ci raccontano le rocce di S. Maria Valverde? UN MONTE IN FONDO AL MARE

È una storia che inizia circa 45 milioni di anni fa, durante l’Eocene, all’inizio dell’era geologica denominata Terziario. A quell’epoca, il territorio veronese era quasi completamente sommerso. Verso nord-est era esistito un atollo dalle acque calde e tranquille sul cui fondo si erano de-

positati i resti di pesci, coccodrilli, piante e altri organismi: la laguna di Bolca. Quello che sarebbe diventato il monte di S. Maria Valverde era un fondo marino sabbioso, poco profondo, dove le correnti accumulavano alghe e conchiglie; la sabbia era composta quasi interamente di minuscoli frammenti di gusci calcarei di organismi oggi estinti, i Nummuliti. Il fatto che nel passato geologico parte del nostro territorio si trovasse in fondo al mare fa parte del bagaglio culturale di tutti. Molti però hanno una visione errata di questa descrizione paleogeografica: si immaginano una situazione vagamente da fantascienza, in cui il nostro territorio è uguale ad oggi, ma è sommerso dal mare. Spesso si sente chiedere: «Qui, il mare fino a dove arrivava?». Invece no: i monti non esistevano, si sarebbero formati in seguito. Esi-

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Territorio steva solo il materiale di cui i monti sarebbero stati costituiti: sabbia e fango. Nell’Eocene erano già in atto i grandiosi movimenti della crosta terrestre che avrebbero sollevato quell’antico fondo marino per centinaia e centinaia di metri. Le sabbie e i fanghi dei fondali, compattati sotto il loro stesso peso, si consolidarono trasformandosi in roccia. Così le sabbie del fondo marino diedero origine ai cosiddetti “Calcari Nummulitici”, caratteristici della fascia pedemontana veronese e vicentina. Sono i calcari massicci, stratificati, che compongono parte del colle di S. Maria Valverde e nei quali sono ancora visibili i resti fossili di Nummuliti, Alghe e altri organismi marini (foto 1). NETTUNO E VULCANO

L’antico fondo marino non era un posto del tutto tranquillo. Così come avviene oggi sul fondo del Mare Tirreno, numerosi vulcani sottomarini eruttavano lave basaltiche e depositavano grandi colate di materiale vulcanico. Queste sono le tufiti stratificate, di colore scuro, che vediamo alternate ai calcari (foto 2). Non solo. Un filone vulcanico spesso qualche metro si fece strada attraverso il fondo marino, provocando una frattura lunga e stretta nelle rocce. La trincea che si vede oggi è tutto ciò che resta di quel filone: il materiale vulcanico è stato rimosso quasi tutto dalla pioggia, ed è visibile sono in pochi punti (foto 3). Il monte di S. Maria Valverde è paragonabile ad una torta a strati: livelli di calcari e di tufiti si alternano uno sopra l’altro. I calcari sono molto più resistenti all’erosione, e formano bancate massicce di qualche metro di spessore. Al contrario, le tufiti sono piuttosto friabili e sono facilmente asportabili dagli agenti atmosferici. Ecco spiegata la forma a tronco di cono: l’ultimo strato del monte, composto di friabili tufiti, è stato completamente asportato. La sottostante bancata calcarea, più resistente, offre maggiore resistenza all’erosione e forma la piatta sommità del colle.

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MILIONI DI TERREMOTI

Il sollevamento del territorio e la formazione delle montagne (orogenesi alpina) non avvennero certo senza scosse. In senso letterale: innumerevoli terremoti squassarono le rocce, spesso fratturandole profondamente. Le fratture della crosta terrestre si chiamano “faglie”, e alcune sono visibili nella scarpata sud del monte. Si possono addirittura vedere le striature che indicano il senso del movimento reciproco delle due parti. Non appena il territorio cominciò a trovarsi sollevato dal mare, subito gli agenti atmosferici iniziarono la loro opera distruttrice. Il tavolato dei Monti Lessini cominciò ad essere solcato da valli fluviali, che isolarono e definirono crinali e monti; S. Maria Valverde si trova sul crinale che separa la Valle di Fumane da Valgatara. Le rocce calcaree sono particolarmente sensibili all’azione dell’acqua. L’acqua piovana, arricchita di anidride carbonica, provoca infatti nei calcari il grandioso e complesso fenomeno del carsismo. I calcari (carbonato di calcio, quasi insolubile) si trasformano in bicarbonato di calcio, solubile in acqua. L’acqua, penetrando nelle fratture delle rocce, le allarga per azione chimica e meccanica formando le grotte. Quando venne costruita la stradina che porta alla chiesa, lo scavo portò alla luce una piccola grotta verticale. Tutto ciò che ne rimane sono le concrezioni stalattitiche che la rivestivano; queste sono formate di alabastro, cioè di calcite microcristallina (Foto 4).

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OGGI

Il territorio che vediamo oggi è ancora in lenta, impercettibile trasformazione. Le piante e la pioggia continuano a lavorare per trasformare le rocce in terra; la pioggia la trasporta verso valle, e da qui al mare. Lentamente, il colle muta forma. Noi non ci accorgiamo di nulla e percepiamo “solo” la bellezza di questa vallata. Ci auguriamo che la conoscenza della storia geologica di questi luoghi possa donare al visitatore un pizzico di fascino in più.

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IN LIBRERIA A cura di Antonella Scolari Barthel Hrouda "La Mesopotamia" Il Mulino, Universale Paper Bachs Pagg. 130, Euro 9,50 Nella prima parte il volume narra le vicende dei popoli vissuti nella terra fra i due fiumi. Dalla prima documentazione risalente al III millennio a.C. al trionfo dell'Islam nel VII secolo d.C.. Nella seconda parte vengono esposti i tratti generali della Mesopotamia che con l'Egitto fu la maggiore civiltà dell'Oriente antico: dall'economia alle società, dalle conoscenze scientifiche alla lingua, alla scrittura e alla letteratura, dall'arte all'architettura e alla religione.

