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3 - GIUGNO 2004 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIAME S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
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Primo piano
Piazze, chiostri, cortili... alcune iniziative in programma
In copertina foto di Francesco Passarella
in VERONA
Durante il periodo estivo l’offerta culturale di Verona si moltiplica e cerca spazi espressivi nelle piazze, nei grandi contenitori cittadini. Ai magnifici eventi dell’Arena e del Teatro Romano si aggiunge una serie di iniziative la cui importanza sta nel fatto che gli organizzatori spesso appartengono al mondo delle associazioni. Questo ci invita a concentrare la nostra attenzione non solo sull’offerta culturale di questi gruppi, ma anche sulla forza che li anima, che poi è una delle risorse più belle della città. Estate universitaria veronese L’Università di Verona dal 15 giugno al 15 luglio propone serate di musica, cabaret e teatro. Tra gli eventi in programma, il 15 giugno David Riondino presenta in Piazza dei Signori La buona novella, di Fabrizio De Andrè; il 25 giugno Nicolò Fabi è al Polo didattico “Giorgio Zanotto” per spiegare La costruzione di una canzone, mentre il 13 luglio tocca a Luca Zingaretti, sempre al Polo didattico, con lo spettacolo 16 ottobre 1943, con testi di Giacomo Debenedetti. Con La buona novella David Riondino presenta una tra le più significative raccolte di racconti in versi di Fabrizio De André, uscita nel 1970, rielaborata e interpretata per banda, due voci e coro, riproducendo l’album originale in ogni sua parte. La Filarmonica Giustino Diazzi, diretta da Marco Bergamaschi, il Coro di S. Cecilia, diretto da Marisa Casarini e l’Ensemble degli Illuminati di Città di Castello, accompagnano i due solisti, David e Chiara Riondino, in una interpretazione che vuole rendere omaggio al De André rivoluzionario, alle prese con un tema spirituale tratto dai Vangeli Apocrifi. L’elaborazione della partitura musicale è stata affidata a Marco Pontini.
Cantautore e musicista introspettivo, aperto a nuove contaminazioni, Niccolò Fabi interviene sulla creatività e sulla costruzione di una canzone. Racconterà come le esperienze personali possono dare vita a testi, immagini e sensazioni che trovano spazio e ragion d’essere solo come versi di un brano musicale, che saranno improvvisati sul palco. Di supporto all’ artista nazionale la voce e i pensieri di una giovane cantautrice di talento veronese, Veronica Marchi. Con 16 ottobre 1943 un reading a data unica per il Triveneto, Luca Zingaretti, conosciuto dal grande pubblico per le sue interpretazioni del Commissario Montalbano e di Giorgio Perlasca, ritorna ad occuparsi della Shoah, portando sulla scena un evento dedicato alla deportazione degli ebrei romani, tratto da un libro di Giacomo Debenedetti, uno dei massimi critici di letteratura del dopoguerra. Lo spettacolo è basato su un tipo di lettura e recitazione lucida e nel contempo narrativa e d’azione, con l’aggiunta di una musica coinvolgente; è arricchito inoltre da una serie di diapositive che aiutano a caratterizzare il testo, dando vita, anche visivamente, alla memoria. Compagnie teatrali amatoriali Durante il periodo estivo il Comune mette a disposizione delle Compagnie teatrali amatoriali l’allestimento di spazi nei chiostri e nei cortili cittadini. Questo consentirà ai veronesi di poter fruire di un cartellone di circa 170 spettacoli. Verona Festival In occasione della Festa europea della musica del 21 giugno e del quindicesimo anno della sua attività, il CSM (Centro Studi Musicali) promuove il primo Verona Festival: concerti, spettacoli e una sorta di fiera delle associazioni culturali e che operano nel sociale.
Il Festival si terrà dal 18 al 19 giugno negli spazi dell’ex Mercato Ortofrutticolo di Verona. Festaltromercato Dal 25 al 27 giugno si svolgerà a Verona Festaltromercato, organizzata dal Consorzio Ctm Altromercato, che ha la sede nazionale proprio a Verona e che riunisce 230 Botteghe del Mondo Italiane. Presso gli spazi dell’ex Mercato Ortofrutticolo saranno organizzati numerosi eventi che coinvolgeranno il mondo del commercio equo-solidale: concerti, spettacoli teatrali, proiezioni con corsi di formazione e convegni. Le varie attività connesse a Festaltromercato offriranno l’occasione di incontrarsi con altre realtà e popoli, per condividere i valori che caratterizzano il commercio equo-solidale e per far conoscere i meccanismi che dovrebbero consentire nel tempo l’attuazione di un sistema economico-finanziario strutturato sul commercio equo-solidale da diffondere a livello europeo e mondiale. Archeonatura Anche questa estate l’assessorato alle Politiche giovanili, in collaborazione con il Museo Civico di Storia Naturale, propone ai giovani dai 15 ai 19 anni la nuova edizione del progetto Archeo Natura Giovane che prevede: a) “Archeoscavo” alla grotta di S. Cristina di Parona, in due turni, dal 14 al 18 giugno e dal 21 al 25 giugno; b) un campo di ricognizione naturalistica denominato Naturaexploring sul Monte Baldo, dal 28 giugno al 2 luglio; c) dal 1 al 15 luglio, 10 ragazzi dai 15 ai 17 anni potranno sperimentare un campo di lavoro in un sito archeologico di epoca medioevale a Estella in Navarra (Spagna) ; d) per 20 giovani appassionati di fossili c’è Geo-exploring, dal 30 agosto al 3 settembre, con pernottamento alla Baita Cerato di Bolca.
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Cultura VERONA
Accademia Filarmonica A Verona dal 1543 Ê nata per coltivare non solo la musica e il canto ma anche le scienze. Rinomata la biblioteca e c’è una preziosa raccolta di strumenti musicali antichi
di Nicola Guerini La storia dell’Accademia Filarmonica di Verona ha origini antiche. Fu fondata nel maggio del 1543 con la fusione delle due preesistenti, l’Incatenata e la Filarmonica, nate non molti anni prima. Nel 1564 un’altra Accademia, detta “alla Vittoria”, si unì alla Filarmonica accrescendone l’importanza. Prima di scorrere tra le pieghe della storia tutte le vicende legate alla vita di questa grande istituzione, è importante gettare uno sguardo sul presente. Oggi l’Accademia Filarmonica rappresenta un punto di riferimento nel panorama musicale classico. La sua vocazione in tale ambito, che non si è mai interrotta nemmeno nei momenti più
Il fondo musicale antico è costituito da 230 opere, per la maggior parte madrigali del Cinquecento, e da 21 manoscritti dal XVI al XVIII secolo
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difficili, trova ampio riscontro nei due impegnativi appuntamenti concertistici del Settembre dell’Accademia, rassegna di grandi orchestre e interpreti internazionali, e de Le Nuove Musiche, in Sala Maffeiana, dedicate al repertorio rinascimentale e barocco. Nato nel 1989 da un’idea del presidente Luigi Tuppini, il Settembre dell’Accademia rappresenta un momento culturale d’estrema importanza per Verona, una rassegna che si rinnova ogni anno con l’invito di grandi orchestre, direttori e solisti di fama internazionale. Scorrere l’elenco degli Accademici e degli ospiti illustri che nel corso dei secoli hanno varcato la porta dell’istituzione è un lavoro assai arduo. Solamente fare riferimento al Cinquecento, significa immergersi nella vitalità della cultura di Verona: dall’umanista Matteo Dal Bue, al conte Mario Bevilacqua, dal medico Pietro Sonzom ai pittori Domenico e Felice Brusasorci. Già allora, infatti, l’Accademia coltivava specialmente la musica e il canto, ma chiamava nelle sue sale persone dotte nelle materie scientifiche e matematiche, nella logica e nella morale, tanto che ben presto il suo prestigio varcò i confini cittadini e si diffuse nella Repubblica Veneta e in tutta Italia stipendiando i migliori maestri di musica. Si davano inoltre concerti e feste, talvolta sontuose, invitando le autorità cittadine e le dame dell’ari-
