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GENNAIO
2004 -
G I O R N A L E E D I TO DA L LO S T U D I O E D I TO R I A L E G I O R G I O M O N TO L L I
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Primo piano
Dalla Fiera del libro il punto sul mercato
In copertina: Piazza Bra, all’incrocio tra via Mazzini e via Oberdan. In tempi così grigi riesce a farci sorridere.
Nel corso del 2002 il 33% della popolazione italiana in età compresa tra 14 e 80 anni ha acquistato almeno un libro ricorrendo a canali diversi da quello dei giornali. Rispetto al 2001 questo dato non è mutato, mentre nel 2000 la percentuale era del 29%
in VERONA
«In libreria si vendono più libri, sia pure di poco, ma i ricavi totali, in termini reali, diminuiscono». La dichiarazione è di Federico Motta, presidente dell’Associazione italiana editori (AIE). Il calo dei ricavi, relativo alle vendite del comparto nel 2002 rispetto al 2001, si attesta attorno al punto in percentuale. Motta, parlando alla 55ª Fiera del libro di Francoforte, ha aggiunto che è necessario definire in Parlamento un quadro organico regolativo e di sostegno del settore. Anche il Presidente Ciampi, a maggio, in occasione dei premi nazionali per la traduzione, aveva auspicato un’azione massiccia, pubblica e privata, a favore del libro e della lettura. Dallo studio sullo Stato dell’Editoria italiana presentato dall’AIE emerge che le famiglie italiane nel 2002 hanno speso circa 115 euro per l’acquisto di libri: romanzi, guide di viaggio, manuali, libri di testo scolastici, dizionari ecc. Acquisti fatti in tutti i canali e attraverso tutte le forme di vendita esclusa quella in abbinamento ai periodici. Si tratta di 44 euro circa pro capite con marcate differenze per area geografica: il Nord Ovest rappresenta poco meno del 30% della spesa; il Nord, nel suo insieme, è poco meno della metà; il Sud e le Isole rappresentano il 30%; le regioni centrali il 20%. Il fenomeno dei libri venduti con i giornali rappresenta ancora uno dei dati di maggiore rilievo per il settore. Nel 2002, su una stima di 100 milioni di copie di libri venduti attraverso i vari canali (qui sono esclusi quelli scolastici, la manualistica universitaria, i libri acquistati da biblioteche o dagli studi professionali) altri 44,2 milioni sono stati distribuiti utilizzando i giornali. Un ordine di grandezza veramente impressionante e tale da giustificare le preoccupazioni di editori, librai e distributori sull’effetto che operazioni di questo tipo possono
avere su tutta la filiera produttiva del libro e in particolare su quelli tascabili. Nel corso del 2003 il processo è continuato con una crescente segmentazione dell’offerta libraria a cui non sono rimasti estranei i quotidiani locali. Nel primo semestre di questo 2003 sono state 18,5 milioni le copie di libri vendute con i giornali, con una flessione del 18% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Ma nel secondo semestre le varie collane di libri d’arte e l’enciclopedia Utet distribuita con Repubblica hanno portato il valore di questo canale a cifre decisamente superiori a quelle del 2002. Rimane comunque la libreria il canale preferito dagli italiani per l’acquisto di libri. Ma che tipo di libreria? Dei 15,4 milioni di italiani che nel corso del 2002 hanno acquistato 1 o 2 libri, esclusi quelli venduti con i giornali, il 39,2% hanno scelto le librerie a catena e il 33,7% le grandi librerie indipendenti. È significativo come le librerie di catena continuino a sopravanzare quelle indipendenti indicando come il quadro concorrenziale si sia fatto oggi molto più articolato rispetto alla tradizionale contrapposizione tra libreria e supermercato (secondo una ricerca dell’AIE è una donna su quattro a mettere il libro nel carrello della spesa). Nel corso del 2002 il 33% della popolazione italiana in età compresa tra 14 e 80 anni ha acquistato almeno un libro (esclusi quelli scolastici e professionali) ricorrendo a canali diversi da quello dei giornali. Rispetto al 2001 questo dato non è mutato, mentre nel 2000 la percentuale era del 29%. Si può quindi parlare di una sostanziale tenuta del sistema di vendita extraedicola, nonostante due importanti fattori abbiano influito con forza sul comparto editoriale nel corso del
2002: la legge sul prezzo, che ha fissato il tetto massimo di sconto al 15% e l’incremento del fenomeno dei libri venduti con i giornali. Senza trarre conclusioni definitive il rapporto dell’AIE nota che «la crescita tra il 2000 e il 2001 nel numero di acquirenti è avvenuta in un periodo di forte sviluppo da parte di Feltrinelli, Fnac, Messaggerie, Mondadori, quindi di librerie con forti elementi di innovazione nelle formule commerciali, nei layout, nell’arredo».
Cultura FESTIVALETTERATURA
Costruiamo un ponte tra Oriente e Occidente Nella città dei Gonzaga le massime voci della letteratura mondiale hanno avvicinato realtà apparentemente lontane, spesso ignorate, certamente scomode
Il cuore del programma sono stati gli incontri letterari dove la grande varietà delle proposte ha consentito di spaziare tra gli argomenti più disparati riconducibili a vari filoni culturali
Nelle immagini alcuni momenti della manifestazione nella città dei Gonzaga
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Festivaletteratura è giunto al settimo anno di vita. La manifestazione, che si è svolta a Mantova dal 3 al 7 settembre, ha conservato le caratteristiche che l’hanno fatta apprezzare nel tempo: il clima informale, la città come ambiente unico per le letture, gli spettacoli, gli incontri con gli autori. Imre Kertesz, Anita Desai, Jonathan Franzen, Hans Magnus Enzensberger, Antonia Byatt, David Grossman, Péter Esterhazy, Tibor Fischer, Arturo Perez-Reverte e Joachim Fest sono solo alcuni degli scrittori che hanno contribuito a definire un Festival ricco e articolato, dove
la letteratura si è declinata in più direzioni verso i gusti di un pubblico attento e curioso: sono state 39.000 le presenze agli eventi con prenotazione e circa 6000 agli eventi gratuiti. Confermate le due anime della manifestazione: la proposta, accanto a nomi più conosciuti e popolari, di scrittori esordienti o ancora non tradotti in Italia che hanno affrontato temi anche complessi intervistati da giornalisti ed esperti. Successo per le iniziative che hanno coinvolto bambini e adolescenti e “Libri di scambio”, con più di 2000 volumi scambiati.
Una manifestazione all’insegna del divertimento culturale, cinque giorni di incontri con autori, reading, spettacoli, concerti. Così potremmo definire in sintesi il Festivaletteratura di Mantova. Il cuore del programma sono stati gli incontri letterari dove la grande varietà delle proposte ha consentito di spaziare tra gli argomenti più disparati riconducibili a vari filoni culturali, tanto da poter identificare veri e propri percorsi. Tra questi quello della “Scrittura dell’impegno”. Una finestra aperta sul mondo, dall’Africa all’India, dall’Italia al Medio Oriente, un dialogo tra attualità e memoria nella consapevolezza che la conoscenza è un primo passo per il cambiamento, così come il silenzio protegge dalle responsabilità. Al Festivaletteratura 2003 una serie di autori ha permesso di avvicinare questi mondi apparentemente lontani, ignorati, queste realtà spesso scomode. Anita Desai, fra le massime voci della narrativa indiana contemporanea, ha raccontato dell’incontro di culture e lingue diverse: l’hindi, il tedesco e l’inglese, da cui ella distilla i suoi romanzi. La scrittrice ha dipinto una realtà contraddittoria, che per un verso relega le donne in posizione subalterna e per l’altro le eleva alle più alte cariche dello stato. Novanta minuti di risposte approfondite e toccanti hanno fatto viaggiare il pubblico attraverso Messico, India, Germa-
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Cultura Il manifesto di Festivalfilosofia 2003
FESTIVALFILOSOFIA
Desiderio infinito e sete di Dio Opinioni diverse sul senso della vita
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zate dagli inglesi. Ne è risultata una visione del mondo naturalmente pacifista, dove dovrebbero convivere religioni, idee diverse, nel reciproco rispetto. Con Il libraio di Kabul Asne Seierstad è riuscita a entrare nel cuore buio dell’Afghanistan. Asne, norvegese, che con i suoi 30 anni è forse la più giovane e apprezzata corrispondente di guerra d’Europa, ha spiegato quali erano le condizioni in cui ha vissuto du-
di Biagio Oppi 55 mila presenze in tre giorni, 122 appuntamenti, 34 lezioni magistrali tenute da grandi maestri del pensiero contemporaneo, italiani e non, come Jack Goody, Agnes Heller, Slavoj Zizek, Richard Sennet, Fernando Savater, Remo Bodei, Umberto Galimberti, Bruno Forte, Jürgen Moltmann, Enzo Bianchi. Son questi i numeri della terza edizione del Festivalfilosofia che si è svolto a Modena, Carpi e Sassuolo dal 19 al 21 settembre e che ha avuto come tema la vita. Un vasto programma ha coinvolto letteratura e cinema, teatro e musica, con numerose mostre, tra cui La vita delle forme, con oltre 300 fotografie, disegni e opere grafiche di artisti del XX secolo: da Picasso a Warhol, da Ernst a Doisneau, da Lichtenstein a Ghirri, Da Burri a Vedova. Tra gli interventi la nostra attenzione si è concentrata su Umberto Galimberti, professore di Filosofia della storia all’Università di Venezia e psicanalista di formazione junghiana; Enzo Bianchi, priore e fondatore della Comunità di Bose; Bruno Forte, professore di Teologia dogmatica presso la
Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale di Napoli e Jürgen Moltmann, professore emerito di Teologia sistematica presso l’Università di Tübingen che hanno dato voce a teologie ed etiche della vita diverse.
UMBERTO GALIMBERTI
“La doppia vita: la giusta misura e il desiderio infinito”. Una “scommessa vinta” quella di Festivalfilosofia, con tanta gente e tanta attenzione da parte dei media, ma soprattutto con un’atmosfera particolare nelle piazze di Modena, Sassuolo e Carpi che rimandava a un’epoca in cui il Logos era nelle piazze, dove si discuteva apertamente dei temi fondamentali riguardanti l’esistenza umana. Quei tempi, oggi certamente idealizzati, sono stati rievocati da Umberto Galimberti nella conferenza a Modena in piazza Grande la mattina del 20 settembre, che ha avuto come tema “La doppia vita: la giusta misura e il desiderio infinito”.