Helmut Uhlig "I Sumeri" Garzanti, Gli elefanti - storia Pagg. 158, Lire 18.000

Werner Keller "La civiltà Etrusca" Garzanti, Gli elefanti - storia Pagg. 418, Lire 19.000

Eugen Herrigel “Lo Zen e il tiro con l’arco” Adelphi, Piccola biblioteca 25 Pagg. 100, Lire 8.000

Affascinante ed enigmatica è la civiltà etrusca, fiorita nel cuore dell'Italia durante il primo millennio avanti Cristo. Anche se sopraffatta dall'espansione e dalla gloria di Roma ha lasciato il segno profondo e incancellabile della sua influenza nelle civiltà europee che le sono succedute. L'autore ci propone un viaggio durato dieci anni attraverso le fonti più accreditate, alla scoperta della cultura, della vita quotidiana, dell'organizzazione politico-sociale di una delle più antiche e misteriose civiltà italiche.

Eschilo “Le tragedie ”(tre volumi) Oscar Mondadori

I sumeri creano, intorno al 2800 a.C., la prima grande civiltà dell'umanità in Mesopotamia, fra il Tigri e l'Eufrate. Essi si distinguono dalle genti semitiche degli accadi, dai babilonesi e dagli assiri per lo scarso interesse alle conquiste militari. Ai sumeri si attribuisce l'invenzione della scrittura contemporaneamente agli egizi, inoltre l'"invenzione" di quasi tutti i temi e i motivi dell'arte e della poesia che si svilupperanno in seguito nell'Asia Anteriore. Temi e motivi che trovano la loro massima espressione nell'Epopea di Gilgamesh, la più alta opera poetica dell'antico Vicino Oriente e la più affine al sentimento moderno.

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raccolto e catalogato centinaia di testimonianze di reduci italiani che combatterono sul fronte russo dal 1941 al 1943 raccontando così la tragedia della ritirata di Russia.

Eschilo è uno dei padri della tragedia greca. Nacque nel 525 a.C. nel demo attico di Eleusi, a 20 chilometri da Atene e morì nel 456 a Gela. Partecipò per la prima volta agli agoni tragici delle Grandi Dionisie nel 499. A lui sono attribuiti 72 drammi. Di questa vasta produzione ci restano solo sette tragedie complete: Persiani, Sette contro Tebe, Supplici, Agamennone, Coefore, Eumenidi, Il Prometeo incatenato.

Giulio Bedeschi "Fronte Russo: c'ero anch'io" Mursia Volume I, pagg. 597; volume II pagg. 797, Euro 21,50 a volume In questi due volumi l'autore ha

L’autore del libro è Eugen Herrigel, un professore di filosofia tedesco che vuole essere introdotto allo Zen. Gli viene consigliato di imparare una delle arti in cui lo Zen si applica da secoli: il tiro con l’arco. Herrigel si troverà felicemente costretto a capovolgere il suo modo di vivere perché il maestro lo aiuterà a riconoscere e a scrollarsi di dosso le intenzioni e i gesti sbagliati al fine d restare “vuoto” per accogliere l’unico gesto che fa centro: quello di cui gli arcieri Zen dicono: “Un colpo - una vita”. In tale colpo arco, freccia, bersaglio e Io si intrecciano inseparabilmente così la freccia scoccata mette in gioco la vita dell’arciere, e il bersaglio da colpire è l’arciere stesso.

Roberta Salvadori, Laura Landra, Margherita Landra “La Dieta mediterranea. 334 ricette tra salute e cultura”. Mondadori Pagg. 318, Lire 48.000 La Dieta mediterranea non solo per il corpo e per il palato ma anche come fatto mentale, come elemento di cultura. Le ricette sono accompagnate da brani di poeti e viaggiatori che hanno interpretato il rapporto tra gastronomia e cultura. Aneddoti e curiosità su ingredienti e preparazioni.

Richard Murphy “Carlo Scarpa e Castelvecchio” Arsenale Editrice pagg. 197, Euro 30,99 Richard Murphy presenta le grandi doti progettuali di Carlo Scarpa

nel concepire il restauro di Castelvecchio come museo. Ecco allora i primi affascinanti schizzi dell’architetto e i successivi disegni prodotti durante le diverse fasi di lavoro, integrati in questo volume dai rilievi accurati da Murphy che mostrano nei minimi dettagli la realizzazione scarpiana esattamente come é oggi. Il dettaglio costruttivo, che assume in Scarpa la stessa importanza del progetto generale, viene esemplificato in questo volume proprio grazie alla ricchezza e quantità di rilievi. Per Scarpa nessun disegno era mai finito: infatti tutti mostrano la sua incessante e infaticabile ricerca. "Museo di Castelvecchio" Guide Marsilio Pagg. 64, Euro 8,00 Il testo riproduce il contenuto dei fogli di sala a disposizione dei visitatori del Museo.

VERONA IN Attualità e cultura www.verona-in.it Proprietà Studio editoriale Giorgio Montolli Lungadige Re Teodorico, 10 37129 -Verona Telefono 045.592695 Direttore Giorgio Montolli e.mail g.mont@libero.it Stampa Novastampa di Verona Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura e stili di vita che favoriscano la crescita della persona in alternativa al consumismo e al modello sociale che ne deriva. Copyright Gli autori degli articoli hanno collaborato gratuitamente alla realizzazione del giornale contribuendo così a sostenerne le finalità. Per la riproduzione anche parziale dei testi si prega di contattare il direttore della testata. N° 0 (numero di prova) Copia omaggio

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