stocrazia. Di tanto in tanto si eseguivano spettacoli teatrali, commedie, favole piscatorie, marittime, pastorali, tra cui un’eccezionale edizione dell’Aminta di Torquato Tasso allestita nel Giardino Giusti nel maggio 1581. Particolare impegno veniva profuso nella solennità annuale del primo maggio, data stabilita come anniversario della fondazione, quando in una chiesa cittadina si cantava una messa, con musiche e apparati scenografici, cui seguiva il banchetto anch’esso allietato da liriche e canti. Fin dalle origini, ebbe una scelta biblioteca di libri letterari, scientifici e di opere musicali, nonché una preziosa raccolta di strumenti musicali, celebre anche fuori Verona già nel corso del Cinquecento. Tale patrimonio fu subito oggetto di attente cure e dall’inizio del Seicento venne eletto ogni anno un bibliotecario tra gli stessi Accademici. L’archivio storico dell’Accademia, nonostante le lacune dovute alle vicissitudini storiche, comprende numerosi documenti amministrativi, verbali, lettere e disegni dalla seconda metà del XVI secolo alla prima metà del XX. Preziosissimo è il fondo musicale antico, costituito da 230 Luigi Tuppini, presidente dell’Accademia Filarmonica di Verona
opere a stampa (per la maggior parte madrigali del Cinquecento) e da 21 manoscritti dal XVI al XVIII secolo, mentre il fondo musicale moderno è formato in prevalenza da partiture e parti manoscritte della prima metà dell’Ottocento e da spartiti a stampa dell’Otto e Novecento. Assai pregiato è poi il fondo morale-letterario antico, costituito da 279 opere a stampa, tra cui 15 incunaboli e 232 cinquecentine. Oltre a ciò gli strumenti dell’Accademia Filarmonica sono quasi tutti dei decen-
Cultura
Sala Maffeiana
Il Settembre dell’Accademia rappresenta un momento culturale d’estrema importanza per Verona, una rassegna che si rinnova ogni anno con l’invito di grandi orchestre, direttori e solisti di fama internazionale
ni centrali del Cinquecento e costituiscono parte importante del patrimonio dell’istituzione. L’Accademia non aveva in origine una propria sede. Nei primi anni del Seicento, ottenuto dalla città il terreno contiguo ai Portoni di piazza Bra, costruì finalmente la nuova e definitiva sede, su disegno dell’architetto Domenico Curtoni. I lavori, assai onerosi, si trascinarono per diverso tempo e costrinsero gli Accademici a rinunciare al proposito di edificare anche un teatro che, dalle testi-
monianze rimaste, doveva essere simile all’Olimpico di Vicenza. Una descrizione dell’edificio, della metà del Seicento, parla del grande salone (ancora oggi esistente col nome di Sala Maffeiana) ornato dagli stemmi dell’Accademia, da oltre trecento “imprese”, da numerosi ritratti e da un grande organo, le cui portelle dipinte dal celebre pittore e Filarmonico Alessandro Turchi, detto l’Orbetto, saranno poi vendute nel Settecento al console inglese Giuseppe Smith per finire nelle collezioni reali del castello di Windsor. All’inizio del Settecento, quando una lenta e inesorabile crisi stava ormai minando l’istituzione, arrivò la spinta decisiva del grande erudito Scipione Maffei, energico suscitatore di nuove energie intellettuali e morali. Il Maffei convinse l’Accademia a costruire il Teatro e il Museo Lapidario, restituendole così il ruolo di fulcro della vita culturale cittadina. Il Teatro Filarmonico fu progettato dal famoso architetto e scenografo bolognese Francesco Bibiena e inaugurato il 6 gennaio 1732 con La Fida Ninfa di Maffei musicata da Antonio Vivaldi. Distrutto da un incendio la notte tra il 20 e il 21 gennaio 1749, fu riedificato con alcune varianti dall’architetto emiliano Giannantonio Paglia (già collaboratore di
Lo stemma originale dell’Accademia
Bibiena) e inaugurato nella stagione di carnevale 1754 con Lucio Vero di Metastasio musicato da Davide Perez. Il Museo Lapidario Maffeiano fu il primo sorto in Italia con precisi intenti conservativi e didattici. Nato dal nucleo originario di lapidi antiche acquisite dall’Accademia a partire dal 1612, venne costruito tra il 1744 e il 1749 su disegno dell’architetto Alessandro Pompei anch’egli Filarmonico. Se l’attività culturale dell’Accademia in questo secolo fu preminentemente letteraria e scientifica, ebbe però una vigorosa ripresa l’interesse verso la musica, nel cui largo circolo italiano ed europeo la città era entrata attraverso gli spet-
Il Settembre dell’Accademia 2004 8 settembre ORCHESTRA DELL’OPERA DI ZURIGO Direttore Franz Welser Most CORO FEMMINILE E CORO DI BAMBINI Mahler, Sinfonia n°3 12 settembre NDR DI AMBURGO Direttore Christoph von Dohnanyi Solista Frank Peter Zimmerman Beethoven, Ouverture Leonora n°3 Beethoven, Sinfonia n°5 14 settembre ORCHESTRA DI NEW YORK Direttore Lorin Maazel Tchaikovsky, Marcia slava
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Ouverture “Romeo e Giulietta” Sinfonia n°6 18 settembre BBC PHILARMONIC ORCHESTRA Direttore Gianandrea Noseda Solista Paul Watkins Dvorak, Lo spirito delle acque Elgar, Concerto per violoncello Shostakovich, Sinfonia n°5 21 settembre ORCHESTRA “ACCADEMIA I FILARMONICI” Direttore. Corrado Rovaris Solisti Katia & Mirelle Labèque Stravinsky, “Pulcinella” Suite per orchestra da G.B.Pergolesi
Poulenc, Concerto in re minore per due pianoforti e orchestra Schumann, Sinfonia n°4 in re minore Op.120 25 settembre CAMERATA ACADEMICA SALZBURG Solista Kavakos Musiche di Mozart e Haydn 27 settembre BUDAPEST FESTIVAL ORCHESTRA /COLLEGIUM VOCALE GENT Direttore Ivan Fischer Stravinsky, Concerto in re Bartok, 3 canti contadini sloveni 7 pezzi, Suite di danze slovene Stravinsky, Sinfonia dei Salmi
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Cultura tacoli del Filarmonico. Le giornate veronesi del giovane Mozart tra il 1770 e il 1772 ne diventano il simbolo, che si concretizza proprio in quel decennio con la creazione di un’orchestra stabile col nome di “Orchestra dell’Accademia”. Dopo la fine della Repubblica Veneta, la Filarmonica sopravvisse, grazie al suo Teatro, ai radicali mutamenti causati dalle riforme napoleoniche fino al 1810, quando furono soppresse tutte le istituzioni accademiche per riunirle in un unico “Ateneo” articolato in più sezioni. Nel progettato Ateneo veronese, che tuttavia non sarà mai realizzato, all’antichissimo sodalizio era stato riservato un posto nella sezione letterarioscientifica. Nel 1811 i Filarmonici si trasformarono di fatto in società di palchettisti (la denominazione diventa infatti “Società Filarmonica”) e in seguito la gestione del Teatro continuerà ad essere la loro attività predominante, assieme alla cura dell’orchestra stabile e alla guida di gran parte della vita musicale veronese. La nuova, dolorosissima perdita del Teatro dopo il bombardamento del 23 febbraio 1945, troverà come duecento anni prima energie e menti capaci di volere e impostare la ricostruzione, nonostante evidenti difficoltà e numerosi ostacoli tecnici, finanziari, amministrativi ed organizzativi. Dopo il Concorso nazionale per il progetto del nuovo Filarmonico bandito il 20 maggio 1947 (vinto dagli architetti Scalpelli, Sciascia e Ferrante), nel 1956 si optò per la soluzione proposta dal veronese Vittorio Filippini, che, pur tenendo conto delle moderne esigenze funzionali, più si avvicinava allo spirito bibienesco (dal nome del progettista) del vecchio Teatro. I lavori, iniziati nel 1961, durarono circa un decennio. Il Filarmonico da circa venticinque anni è stato dato dall’Accademia in uso gratuito al Comune di Verona, che a sua volta lo ha destinato all’attività istituzionale dell’Ente Lirico Arena di Verona, l’attuale Fondazione Arena.