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Festivalfilosofia
Susanna Arundhati Roy: «Credo che sia necessario far sprigionare i legami tra i popoli aggirando gli Stati. La letteratura può avere un potere sovversivo di lettura del mondo»
re di parlare in termini di singoli Paesi, che sia necessario far sprigionare i legami tra i popoli aggirando gli Stati. La letteratura può avere un potere sovversivo di lettura del mondo». Bapsi Sidhwa, scrittrice appartenente alla piccola comunità Parsi, ha raccontato la storia dell’India e del Pakistan descrivendone le passioni, le gioie ma anche i conflitti generati dallo smembramento di queste regioni coloniz-
Umberto Galimberti
nia, passato letterario, futuro politico, tradizioni induiste e pregiudizi occidentali. Susanna Arundhati Roy vive a Nuova Delhi. È diventata una delle figure di spicco della protesta in India. «Mi interessa la relazione tra l’impotenza e l’essere privi di potere – ha dichiarato –. Ora il mondo è in uno stato precario, stiamo assistendo a una fase delicata di mutazione della democrazia. Credo che dobbiamo smette-
Festivalfilosofia
Cultura La tesi principale, che spiega il titolo, è che l’essere umano ha una doppia vita: una biologica e l’altra peculiarmente umana. Fra le due vite esiste uno scarto che genera depressione e infelicità a causa del desiderio infinito che la vita umana procura. Per spiegare meglio il concetto Galimberti ha parlato della doppia temporalità che esisteva nell’antica Grecia, costituita da un tempo ciclico e da un tempo progettuale. Il primo, in cui l’uomo vive la sua vita biologica, è un tempo circolare che segue il corso della nascita-crescita-morte dell’individuo, con una funzione sostanzialmente riproduttiva per la sopravvivenza della specie. Questo tempo fa sì che la vita biologica abbia senso solo se inserita nel meccanismo della Natura. Il secondo invece è il tempo progettuale, che distingue l’uomo dagli altri animali e che gli ha permesso di creare una cultura in grado di riflettere e una tecnica in grado di aiutarlo a non subire passivamente la natura. La giusta misura è quella che permette all’uomo di riconoscere e tenere sempre presente il proprio limite, la morte, subordinando così il tempo progettuale al tempo ciclico, come Aristotele ci ricorda: «Chi conosce il suo limite non teme il suo destino». Con il cristianesimo, secondo Galimberti, viene introdotto un terzo tipo di temporalità: il tempo escatologico. È questo tipo di temporalità che è destinato a provocare dolore e paura nell’uomo: mentre nella Grecia antica non c’è ricerca di senso della vita, con il cristianesimo la ricerca di questo senso diventa una necessità. Scompare dalla mentalità
umana il tempo ciclico, a favore di quello escatologico e di quello progettuale, con la parallela invenzione occidentale della storia. Il concetto di storia, mutuato poi da tutta la cultura occidentale, entra a far parte del comune immaginario e determina quello di progresso, destinando l’uomo a un fine, che ancora gli fa dimenticare il tempo biologico e la sua stessa vita biologica. Si spiega così come l’uomo moderno smarrisca il senso della natura, sottomettendola e violentandola; si spiega così come diventi necessario ricercare un senso della vita che la renda vivibile. Durante il dibattito con il pubblico la gran parte degli interventi ha cercato di ridare alla vita il senso che Galimberti le aveva tolto, altri invece hanno tentato di scaricare la religione cristiana dalla responsabilità di aver attribuito un senso (e quindi una necessità di ricerca del senso) al tempo. In realtà Galimberti ha suggerito di fare progetti, cogliere l’attimo continuamente assaporando il bello della vita, che è la vita stessa. Ha invitato a vivere il tempo progettuale a fondo, ma con un atteggiamento ludico, che permette di evitare gli integralismi di ogni tipo: «se ci si ricorda di essere mortali in un attimo si percepisce quanto sia inutile soffrire e far soffrire per piccoli obiettivi» (B.O.). ENZO BIANCHI
“La vita più forte della morte”. «Per esprimere la festa che attende l’umanità al compimento della storia, la Bibbia si serve del linguaggio simbolico. Il paradiso è certamente l’immagine più nota della beatitudine finale. Quando Gesù dice al ladrone crocifisso accanto a lui «Oggi sarai con me in paradiso!» il significato del paradiso appare già collocato attorno alla figura di Cristo: il paradiso è essere con Cristo e, attraverso lui e in lui, con Dio. Le immagini che si accumulano nella testimonianza biblica per evocare questa realtà sono quelle della gioia piena dell’uomo, della pienezza di vita: immagini che evocano il cibo buono e abbondante, l’amore e la Enzo Bianchi (Foto CampaniniBaracchi)
David Grossman: «Preferisco scrivere di cose che potrebbero rovinarmi; voglio che i miei libri mi sorprendano e mi facciano scoprire nuove cose. L’amore? Incontrare qualcuno disposto ad ascoltare le nostre storie e a raccontarci le sue»
non sia lontano il giorno in cui in Iran si instaurerà quella democrazia che è il suo sogno di sempre, convinta che questo sarà possibile solo con l’aiuto di un Occidente preoccupato dei diritti umani e delle libertà democratiche, non solo a parole ma anche nei fatti. «Preferisco scrivere di cose che potenzialmente potrebbero rovinarmi, voglio che i miei libri mi sorprendano e mi facciano scoprire nuove cose», ha detto David Grossman, uno degli scrittori israeliani più conosciuti e amati al mondo che a distanza di tre anni è tornato a Mantova per parlare di amore e gelosia, due parole dense di significati a cui Grossman ha dedicato undici anni di
Giovani volontari a Festivaletteratura
rante il suo soggiorno in casa del libraio Sultan Khan, senza elettricità o acqua calda. L’autrice ha parlato delle dure condizioni in cui le donne afghane sono costrette a vivere, del conflitto tra modernità e tradizione, tra i valori-pilastro della società, come la famiglia, il clan, e i nuovi valori da preservare, come l’educazione e l’istruzione. Marjane Satrapi ha passato la sua infanzia a Teheran dove ha conosciuto la rivoluzione e la guerra contro l’Iraq. L’autrice di Persepolis nella sua opera narra con disegni e dialoghi la propria biografia, utilizzando lo spunto personale e un’arte popolare per raccontare la storia recente e il dramma del suo popolo «sacrificato in nome del petrolio e del potere economico». La scrittrice ha manifestato la speranza che
lavoro. La conclusione è che, nonostante la tendenza della natura umana a proteggersi dagli altri, può capitare di incontrare qualcuno disposto ad ascoltare le nostre storie e a raccontarci le sue. È questa infatti la definizione che Grossman dà dell’amore. Pubblico numeroso anche per l’ungherese Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura 2002. Deportato ad Auschwitz appena quindicenne, Kertész ha confessato di aver sentito l’esigenza di diventare scrittore perché «durante gli anni della dittatura stalinista avevo deciso di vivere liberamente, e dunque scrivere per me era l’unico modo per esserlo». Lo scrittore ha usato parole chiare e delicate, che hanno lasciato un segno nella coscienza del pubblico, rapito da un personaggio straordinario per la semplicità, quasi
Gennaio 2004
Cultura
Molte le iniziative di Festivaletteratura rivolte ai giovani
in VERONA
partecipa del loro sforzo di procurarsi qualche “folata di felicità”. Francesco Permunian, nato a Cavarzese in provincia di Venezia e residente a Desenzano del Garda, e Juan Octavio Prenz, nato in Argentina e residente a Trieste hanno raccontato l’esilio dalla propria terra. Prenz si è mostrato in rotta di collisione con l’ideologia delle origini e delle radici a tutti i costi. Secondo il poeta, il destino che tocca all’esiliato è quello di condividere la sorte del paese che lo accoglie assumendone la responsabilità come essere umano. Permunian ha invece testimoniato il dolore dello strappo, che si mischia al rimpianto delle occasioni perdute e all’amarezza della perdita della propria identità. Così la letteratura per lo scrittore veneto diventa «parola ritrovata per stare in piedi», una sorta di cura per le ferite del distacco. Il tema dell’emigrazione è ritornato più volte in questa edizione di Festivaletteratura. Il premio Strega Melania Mazzucco lo ha affrontato parlando del suo ultimo romanzo Vita, dove narra del nonno Diamante, partito anche lui come tanti altri italiani all’inizio del Novecento verso il “sogno americano”. L’autrice ha raccontato com’era vivere in Italia un secolo fa sfatando l’immagine di un Paese bucolico e tranquillo attraverso le testimonianze di un mondo contadino ridotto in miseria. Il dibattito si è quindi concentrato sull’attualità, fatta anch’essa di persone costrette a lasciare i propri paesi per cercare qualcosa che troveranno, forse, a caro prezzo in un paese straniero (g.m.).
BRUNO FORTE
“Vita eterna, vita mortale” «Alla base del credere c’è il mettere al centro non l’Io, ma l’altro, accettandolo anche in quegli aspetti per noi non chiari. La nostra società non accetta la morte, la rifiuta perché essa ci fa orrore, è la negazione di tutte le nostre aspettative. Invece la morte è un tema su cui occorre interrogarsi. Interpretare la morte significa interpretare la vita. E qui ritornano la proiezione e l’amore verso l’altro perché amare significa cercare di strappare l’altro alla morte. Cristo ha dimostrato che la morte non è un confine ma una soglia, è un qualcuno che ci chiama, è l’amore che vince, è l’affidarsi all’altro, a Dio».
JÜRGEN MOLTMANN
“L’amore per la vita: un contributo teologico”. «Guardare l’altro negli occhi e sforzarsi di comprendere le sue ragioni, usare la testa, dove e quando è possibile. Tutto questo richiede una conversione del cuore che dà il frutto più grande: gustare la vita fino in fondo, perché è in una vita vissuta pienamente che facciamo l’esperienza di Dio. Un Dio che ci è vicino anche nelle tenebre: in esse aumenta la nostra fiducia in noi stessi. La tentazione di cedere alla disperazione è uno dei mali maggiori all’interno della cristianità. Rinunciare all’idea del domani, dimenticandosi anche del presente per ritirarsi in una dimensione privatistica dell’esistenza. Demandare tutto, come se non ci fosse più niente da fare su questa Terra, come se dovessimo cedere al dolore. Là dove si rinuncia alla speranza, si insinua e cresce la brutalità. Il ritorno all’esistenza piena avviene attraverso la gioia della resurrezione».
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Festivalfilosofia
naif, che è riuscito a ricreare e trasmettere la memoria di una delle pagine più orrende della storia dell’uomo. Hebe de Bonafini, argentina, è stata tra le fondatrici ed è la presidentessa dell’Associazione delle Madres de Plaza de Mayo, l’organizzazione che riunisce le madri argentine che da 25 anni scendono tutti i giovedì in piazza per denunciare i casi dei figli desaparecidos durante la dittatura militare. Hebe De Bonafini, premio Unesco 1999 per l’Educazione alla pace, ha fatto conoscere come queste donne rivoluzionarie oggi utilizzino tutti i loro mezzi per esprimere non solo dolore ma anche la volontà di lottare per la giustizia. Pedro Juan Gutiérrez è nato a Matanzas, una piccola città a nord dell’Avana. Ha alternato il mestiere di strillone a quello di gelataio, poi è stato soldato zappatore, istruttore di nuoto e di kajak, ma anche raccoglitore di canna da zucchero e bracciante. Si è laureato in giornalismo e oggi è professore universitario all’Avana, molto noto come scultore e poeta visual-sperimentale. Gutiérrez è autore di romanzi in cui descrive personaggi estremamente vitali, ma incapaci di un qualsiasi progetto di vita che vada al di là del quotidiano arrabattarsi per la sopravvivenza e del perdersi nello stordimento del piacere sessuale. Per Gutiérrez la letteratura è conflitto e sono le situazioni difficili che creano personaggi vivi e vicende drammatiche. Nemmeno si chiede perché i suoi personaggi agiscano come agiscono. Semplicemente si immedesima in loro,
convivialità, la pace e la giustizia. Potremmo ancora aggiungere le immagini della vita piena e della luce, dell’abbondanza e della fertilità, ma soprattutto sono significativi gli aspetti dell’eliminazione della morte e della scomparsa delle malattie e delle sofferenze, di tutte quelle realtà che gettano un’ombra di non pienezza, anzi di drammaticità, su ogni festa storica, su ogni festa che celebriamo nei nostri giorni. Aspetti evidentemente universali, che riguardano ogni uomo, ogni creatura: non si tratta di immagini particolarmente “spirituali”, ma umanissime, concrete, vitali. Ciò infatti che queste immagini vogliono esprimere è che la festa che esse intravedono deve essere universale: perché la pasqua, la liberazione attesa, la salvezza invocata è tale solo se è per sempre e per tutti».
Spettacoli TEATRO NUOVO
«Per chi non crede alla fine della Storia» di Enrico Linaria
Dal 3 all’8 febbraio “Konamija-L’armata a cavallo” di Moni Ovadia, liberamente tratto dal libro di Isaac Babel’, scrittore di origine ebrea nato a Odessa nel 1894 e fucilato in un lager sovietico nel 1941 dopo essere stato arrestato con l’accusa di trotzkismo
Nel variegato cartellone del Grande Teatro 2003-4 che spazia dal vaudeville strapparisate di Feydeau a un quasi metafisico von Kleist, dalla “cinematografica” Wertmüller al classicissimo Goldoni, spicca quest’anno, tra le opere delle seconda parte (andrà in scena a febbraio) Konarmija-L’armata a cavallo che Moni Ovadia ha liberamente tratto dall’Armata a cavallo di Isaac Babel’. Il libro di Babel’, scrittore di origine ebrea nato a Odessa nel 1894 e fucilato in un lager sovietico nel 1941 dopo essere stato arrestato con l’accusa di trotzkismo, e lo spettacolo di Ovadia suggeriscono una miriade di considerazioni. Andiamo con ordine: il libro esce nel 1926, viene riedito nel 1927 (la versione più celebre) e nell’arco di sette anni ha altre sei edizioni tutte con modifiche varie e tagli. Ma cosa mai aveva questo libro di così intrigante da irritare i vertici bolscevichi? Soprattutto due motivi: uno è che i leggendari cosacchi dell’Armata a cavallo comandata dal generale Budënnyi erano degli intoccabili come da noi gli alpini, la nazionale di calcio o la mamma. E Babel’, per via di demistificare, non scherzava. L’altro è che Babel’, sempre alla ricerca di valori umani, con quel suo dipingere uomini veri (pensiamo al candido soldato Ljotov, che poi è Babel’ stesso, amareggiato per la moria di api causata dalla guerra), dava fastidio a chi invece voleva uomini-macchine da comandare a bacchetta. Del resto gli autoritarismi, neri, rossi od orwellianamente tecnocratici che siano, mirano a questo. Lo attestano, per fare un esempio, le umoristiche uscite di Peppone che, stuzzicato da Don Camillo, prende in giro i “sentimentalismi” in nome della rivoluzione. Ma tono di voce e quell’autoironico risolino che gli scappa la dicono lunga. Babel’, per questa sua ricerca dell’“umano”,ci lasciò lo zampino. Fortunatamente nel 1954 fu riabilitato. La rivisitazione del testo di Babel’da parte di Moni Ovadia (dal 3 all’8 febbraio al Teatro
Nuovo) è particolarmente interessante. Da una parte, in un gioco di rimandi, c’è il fatto che sia proprio un pacifista e un “cantore” della cultura e della tradizione yiddish ed ebraica quale Ovadia ad affrontare, col suo teatro-musica, il testo di Babel’. Dall’altra (in questo mondo pericolosamente attratto dalla guerra più che dalla risoluzione, a monte, dei problemi che la causano) c’è il tirare in ballo la letteratura di guerra forse più pregnante e profonda degli ultimi cento anni: quella di autori dell’ex Unione Sovietica che sulla guerra civile iniziata nel 1918 hanno prodotto autentici capolavori. Da Capaev (1923) e dalla Rivolta (1925) di Dmitrij Furmanov ai Tassi (1925) di Leonid Leonov, dai romanzi di Sergej SergeevCenskij a Nel vicolo cieco (1924) e a Sorelle (1933) di Vikentij Veresaev. Come si vede, non c’è solo Babel’. E le date di pubblicazione attestano come il decennio dal ’23 al ’33 sia stato particolarmente prolifico. Tanto “ben di Dio”, anziché dimenticarlo, andrebbe letto nei parlamenti di tutto il mondo, per non ripetere gli stessi errori-orrori. Moni Ovaia, della possibilità che questo spettacolo che lo vede in scena con diversi attori e strumentisti sia un contributo alla cultura della “nonguerra”, ne è convinto: «Perché – si chiede – fare uno spettacolo così demodé con stelle e bandiere rosse, perché ascoltare la voce dei Ghedali, eroi della diaspora che sono passati per i camini trasformati in cenere da un mondo brutale e non più umano? Ne vale la pena: per gli uomini di buona volontà che non credono alla fine della Storia, che non vogliono essere definitivamente consegnati al dominio di Mamona, l’idolo dell’oro nel suo ultimo e subdolo travestimento del cosiddetto libero mercato che vuole il sacrificio dei nostri figli, e da ultimo per gli uomini che ancora credono alla possibilità di conquistare su questa terra libertà, giustizia, uguaglianza e bontà».
Giovedì 5 febbraio alle ore 17 Moni Ovadia incontrerà il pubblico nel foyer del Teatro Nuovo.