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Vive ad Arbizzano ed è uno dei più competenti studiosi di giochi fanciulleschi. Ha raccolto oggetti preziosi nei mercati delle pulci e d’antiquariato di mezza Europa trasformando l’autorimessa in un museo. Autore di libri sull’argomento per la sua competenza è richiesto in Italia e all’estero
VERONA
Il re dei balocchi Marco Fittà collabora con il Centro per la cultura ludica di Torino, ha condotto ricerche sui giochi diffusi presso gli antichi popoli del bacino del Mediterraneo. «Il gioco? è una conquista intellettiva»
di Elisabetta Zampini Marco Fittà, giornalista, da anni si dedica alla ricerca, allo studio, al recupero di giochi e giocattoli con la passione ed il rigore del “topo di biblioteca”. È infatti uno dei più competenti studiosi in Italia di giochi fanciulleschi. Il gioco è un piacere senza età e Marco Fittà ne è una conferma. Studia, costruisce giochi e soprattutto li colleziona. Basta andare ad Arbizzano, dove vive, e farsi accompagnare in quello che una volta era il suo garage. Dopo aver sfrattato l’automobile è diventato infatti un curioso museo del giocattolo. Un museo domestico, carico di segni umani. I giocattoli sono stati raccolti nei mercati delle pulci e d’antiquariato di mezza Europa. Un cavalluccio un po’ nascosto all’entrata avvisa subito i visitatori di tenere gli occhi bene aperti sulle piccole cose. Appese come in un
teatrino a riposo ci sono le eleganti e raffinate marionette dell’Ottocento, ma c’è anche il burattino di cartapesta e stracci cuciti in casa. Ci sono i giochi ottici del secolo scorso: piccoli binocoli per girare il mondo in cartolina ma con la meraviglia della tridimensionalità. E vicino il piccolo caleidoscopio di cartone. Pinocchi di varia fattura e materiale, bambole di pezza, trottole, cavallini di latta meccanici pronti a gareggiare. Ed un pezzo davvero unico, perché costruito artigianalmente da mani sconosciute: un topolino di stoffa che si muove su un filo di ferro, grazie ad un ingegnoso quanto semplice meccanismo. Non è una galleria di oggetti solo belli ma, come ama definirli Marco Fittà, soprattutto di oggetti di cultura: «Rimango conquistato dai giochi creati in casa, con materiali poveri. Sono frutto di una ingegnosità a basso costo. Per costruire i giochi qualcuno ha
dovuto pensarci, fare un progetto, procedere per tentativi, usare le mani. E faceva esperienza delle proprietà dei materiali e di alcune leggi fisiche. Con questi giochi il
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Cultura bambino si divertiva a lungo. Oggi invece un nuovo giocattolo viene dimenticato in breve tempo». Ciò che ha guidato il collezionista è stato soprattutto il mondo reale e fantastico di ogni giocattolo. L’abilità del bambino che costruisce e la creazione di storie infinite del bambino che gioca. «Quando ho acquistato questa scatola-gioco, ho provato ad immedesimarmi in chi la apriva. La cosa straordinaria è che il gioco consiste in questo: toccare superfici ruvide, annusare essenze, ascoltare suoni, osservare i colori e quindi immaginare, fare ipotesi, sperimentare. Per me il giocare è una conquista intellettiva». Oltre alla collaborazione stabile con il Centro per la cultura ludica di Torino, un’istituzione unica in Europa, Fittà ha scritto il libro Giochi e Giocattoli nell’antichità (Leonardo Arte, Milano, 1997), un testo prezioso sui giochi diffusi presso gli antichi popoli del bacino del Mediterraneo. Inoltre, per diffondere questa sensibilità e per far conoscere ad un maggior numero di persone il frutto di anni di ricerche, ad Arbizzano è nata “Hermes”, Associazione culturale per la storia
del gioco e degli sport, di cui Marco Fittà è presidente. «I miei studi e l’esperienza confermano che il gioco è parte della vita – spiega il giornalista - giochiamo in ogni momento della giornata: quando facciamo un po’ gli attori nelle relazioni, quando tormentiamo una penna o un portachiavi tra le mani. Giocare ci aiuta a sdrammatizzare l’esistenza». Fittà ha scelto di dedicarsi ai giochi quasi per caso e ha trovato un tesoro per lo più inesplorato. È infatti un aspetto dell’attività umana molto trascurato dagli archeologi e dagli storici. Come a dire che il gioco, cosa da bambini, è di poco valore scientifico e conoscitivo. «Al contrario – sottolinea Fittà – i giocattoli sono continui esempi di soluzioni ingegnose». L’adulto spesso se ne dimentica e banalizza queste “cose da bambini” e i bambini, se visti solo come potenziali adulti e non come una età della vita con cui tenere aperto il dialogo, non fanno storia. Eppure ai grandi ricordano che il tempo del gioco è proprio della natura umana: «È il caso del modellismo» spiega Fittà. «Molti adulti diventano dei veri appassionati perché hanno ricominciato a
giocare con i figli». Forse sono stati proprio gli adulti-artisti a tenere aperto in modo significativo questo dialogo con il gioco, condotti per mano dai figli oppure da una personale ricerca estetica e comunicativa. La prova che il gioco non è cosa da poco, la troviamo in letteratura e nell’arte. Un vero omaggio alle attività ludiche è il quadro “I giochi dei fanciulli” di Pieter Bruegel. Nel 1560 egli dipinse questo tema di vita quotidiana: 148 bambini che giocano a 68 giochi diversi. Oltre a rappresentare una enciclopedia dipinta di giochi, ha segnato uno scarto dai consueti temi pittorici “alti”, eroici o sacri, dell’epoca. In tempi più recenti, anche artisti come Picasso, Depero, Klee e gli artisti del Bauhaus sono stati costruttori di giocattoli (specialmente di burattini e marionette). C’è poi uno scrittore molto noto nella letteratura per l’infanzia, Tony Ross, che ha scritto un racconto davvero speciale, La coperta fortunata. Già con il libro si inizia a giocare perché lo si può leggere dall’inizio alla fine, sce-
gliendo di partire da un lato o dall’altro: tanto poi ci si ritrova alla metà. Parla di una coperta che, a dispetto dell’incomprensione di genitori e parenti, diventa nelle mani di un bambino e una bambina un grande orso ringhiante, un’astronave, una nave pirata, un’armatura. È una difesa letteraria del gioco come spazio fantastico e creativo. Insomma il gioco è una divertente cosa seria e, parafrasando i versi di un poeta mantovano, si potrebbe dire che “i giocosi si portano in testa il cielo e non traballano”. È un buon augurio per i creativi che usano testa e mani. Non resta ora che mettersi in gioco.
Hermes e il Parco dei giochi dimenticati sulle Torricelle Hermes, il dio greco tutelare dei Ginnasi e delle Palestre, in molti vasi greci viene raffigurato mentre gioca con una trottola. Proprio per questo legame con il gioco e il giocare “Hermes” è diventato anche il nome dell’associazione culturale di cui Marco Fittà è presidente. Il gruppo si occupa di promuovere la ricerca e la diffusione della cultura ludica, di recuperare i giochi antichi e della tradizione e di curare gli aspetti pedagogici e sociali del giocare. Offre anche consulenza per realizzare originali parchi gioco. Un Parco dei giochi dimenticati è stato pensato da Hermes per Verona, precisamente sulle Torricelle, in un’area verde e ricca di punti panoramici. Attualmente i lavori di realizzazione sono fermi ma si può avere un’idea di come potrebbe essere confrontandolo con quello già quasi ultimato di Cigole, in provincia di Brescia: il giardino è diviso in diverse zone che diventano altrettante tappe dove fermarsi in un ideale percorso della memoria che, partendo dai giochi antichi, arriva ai giochi un tempo diffusi nel territorio italiano. Il tutto nella valorizzazione dell’aspetto naturalistico del
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luogo dove sono presenti specie arboree interessanti. I visitatori possono giocare con antichi giochi da tavolo sumeri, egizi e romani o con passatempi dimenticati come il Trucco a terra, il Ludus globi, le Fossette. Per assaporare delle giornate intere giocando, vale la pena infine ricordare un appuntamento importante che ogni anno si svolge in maggio a Montichiari (BS). “Nel Paese si seridò” è il nome della manifestazione realizzata dall’Adasm Brescia e dal Centro Fiera del Garda di Montichiari. Si tratta di una grande festa strutturata con spazi creativi, teatrali e ludici dove i bambini hanno un ruolo attivo e possono sperimentare in prima persona situazioni di gioco. Un evento, insomma, a misura di bambino. Per ulteriori informazioni: ww.associazionehermes.com www.serido.it (E.Z.)
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Cultura La prima manifestazione di cui si ha notizia risale all’807. Fu inaugurata in occasione della traslazione delle spoglie del patrono della città
Mostra enologica alla Fieragricola del 1933
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Le origini della Fiera in Piazza San Zeno Nel 1049 un incendio devasta poste, stazioni e casotti in legno. Il trasferimento a San Michele Extra Moenia. Nel 1930 nasce l’Ente Autonomo per le Fiere
Nel 1722, nell’area del Campo Marzo, tradizionalmente usata per la fiera di San Michele in Campagna, sorse un originale quartiere fieristico. Il progettista era Francesco Bibiena che nei medesimi anni disegnò il teatro Filarmonico per l’Accademia
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di Giorgia Cozzolino C’è stato un tempo in cui i veronesi dicevano “Andiamo in fiera” e non si dirigevano in zona industriale, a Verona Sud, area tanto discussa e sulla quale gli amministratori di oggi hanno grandi progetti, ma s’incamminavano, con al seguito mercanzie e animali, verso piazza San Zeno. Infatti, prima del dicembre del 1897, quando la Giunta comunale, deliberando la nascita della fiera cavalli, diede il via alla fondazione della fiera così come oggi la conosciamo, già un’anima fieristica pulsava nel cuore della città. Nell’807 d.C. la piazza prospiciente la grande basilica intitolata al pa-
trono di Verona fu la prima vera e propria sede della fiera. In quell’anno lo scambio di mercanzie e animali avvenne in occasione delle celebrazioni per la traslazione delle spoglie di San Zeno e, successivamente, si portò avanti l’iniziativa fino a trasformare l’incontro di compratori e produttori in una manifestazione con periodicità regolare. Dalle fonti storiche si può poi desumere che l’attività si evolse a tal punto che, solo duecento anni più tardi, l’area di San Zeno e delle vie circostanti cominciava ad essere insufficiente; così, quando nel 1049 le attrezzature fieristiche come poste, stazioni e casotti in legno furono distrutte da un furioso
incendio, si provvide a ricostruire tutto a tempo di record e si spostò la fiera a San Michele Extra Moenia. La manifestazione cambiò nome diventando la “Fiera di San Michele in Campagna” e passando inoltre sotto la giurisdizione del convento delle monache Benedettine le quali esercitavano tutti i diritti dei “dazi”e dei “tolonei”. Una sorta di evento speciale venne però organizzato nel 1187 nel piazzale antistante il Duomo, il Mercà Novo, una fiera che si svolgeva solo in occasione di importanti avvenimenti religiosi come ad esempio la morte di Papa Lucio II e la successiva elezione al pontificato di Urbano III. Ma si trattava
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Cultura per lo più di un mercato occasionale di merci varie che non ebbe lunga storia. Nel 1216 c’è traccia di un nuovo trasloco nell’area di Campo Marzo dove la fiera rimase stabile fino alla metà del quattordicesimo secolo. Nel tragico 1630, dopo la grave pestilenza che colpì il Veneto e soprattutto Verona, il Senato della Repubblica Veneta istituì due fiere annuali di merci, una in primavera e l’altra in autunno. Si trattava di un apposito editto che puntava a dare un nuovo slancio all’economia indicando in Piazza Bra, nella Cittadella e al Pallone le postazioni per “casotti” e “poste” in legno per le manifestazioni fieristiche. Tutte costruzioni distrutte da un nuovo incendio nel 1712. Fu solo nel 1722 che si pensò a realizzare un ambiente complesso e organizzato. Nell’area del Campo Marzo, tradizionalmente usata per la fiera di San Michele in Campagna, sorse un originale quartiere fieristico in solida muratura dove svolgere semestralmente le manifestazioni commerciali. Il progettista era lo stesso che nei medesimi anni disegnò il teatro Filarmonico per l’Accademia: Francesco Bibiena. Si trattava di un quartiere espositivo che ospitava circa 270 botteghe e che fu inaugurato dal rettore della chiesa di San Paolo il 28 ottobre del 1722. Era una struttura ispirata ai più avanzati concetti di funzionalità e proprio per questa sua peculiarità logistica, nel 1796, per l’invasione delle truppe francesi, fu adibito a caserma e scuderia. Sempre nello stesso periodo la Repubblica Veneta decise di istituire, in antagonismo con quella di Genova, la fiera Internazionale dei cambi nell’intento di conquistare i principali mercati finanziari italiani ed esteri. Questo atto di espansionismo commerciale vide, ancora una volta, Verona come fulcro centrale. Le rassegne si svolgevano infatti ben quattro volte l’anno, nel palazzo che fu dei Conti di Sambonifacio, trasformato in una sorta di moderna borsa dove contrattare le valute delle principali piazze monetarie europee. Un ruolo così importante e strategico non poteva certamente perdersi durante la dominazione austriaca ottocentesca e così la vocazione mercantile di Verona prose-
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Nel 1822 ogni attività fieristica si concluse per volere della reggenza austriaca che volle trasformare la città in una munitissima fortezza militare con massicce fortificazioni. Non c’era più tempo per il commercio guì rafforzandosi con manifestazioni regolari fino al 1822. In quell’anno ogni attività fieristica si concluse per volere della reggenza austriaca che volle trasformare la città in una munitissima fortezza militare con massicce fortificazioni. Non c’era più tempo quindi per il commercio. Dopo 44 anni, con l’adesione del Veneto al Regno d’Italia, Verona recuperò la propria vocazione mercantile e nel giro di pochi anni la città visse un rifiorire di attività. Tra queste, l’Accademia di Agricoltura, Commercio e Arti di Verona che nel 1868, festeggiando il centenario della fondazione, organizzò un’animatissima Esposizione Industriale Veronese. Per tutto l’Ottocento però non si può effettivamente parlare di fiera perché le attività non avevano cadenza periodica. Fu solo sul finire del secolo, precisamente il 23 dicembre del 1897 che la Giunta comunale deliberò la costruzione del quartiere fieristico incaricando Gianni Grigolatti ed Eribrando Mantovani di seguire l’opera che fu portata a termine in soli tre
mesi. Si trattava dell’area detta “Ortaglia del Biadego” zona che, come spiega Giuseppe Brugnoli nel volume 90 anni di Fiere a Verona - Storia e prospettive dell’agricoltura «si estende tra via Cappuccini Vecchi, la riva destra dell’Adigetto, la riva destra dell’Adige, lungo il lato nord dell’ortaglia, parallelamente alla riva dell’Adigetto». Contemporaneamente l’amministrazione comunale istituì la fiera semestrale di cavalli, l’antesignano di Fieracavalli, e, a corollario di tute le sezioni che compongono tale esposizione, venne realizzato anche il vasto Campo Sperimentale, nel quartiere di San Pancrazio, con annessa la mostra per l’Edilizia rurale, le case rurali e sezioni sperimentali di meccanica agraria. Un altro salto di qualità avvenne nel 1930 quando fu costituito l’Ente autonomo per le fiere e la tradizionale manifestazione primaverile diventò ufficialmente l’Internazionale dell’agricoltura e dei cavalli entrando a far parte dell’Union des Foires Internationales (Ufi).
Così cominciò l’evoluzione della fiera di Verona che di anno in anno andò specializzandosi sempre più e ampliandosi a diversi settori collegati all’agricoltura e a tutto ciò che essa produce. L’anno del cinquantenario, il 1948, rappresenta un’altra importante svolta: la cosiddetta Fieragricola viene trasferita a Borgo Roma, in un’area attrezza di tremila metri quadrati. Da qui in poi la storia è tutta in crescendo, un incremento tanto veloce quanto rilevante che ha portato Verona nell’olimpo delle manifestazioni fieristiche europee. Passando dalla nascita del Samoter, ovvero il salone internazionale delle macchine per il movimento terra, al celebre Vinitaly, inaugurato per la prima volta nel 1967, fino alle più recenti manifestazioni come Abitare il tempo (1986), Transpotec e logitec (1988), il Siab, salone internazionale dell’arte bianca (1990) e la Mostra internazionale dei Marmi (1992), si giunge al 1995 anno in cui viene costituita l’odierna Veronafiere International. L’azienda speciale per il servizi internazionali e la promozione fieristica aderisce inoltre, nello stesso anno, all’associazione mondiale dei World Trade Center conferendo così alla città un’aurea cosmopolita. Una natura fiorita in un secolo esatto di vita il cui germe però lo si ritrova fin dagli albori dell’identità veronese.