Gennaio 2004
Spettacoli TEATRO FILARMONICO
Norma di Bellini da Tokyo a Verona Definita da Mascagni «capolavoro dell’umanità» la tragedia in due atti fu rappresentata nel 1831 al Teatro alla Scala. L’interprete sarà la soprano Dimitra Theodossiou
Dal 22 gennaio al 2 febbraio 2004
in VERONA
«I latini tutti fian mietuti a cento a cento e fian distrutti». Le parole le pronuncia Norma, la protagonista della tragedia lirica in due atti di Vincenzo Bellini (Catania 1801- Puteaux, Parigi 1835) che dal 22 gennaio al 2 febbraio 2004 sarà in scena al Teatro Filarmonico, per la regia di Hugo de Ana, con la direzione di Piergiorgio Morandi. Il libretto di Felice Romani, tratto da Norma ou L’infanticide, di Alexandre Soumet, ci presenta un personaggio che, a dispetto del nome, si costruisce sugli eccessi – presenti anche nella musica con impennate acute e tante fioriture – fino a diventare una delle figure operistiche più grandiose dell’Ottocento. Forse proprio per l’impeto che la caratterizza, la prima rappresentazione dell’opera al Teatro alla Scala di Milano, il 26 dicembre 1831, fu accolta con perplessità, ma al termine della seconda recita la travolgente forza espressiva del dramma belliniano suscitò grande entusiasmo. A queste prime rappresentazioni assistette anche Donizetti, che così annotò: «Da quattro sere vado a teatro per risentire l’opera di Bellini fino all’ultima scena. Originalissima è la chiusura di questo pezzo, come pure di squisita fattura è l’introduzione che termina con un coro marziale, forte e vigoroso; ed è
un pezzo nuovissimo per la forma e lo svolgimento». Lo stesso Wagner scelse le musiche dell’opera belliniana: «Il sottoscritto – scrisse sul manifesto che annunciava un concerto a Riga, l’11 dicembre 1837 – crede di non poter meglio provare la sua stima per il pubblico di questa città che scegliendo la Norma. Quest’opera, tra tutte le creazioni di Bellini, è quella che alla più ricca vena melodica unisce con la più profonda realtà la passione più intima». Nel 1931, ricorrendo il centenario della prima rappresentazione, Mascagni pubblicò ne “La Lettura” un appassionato articolo, nel quale, con riferimento a Norma, tra l’altro si legge: «Capolavoro dell’umanità, essa è uno di quei miracoli che non si analizzano e non si discutono più, come non si discute più l’architettura del Partenone». L’opera in scena al Teatro Filarmonico vedrà il debutto nazionale nella parte di Norma del soprano Dimitra Theodossiou, di cui i veronesi ricordano la splendida interpretazione di Leonora, nel Trovatore, esordio assoluto dell’artista greca in Arena nella stagione lirica 2002, anno in cui le fu assegnato il “Verdi d’oro” come miglior soprano in occasione del
centenario verdiano. La Theodossiou, che tornerà con Trovatore in Arena nell’estate 2004, si è posta all’attenzione internazionale quale Odabella nella produzione 1999 di Attila del Teatro Comunale di Bologna e del Teatro Regio di Parma, ruolo che l’ha consacrata come una delle voci più importanti del repertorio verdiano e belcantistico. L’artista sarà a Verona proveniente da Baltimora e Atene, dove a novembre e dicem-
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Spettacoli bre ha interpretato Leonora. Nel 2003 è stata inoltre impegnata nel ruolo di Lucrezia nella nuova produzione de I due foscari, al Teatro alla Scala, diretta dal maestro Riccardo Muti; come Traviata a Seoul e come Norma a Tokyo con lo stesso allestimento curato da Hugo de Ana, che ora debutta a Verona in “prima” europea. Nelle vesti di Pollione sarà Kristjan Johannsson. Il tenore, di origine islandese e residente a Desenzano del Garda, di recente ha avuto unanime consenso di pubblico e critica con l’interpretazione di Turiddu e Canio nella nuova produzione di Cavalleria Rusticana e Pagliacci messa in scena al Teatro Verdi di Trieste; grande successo ha riscosso anche l’interpretazione di Otello al New National Theater di Tokyo. Nel 2004 tornerà a Trieste per debuttare ne I Cavalieri di Ekebù di Zandonai. Johannsson ha esordito nel ruolo di Rodolfo nella Bohème al Teatro Nazionale di Islanda attirando l’attenzione dei maggiori teatri
Dimitra Theodossiou, Norma
Kristjan Johannsson, Pollione
Chiara Chialli, Adalgisa
Riccardo Zanellato, Oroveso
d’opera di Gran Bretagna e Italia. Il suo debutto al teatro dell’Opera di Chicago ebbe luogo nel 1989 in Tosca ed è spesso tornato in questo teatro per cantare in Mefistofele, Turandot, Aida, Un ballo in maschera e Andrea Chénier. Si è esibito a Vienna per la prima volta nel 1991 in Tosca poi in Manon Lescaut, Andrea Chénier, Aida e Trovatore. Il suo debutto al Metropolitan fu nel 1993 nel ruolo di Manrico nel Trovatore ed è tornato qui ad ogni stagione, prima nel ruolo di Turiddu in Cavalleria Rusticana e successivamente nel 1994 e nel 1995 come Radames in Aida. Il suo debutto alla Royal Opera House - Covent Garden è avvenuto nel 1994 con Aida. Il 2000 lo ha visto protagonista a Budapest del Trovatore, a Modena per Otello, a Berlino per Gioconda, a Vienna nuovamente per Otello. Noto al grande pubblico fin dal periodo in cui è stato assistente del maestro Riccardo Muti, Piergiorgio Morandi ha diretto molti
concerti sinfonici con altre importanti orchestre di livello internazionale, quali l’Orchestra di Santa Cecilia di Roma, Bayerische Rundfunk Orchestra, Tokyo Philharmonic Orchestra, Budapest Philharmonic Orchestra, London
L’argomento dell’opera Atto primo. La storia d’amore tra Norma, sacerdotessa e figlia di Oroveso, capo dei Druidi (sacerdoti celtici) e Pollione, proconsole romano, è ormai finita. Quest’ultimo, pur avendo avuto due figli da Norma, ama, ricambiato, un’ancella del tempio di Irminsul, Adalgisa. I Galli attendono da Norma il segnale del dio che li inciti ad iniziare una guerra contro gli oppressori romani. Ma Norma tergiversa nella speranza che la pace possa rinsaldare il suo vincolo d’amore con Pollione. Per uno strano scherzo del destino la sacerdotessa viene a sapere proprio da Adalgisa il nome dell’uomo che l’ancella ama: Pollione. Norma esplode in un accesso d’ira e minaccia vendetta. Atto secondo. Pollione, che è stato richiamato a Roma, vuole rapire Adalgisa e portarla con sé, ma la giovane non lo vuole
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Il Teatro Filarmonico
Philharmonic e London Symphony Orchestra. Morandi ha inoltre diretto produzioni operistiche nei più importanti teatri del mondo. Nel 2004, oltre a Norma al Teatro Filarmonico, dirigerà anche Trovatore in Arena.
Piergiorgio Morandi, direttore
più e tenta di convincerlo, senza successo, a tornare con la madre dei suoi figli. Norma chiama a raccolta il popolo, spiega che la pace è finita: è ora di iniziare la guerra. Mentre i Galli intonano il canto di battaglia, si annuncia che un soldato romano è appena stato arrestato di fronte all’altare delle sacerdotesse. Norma allontana il popolo dichiarando che sarà lei a interrogare il romano: gli farà confessare il nome della sacerdotessa che si è resa complice del sacrilegio. Trovandoselo davanti agli occhi gli promette la vita, ma in cambio Pollione dovrà rinunciare ad Adalgisa. Norma è sul punto di denunciare Adalgisa, ma invece, nell’incredulità generale, accusa se stessa. Pollione capisce allora che il suo unico vero amore è lei, Norma. Ma è tardi. La sacerdotessa sale al rogo serena, stringendo per mano l’amato Pollione.
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Spettacoli
PICCOLO TEATRO DI MILANO
L’irrazionale e il potere Quale fede ci appartiene? In scena dal 2 al 28 febbraio 2004 Le Baccanti di Euripide offrono spunti per riflessioni che rimbalzano sul nostro presente
Il dissolvimento delle strutture sociali, il declino dell’antico modello di polis, il problema della condizione femminile, la questione dello straniero...
Massimo Popolizio è Dioniso (Foto Marcello Norberth)
in VERONA
di Alessandra Motta Approda al Piccolo Teatro di Milano una delle ultime opere del drammaturgo greco Euripide: Le Baccanti, per la regia di Luca Ronconi, in scena da 2 al 28 febbraio 2004. Il testo, tra i più complessi e affascinanti della letteratura occidentale, torna a proporci le domande di sempre: esistono gli dei? Come è possibile avere fede? Si può cedere al lato ferino che giace nascosto in ciascuno di noi? La tragedia offre notevoli spunti su cui riflettere e che rimbalzano sul nostro presente: il dissolvimento delle strutture sociali, il declino dell’antico modello di polis, il problema della condizione femminile, la questione dello straniero... Il viaggio di Ronconi nell’universo di relazioni fra umano e divino ci porta a Tebe, nel cuore di una storia atroce di morte e follia, di fede e laicismo. Dioniso (Massimo Popolizio) figlio di Zeus e di Semele e nipote
di Cadmo, dalla Lidia arriva a Tebe con una schiera di Menadi (le Baccanti). Vuole imporsi come dio nella città dove un fulmine ha incenerito la madre. E comincia forzando tutte le donne di Tebe a trasferirsi sul monte Citerone, dove si celebrano i suoi riti orgiastici. Al nuovo culto si adeguano il profeta Tiresia e l’antico re Cadmo; vi si oppone, invece, con feroce caparbietà, Penteo (Giovanni Crippa), il giovane sovrano, che fa imprigionare Dioniso. Intanto un servo giunge dal Citerone e racconta a Penteo come le Menadi sentendosi braccate si siano trasformate in furie, compiendo strage di armenti, devastando villaggi. Penteo decide di mandare truppe contro le donne invasate ma Dioniso lo distoglie dal proposito e gli suggerisce di andare a spiare tra i boschi le Menadi travestito da donna: lo guiderà lui stesso. Sul Citerone Penteo sarà fatto a pezzi dalla madre Agave, convinta di uccidere una fiera.
Nell’opera domina un forte interesse per i fenomeni mistici e irrazionali, che si era andato diffondendo nell’Atene degli ultimi anni del sec. V a.C. D’altra parte Dioniso non è solo il dio orgiastico e dell’estasi, ma anche della tranquillità edonistica consistente nel vivere serenamente giorno per giorno, accettando i valori tradizionali senza valicare i limiti della condizione umana. Di fronte a questa saldatura fra misticismo estatico ed etica tradizionale l’intransigenza di Penteo, rappresentante di una sottile quanto improduttiva “sapienza”, viene a porsi come hybris (superbia) attirando la punizione del dio. La connotazione espressiva che Ronconi suggerisce a Penteo si traduce in un atteggiamento d’ingenua caparbietà, in un’insana fiducia nel potere che il re ha ereditato per ragioni di discendenza e in un limitato acume nell’interpretare i segni di un culto che proviene dalle viscere della terra.
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Spettacoli CENTRO MAZZIANO
Le immagini della fede nella storia del cinema A marzo 2004, nella sala di via Madonna del Terraglio, pellicole di Bresson, Dreyer, Buñuel e Agostini. In aprile convegno sul tema “Comunicare l’invisibile”
Un’iniziativa che si colloca nell’ambito della celebrazione del Sinodo diocesano. Il coordinatore del Centro, Carlo Ridolfi: «Le pellicole aiuteranno a “Comunicare l’invisibile” cercando di raggiungere i cuori e le menti delle persone»
Diario di un curato di Campagna (1951)
di Martino Paradis Da 30 anni il Centro Mazziano di studi e ricerche continua a proporre ai soci e alla città di Verona rassegne cinematografiche, convegni di studio, corsi di formazione, pubblicazioni. Fondato il 18 febbraio 1974 da un prete dell’istituto don Mazza, don Domenico Romani, il Centro, che ha sede in via San Carlo, nel quartiere di Santo Stefano, per il trentesimo anno di attività ha in calendario varie iniziative, tra cui
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una interessa la città e la Diocesi, che dal 2002 sta celebrando il Sinodo della Chiesa veronese. Come contributo a questo appuntamento il Centro Mazziano, in accordo con la Segreteria del Sinodo, ha organizzato due appuntamenti per la prossima primavera. Il primo è cinematografico. A partire da mercoledì 10 marzo saranno infatti proposti, sotto il titolo L’ombra e la grazia. Immagini della fede nella storia del cinema, quattro capolavori che hanno interpretato, in luoghi e con stili diversi, i dilemmi dell’essere umano di fronte al trascendente. I titoli
proposti saranno: Il diario di un curato di campagna (1950) di Robert Bresson, Ordet - La parola (1955) di Carl Theodor Dreyer, Nazarin (1958) di Luis Buñuel e I dialoghi delle carmelitane (1960) di Philippe Agostini. Sabato 3 aprile si terrà il secondo appuntamento. Nella sala cinematografica che ospita le proiezioni dell’associazione, in via Madonna del Terraglio, il pomeriggio sarà interamente dedicato a un convegno di studi dal titolo: Comunicare l’invisibile. Espressioni artistiche contemporanee della Presenza di Dio. In esso esperti e
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Spettacoli «Esiste una tensione umana verso l’invisibile che nella sua versione più debole produce raffazzonati sincretismi new-age. Nei casi migliori, quelli che non cancellano le radici ebraico-cristiane della nostra cultura, dà invece vita a produzioni artistiche che lasciano tracce ben più durature»
studiosi di cinema, musica, arte e letteratura si confronteranno per approfondire come nel Novecento diverse forme espressive abbiano affrontato l’ambito religioso e la sua crisi. Non è casuale, ovviamente, la scelta delle pellicole proposte. Bresson trae il suo film dall’omonimo capolavoro letterario di Georges Bernanos. (Anzi: la sua è l’unica versione che convince all’epoca lo scrittore, che aveva già rifiutato due sceneggiature di Jean Aurenche e di padre Bruckberger). Il giovane e dolentissimo curato di Ambricourt è, nel romanzo e forse ancor più del film, una figura “eroica”. Di un eroismo particolare, umano, troppo umano. Basterebbe solo una sequenza
iniziale, per richiamarlo alla memoria. Dopo una notte insonne, per i dolori dovuti al male che lo sta martirizzando e per i rumori di una vicina balera, il protagonista si lascia andare a una riflessione interiore sul suo desiderio di avere vicino qualcuno. Desiderio di una normalità assoluta, ma non per lui (e per Bernanos e per Bresson). Tanto che alla voce fuori campo che esprime queste parole segue immediatamente, nel sonoro, un triplice canto di gallo. Come se si trattasse di un tradimento. Penultimo film del sommo autore danese Carl Theodor Dreyer, Ordet racconta invece di un miracolo. Ma non si tratta di una di quelle epifanie con effetti speciali
a cui tanto cattivo cinema, e tanta pessima agiografia, ci hanno abituato. La follia del giovane Johannes, che ripara una situazione fino a un attimo prima irreversibile, è il delirio di un mistico, la messa in opera della scommessa del tutto illogica, e pure resa possibile dalla forza di una fede, che mette in scacco la morte. Alcuni critici definiscono oggi il capolavoro di Dreyer come “lento”. Certo, l’uso della macchina da presa e del montaggio messi in atto dal maestro danese non è quello forsennato di mille film statunitensi, ma l’alternarsi di interni quasi pittorici e di panoramiche di ampio respiro all’esterno resta ancor oggi, e per sempre, una dimostrazione di come il più alto contenu-
ROVERETO - CINEMA ARCHEOLOGICO
Il Premio della XIV Rassegna a Turchia e Albania Due film, uno turco e l’altro albanese, hanno vinto ex aequo il Premio Paolo Orsi che una giuria internazionale attribuisce nell’ambito della Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto, giunta ad ottobre alla XIV edizione. Si tratta della più importante manifestazione europea del settore, che raccoglie le produzioni documentaristiche sul tema della conservazione e della valorizzazione del patrimonio culturale mondiale. I film vincitori sono La diga sull’Eufrate ( Turchia 2001), per la regia di Paxton Winters e Homo Balcanicus - Lago di Prespa (Albania 2002), per la regia di Esat Musliu. Il premio attribuito dal pubblico è andato invece al regista Marco Visalberghi, per il film Ercolano, gli scheletri del mistero. • La diga sull’Eufrate. Nel giungo 2000 i media dettero ampio rilievo all’inondazione dell’antica città di Zeugma dovuta alla Diga di Birecik, nella Turchia sud-orientale. Il livello delle acque dell’Eufrate si alzò fino a sommergere l’importante città romana che unisce l’Anatolia e la Mesopotamia. Il documentario racconta la storia del salvataggio di 700 m2 di mosaici avvenuto attraverso una paziente rimozione e l’esodo forzato della popolazione minacciata dalle acque. Il film, sollevando dibattiti
in VERONA
sullo sviluppo programmato, si chiede come le storie che hanno perso il loro habitat possano ricollocarsi in un contesto culturale diverso, quali nuove storie siano nate in seguito all’inondazione e quali misteri siano stati persi per sempre nelle acqua silenziose dell’Eufrate.