Cartolina edita in occasione della “Fiera di Cavalli” del 1901
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Associazioni di Giovanni Drogo Verona, anno 2004. Un sabato pomeriggio di aprile, lungadige San Giorgio, di fronte ai bastioni austriaci. Due giovani di poco più di vent’anni, in camicia azzurra, calzoni corti, foulard giallo al collo, hanno schierati di fronte, a quadrato e divisi in gruppetti, una trentina di ragazzini, vestiti come loro. Consegnano ai più grandicelli una cartina topografica e dettano istruzioni: classificare piante, animali e oggetti trovati lungo un percorso da compiere in collina; tracciare uno schema della strada compiuta. Poi via a piedi, con i gruppetti delle Aquile, delle Tigri e dei Falchi in direzioni diverse. Verona, anno 1915. Un sabato pomeriggio di aprile, lungadige San Giorgio, di fronte ai bastioni austriaci. Due giovani di poco più di vent’anni… Sembra impossibile, ma eppure è così. La scena è la stessa. I “boy scout”, i ragazzi esploratori, c’erano allora come oggi. Ed erano già “pronti a partire” per le loro esplorazioni e avventure all’aria aperta. Quei ragazzi erano tra i primi seguaci, in Italia, della grande idea del generale Robert Baden - Powell (1857-1941) un generale dell’esercito inglese che fonda, nel 1907, i boy scout.
VERONA
Boy scout: una storia centenaria Agesci e CnGei sono due espressioni, cattolica e aconfessionale, del movimento fondato nel 1907 dall’inglese Baden Powell. Quelli di Verona nel 1916 hanno ricevuto la medaglia d’oro per atti di eroismo
“B.- P.”, come gli scout hanno sempre chiamato il fondatore, è stato ufficiale in India e in Sud Africa. Come graduato e addestratore di soldati, aveva redatto manuali di esplorazione e di orientamento, spesso attingendo dalle usanze e dalle tecniche manuali e di sopravvivenza che aveva “rubato” alle tribù indigene delle colonie britanniche. Tornato in patria ai primi del Novecento dopo varie esperienze di guer-
ra, constatando la difficoltà che incontravano i bambini, i ragazzi e i giovani della sua città, Londra – povertà, igiene trascurata, carenze educative, alcolismo e devianza a livelli preoccupanti – pensa di dedicarsi a loro, per formare il loro carattere e fare sì che possano diventare buoni cittadini, utili e se stessi e alla patria. Baden-Powell è concreto. Sa che i ragazzi hanno bisogno d’avventura, di sana competizione, vogliono sognare e realizzare i sogni e magari essere un po’ alternativi. E chi propone loro l’avventura, il capo, deve dare per primo l’esempio, come un fratello maggiore. Ecco l’idea, allora: proporre ai ragazzi le tecniche che aveva insegnato ai giovani soldati esploratori, con qualche aggiunta, trasformandole in occasioni per i ragazzi di imparare divertendosi, di stare insieme nella natura. Con un obiettivo: formare il carattere, facendo leva sul 95 per cento di buono, il senso civico e la fratellanza.
Un libro, diventato un best seller, Scouting for boys, cioè “Scautismo per ragazzi”, scritto e illustrato da B.-P., è la bibbia di questi insegnamenti: orientamento e topografia, vita nei boschi, marciare con qualsiasi tempo, dormire all’aperto, cucinare alla trapper sul fuoco, costruire ponti in corda e palafitte, osservare e conoscere le piante, gli animali e le stelle, canto e tecniche espressive, esercizi ginnici. Baden Powell mette in pratica questo metodo empirico per la prima volta in un campo estivo all’isola di Bronwsea. Vi partecipano ragazzi di tutte le estrazioni sociali. Sono loro i primi boy scout. Vengono divisi in pattuglie, con un capo, all’interno delle quali ognuno ha un incarico preciso. Una Promessa e una legge di 10 articoli invitano lo scout a essere leale, laborioso ed economo, altruista, a sorridere e cantare anche nelle difficoltà, a meritare fiducia, a servire Dio e la patria. B.-P piano piano trova dei collaboratori adulti: sono loro i primi capi. L’idea di B.- P. ha un successo strepitoso e comincia a diffondersi in tanti Paesi del mondo tra cui l’Italia, in maniera organizzata. Dopo varie esperienze embrionali, tra cui i Rei, Ragazzi esploratori italiani, a partire dal 1910, la prima associazione scautistica a costituirsi, nel 1912, è il CnGei, il Corpo
Associazioni
Uno dei primi campi estivi dell’Asci. Sotto: attività alpinistica
nazionale giovani esploratori italiani, di impronta aconfessionale, seguita nel 1916 dall’Asci, l’Associazione scout cattolici italiani. Si tratta sin qui di esperienze riservate soltanto ai maschi, di età 11-16 anni. Più tardi, però, si svilupperanno anche l’Ungei, nel 1927, l’Unione nazionale giovani esploratrici italiane, il parallelo in femminile del CnGei. A Verona la sezione del CnGei si costituisce il 28 aprile 1915 e nei giorni successivi cominciano le prime esercitazioni di segnalazione e topografia e i campeggi estivi, sulle colline di Avesa e i servizi civici. I ragazzi impegnati sono in prevalenza adolescenti. Il 18 luglio 1915 i Gei veronesi prestano il loro giuramento all’interno dell’Arena, in una cerimonia a cui assistono quasi 15mila persone. Il 14 novembre 1915 Verona viene bombardata da aerei austriaci: muoiono 35 persone. Gli scout del CnGei accorrono subito per prestare soccorso in piazza Erbe, lungadige Sammicheli e in piazza Cavour dove coadiuvano i soccorsi. Per quest’opera, nel 1916, dinanzi all’altare della Patria, a Roma, il principe ereditario Umberto II di Savoia (anch’egli iscritto negli scout) decora la bandiera della sezione di Verona con la medaglia d’oro della Fondazione Carnegie, per atti di eroismo. Ma in città e poi in provincia comincia a organizzarsi anche l’attività scautistica dei cattolici. Il metodo scout, questo è il senso del loro impegno, può essere una strada per diventare buoni cittadini ma anche buoni cristiani. Domenica
in VERONA
L’amore per la natura, le competenze su cui sviluppare un progetto di vita, lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato, aiutare il prossimo sono alcuni degli obiettivi dello scautismo 11 marzo 1923, nella chiesa di Sant’Anastasia, vengono inaugurati i primi cinque riparti di scout cattolici dell’Asci scaligera. Il primo campo scout viene organizzato dal riparto San Marco Verona XV, con sede alla parrocchia di San Tomaso, a Ferrara di Monte Baldo, in settembre. I riparti Asci hanno sede a San Tomaso, al patronato delle Stimate, nelle parrocchie di Sant’Anastasia, San Fermo, San Giuseppe Fuori le Mura Verona e Sant’Eufemia. Le organizzazioni scautistiche italiane e veronesi, parallelamente allo sviluppo del movimento scout internazionale sempre guidato da Baden - Powell, strutturano la loro proposta educativa per diverse fasce di età. Oltre a quella classica degli adolescenti, 11-16 anni, ci sono i Lupetti, bambini dai sette ai 10 anni che giocano dentro la storia del Libro della Giungla, di Kipling, e poi i Rover, 17-20 anni, orientati maggiormente al servizio civico. Dopo quella età, le associazioni danno la possibilità a chi vuole, di diventare capo, responsabile quindi di un gruppo di ragazzi, dopo un percorso di formazione.
Ma lo scautismo italiano ha un prima e un dopo. Il regime fascista nel 1928 fa sopprimere l’Asci, il CnGei e l’Ungei: per i giovani deve esserci soltanto l’Organizzazione nazionale Balilla, dice Mussolini. Ma, se le associazioni vengono sciolte, in realtà lo spirito scout non muore e le stesse attività sopravvivono in forma clandestina. A Roma, intanto, nel 1943, nella catacombe di Priscilla, prestano la loro promessa alcune ragazze, che danno vita all’Agi, l’Associazione guide italiane, di matrice cattolica. È tale l’entusiasmo e le voglia di ripartire, dopo la tragedia della seconda Guerra mondiale, che pochi giorni dopo il 25 Aprile, giorno della Liberazione, lo scautismo risorge, anche a Verona. Ai primi di maggio si riuniscono in via Oberdan 10 vecchi capi dell’Asci e dirigenti dell’Azione cattolica e ridanno vita al movimento scautistico costituendo le prime unità e il commissariato di zona (commissario è Mario Tommasi) che coordina l’attività a livello provinciale. La sezione di Verona del CnGei rinasce invece attorno a un gruppo di “vecchi lupi” come Amistà, Besuschio, Gasdia, Gronich, Perpruner, Rimini, con il sostegno di Howard R. Patton, direttore nazionale del Wwf e del maggiore Prinsloo, al seguito delle truppe americane di occupazione in stanza a Verona e addetti al collegamento scout.
Prende piede anche l’Agi, che si organizza in città e provincia con nuove dirigenti e assistenti ecclesiastici. Dal secondo dopoguerra in qua lo scautismo ha un boom, in Italia come a Verona, espandendosi con unità e gruppi in maniera capillare, anche in attività come la protezione civile e nella solidarietà. Nel 1974 Asci e Agi si fondono, dando vita all’Agesci, l’Associazione guide e scout cattolici italiani (maschile e femminile), che ha raggiunto i 200mila iscritti, di cui circa cinquemila a Verona. Anche Cngei e Ungei si fondono, e Cngei ora sta per Corpo nazionale giovani esploratori eploratrici italiani, presente nel Veronese con tre sezioni, Verona 1, Verona 3 e San Martino Buon Albergo, in tutto quasi 400 iscritti. Non è presente a Verona una terza associazione scautistica, gli Scouts d’Europa, che pure hanno raggiunto in Italia i 18mila iscritti. Fra tre anni, nel 2007, cadrà il centenario della fondazione del movimento. In un secolo, decine di milioni di ragazzi e ragazze hanno giocato il grande gioco dello scautismo, provando, umilmente, a migliorare se stessi per essere utili a sé e al proprio Paese. Baden - Powell, «Lupo che non dorme mai», come lo chiamavano gli indigeni del Sud Africa, può andare fiero della sua idea.
I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA
Carolina e il pianoforte di Giuseppe Brugnoli Ero fermo in una lunga colonna di automobili, sulla Gardesana, quando guardandomi attorno in attesa che la fila riprendesse lentamente, posai l’occhio su un manifesto un po’ stinto dal sole e dalla pioggia sul muro di una casa. Era un avviso mortuario, di una certa Carolina F. E subito mi tornò alla mente quella volta, giusto mezzo secolo fa, quando conobbi una ragazza con lo stesso nome. Erano i tempi ormai dimenticati del primo grande gioco televisivo che distribuiva soldi in cambio di risposte, “Lascia o raddoppia”, e che visse anche la finale epopea del controfagotto, in cui un professore di matematica romagnolo cadde all’ultima domanda che gli chiese, a lui che si presentava come esperto di musica, quale strumento fosse suonato in un brano classico che non ricordo più. Mi ricordo invece di quell’esile ragazza che voleva concorrere a “Lascia o raddoppia”, anche lei presentandosi a domande sulla musica. Nella ressa di aspiranti che si affollavano a chiedere di partecipare al grande gioco, il quale, rarissimi essendo allora i televisori domestici, affollava fumose stanze di bar di una marea compatta di spettatori silenziosi e attoniti, forse quell’esile donna che viveva con i genitori nella frazioncina montana di un paese del lago non avrebbe avuto possibilità di essere scelta, ma lei aveva una specialità che la rendeva diversa da tutti gli altri concorrenti: era cieca dalla nascita. Era stata accolta fin da bambina nell’Istituto Configliachi di Padova, dove aveva studiato pianoforte, finché, raggiunta la maggiore età e completati gli studi, era tornata nella piccola casa isolata su una balza del Baldo, come un balcone proteso sul Garda, raggiungibile solo a piedi, e attendeva in solitudine e silenzio il ritorno del padre pescatore, uno degli ultimi pescatori del lago, e della madre che coltivava un piccolo appezzamento di terra. Aveva un solo desiderio: poter avere un pianoforte per riempire di suoni le sue giornate vuote e silenziose, e per raggiungere la somma necessaria a comperarlo voleva presentarsi a “Lascia o raddoppia”.
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Allora lavoravo a “Il Corriere del Mattino”, aspirante cronista agli ordini di Giacomo Lampronti, Pino Sambugaro e Gino Nenz, e quando giunse da un corrispondente del lago la notizia che c’era una ragazza che voleva andare in televisione toccò a me, ultimo arrivato, raggiungerla sul Garda per intervistarla. Mi parve subito che le sue chances per arrivare a Roma e concorrere al programma televisivo del momento non fossero eccessive: le sue conoscenze di storia della musica, materia per la quale voleva presentarsi, erano piuttosto lacunose ed elementari; l’unica sua prerogativa, per la quale poteva forse diventare un personaggio, ma a quell’epoca erano altri i personaggi popolari di cui andava in cerca la televisione ai suoi inizi, era la sua infermità, e su questa quindi impostai il mio articolo, accennando con qualche pudore a quella sottile disperazione, appena affiorante dalle sue parole, che mi sembrava esprimesse il suo desiderio di avere uno strumento per non essere del tutto sola. Nel bailamme dell’interesse invasivo e della curiosità quasi morbosa che aveva suscitato quel primo esperimento di trasmissione popolare alla neonata tv italiana, l’apparizione di una ragazza schiva e timida come questa mi sembrava, qualora fosse avvenuta, quasi una profanazione, certamente una stonatura. Dopo una settimana, entrando al giornale, fui richiamato dal caporedattore Lampronti, che con l’eterna mezza sigaretta appesa all’angolo della bocca mi disse brontolando: guarda che devi fare un seguito, al tuo capodopera. Era successo che si era presentato in redazione un signore, un ex operaio con moglie e figli che aveva messo su un’aziendina che funzionava bene, e che aveva deciso di comperare lui il pianoforte per la ragazza. Facemmo un altro articolo con le foto, e ricordo la fatica di tre uomini per trasportare a braccia il pianoforte nuovo su per la scalinata di sassi che portava alla casa sul lago. Se ne interessò anche la stampa nazionale, e Silvio Bertoldi, allora capocronista de “L’Arena”, fece due begli articoli per “Oggi”, di cui era corrispondente. Non ho più visto dopo di allora né la ragazza cieca, che non andò più a “Lascia o rad-
doppia”, né il signore che le aveva regalato il pianoforte nuovo, e di cui ho perso il nome ma non il ricordo. Ogni tanto, passando sulla Gardesana, mi veniva voglia di salire per l’erta che portava alle quattro casette appollaiate in costa per rivedere Carolina F., ma, concluso l’episodio, mi sembrava che sarebbe stata una indebita ingerenza. Finché non ho visto casualmente l’annuncio mortuario su un muro, e ho capito che la storia era finita. Non è finito tuttavia il pensiero che ogni tanto mi ritorna, se non sarebbe stato meglio, per la ragazza cieca di mezzo secolo fa, presentarsi in televisione a rispondere a domande sulla musica classica. Forse non avrebbe vinto, forse non avrebbe avuto i soldi per comperare il pianoforte, ma forse la sua vita, chissà, sarebbe cambiata, e non sarebbe rimasta sola, come immagino sia rimasta, in una casetta affacciata da un aereo balcone sulla meravigliosa vista del lago, una vista che a lei non fu mai concessa.
Giugno 2004
Spettacoli ARENA
L’amore senza speranza di Madama Butterfly La giovane Cio Cio San attende invano per anni l’amato Pinkerton. Alla fine l’ufficiale di Marina tornerà in Giappone, ma solo per riprendersi il figlio
Dal 19 giugno al 29 luglio in Arena Sono ormai trascorsi cento anni dal 17 febbraio del 1904, quando Giacomo Puccini rappresentò per la prima volta al teatro La Scala di Milano quella che egli stesso definì «L’opera più sentita e suggestiva ch’io abbia mai concepito».
di Giorgia Cozzolino Zeffirelli torna in Arena, dal 19 giugno al 29 luglio, con la tragica storia di Cio Cio San, meglio nota come Madama Butterfly sulle indimenticabili musiche di Giacomo Puccini e la direzione di Daniel Oren. Sono infatti ormai trascorsi cento anni dal 17 febbraio del 1904 in cui il compositore rappresentò per la prima volta al teatro La Scala di Milano quella che egli stesso definì «L’opera più sentita e suggestiva ch’io abbia mai concepito».