calibrato alternarsi di elaborazioni al computer, sequenze in docudrama ed esperimenti di laboratorio, si visualizza una detective story scientifica che documenta l’ultimo giorno di vita degli abitanti di Ercolano (M.Z.).
• Homo Balcanicus - Lago di Prespa. Nel cuore dei Balcani c’è uno specchio d’acqua, il lago di Prespa, diviso tra tre stati: Albania, Macedonia, Grecia. Da quelle parti la gente e i ritmi di vita sono rimasti gli stessi dai tempi remoti: per l’Homo balcanicus, le frontiere non sono nient’altro che delle linee d’acqua, segnate e sfumate dal movimento regolare delle onde. Esat Musliu è uno dei più importanti registi albanesi, già attivi per la TV di stato e ora impegnato nella valorizzazione del patrimonio del paese per una delle TV private sorte in Albania negli ultimi anni. • Ercolano, gli scheletri del mistero. Il film trae origine da uno straordinario progetto di ricerca che ha coinvolto archeologi, vulcanologi, antropologi e che recentemente ha trovato pubblicazione sulla rivista “Nature”. Mira a gettare nuova luce sui misteri che ancora circondano la terribile eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 a.C. In un
Il manifesto della XIV Rassegna internazionale del Cinema archeologico di Rovereto
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Spettacoli to etico possa essere espresso con la più magistrale tecnica cinematografica. «Grazie a Dio, sono ateo», diceva Buñuel, con la provocazione tipica di chi aveva frequentato da vicino il surrealismo. Eppure, questo non credente dichiarato, ha realizzato alcune delle opere più profonde sul senso del sacro che la storia del cinema ricordi. Nazarin è una di queste. Siamo in Messico alla fine dell’Ottocento. L’abate Nazarin incontrerà una serie di eventi e di persone che porteranno la sua fede a una escalation pratica sempre più inaspettata e sempre più radicale. Ospita una prostituta accusata di omicidio. Guarisce una bambina. Predica e pratica il Vangelo e finisce in prigione. Premio speciale della giuria a Cannes il film, che esprime una magnifica riflessione sul rapporto tra mezzi e fini, è tratto dal romanzo di Benito Pérez Galdos. Ancora a Bernanos si ispira I dialoghi delle Carmelitane, di Philippe Agostini. L’epoca è quella della Rivoluzione francese. Nella vita del carmelo, con tutte le sue contraddizioni e i suoi aspetti comunitari, irrompe il Terrore. Tanto che le suore faranno voto di martirio e saranno giustiziate sulla ghigliottina. Non si può qui dimenticare il magnifico stuolo di attrici (Jeanne Moreau, Alida Valli) e attori (Pierre Brasseur, Jean-
Louis Barrault) che prestano la loro sapienza interpretativa ai personaggi della vicenda. Agostini, già direttore della fotografia di Bresson, senza raggiungerne i livelli, riesce tuttavia a licenziare un’opera severa nella resa drammatica e spettacolare. Non sono che quattro esempi dell’ampia filmografia disponibile su questo tema. Nel suo giornale on line “Appuntamenti” il Centro Mazziano ha infatti raccolto un dossier sulle espressioni artistiche del sacro di quasi duecento titoli. «Si tratta comunque di quattro grandi film che possono ricondurre lo spettatore ai temi del convegno del 3 aprile – spiega il responsabile del Centro Mazziano, Carlo Ridolfi –. Le pellicole aiuteranno a capire come e chi, nel Novecento, ha cercato di esprimere in forme diverse la tensione al trascendente, aiuteranno a “Comunicare l’invisibile” cercando di raggiungere i cuori e le menti delle persone. Esiste infatti una tensione umana verso questo invisibile che nella sua versione più debole produce raffazzonati sincretismi new-age. Nei casi migliori, quelli che non cancellano le radici ebraico-cristiane della nostra cultura, dà invece vita a produzioni artistiche che lasciano tracce ben più durature di tanti film, dischi, quadri o libri che ammorbano i nostri sensi».
L’attività del Mazziano L’attuale gruppo dirigente del Centro Mazziano, diretto da Carlo Ridolfi, sta lavorando per strutturare le attività dell’associazione in tre direzioni. Il Comitato esecutivo coordina e controlla tutte le azioni culturali e organizzative del Centro, con particolare attenzione alla programmazione cinematografica. La redazione di “Appuntamenti”, mensile di confronto e collegamento con i Soci, che nel 2004 toccherà i ventisette atti di vita, ne realizza sia la tradizionale versione a stampa che, dal 2003, una edizione on line, rintracciabile sul sito www.centromazziano.it. In occasione del trentennale, si provvederà alla pubblicazione del n° 1 di un “Annuario di Appuntamenti”, che raccoglierà gli articoli più significativi apparsi sul web nell’anno precedente. Il gruppo SI.SI.FO (Sistemi e Sentieri per la Formazione) di recente costituzione ma che riprende di fatto una tradizione di attività ben presente nella storia del Centro Mazziano, si occupa di progettare e realizzare azioni formative nelle scuole di ogni ordine e grado, nei centri culturali circoscrizionali, in comuni della provincia e non solo. (Centro Mazziano, tel. 045.918485).
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Spettacoli CINEMA AFRICANO
Queste pellicole costruiscono la pace Quasi 25 anni di Cinema africano hanno consentito ai veronesi di conoscere culture diverse dalla loro. Razzismo, odio e guerra si vincono anche così
di Diego Marani Si è conclusa lo scorso 5 dicembre la XXIII Rassegna del Cinema africano. In quasi 25 anni di attività è certamente cresciuta la qualità della proposta culturale e insieme il livello di dialogo tra le culture africane, la città di Verona e l’Italia. Certamente è stata una manifestazione pioneristica: registi che nella città scaligera si sono fatti conoscere, come Idrissa Ouédraogo (Burkina Faso), Abderrahmane Sissako (Mauritania) o Youssef Chahine (Egitto) vengono ammirati e premiati da critica e festival di tutto il mondo. «Il pubblico vent’anni fa pareva disposto ad applaudire tutto – spiega Pier Maria Mazzola, già direttore di Nigrizia, il mensile dei Comboniani – per fede nella causa, per incoraggiamento, per “principio”. Poi la produzione si è
La scuola come luogo privilegiato dove coltivare una cultura della convivenza che sappia vedere nella diversità una ricchezza
in VERONA
diversificata e i palati si sono affinati. La visione di questi film non è più rimasta allo stadio intellettual-emozionale ma è diventata anche una “necessità”. Dopo il 1990 l’immigrazione ha cominciato ad essere per l’Italia una realtà nuova: ingombrante, stimolante, rigeneratrice, degradante a seconda dei punti di vista. Comunque nuova, da osservare, da capire. Gli strumenti dell’informazione e della sociologia non bastavano più. La cultura – si è presto passati alla “intercultura” – rappresentava un passo in avanti. Il cinema offre, per questa operazione, innegabili vantaggi». Annamaria Gallone, una delle figure più importanti per la diffusione del cinema africano in Italia, sostiene che «c’è stato un cambiamento enorme negli ultimi 15 anni. Inizialmente il cinema africano era oggetto di curiosità, principalmente per africanisti, nel senso non solo di studiosi ma anche di appassionati, mentre i critici tout court non erano interessati. Nella prima metà degli anni Novanta è diventato di moda, per poi rientrare in una sorta di circuito nascosto. Nel frattempo però i film africani sono usciti dal ghetto e sono diventati film universali. Critici e addetti ai lavori lo considerano ormai sempre più “cinema” e sempre meno “cinema africano”. Molti dei film recenti sono meno legati ad aspetti folcloristici e tradizionali per aprirsi a temi universali,
con minor ambientazione rurale e maggior ambientazione urbana». Che cosa significa dunque oggi una rassegna di cinema africano per una città come Verona? (La rassegna è organizzata da Nigrizia e da Centro missionario diocesano-Cmd, a cui si sono aggiunti recentemente Movimento laici America latina-Mlal e Amministrazione comunale). Significa sempre più attenzione al mondo della scuola e a quello dell’immigrazione, o – in termini più burocratici – “servizi al territorio”: corsi di formazione e aggiornamento per insegnanti, proiezioni guidate per le scuole, feste e momenti di confronto con associazioni di immigrati, presentazioni di libri, mostre… Spiega Stefano Gaiga, che lavora per il Cmd e segue l’organizzazione della Rassegna da oltre 15 anni: «Proiettare film di attori o registi tunisini, marocchini o senegalesi è anche un modo per accogliere la presenza dei loro connazionali in Italia e valorizzarne le culture di origine al di là delle strumentalizzazioni politiche, delle polemiche e degli atteggiamenti razzisti, che purtroppo qui in Veneto sono stati anche assai forti e talvolta sono ancora presenti. Il vaccino contro il razzismo deve essere iniettato prima di tutto nelle scuole. Pensiamo alle esigenze degli studenti, ormai
sempre più numerosi, figli di immigrati africani. La scuola diventa un terreno privilegiato dove seminare e coltivare nuove sensibilità per favorire quella cultura della convivenza dove le diversità non diventano occasioni di scontro, ma incontro di ricchezze. La speranza più forte è che la Rassegna diventi una struttura sempre più stabile e indipendente e al tempo stesso luogo simbolico e spazio culturale dove incontrarsi per formare insieme una “comunità civile” che non può prescindere dalle comunità di immigrati residenti a Verona».
Mostre PALAZZO FORTI
Picasso, Bacon... e alcuni giovani talenti La mostra La creazione ansiosa non offre solo la visione di opere realizzate da grandi e indiscussi maestri ma propone anche nuovi linguaggi espressivi
di Milena Cordioli
Margherita Manzelli. S, (2000)
rimane intrappolati in una rete di sguardi, tra i ritratti di Schad (siamo con lui negli anni trenta del ’900) e lo sconcertante “autoritratto” della giovane artista Margherita Manzelli, nata a Ravenna nel 1968. Lei si presenta imprigionata nella morsa angosciante del tempo, fra l’invecchiamento precoce del suo volto e l’esilità del corpo adolescenziale, distesa su una coperta a scacchi, vero tripudio di luce e colore in contrasto con lo sfondo, dominato da un’oscurità pregna di segreti inconfessabili. La Manzelli riprende il linguaggio classico della pittura, segnando una nuova rotta nel cammino dell’arte contemporanea, che esprime un nuovo stato d’inquietudine interno alla
Tony Oursler. Hello? (1996)
Vanessa Beecroft. VB 11,055 Performance Galerie, 1997
La mostra in corso a Palazzo Forti, La creazione ansiosa da Picasso a Bacon, oltre ad offrire al pubblico la visione di grandi capolavori dell’arte moderna, proposti in una chiave di lettura assolutamente nuova ed affascinante, permette di scoprire i linguaggi espressivi di alcuni giovani artisti comparsi sulla scena internazionale. La mostra indaga il tema dell’angoscia come principio creativo per l’uomo contemporaneo, dagli enigmi della forma fino all’ebbrezza della sua devastazione e viceversa, con un percorso che si apre e si richiude su se stesso costantemente. Il dialogo serrato fra le opere cattura letteralmente lo spettatore. Così nelle sale al piano terra si
forma, recuperando così la tradizione. Questo aspetto unifica la ricerca, pur così diversificata, degli artisti più giovani in mostra, e lo si può riscontrare visitando le Nuove acquisizioni e donazioni recenti della Collezione Civica di Palazzo Forti, che verranno riallestite dopo la chiusura della mostra in corso. Solo tre sale prima della Manzelli si trova, infatti, un’opera di Cindy Sherman del 1984 presente nella Collezione Civica della Galleria. Nella sala che apre la sezione intitolata La rappresentazione improbabile, ci si può fermare a riflettere sull’opera di quest’artista ame-
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Mostre Le Nuove acquisizioni e donazioni recenti della Collezione Civica di Palazzo Forti verranno riallestite dopo la chiusura della mostra in corso
ricana, che si è affermata nel circuito internazionale dell’arte grazie alla sue immagini fotografiche di altissima qualità, drammatizzate dall’effetto luministico che guarda alla pittura di Caravaggio. In mostra ce ne sono due, il soggetto come sempre è l’artista stessa e il taglio compositivo della scena, come la luce appunto, è legato al contenuto: la ricerca di un’identità in continua fuga e trasformazione. La Sherman ricorre persino all’uso di protesi deformanti, come nell’opera del 1984. Accanto alla Sherman, nella suggestiva disposizione “a quadreria” che richiama una pinacoteca ri-
in VERONA
nascimentale, oltre a Richard Billingham, altro giovane artista che utilizza la fotografia come mezzo espressivo, troviamo la grande stampa digitale di Olga Tobreluts, nata a Leningrado nel 1970. Nella sua opera il linguaggio dell’arte si confronta con quello della pubblicità, per riflettere sul significato estetico della bellezza nel mondo contemporaneo, arrivando a scoprire la sua regressione nel linguaggio mediatico di comunicazione di massa. Abbandonata definitivamente la sacralità del mito antico, l’ideale precipita nell’effimero, nel continuo mutamento della moda in corso: un dio greco oramai veste Lacoste. Il problema della bellezza e perfezione della forma divenuti valori artificiali e corruttibili, ritorna nella tela di Debora Hirsch, esposta nella sezione Il brivido della visione, dov’è suggerito un suo possibile dialogo a distanza con la donna allo specchio di Cagnaccio di San Pietro, opera del 1927. Come quest’ultima cerca nello specchio una forma rassicurante ma trova solo un’enigmatica figura rivolta altrove, così la donna del XXI secolo, riflessa nell’opera della Hirsch, scopre il dolore di una bellezza artificiale illusoria e lo spettro di un inevitabile deterioramento, proprio negli effimeri modelli femminili che la società, come uno specchio distorto, le offre. Del resto tutta la ricerca di Debora Hirsch si muove in questa direzione, passando dal medium tradizionale della pittura a quello moderno dell’espressione multimediale; realizza dei video con personaggi virtuali (ben tre sono esposti in mostra) attraverso i quali indaga i limiti della comunicazione artificiale e il suo processo d’alienazione. Un’altra installazione-video di forte impatto è quella dell’artista americano Tony Oursler, per la fittizia ma “ingombrante” presenza del fantoccio, su cui è proiettato il volto di un’attrice, impegnata ad interpretare uno stato d’angosciosa allucinazione quotidiana. Nato a New York nel 1957, l’arti-
sta ha raggiunto, con la violenza espressiva e l’indagine sociale delle sue installazioni, grande riconoscimento negli ultimi anni; con occhio attento Palazzo Forti ha voluto omaggiarne l’importante ricerca, con una mostra personale allestita nelle sale del palazzo nel 1999. Con la Hirsch troviamo anche Vanessa Beecroft, ed entrambe le opere delle due artiste provengono dalla collezione di Palazzo Forti. Nata a Genova nel 1968, la giovane artista è famosa per le sue fotografie, che ritraggono modelle silenziose e assorte, in un impianto scenico raggelato, dove s’arresta ogni respiro. La costruzione classica della composizione, popolata di presenze umane ridotte ad enigmatici manichini in posa, riconduce l’opera a più lontane ricerche metafisiche, dove la vita e la sue forme si propongono come un mistero senza tempo: pochi metri più in là, nella stessa sala, ci si accorge che il manichino di De Chirico ha già segnato la via. Cindy Sherman, Olga Tobreluts, Debora Hirsch, Vanessa Beecroft sono giovani artiste (forse rappresentano una virata al femminile nelle nuove ricerche artistiche?) presenti nella Collezione Civica di Palazzo Forti. Le loro opere si potranno ritrovare, in dialogo con altri artisti, nelle sale di Palazzo Forti, dopo questa mostra e con loro sarà possibile rincontrare anche l’opera di Silvano Girardello, Claudio Costa e le sculture di Antonio Violetta, attualmente esposti anche loro vicino ai maestri “storici” della modernità.
Debora Hirsh. Sopra: Senza titolo, 2000 A sinistra: Lud Evian Ah come Mad Ya, 2003
La creazione ansiosa da Picasso a Bacon chiude l’11 gennaio 2004. Palazzo Forti, tel.045.8001903
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Mostre FOTOGRAFIA
Fotoreporter di guerra agli Scavi scaligeri A marzo la seconda parte della mostra dedicata al fotogiornalismo di guerra. Storia di una professione nata non per documentare ma per mistificare
Di Gianni Calafà A marzo 2004 il Centro internazionale di fotografia scavi scaligeri ospiterà la seconda parte della mostra dedicata al fotogiornalismo di guerra. Un’abbondante documentazione farà rivivere i principali avvenimenti di una storia che necessita di essere aggiornata in tempi tragicamente rapidi. La prima parte della mostra era stata allestita l’11 settembre 2002 e aveva come titolo Da New York a Kabul, 7 fotografi in un mondo in conflitto. Allora furono gli scatti di Alexandra Boulat, Ron Haviv, Gart Knight, Antonin Kratochvil, Christoper Morris, James Nachtwey e John Stanme-
Il più celebre fotografo di guerra fu Robert Capa che iniziò la sua attività nel 1936 documentando il conflitto in Spagna. Quelle immagini rimangono un pilastro nella storia della fotografia
in VERONA
James Nachtwey. Le conseguenze dell’occupazione israeliana di Jenin (2002)
yer a mostrarci le immagini di un mondo che fatica a trovare una dimensione pacifica del vivere. Il mestiere di fotoreporter legato ai conflitti nasce nel 1855, durante la guerra di Crimea, che vide Inghilterra, Francia e Turchia combattere contro la Russia. William Howard Russel è un bravo giornalista britannico che invia alla redazione di “Times” le sue corrispondenze, dalle quali emerge che le truppe britanniche sono decimate dai combattimenti e dalle pessime condizioni igieniche delle trincee. Per calmare l'opinione pubblica la casa reale pensa di inviare sul posto qualcuno che documenti con le immagini l’esatto contrario di quanto Russel scrive. Viene scelto il migliore, Roger Fenton, fotografo della famiglia reale, che diventa così il primo
manipolatore della storia della fotografia. Quella del fotoreporter di guerra è quindi una professione a cui manca un’origine nobile, ma che comunque permise di trasformare una guerra atroce in una passeggiata, a testimonianza di come attraverso l’obbiettivo della macchina fotografica passa sempre e solo quello che il fotografo vuole far vedere. Senza dubbio la guerra più seguita dai fotografi dell’Ottocento fu quella civile americana, soprattutto grazie a Matthew Brady e alla sua squadra. Altri famosi fotografi del tempo furono Alexander Gardner e Timothy O’Sullivan. Gardner, nel 1865, pubblicò due album con un centinaio di immagini, la gran parte di O’Sullivan, in cui si trovano documentati eventi eccezionali, come il presi-
dente Lincoln in visita al quartier generale nordista. Con la prima guerra mondiale da una parte torna l’uso strumentale della fotografia per fini di propaganda, con tanto di retorica nazionalista; dall’altra allo stupore suscitato dalle prime immagini raccapriccianti si sostituisce gradualmente una certa morbosità, ben descritta nelle considerazioni di Elias Canetti: «Il terrore suscitato dal morto quando giace davanti a chi lo guarda è compensato dalla soddisfazione: chi guarda, non è lui il morto». Le immagini della prima guerra mondiale fanno il giro del mondo grazie alle cartoline illustrate e a riviste come “L’illustrazione italiana”, “L’illustration” francese e i supplementi di giornali come il “New York Times”. Il più celebre fotoreporter di guerra fu certamente André Friedman, che iniziò la sua attività nel 1936 documentando la guerra di Spagna. Allo scoppio del conflitto si trovava in Francia e per passare la frontiera gli fu necessario utilizzare un nome che non tradisse la sua origine ungherese: fu così che nacque il mito di Robert Capa. Le immagini di quella guerra rimangono un pilastro nella storia della fotografia, per come egli seppe rappresentare, più che gli orrori del conflitto, la dignità di un popolo sofferente ma vivo. Capa morì in Indocina nel 1954 a causa di una mina.
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Libri
“El prete da Sprea” pubblica le sue ricette Don Luigi Zocca lasciò solo appunti su foglietti volanti. Ferdinando Zampiva, scomparso alcuni mesi fa, ha pazientemente raccolto e decifrato quelle note
Ferdinando Zampiva Prete da Sprea La Grafica Editrice pp. 140, euro 13,00
Nel volume troviamo la precisa descrizione di un centinaio di prodigiose ricette, tante sono quelle che si sono potute ricostruire
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L’erboristeria innamorata, il ricettario della tenerezza, la scienza che diventa poesia. «Dal portamento mistico, simile a un antico candelabro» è il verbasco, che predilige i terreni sassosi e arsi; il camedrio, invece, ha «fiorellini di colore rosso porporino, disposti a spiga»; è cosa indescrivibile «il giallo vivo intenso al margine dei boschi ancora brulli» della camomilla. Sono alcune delle erbe che don Luigi Zocca, el prete da Sprea, privilegiava utilizzare nelle sue ricette. La loro descrizione precisa, perfino commossa, è di Fernando Zampiva, l’erborista di Arzignano scomparso pochi mesi fa, scrittore di libri fondamentali, non solo per la conoscenza dell’erboristeria popolare, ma anche per la storia, le fiabe e le tradizioni della Lessinia Orientale. Se c’è stato un allievo dello straordinario prete, che esercitò il suo ministero come parroco di Sprea dal 1918 al 1951, questi fu Fernando Zampiva. «Non lasciò niente di scritto» afferma Zampiva nel suo libro Prete da Sprea, la cui prima edizione è uscita nel marzo 2002 per i tipi de La Grafica di Vago di Lavagno. In questa precisazione è racchiuso il puntiglioso e paziente lavoro dell’autore che, decifrando le epistole, le
ricette scritte con il lapis su foglietti volanti e gli insegnamenti orali di don Zocca, ha dato, con la consueta semplicità letteraria e la raffinata impaginazione grafica, la precisa descrizione di un centinaio di prodigiose ricette, tante sono quelle che si sono potute ricostruire. «Attenzione, le ricette del prete da Sprea non sono acqua calda», si premurava di sottolineare Zampiva quando, invitato a parlare di erbe e di rimedi naturali, raccomandava di seguire scrupolosamente le dosi e la composizione di unguenti, infusi o decotti. «Molti degli ingredienti sono erbe dalle caratteristiche tossiche, o velenose, che, usate in quantità errate, potrebbero provocare effetti indesiderati e pericolosi». Perché il prete, le cui vicende furono spesso ammantate da un alone di magia e di leggenda, fu prima di tutto un grande erborista, la cui capacità scientifica si univa a quella del pastore di anime, pronto ad aiutare, ad ascoltare e a curare del tutto gratuitamente. Zampiva ne ha raccolto anche il pregio della divulgazione scientifica con una forma comprensibile a tutti. Come don Zocca, nel «giardino del buon Dio», a Sprea, aveva riabilitato e raffinato rimedi curativi antichissimi, così Zampiva ha salvato dall’oblio gli insegnamenti di una scienza che, prima di essere codificata, studiata e comprovata, era stata applicata e
sperimentata, a livello popolare, per millenni. A leggere le pagine di Zampiva si imparerà a riconoscere la forma e il colore, a intuire il profumo e la fragranza delle erbe, si scoprirà dove andarle a cercare, grazie alle annotazioni precise perfino sui pendii, i boschi e i viottoli sassosi che, intorno a Sprea, sulla dorsale tra la veronese Valle di Illasi e la vicentina Valle del Chiampo, sono l’habitat privilegiato di una farmacia a cielo aperto. Ma questo libro dedicato al prete da Sprea è più di un semplice manuale, è un racconto devoto, rispettoso e discreto della vita di un uomo che seppe farsi voler bene anche dopo il suo trasferimento in città, nel 1951, che precedette la sua morte improvvisa, avvenuta in seguito a una banale caduta in chiesa nel 1954. Le leggende, quali quella dell’automobile che si rifiutava di partire per impedire agli squadristi fascisti di prelevare il prete e portarlo a Verona, corsero quanto la sua fama di guaritore e taumaturgo, offuscandone quasi il valore scientifico. Merito di Fernando Zampiva se, di don Luigi Zocca, finalmente è stato restituito l’intero spessore di uomo e di studioso. Ora il ricordo li unisce entrambi, entrambi a raccogliere le erbe in cielo e a curare gli angeli del Paradiso. Alessandro Anderloni
Gennaio 2004
Libri
Torna il baco da seta Sensibilità, intelligenza, rigore scientifico. Un libro che merita per come l’autore ha saputo raccontare “la storia vera” delle filande e della vita attorno ad esse
Glauco Pretto contributi di Maria Girelli Vita col baco da seta. Dal seme alla matassa Casa editrice Mazziana pp. 208, euro 25,00