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Purtroppo quella Prima fu anche il suo primo vero insuccesso, un fiasco colossale accompagnato da risa, boati e fischi del pubblico. Ciò però non fermò la sua convinzione e, dopo alcuni ritocchi e aggiustamenti, nacque la seconda versione in due atti, il secondo diviso in due parti, che fu rappresentata al Teatro Grande di Brescia il 28 maggio 1904. Pignolo e cavilloso com’era, Puccini elaborò anche la terza versione in due atti eseguita a Londra, al Covent Garden il 10 luglio 1905 e, finalmente, la definitiva stesura in tre atti rappresentata all’Opéra Co-
mique di Parigi il 28 dicembre 1906. Quell’amore forte e travagliato per Madame Butterfly scaturì improvvisamente nel cuore e nella mente di Puccini, nel 1900, a Londra dove ebbe occasione di assistere alla rappresentazione di David Belasco. Ovvero colui che Zeffirelli definisce «uno scrittore nell’anima adattatore di idee altrui, imprenditore, schiavo d’amore di attrici eccezionali, rinnovatore dello spazio scenico, stregone delle luci, dei colori, dei ritmi, delle emozioni». Fu infatti Belasco a portare al suc-
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Spettacoli cesso, con le sue straordinarie doti rivoluzionarie, la storia vera narrata da J.L. Long: quella della piccola Cio Cio San. «Era tale l’emozione che sprigionava lo spettacolo che Puccini ne fu travolto» spiega Zeffirelli. Una sorta di incantesimo si impadronì del compositore lucchese che non si accontentò di rappresentare uno storia esotica, ma approfondì il mondo orientale documentandosi sulla musica, sugli usi e costumi e sugli strumenti usati in quel Paese. Ma da dove nasce la magia di Madame Butterfly? Forse dalla sua ambientazione, nel quartiere dei piaceri di Nagasaki, tra bamboo e siepi fiorite in una collina che fronteggia il porto? Oppure da quell’umanità vivace che ruota intorno agli antichi rituali giapponesi a cui sono legate quelle fanciulle di straordinaria bellezza? Più probabilmente il sortilegio fiorisce dalla stessa protagonista, dal suo sacrificio d’amore estremo, così incomprensibile agli occhi occidentali. «È un vero formicaio che pullula operoso ma umile e silenzioso attorno al mondo di prostitute, serve, lavandaie, creditrici e anche sfruttatrici e ruffiane. Alcune di loro sono ancora ben in arnese. E ogni tanto le vediamo addirittura passare sui loro palanchini portati a spalla dai servi» anticipa il regista. «Non mancano bambini, anche in fasce. E mendicanti, tanti mendicanti affamati, malati» e, senza timore di svelare troppo, aggiunge: «A quel punto della via principale che attraversa il quartiere c’è un piccolo tabernacolo scolpito nella roccia dedicato al Savio Ocunama, che è oggetto di particolare rispetto da parte dei passanti che gli offrono fiori, accendono incensi e piccoli lumi». Un formicaio che è sempre presente, come una malattia sociale che fa da sfondo all’eccitazione e agli episodi coloratissimi dei visitatori. Si vedono irrompere spesso marinai stranieri che ritornano alle loro navi ubriachi, sfiniti, oppure quelli appena sbarcati che salgono il colle eccitati e impazienti. Pinkerton è uno di questi. La storia narra infatti di un ufficiale di Marina americano in licenza di piacere che per un pugno
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di dollari ottiene una casa, una splendida moglie e una vera e propria favola. «Cio Cio San è davvero ancora una bambina, dice di avere quindici anni, ma ha deciso nella sua testolina di voler diventare americana», spiega il regista. «Era il sogno di tante fanciulle giapponesi di quel tempo che vedevano nell’America il Paese del progresso, della libertà, loro che vivevano ancora in condizioni di schiave, di gran lusso, ma sempre schiave». D’altra parte Pinkerton è impaziente e vuole vivere la sua favola pur convinto che, da buon marinaio, ha un’amante in ogni porto e se un giorno si sposerà lo farà con una moglie americana. Si anticipano così, in un solo momento, la delusione e la tragedia che colpiranno quella piccola creatura orientale. Ma ad aggravare la situazione ci pensa il mondo antico, fatto di regole inderogabili e di tradizioni intramontabili, che arrivano ad estromettere Cio Cio San dalla sua stessa fami-
glia. Fortemente turbato da questa avventura così difficile da comprendere per un occidentale, Pinkerton, tuttavia, è sempre più affascinato da questa delicata creatura rimasta sola, disperata e piangente. La stringe a sé con un vero impeto d’amore, per confortarla e rassicurarla. Cio Cio San, gradualmente si lascia conquistare e si affida a lui fiduciosa, vivono insieme una notte che entrambi non dimenticheranno mai. Ma la favola finisce dove inizia la realtà e Pinkerton ritorna in America, com’era previsto, lasciando Butterfly sola con la promessa di un presto ritorno. Passano tre anni e lui non ha saputo che la piccola geisha, povera e abbandonata da tutti, meno che dalla fedele Suzuki, ha messo al mondo un bambino e continua fermamente a credere nell’amore di Pinkerton e ad attendere con certezza fiduciosa il suo ritorno. Durante questi anni anche nel cuore di Pinkerton è rimasto in-
delebile il ricordo di quella notte straordinaria che ha vissuto a Nagasaki e incarica l’amico Sharpless di voler provvedere all’affitto di quella casetta di sogno e al sostentamento di Cio Cio San. Sharpless però, comprende la realtà delle cose e sprona la giovane donna ad uscire dal suo mondo di ricordi e a farsi una nuova vita sposando un riccone innamorato di lei, il Principe Yamadori. La fiducia di Cio Cio San è incrollabile anche se il suo sogno non si avvererà mai perché Pinkerton, nel frattempo, ha sposato una brava ragazza americana. La situazione precipita quando con la nuova moglie il marinaio torna finalmente a Nagasaki, ma solo per toglierle l’unica speranza rimasta: il figlio. Alla piccola donna dagli occhi a mandorla non rimane che arrendersi, per il bene e il futuro del bambino. «Dopo un accorato, straziante addio al bambino, Butterfly indossa di nuovo gli abiti coloratissimi e raffinati della geisha, la bambola schiava, e si trafigge ritualmente con la stessa spada con cui si tolse la vita suo padre. Con Onore.» spiega il regista. E conclude: «La schiava innocente dello sfruttamento del vizio vuole così immolarsi per offrire a tutte quelle come lei una speranza di redenzione, di libertà e di progresso.Tutto qui? Sì, ma c’è anche la più bella musica che forse Puccini abbia mai scritto».