Il libro racconta la trasformazione che da un insieme di ovetti porta alla produzione della seta e insieme le vicende di uomini e donne che per buona parte del secolo scorso hanno vissuto su questa metamorfosi. Gli autori, Glauco Pretto e Maria Girelli, narrano questa storia appassionatamente perché hanno vissuto sulla loro pelle le vicende delle filande padane, dagli inizi a oltre la metà del ’900. Si tratta di una testimonianza assai nitida, anche per l’età degli autori (Pretto è nato nel 1928, Maria Girelli è ultranovantenne) arricchita da finestre di approfondimento storico, culturale e scientifico, da preziose immagini d’epoca. La prima parte del libro fotografa l’aspetto prevalentemente artigia-
in VERONA
nale e domestico dell’allevamento del baco. Si parte dal seme, dal calore necessario per la schiusa, al nutrimento delle piccole larve con foglie di gelso, le cui piante rimangono a distanza di decenni nelle campagne come testimonianza ancora visibile di un mondo scomparso. Quindi si passa alle strutture, a partire dalle peagnè, baldacchini di legno a castello che fungevano da lettiera. Il ciclo del baco è descritto minuziosamente nei suoi tre mesi di vita attraverso i periodi della furia, del bosco, della raccolta, della cernita dell’ammasso, così come la vita degli uomini e delle donne che da quel ciclo dipendevano nel bene, quando la seta prodotta era di buona qualità, e nel male, quando qualche malattia comprometteva tante giornate di lavoro. Un capitolo è dedicato alla filanda, definita dagli autori “tempio della seta”. È proprio qui infatti che, con un lavoro di alta precisione, le filandine ricavavano il prezioso filo d’oro, dipanandolo da quello straordinario gomitolo che era il bozzolo. L’organizzazione del lavoro aveva portato a delle vere e proprie specializzazioni tra le donne. Il libro ci spiega i ruoli della scopinatrice, della filatrice, dell’annodatrice, dell’assistente, le varie mansioni accessorie e in cosa consisteva un mestiere esclu-
La filanda in una foto degli anni ’30
sivamente maschile come quello del fochista. Le ultime pagine riguardano la condizione della donna nella filanda; ad esempio si narra dei castighi cui era sottoposta in seguito all’accusa di avere sciupato la seta o prodotto filo scadente. In appendice è possibile leggere le poesie del mondo della seta, i documenti e i proverbi. Pretto, che nel mondo del baco da seta è nato e ha vissuto tutta la sua giovinezza, spiega come durante la scrittura del libro abbia voluto mantenersi fedele a due obiettivi: rendere scorrevole la narrazione senza
tradire il rigore scientifico. E infatti la piacevolezza del racconto non contrasta l’esattezza dei termini tecnici, che sono numerosi, complessi e che ci aiutano a capire. La parte dialettale completa l’opera e contribuisce a renderla viva, quotidiana. In questo modo l’autore ha evitato l’errore di sradicare il tema dal contesto storico linguistico: «mi è sempre piaciuto risalire all’origine, all’autenticità, all’etimologia – spiega Pretto –, perché lì, secondo me, abita la storia vera, magari minuscola ma onesta. In questo caso il risalire alle fonti ha rappresentato l’aspetto certamente più rigoroso ma allo stesso tempo più gioioso dell’impresa». Giorgio Montolli
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Libri
Rosmini, la conoscenza fondata sull’amore Il dono di sé diventa per il filosofo l’orizzonte per conoscere l’uomo e il suo dramma, in rapporto alle sue relazioni con il mondo, gli altri uomini e Dio
Giancarlo Grandis Il dramma dell’uomo - Eros, Agape e Amore - Carità nel pensiero antropologico di Antonio Rosmini Serbati 1797-1855 Paoline pp. 422, euro 20,00 Pensatore per il Terzo Millennio: così lo additano i più grandi studiosi del Roveretano. Profeta non più scomodo, famoso per il suo saggio/denuncia Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Giovanni Paolo II lo ha recuperato alla Chiesa dopo più di un secolo di oblio e nella Fides et Ratio lo ha annoverato tra i grandi pensatori cristiani dell’epoca moderna, che nell’ambito dell’Occidente hanno condotto una coraggiosa ricerca sul fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio. Nato nel
I legami di Rosmini con Verona furono molteplici. Negli anni ’50 del secolo scorso la figura del Roveretano fu grandemente stimata anche da Giovanni Calabria
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vicino Rovereto nel 1797 è morto a Stresa nel 1855, dove si era ritirato dopo la sfortunata missione romana affidatagli dal governo piemontese nella quale si proponeva a Pio IX un’Italia federale. I legami di Rosmini con Verona furono molteplici. Essi passano attraverso le eminenti figure di Bertoni, Cesari, soprattutto della Canossa che ebbe ospite più volte nella sua casa a Rovereto. Negli anni ’50 del secolo scorso la figura di Rosmini fu grandemente stimata da Giovanni Calabria che già allora auspicava la sua beatificazione. In un appello al clero e ai cattolici italiani in occasione dell’Anno Santo così scriveva: «È presente in mezzo a noi (…) uno degli operai di Dio più insigni e benedetti, dei quali noi sembriamo ignorare la benefica presenza,
della cui opera non ci gioviamo, e al quale, invece, anche se defunto quasi un secolo fa, il Signore, con le grazie elargite, come si crede, per intercessione di Lui, sembra ci inviti a guardare affinché ne abbiamo luce di esempi e norme di vita». E più avanti: «Cercare la verità su Rosmini, accoglierla, farla conoscere, e rendere omaggio non tanto a lui, quanto alla giustizia, alla carità, alla Chiesa stessa di Gesù Cristo; la quale, ne abbiamo una grande speranza, in un giorno forse non lontano, esulterà per il trionfo e la esaltazione di questo suo figlio insigne». In questi giorni è in libreria un saggio del sacerdote veronese Giancarlo Grandis che di Rosmini delinea e approfondisce la visione di uomo mostrando, attraverso una lettura trasversale della sua poderosa opera (ha scritto più di 60 volumi) e delle più di tredicimila lettere, come l’amore, nel suo significato di esperienza di dono di sé costituisce, per questo grande pensatore, l’orizzonte adeguato per conoscere l’uomo e il suo dramma in rapporto alle sue costitutive relazioni: col mondo, con gli altri uomini, con Dio. Riportiamo qui il lusinghiero giudizio, contenuto in quarta di copertina, che di questo saggio formula il prof. Giuseppe Lorizio della Università Lateranense in Roma, uno dei più noti studiosi della genesi del pensiero rosmi-
niano nel contesto della cultura europea dell’Ottocento attraversata da un grande travaglio sia sul piano politico che intellettuale e religioso: «Il grande pregio e anche il rischio (“ma dove aumenta il pericolo, aumenta anche ciò che salva” - F. Hölderlin) di questo notevole saggio, sgorgato dalla penna di don Giancarlo Grandis, sta nel proporre una lettura complessiva e trasversale del pensiero antropologico del più grande filosofo e teologo dell’Ottocento italiano, assumendo come chiave di lettura il binomio eros/agape. Tale prospettiva gli è suggerita dal carattere degli studi dell’Istituto Giovanni Paolo II su matrimonio e famiglia, dove l’autore si è formato accademicamente. Senza mai tradire i testi e i contenuti delle opere e delle lettere di Antonio Rosmini, il libro di Grandis, documentato e ricco di fascino, mentre raccoglie ed accoglie il meglio della letteratura e delle interpretazioni rosminiane fin qui avanzate, siamo certi che risulterà di sicura utile lettura sia per gli addetti ai lavori (chiamati ad interloquire ed eventualmente reagire con questa originale ermeneutica) sia per coloro che per la prima volta, o sporadicamente, non senza timore e tremore, si accostano ad un pensiero così fecondo e al tempo stesso complesso, nel suo continuo andirivieni fra fede e ragione, teologia e filosofia».
Gennaio 2004
Libri
San Zeno, la biblioteca del monastero Nel volume le vicende dei libri si intrecciano a quelle dei monaci. Molte le figure che si stagliano, come quella di don Haymb, morto assassinato nel 1637
Alessia Parolotto La biblioteca del monastero di San Zeno in Verona (1318-1770) Della Scala pp. 300, euro 28
Una raccolta libraria, quella zenoniana, che dal primo medioevo si era ingrandita nei secoli a riflettere gusti e passioni dei monaci che avevano abitato il monastero
in VERONA
Strano destino quello della biblioteca del monastero di San Zeno. Prima biblioteca pubblica di Verona, dal momento che nel 1770, alla soppressione del cenobio, la cittadinanza ottenne dalla Serenissima di conservare in Verona i libri degli Zenoni. Una raccolta libraria che dal primo medioevo si era ingrandita nei secoli a riflettere gusti e passioni dei monaci che avevano abitato il monastero. Nonostante questo la biblioteca di San Zeno è stata ignorata dagli studiosi, fatti salvi alcuni saggi di Mario Carrara risalenti agli anni Cinquanta del secolo scorso. A colmare questa lacuna è oggi il volume La biblioteca del monastero di San Zeno (13181770) di Alessia Parolotto. Nella parte storica, ove le vicende dei libri si intrecciano a quelle dei monaci in una narrazione puntuale, ma godibile al vasto pubblico, molte sono le figure che si stagliano; tra gli altri, il monaco Jacopo di Utrecht che, morto nel 1620, lasciò ai confratelli il proprio thesaurus librorum principium bibliothecae nostrae, ed ancora don Mauro Haymb, strenuo difensore della permanenza dei confratelli tedeschi entrati in San Zeno nel 1427 e definitivamente allontanati nel 1637 con l’uccisione a pugnalate dell’Haymb stesso. Un fatto di sangue non isolato nella storia del monastero dal momento che già nel 1223 il chierico Avanzo in San Zeno uccise l’abate Riprando, suo fratello. Riproduzione ottocentesca della Basilica di San Zeno
Va ricordato ancora Francesco Maria Alghisi cui si deve, nel secolo XVIII, la sistemazione e catalogazione dei libri di San Zeno arricchita nel 1720 dal lascito del cardinale Alvise Priuli. Questo abate commendatario donò agli Zenoni la propria biblioteca e stabilì una rendita annua per il mantenimento di un bibliotecario. La biblioteca del Priuli fu fatta coincidere con quella del monastero, come testimonia l’austriaco Adalbert Blumenschein che, sicuramente dopo il 1771, tentò inutilmente di entrare in San Zeno di cui scrive «la biblioteca, donata da un cardinale ai padri Benedettini che una volta risiedevano qui, deve essere molto bella e molto ricca». Ritrovando il disperso inventario dei beni del Priuli l’autrice ha potuto ridimensionare la consistenza del lascito, un terzo dell’intero posseduto zenoniano, senza nulla togliere alla generosità del Priuli. Nella seconda parte del volume, una sorta di passeggiata tra gli scaffali, si sbirciano dorsi (ma anche i tagli) dei libri disposti sui palchetti secondo le diverse materie
Ritratto di benedettino di San Zeno
(dalle sacre scritture alla medicina) e si impara a conoscere le passioni intellettuali dei monaci di San Zeno attraverso le loro letture. Bisogna infine sottolineare l’importanza dell’appendice documentaria in cui sono riportati i documenti fondanti la ricerca, oltre alla trascrizione dei due cataloghi settecenteschi della biblioteca che permettono agli studiosi una conoscenza diretta del patrimonio librario zenoniano.
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Libri
“Il lago di Garda”
Berto Barbarani Le invenzioni del Cerusico Coltelli Della Scala pp. 96, euro 7,00
Uno sguardo capace di riconoscere obiettivamente i valori e le suggestioni di cui il paesaggio benacense è depositario
Gian Maria Varanini, Ugo Sauro, Carlo Simoni, Eugenio Turri Il lago di Garda Cierre edizioni pp 450, euro 49,50
Obiettivi di questa nuova lettura del territorio gardesano sono una definizione aggiornata dei suoi caratteri ambientali, una ricostruzione del passato locale capace di cogliere l’incrocio di distinte identità culturali, eredità storiche, fisionomie economiche e realtà amministrative
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Il lago di Garda si è affermato, nel corso del Novecento, come una delle maggiori regioni turistiche europee. Una caratterizzazione che, si direbbe inevitabilmente, rischia di diffondere di questo territorio un’immagine stereotipata, modellata innanzitutto sulle esigenze dell’“industria del forestiero”. Cierre edizioni, nella collana “Bacini idrografici”, ha pubblicato nel 2001 il volume Il lago di Garda. Obiettivi di fondo di questa nuova lettura del territorio gardesano sono una definizione aggiornata dei suoi caratteri ambientali, l’evocazione dello spazio vissuto del lago, una ricostruzione del passato locale capace di cogliere, nell’identità attuale, l’incrocio di distinte identità culturali, eredità storiche, fisionomie economiche e realtà amministrative, mettendo in luce le discontinuità tipiche di una regione di confine com’è quella gardesana, la cui storia meno di altre si presta a interpretazioni lineari e a periodizzazioni codificate. Oltre ai confini di volta in volta tracciati dal potere politico e militare, altre linee di distinzione connotano la realtà gardesana, linee che affondano le loro origini nella storia della terra e nell’evoluzione dell’ambiente. Questa suggestione paesistica rappresenta non solo una cifra inconfondibile dell’immagine gardesana, ma anche la visualizzazione del contrasto di vicende, di economie, di culture fra la costa, investita dalla fine dell’Ottocento dalla grande
trasformazione indotta dalla frequentazione turistica, e un entroterra montano a lungo ignorato dai flussi del cambiamento. Un cambiamento così profondo da ridefinire non solo l’aspetto dei luoghi, ma anche vocazioni produttive e mentalità, ritmi del tempo collettivo e cultura diffusa. Questo lavoro muove tuttavia da un atteggiamento che non vuole risolversi in una denuncia, piuttosto in uno sguardo capace di riconoscere, obiettivamente, i valori e le suggestioni di cui il paesaggio benacense è tuttora depositario. La storia passata, da cui vengono testimonianze dell’arte, della cultura materiale e saperi tradizionali che riflettono vocazioni solo appannate dalla monocoltura turistica; la storia recente, fonte di problemi nuovi e in molti casi insoluti; la storia che viviamo, alla quale spettano le scelte che tracceranno il volto futuro del più mediterraneo dei laghi prealpini. Bell’Italia. Quasi cinquecento pagine per raccontare il lago di Garda “meraviglia della natura”… specchio blu incastonato tra le Alpi e la pianura… L’iconografia, con le foto di ieri e di oggi, i manifesti e i disegni d’epoca, è un gran bel vedere. L’Arena. Un volume che costituisce un salto di qualità rispetto alle pubblicazioni sul nostro lago… Riesce a coniugare straordinarie fotografie con venti saggi rigorosi ed esaustivi, che rispondono a chi prova il piacere di porsi domande.
Il testo proposto in questo libro formato tascabile è l’unico tentativo che si conosca di Barbarani di creare un racconto surrealista, che prende spunto dal tema della metamorfosi. Il Cerusico Coltelli è infatti l’inventore di procedimenti kafkiani per sostituire e modificare nasi e orecchi. «Se Barbarani voleva creare un personaggio eterno ed universale – scrive nella presentazione Giorgio Maria Cambié – lo ha fatto nella deliziosa descrizione dell’“uomo colla”. È il fedele ritratto dell’adulatore parassita che si attacca alla sua vittima sino a succhiarne il sangue. Personaggio eterno, presente in tutte le società del modo da sempre e per sempre».
Antiche ricette di una drogheria Ferrario 1883-2002 Cierre edizioni pp.129, euro 11,00
Fare il sapone, dorare le cornici, miscelare il caffè, sverniciare il legno... Il libro contiene “la sapienza” della drogheria Ferrario. Una delle botteghe storiche di Verona, che ha chiuso definitiva-
Gennaio 2004
Libri mente i battenti aperti centovent’anni fa, rivive in queste pagine, facendo riaffiorare un mondo sempre più lontano.
Mario Bertera Torna marzo su questa terra. Amore e guerra tra il Garda e il Baldo, dall’autunno 1943 alla primavera 1945 Il Segno dei Gabrielli editori pp. 352, euro 19,00
lesine durante il secondo dopoguerra. Protagonista è Aldo, la cui storia tragica si confronta con quella della propria comunità che lo rifiuta bandendolo dalla storia comune. Il seme di Caino si è innestato nella vita di queste genti – ma quanto è presente anche nella società attuale? – e il sacrificio aprirà alla speranza. Un libro-parabola che induce alla riflessione profonda sui temi della violenza e della fede cristiana.
Gaetano Bellorio Allearsi col vento Paoline pp. 300, euro 16,53
Dalle sponde veronesi del Lago di Garda, e precisamente da Torri del Benaco, si dipana la narrazione di storie di donne e di uomini che, per effetti diversi del destino, si ritrovarono insieme per contribuire alla Resistenza partigiana, trovando nell’ambiente del Monte Baldo lo sfondo di numerose vicissitudini. Questa lunga storia, costruita grazie a uno scrupoloso lavoro preliminare di indagine storica e sociale unito ad un attento recupero delle tradizioni locali, accompagna il lettore tra azioni di guerra e intense storie d’amore.
Mario Motton Il seme di Caino Il Segno dei Gabrielli editori pp. 150, euro 10,00
Da un autore veronese un romanzo avvincente ed emozionante ambientato nel basso Po-
in VERONA
È stato chiesto all’autore di riassumere in trenta secondi il contenuto del romanzo. Dopo un primo tentennamento di fronte a un’impresa che pareva impossibile, Bellorio ha risposto: Allearsi col vento è il romanzo dell’incontro e degli incontri. Ebbene, nella sua stretta sinteticità la risposta esprime perfettamente il nucleo della narrazione, la quale, anche se si espande in sette diverse storie che si riunificano alla fine in una sola, il romanzo è un continuo incontrarsi di persone e, attraverso esse, di culture diverse che oggi molti possono considerare divergenti. La sua attualità sta qui. L’autore, attraverso chiavi non facilmente immaginabili, ha riunito mondi (ebraico, musulmano, cristiano) oggi in conflitto aspro e lo ha fatto attraverso una panoramica “mediterranea” della quale ha mantenuto anche la bellezza estetica.
Claudio Imprudente Il Principe del Lago Erickson pp. 144, euro 12,91
scuole italiane. È inoltre scrittore, giornalista e direttore della rivista “Hp-Accaparlante” e al vertice di un'équipe di formatori sul tema della diversità. Ama definirsi non “disabile” ma “diversabile” e lo si può contattare all’indirizzo di email claudio@accaparlante.it.
Claudio Imprudente Una vita imprudente Erickson pp. 272, euro 15,90
Una favola sulla paura del diverso e sul coraggio della solidarietà. Giangi, l’ultimo personaggio uscito dalla fantasia di Claudio Imprudente e protagonista di questa favola è un bambino che un giorno, per caso, cade dentro un libro. Ha inizio una movimentata vicenda che lo porterà alla ricerca del Principe del lago (scomparso misteriosamente dal suo regno di Pititì Pitità), a conoscere individui singolarissimi, a visitare luoghi incantati, ad affrontare prove di abilità e coraggio, a dubitare di sé, delle sue convinzioni e alla fine, attraverso l’incontro con la diversità, a trovare — come in tutte le fiabe — il vero tesoro. Fresca, avvincente e con la rara qualità di saper stupire e far riflettere, questa favola è pensata per raccontare, in modo semplice e piacevole, le difficoltà e i timori che suscita il contatto con la diversità e per aiutare a superarli. Arricchito di deliziose illustrazioni a colori, il volume è rivolto a bambini e ragazzi della scuola elementare e media, ai loro insegnanti e ai loro genitori, come spunto e strumento di lavoro nell’educazione sulla diversità e alla solidarietà. Claudio Imprudente è uno dei fondatori di Maranà-tha, una comunità di famiglie per l’accoglienza, ed è presidente del Centro Documentazione Handicap di Bologna. Ha ideato il “Progetto Calamaio”, che propone percorsi formativi sulla diversità e sulla nuova cultura dell’handicap al mondo della scuola e del lavoro. Attraverso di esso ha realizzato, in dieci anni di attività, più di tremila incontri con i ragazzi delle
Un’autobiografia che a volte fa sorridere, a volte fa piangere ma che spinge ad affrontare il problema della diversità. Questo libro, scritto con grande autoironia, raccoglie la sfida della “diversabilità” e rappresenta una provocazione per i “normodotati gravi”, che non sanno andare oltre la loro ristretta visuale. Il volume è anche dedicato ai diversabili che non trovano il coraggio di rendersi più visibili. È un libro fatto di risposte concrete e che allo stesso tempo pone nuove domande ammettendo di non avere in tasca facili soluzioni. Claudio Imprudente è un animatore diversabile attivo nei vari campi della cultura (è presidente del Centro documentazione handicap di Bologna); incontra i bambini nelle scuole dell’infanzia, propone le sue fiabe a quelli delle elementari, gioca con i ragazzi delle superiori, parla ai genitori, dialoga nei corsi di formazione con gli insegnanti, è ospitato in convegni e trasmissioni televisive. L’imprudenza dell’autore sta proprio nella frenetica promozione di una cultura che metta in primo piano la persona nel rispetto e nella valorizzazione della sua diversità, nella consapevolezza che in questo modo si crea un mondo più abitabile. (Il volume è richiedibile al numero verde della Erickson: 800 844052).
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Ambiente TERRITORIO
I fossili nei monumenti di Verona L’ammonite di Corso Portoni Borsari, le Belemniti in Duomo, la conchiglia di Grifea in Cortile Mercato Vecchio, il riccio di mare all’Hotel Due Torri...
I muri e i monumenti di Verona rivelano chiaramente che i monti che circondano la città sono in massima parte di origina marina. La nostra è una città rossa di marmo e gialla di tufo, anche se questi termini sono usati in modo improprio...
di Guido Gonzato Se visitando una città che non conosciamo osserviamo i muri delle vecchie case o dei monumenti possiamo farci un’idea immediata della geologia della zona che circonda la città. Infatti, tutte le città antiche sono state costruite prevalentemente con materiali disponibili nelle vicinanze. I muri e i monumenti di Verona rivelano chiaramente che i monti che circondano la città sono in massima parte di origina marina. Verona è una città rossa di marmo e gialla di tufo, anche se questi termini sono usati in modo improprio, come vedremo più avanti. Il rosso e le varie tonalità di rosa della città sono dati da una pietra chiamata Rosso Ammonitico,
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detto anche Marmo Rosso di Verona, proveniente perlopiù dalla media e alta Lessinia. Il Rosso era ed è considerato una pietra di pregio, e con esso furono costruiti i monumenti più importanti, come l’Arena. Di minor qualità ma più abbondante è il Tufo di Avesa, una pietra porosa giallastra e meno resistente, utilizzato soprattutto per l’edilizia popolare; con il tufo sono stati costruiti parte del campanile di S. Zeno e i bastioni austriaci. Altre pietre usate a Verona sono il Marmo di S. Ambrogio e la Pietra di Prun, o Scaglia Rossa. Il primo era impiegato per costruzioni di pregio; come pietra da costruzione è perfino migliore del Rosso Ammonitico, anche se non altrettanto bello. La Pietra di Prun, oggi estratta nelle cave presso Fosse e S. Anna d’Alfaedo, è un magnifico materiale per realizzare tetti e pavimentazioni. NÉ MARMI, NÉ TUFO
Ammonite in Corso Portoni Borsari
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Occorre chiarire una cosa che potrà sorprendere i non esperti: il
Inoceramus Sp. Disegno di Antonella Scolari
cosiddetto Marmo Rosso di Verona non è un marmo, e il Tufo di Avesa non è un tufo. Geologi e marmisti utilizzano gli stessi termini, ma con significati ben diversi. Per i marmisti, “marmo” è sostanzialmente qualunque pietra calcarea che possa essere lucidata; “tufo” è invece qualunque pietra porosa. Per i geologi, invece, un marmo è esclusivamente un calcare che abbia subito qualche tipo di trasformazione fisico-chimica, come un forte riscaldamento o una forte pressione. Non avendo subito queste trasformazioni, il Rosso Ammonitico non è un marmo. Il tufo è per i geologi una pietra esclusivamente di origine vulcanica: nelle colline di Verona sono presenti anche veri tufi vulcanici, ma sono troppo friabili per poter essere utilizzati per le costruzioni. Quindi, in tutta Verona non c’è un solo monumento di marmo... o meglio, c’è qualche dettaglio ar-
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Belemniti all’interno del Duomo
chitettonico costruito con marmo proveniente dalla Toscana, come ad esempio parti del Duomo e di S. Zeno. Continueremo ad usare i termini “marmo” e “tufo” in senso lato. PIETRE DAL FONDO DEL MARE
Quasi tutte le pietre che troviamo sui monti di Verona hanno origine marina, e tutte conservano le vestigia degli animali e delle piante che vivevano in quegli antichi mari: fossili di conchiglie, ricci di mare, alghe, e così via. Originariamente, il Rosso Ammonitico era un sedimento calcareo incoerente: un sottile fango, che si depositò verso la fine del Giurassico, circa 130 milioni di anni fa, quando il territorio veronese era un fondo marino di una certa profondità. In seguito, questo fango si consolidò fino a tramutarsi in solida roccia; questo fenomeno è noto ai geologi col nome di litogenesi. Già nel nome, il Rosso Ammonitico rivela la sua caratteristica principale. Ammonitico, ricco di Ammoniti: quelle conchiglie a spirale che tanto spesso si possono vedere nei marciapiedi. In Foto 1 è mostrata una delle grosse Ammoniti che si possono ammirare in Corso Porta Borsari. Le Ammoniti erano molluschi cefalopodi, cioè della stessa classe delle seppie o dei polpi odierni. Vivevano nei mari del Giurassico e del Cretaceo, nei periodi geologici durante i quali si formarono il Rosso Ammonitico e la Scaglia Rossa. Alla loro morte, i gusci delle Ammoniti si depositavano sul fondo e si fossilizzavano; oggi possiamo incontrare i loro resti
in VERONA
Conchiglia di Grifea in Cortile Mercato Vecchio
nelle lastre e nei blocchi di marmo rosso, e spesso (sebbene meno evidenti) anche nelle lastre di Pietra di Prun. Le Ammoniti non erano gli unici animali presenti nell’antico mare dei Monti Lessini. Passeggiando per Verona con occhio attento si possono incontrare i resti di Echinoidi, cioè ricci di mare, e di Belemniti. Anche questi erano molluschi cefalopodi, di aspetto simile agli attuali calamari o alle seppie. Come le seppie, possedevano una conchiglia interna a forma di cono allungato, detta “rostro”; questo “osso di seppia” si fossilizzava con facilità. La Foto 2 mostra
fossili tenuti insieme da una matrice calcarea. Questa caratteristica rende la Pietra di Avesa un materiale da costruzione mediocre, perché la scarsa uniformità della roccia la rende più facilmente attaccabile dagli agenti atmosferici. Anche la Pietra di Avesa si formò in ambiente marino, ma in un periodo molto più recente: l’Eocene, circa 45 milioni di anni fa. A quel tempo, stava iniziando il sollevamento del territorio veronese fuori dal mare. Il fondo marino era ormai poco profondo, qua e là emergevano le prime isole. La Pietra di Avesa si formò da
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Facciata dell’Hotel Due Torri: in alto a sinistra la sezione del guscio di un riccio
due fossili di Belemniti che si possono osservare sul pavimento del Duomo, appena entrati sulla sinistra. SPIAGGE FOSSILI
Nel Rosso Ammonitico e nella Scaglia Rossa la presenza di fossili è sporadica, mentre nella Pietra di Avesa si può dire che la roccia stessa è un impasto grossolano di
sabbie e fanghi ricchissimi di conchiglie di molluschi, ricci di mare e soprattutto i caratteristici Nummuliti: organismi unicellulari di dimensioni enormi, fino a qualche centimetro di diametro, che si costruivano un guscio a forma di disco appiattito. Il termine Nummuliti proviene dal latino nummus, moneta; infatti somigliano a monetine di pietra.
Le conchiglie dei molluschi e i gusci dei ricci di mare e dei Nummuliti sono più resistenti della matrice calcarea che li contiene, quindi tendono a sporgere. La Foto 3 mostra una bella conchiglia di Grifea visibile in Cortile Mercato Vecchio; sono visibili anche frammenti di gusci di Nummuliti. Le conchiglie di grifea sono caratteristiche di uno strato di calcare sul Monte Ongarine di Avesa, sopra le vecchie cave Zampieri: ecco che da un particolare geologico possiamo risalire alla provenienza precisa del materiale con cui i palazzi del Cortile vennero costruiti. La Foto 4, infine, mostra un dettaglio della facciata dell’Hotel Due Torri, in Piazza S. Anastasia. Questa pietra non sfigurerebbe in un museo: osservate in alto a sinistra il guscio sezionato di un riccio di mare, diversi tipi di Nummuliti e altri Foraminiferi, frammenti di alghe calcaree e al microscopio si potrebbero osservare numerosi altri resti di organismi. La scelta di un materiale da costruzione ricco di fossili non è mai una buona idea, per i motivi precedentemente spiegati. L’eccessiva abbondanza di fossili ha provocato il cattivo stato di conservazione del Teatro Romano: la gradinata fu costruita in Rosso Ammonitico, ma per tutto il resto i Romani impiegarono il calcare estratto dal colle sovrastante. Questo materiale è composto da gusci calcarei tenuti insieme da una matrice calcareo-argillosa... non sorprende che, oltre alla gradinata, si sia conservato ben poco.
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Ambiente DAL FESTIVAL DELLA SCIENZA
A quando in città le auto a idrogeno? Ecco i problemi ancora da risolvere Da giovedì 23 ottobre a lunedì 3 novembre a Genova, nell’ambito della terza edizione del Festival della Scienza, sono stati presentati 170 eventi, di cui circa 100 tra conferenze e tavole ro-
tonde, più di una ventina di mostre, ma anche spettacoli e letture. L’obiettivo era quello di avvicinare la gente ad un mondo fitto di scoperte e dare risposte alle tante curiosità, creando
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Il particolato che deriva dalla combustione è il grande nemico della salute. Le celle a combustibile sono in grado di fornire elettricità tramite una reazione chimica, senza alcun movimento meccanico e, se alimentate ad idrogeno, non emettono sostanze inquinanti temperatura necessaria per il processo, perché temperature troppo elevate rendono facilmente deteriorabili i materiali utilizzati. Gli ostacoli non sono solo tecnici, ma anche economici considerando che oggi per produrre 1 Kw occorrono circa mille dollari. Ma ormai il processo è partito e sta dando risultati sempre più incoraggianti. Le case automobilistiche attendono che si arrivi a un livello base molto alto, in modo tale da non subire gli inconvenienti provocati dai continui aggiornamenti tecnologici, come è avvenuto nel mondo dei PC. Non c’è dubbio che questo sia il compromesso migliore, tra le energie alternative e la realtà attuale. Una strada realmente percorribile e in grado di mostrare i suoi risultati immediati. Festival della Scienza. Giovani in laboratorio
• CELLE A COMBUSTIBILE PER AUTO ELETTRICHE Rendere l’aria più respirabile e il nostro pianeta meno inquinato è sicuramente il grande obiettivo che la scienza persegue con tenacia. In modo particolare, negli ultimi decenni, si parla molto di possibili alternative al vecchio motore a scoppio: auto elettriche, a idrogeno, a energia solare. Il Festival della Scienza di Genova ha recentemente affrontato questi problemi con il fisico Giulio Alberti e il chimico Davide Barreca, entrambi ricercatori del CNR, i quali hanno spiegato che le celle a combustibile sono in grado di fornire elettricità tramite una reazione chimica, senza alcun movimento meccanico e, se alimentate ad idrogeno, non emettono sostanze inquinanti. Il primo problema da affrontare riguarda proprio l’idrogeno che, essendo difficilmente trasportabile e altamente infiammabile risulta una sostanza non facile da gestire. Una possibile soluzione consiste nell’utilizzo del metanolo, dal quale, tramite un processo di reforming, si riesce a ottenere l’idrogeno da inserire nella cella combustibile. In questo modo si potrebbero sfruttare le attuali modalità di distribuzione del carburante e gli stessi serbatoi delle nostre auto, producendo però alcune sostanze inquinanti, anche se in quantità decisamente inferiori rispetto alle attuali. Questo procedimento è invece già fattibile per quanto riguarda l’energia portatile, e infatti a breve avremo batterie per telefoni cellulari a lunghissima durata. Quindi il lavoro di ricerca sulle celle a combustibile è completamente diverso a seconda degli impieghi dell’energia prodotta e infatti il discorso si complica quando diventa ingente la dose di energia richiesta. Nel caso di elettricità stazionaria, per le abitazioni e per le fabbriche, la direzione seguita è quella della riduzione della
un confronto interdisciplinare per andare oltre i limiti che spesso confinano la scienza lontano dalle materie umanistiche. Ancora una volta il Festival è stato per tutti: per gli adetti ai
lavori, che hanno trovato contributi stimolanti e aggiornati; per il semplice cittadino, che ha potuto visitare i laboratori aperti al pubblico e incontrare i ricercatori al lavoro.
• LA GUERRA DEL FUOCO “La guerra del fuoco” era il tema di una tavola rotonda che a Genova ha visto coinvolti nell’ordine: Gennaro De Michele, Responsabile ENEL Ricerca; Antonio D’Alessio, docente d’Ingegneria Chimica all’Università Federico II di Napoli; Eliseo Ranzi, docente di Impianti Chimici al Politecnico di Milano; Leonardo Castellano, docente di Fisica Numerica e Tecniche di Simulazione per il polo didattico e di ricerca di Crema; Peter Roberts, direttore dell’International Flame Research Foundation; Guido Saracco, docente di Impianti Chimici al Politecnico di Torino. L’uomo da 50 milioni di anni utilizza il fuoco come fonte di calore ed energia ma i processi chimici attivi nella combustione sono ancora, in buona parte, misteriosi. «L’unico modo per ridurre l’inquinamento è fare il processo di ossidazione senza ossidare l’azoto – ha dichiarato De Michele –, per fare questo bisogna continuare gli studi sulla combustione che da anni sono arenati.». Nella fiamma oltre che all’emissione di ossido d’azoto è presente un altro nemico della salute, le nanoparticelle. «Questo particolato molto sottile – ha detto D’Alessio – si emana con ogni tipo di combustione. La stessa mortalità umana è correlata alla presenza di polveri sottili nell’aria e più le particelle sono piccole più l’effetto è forte». L’obiettivo finale di ogni ricerca sulla fiamma è quello di bruciare qualsiasi combustibile con emissione zero (tranne CO2). L’unico modo per ottenere questo ambizioso risultato è quello di analizzare la chimica della combustione. Castellano ha mostrato in che misura un modello matematico può aiutare in questo tipo di ricerche, mentre Roberts ha esposto i suoi studi sulla forma della fiamma, con particolare attenzione alla sua aererodinamicità.
Gennaio 2004
Formazione UNIVERSITÀ
Il diritto allo studio dei “diversabili” L’Ateneo di Verona all’avanguardia nel settore dell’handicap. Sono circa 60 i giovani che possono studiare perché utilizzano i servizi del Centro disabili
di Alessandra Motta Il 2003 è stato Anno europeo delle persone disabili. Sono state tante le occasioni per sottolineare la necessità di una cultura che metta al primo piano la persona nel rispetto e nella valorizzazione di un diverso modo di essere abile. Al di là delle parole l’Università di Verona è un esempio concreto di quanto si può fare a riguardo.
Tra le finalità del Centro disabili quelle di garantire il diritto allo studio e di abbattere le barriere del pregiudizio. Un servizio che è un parametro di valutazione della qualità universitaria e che fa di Verona una punta di diamante
in VERONA
Nel nostro Ateneo dal 1998 è attivo in via San Francesco 22, presso la Facoltà di lettere e filosofia, al piano terra, un Centro disabili a cui si rivolgono gli studenti iscritti all’Università: attualmente circa 60 giovani affetti da disabilità sia fisiche che psichiche. Il Centro è nato per consentire l’accesso al sapere anche a quelle persone che per la loro condizione potrebbero incontrare difficoltà di inserimento o di integrazione. Tra le finalità garantire il diritto allo studio a tutti e abbattere le barriere del pregiudizio fornendo un servizio che è diventato un parametro di valutazione della qualità universitaria. Le attività del Centro disabili sono pensate e supervisionate da una Commissione disabilità, i cui membri sono stati nominati dal rettore in qualità di referenti per le varie facoltà. Presiede la Commissione il professor Francesco Larocca, docente di Pedagogia speciale per l’handicap presso la Facoltà di lettere e filosofia, corso di laurea in Scienze dell’educazione. Collaborano con il Centro disabili anche dieci studenti universitari a contratto (150 ore) e una quarantina di volontari che dedicano parte del loro tempo al servizio di accompagnamento. Agli studenti disabili provenienti dalle scuole superiori che si presentano per informazioni, l’Ufficio del Centro disabili fa cono-
scere gli ambienti, i servizi, le modalità di accesso all’Università, comprese le agevolazioni previste per legge: come ottenere l’esenzione totale dalle tasse universitarie, dalle spese per il trasporto, oppure una borsa di studio secondo i criteri previsti per i portatori di handicap. Si analizzano anche le richieste per individuare le modalità specifiche per lo svolgimento delle prove di ingresso, come la possibilità di raddoppiare il tempo della prova. Insomma vengono fornite un certo numero di notizie utili che consentono di inserirsi con tranquillità in un ambiente che dimostra di conoscere il problema e di affrontarlo con serietà e competenza. Con l’inizio delle lezioni si mettono in moto tutta una serie di servizi che hanno lo scopo di garantire le pari opportunità. Anzitutto è riservato il posto a lezione. Chi ha difficoltà di movimento viene accompagnato ai corsi, agli esami, a pranzo, alla postazione PC e nelle ore libere della giornata universitaria. Il personale del Centro disabili aiuta nel reperimento e nella compilazione dei moduli per le varie richieste e certificazioni, come avviene per l’immatricolazione, per accedere al servizio mensa o per l’iscrizione agli esami e alla successiva registrazione dei voti. Lo stesso supporto è offerto per il reperimento e l’organizzazione del materiale didattico. Esiste an-
che un servizio di interpretariato per non udenti. Il Centro disabili si mantiene all’avanguardia anche grazie al supporto scientifico. In collegamento con la cattedra di Pedagogia speciale per l’handicap le ricerche riguardano l’integrazione dei sordi nella Scuola secondaria superiore e nell’Università; l’integrazione dei non vedenti; il recupero di soggetti craniolesi post-comatosi; anoressia e bulimia; integrazione di disabili mentali; le ricerche su disabilità rare. La cattedra di Pedagogia speciale da dieci anni organizza anche gli “Incontri aperti”che ospitano nelle aule dell’Ateneo scaligero persone chiamate a confrontarsi con la realtà dell’handicap e del disagio. Gli studenti hanno così modo di confrontarsi con questa realtà, oltre che sperimentare sul campo quanto hanno approfondito sui libri di testo. Il Centro aspira a diventare un Centro di documentazione e già ora può offrire informazioni relative a convegni, corsi di formazione, associazioni di volontariato, attività sportive e ricreative. Infine, dall’8 gennaio 2004, il martedì pomeriggio, partirà presso il Centro disabili il servizio “Sportello help ascolto”, curato dalla dottoressa Tanja Cavaliere. Centro disabili dell’Università di Verona, tel. 045.8028786. E mail: centro.disabili@univr.it
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Sport CANOA
Cavalcano le onde Il Canoa Club di Verona festeggia i 40 anni di attività. Dagli scafi in legno e tela ai materiali moderni. E per imparare si può scendere l’Adige con il “Canoa taxi”
di Ettore Ivaldi Sono passati 40 anni dall’anno di fondazione del Canoa Club Verona. Una società che oltre a regalare grandi risultati sportivi ha saputo entrare nel cuore della gente contribuendo a mantenere vivo il fiume Adige, un po’ trascurato dalla città, che per secoli ha dato energia e lavoro a molti veronesi. Il Windtex Canoa Club Verona (così si chiama oggi) ha al suo attivo numerosi successi sportivi, con atleti nelle diverse squadre nazionali, ma anche dirigenti e tecnici federali nati e cresciuti sulle acque dell’Adige. Ricordiamo che lo scorso luglio la diciassettenne Marialuisa Maiorano, atleta della società sportiva scaligera, ha conquistato una medaglia d’argento ai Campionati del mondo Junior, specialità Sprint, svolti in Germania. Il club, fin dai primi anni ’60, ha
Con l’inizio degli anni ’80 a Verona si assiste al boom di questa pratica sportiva. Sono infatti in tanti a scendere l’Adige pagaiando, si organizzano i primi corsi e Corte Dogana diventa la sede naturale della società
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trasferimento della sede dalla Vecchia Dogana in quartiere Filippini, bella ma obsoleta, all’ex gasometro di Ponte Catena; sarà anche costruito e messo a disposizione dei canoisti un canale artificiale alla diga del Chievo. La speranza è che gli amministratori si adoperino per valorizzare realtà come queste, che se pur piccole sono portatrici di grandi emozioni. Canoa Club, Corte Dogana 6, tel. 045.8035636
in VERONA
Giornale di attualità e cultura
nel suo statuto l’impegno di far conoscere le sue attività. Erano i tempi in cui le canoe erano fatte con telai in legno ricoperti di tela e anche scendere un fiume come l’Adige poteva diventare una vera e propria avventura. Quando alla tela si sostituì la vetroresina la canoa fece un bel salto in avanti: non c’erano più problemi di tenuta e gli atleti si poterono concentrare sul miglioramento tecnico. Con l’inizio degli anni ’80 a Verona si assiste al boom di questa pratica sportiva. Sono infatti in tanti a scendere l’Adige pagaiando, si organizzano i primi corsi e Corte Dogana diventa la sede naturale della società. Si consolida l’iniziativa “Canoa taxi”, che consiste in discese su imbarcazioni doppie guidate da esperte guide fluviali che in
questo modo hanno avvicinato al fiume, e quindi alla natura, molte famiglie veronesi. Una bella iniziativa che ha lanciato “l’andare sul fiume” e che prosegue con sempre più appassionati. Oggi la tecnologia ha portato straordinarie innovazioni sui materiali. Ci sono canoe in polietilene indistruttibili e molto corte, tanto da poter essere trasportate nel baule di un’automobile. Grazie a queste imbarcazioni, e al materiale d’abbigliamento molto resistente, questo sport è sempre più accessibile e sicuro. In poche ore di lezione si possono imparare le tecniche di base e con un po’ di pazienza acquisire quell’esperienza necessaria per le grandi discese sui torrenti alpini o sui canali artificiali. Tra le novità dei prossimi anni il
Direttore Giorgio Montolli g.mont@libero.it
STUDIO
e
DITORIALE Giorgio Montolli
Lungadige Re Teodorico, 10 37129 -Verona. Tel. 045592695 Stampa Novastampa di Verona Autorizzazione del Tribunale di Verona n° 1557 del 6 novembre 2003 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona. N° 1 Copia omaggio www.verona-in.it
Gennaio 2004
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© Matilde Gattoni
Comunicazioni Sociali srl - Milano
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Per le tue ricorrenze hai una possibilità in più, sostituire le tue bomboniere con una donazione all’UNICEF. UNICEF le trasformerà in regali molto speciali: per esempio, una dose di vaccino che può salvare la vita a un bambino. Ai tuoi parenti e amici più cari potrai dare un messaggio di ringraziamento dell’UNICEF che li gratificherà per aver conPer informazioni contatta l’UNICEF 800-745000. www.unicef.i