Giugno 2004
Spettacoli ARENA
Sarà lo Standards Trio a chiudere il Festival Jazz Il ritorno di Jarrett, Peacock e DeJohnette in Arena, il prossimo 19 luglio, chiude il cartellone di Verona Jazz 2004 rappresentando anche il massimo avvenimento musicale dell’estate italiana. Lo Standards Trio, così chiamato per il titolo-manifesto che aveva il loro disco d’esordio (Standards Vol.1), è giunto a Verona più volte, sempre nell’ambito del festival jazz estivo: il 1° luglio 1986 al Teatro Romano e ancora nel giugno del 1995 e del 1999. Per tre volte ha conquistato il pubblico con una musica in equilibrio tra delicatezza armonica, disinvoltura ritmica e abbandoni melodici. Non c’è alcun dubbio, quindi, che il miracolo tornerà a ripetersi. Questo sodalizio appare sempre più un’eccezione nel panorama musicale odierno. Dopo vent’anni di attività non ha ancora perso le ragioni profonde del suo esistere e non sono certo i motivi commerciali che (come troppo spesso oggi accade) lo inducono a continuare: la forte affinità che lega Jarrett, Peacock e DeJohnette si unisce alla continua messa in discussione dei motivi che li spingono ad agire. La profonda conoscenza reciproca diventa quindi condizione per essere il più possibile liberi, nella reinvenzione continua dei temi, nella costruzione delle dinamiche, nell’adozione dei procedimenti ritmici. Costretto per buona parte degli anni Novanta a limitare l’attività a causa della sindrome da affaticamento cronico, Keith Jarrett è tornato quasi del tutto in forma. Gli ultimi concerti e dischi, come il recentissimo Up For It, dimostrano il suo ritorno ai momenti migliori. All’età di 59 anni, il pianista di Allentown, incarna nella sua musica il passato, il presente e, forse, il futuro del jazz. Il suo grande eclettismo, la ricerca continua del rischio, la costante tendenza a fondere linguaggi e stili diversi, rappresentano l’archetipo senza tempo del fare musica creativa. Diede il suo primo concerto all’età di sette anni e da allora non ha più smesso di esibirsi, rapportandosi alla musica con “Desiderio Feroce”. Da giovane aveva studiato musica classica ma già dal rifiuto di andare
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Il 19 luglio in Arena I tre musicisti conquistano il pubblico con una musica in equilibrio tra delicatezza armonica, disinvoltura ritmica e abbandoni melodici. Dopo vent’anni di attività continuano a trovare le condizioni per esprimersi con spunti sempre nuovi
L’ECM diventa la sua casa e con l’etichetta tedesca incide il 10 novembre 1971, Facing You, un album di solo piano che farà storia, anche se nella mente dei suoi ammiratori c’è impresso The Köhln Concert, inciso nel gennaio 1975 e giunto ormai a due milioni di copie. Forse vale la pena di raccontare il singolare retroscena di quell’album, che pochi conoscono. Giunto a Colonia esausto dopo un viaggio disastroso, dove non aveva chiuso occhio, Jarrett non riuscì a rilassarsi neppure prima del concerto. Quando si recò al soundcheck si trovò di fronte ad un pianoforte in pessime condizioni e non riuscì ad evitare l’incisione live, fissata molto tempo prima. «Mi ricordo che uscendo sul palcoscenico mi stavo per addormentare – ha ricordato Keith – e poco prima l’inizio del concerto facevo finta di boxare con l’ingegnere del suono, soltanto per continuare a muovermi. Quando alla fine dovetti entrare in palcoscenico per suonare fu per me un tale sollievo che pensai: “Che possa andare all’inferno, con quell’accidente di pianoforte e tutto il resto!». È per quel motivo che, durante tutto il concerto, Jarrett si concentrò sulla zona centrale della tastiera, l’unica acusticamente accettabile, abbandonando la ricerca timbrica a favore di ritmi ripetitivi. Da quella tragica condizione di costrizione nacque uno degli album più amati dell’ultimo ventennio. Otto anni dopo a New York, in soli tre giorni di registrazioni in studio, iniziò la magnifica avventura del trio. A.L.
a Parigi,a studiare con Nadia Boulanger si comprende la sua radicale voglia di libertà. Sceglie il jazz e nella metà degli anni Sessanta è con i Jazz Messengers di Art Blakey ad apprendere i fondamenti dell’hard-bop. Poco dopo entra nel quartetto di Charles Lloyd, sedendo di fronte alla tastiera che, quindici anni dopo, vedrà esordire Michel Petrucciani. È in quel gruppo che incontra Jack DeJohnette e lo ritroverà all’alba degli anni settanta, nel gruppo “elettico” di Miles Davis, The Prince of Darkness. Fra tutti i musicisti (Corea, Shorter, Hancock, Zawinul, McLaughlin) che uscirono allora dalle formazioni del grande “sciamano elettrico”, Jarrett segue la via più personale: non la sperimentazione col jazz-rock ma la marcia verso l’intimità e l’introspezione. Jarrett suona il pianoforte elettrico solo nel periodo con Davis. Poi torna allo strumento acustico. Per sempre.
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Spettacoli TEATRO ROMANO
Riccardo III: il potere a qualsiasi prezzo Dal 15 al 19 luglio, nell’ambito del 56° Festival Shakespeariano. È il dramma della bramosia dell’uomo, causa delle guerre che agitano anche il nostro tempo
di Giorgio Montolli Re Lear, dal 7 all’11 luglio, Riccardo III, dal 15 al 19 luglio e Molto Rumore per Nulla, dal 23 al 28 luglio, sono le tre opere in cartellone al teatro Romano per il 56° Festival Shakespeariano. Tre lavori in cui Shakespeare rappresenta con forza davvero unica l’uomo, la sua coscienza, il suo agire nella storia. Esempi intramontabili di un teatro che con le sue forti emozioni e il suo spessore continua ad essere, dopo quasi cinque secoli, un punto di riferimento valido per capire ciò che nelle vicende umane sembra legare in modo indissolubile il passato, il presente e probabilmente anche il futuro. Un filo conduttore che Shakespeare ha scovato nella psiche umana, libero da false retoriche, mettendo a nudo una realtà non sempre piacevole agli occhi di chi di tanto in tanto pretende di osservarsi allo specchio. Capita allora di vederci Riccardo III in quell’immagine riflessa, di leggerci la storia di oggi, di inorridire di fronte a ciò che il dramma evoca dentro di noi, nel riconoscere che sì, è vero, quella parte oscura non ci è del tutto estranea e soprattutto che c’è sempre qualcuno in grado di interpretarla al meglio. Ecco alcune note storiche che è indispensabile conoscere prima di recarsi a teatro. Il dramma ha
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Ancora oggi inorridiamo di fronte a ciò che Riccardo III evoca dentro di noi, nel riconoscere che quella parte oscura non ci è del tutto estranea e soprattutto che c’è sempre qualcuno in grado di interpretarla al meglio come riferimento la Guerra delle Due Rose, combattuta in Inghilterra per il trono tra il 1455 e il 1485 tra i Lancaster e gli York, che avevano come insegna rispettivamente una rosa rossa e una rosa bianca. Riccardo di York vinse a Saint Albans Enrico VI di Lancaster, ma fu a sua volta sconfitto e ucciso nel 1460 dalla regina Margherita D’Angiò. Tuttavia il figlio di Riccardo, Edoardo di York, riuscì nel 1461 a raggiungere Londra e a farsi incoronare re con il nome di Edoardo IV. Enrico VI di Lancaster e Margherita D’Angiò si rifugiarono in Scozia, ma nel 1465 Enrico VI fu fatto prigioniero. Si riaccese allora la guerra tra Edoardo IV di York e il suo alleato Warwick, passato ai Lancaster. Edoardo IV uscì vittorioso da questa fase del conflitto, mentre Enrico VI e Warwick furono uccisi nel 1471. Dopo la morte di Edoardo IV di York (1483) il fratello Riccardo di Glocester (Fotheringhay 1452 Bosworth 1485) assunse la tutela dei nipoti e costrinse il Parlamento a nominarlo re con il nome di Riccardo III, quindi fece uccidere
i legittimi eredi. Riccardo III si trovò a combattere contro Enrico Tudor, nuovo capo della casa di Lancaster, che dopo averlo sconfitto e ucciso si proclamò re con il nome di Enrico VII. Il matrimonio di Enrico VII con la figlia di Edoardo IV riunì le due casate e pose fine al conflitto. Quando Shakespeare scrisse Riccardo III, tra 1591 e il 1594, certo contribuì non poco a rendere eterni i tratti più efferati di questo sovrano, che è diventato così nei secoli l’icona della crudeltà, l’espressione della parte peggiore dell’uomo, un essere diabolico e questo forse ben oltre la reale malvagità del personaggio storico, sul cui grado di cattiveria le biografie non sempre concordano. Riccardo non indietreggia di fronte nulla, si finge amico di quelli che farà poi assassinare, si presenta come timorato di Dio, proprio quando trama i delitti più atroci. Il sovrano è quasi sempre sulla scena, protagonista assoluto, al centro del mondo. Appare deforme, come se la deformità fosse lo specchio visibile di un’anima incline ai peggiori crimini pur di raggiungere i sui scopi.
Più che un dramma storico Riccardo III è allora l’opera dove Shakespeare riflette sulla cecità dell’uomo, che è alla base delle tragedie che insanguinano anche il nostro tempo e per le quali la retorica del potere, che Riccardo così bene denuncia e svela nella sua macchinosità, ha sempre una accomodante giustificazione. E se dunque a muovere la storia è la malvagità, allora Riccardo, che l’acutezza della sua intelligenza ha posto al di fuori e al di sopra di ogni etica, decide di esserne l’artefice: “teatralizza” così l’assurdo bisogno di morte che ha una società quando giunge al suo collasso. «Politicamente e storicamente Riccardo III impersona la punta dell’iceberg – spiega il regista Riccardo Pugliese – il terminale inevitabile di una guerra fratricida, ma rappresenta anche un atto di consapevolezza estrema dell’uomo nello stesso momento in cui allontana da sé la propria coscienza definendola “vile” e “dalle mille lingue” nell’ultimo monologo introspettivo prima della battaglia che lo condurrà a morte». In quest’opera, la più rappresentata di quelle shakespeariane e che costituisce un banco di prova per chi si dedica a questo genere di teatro, il protagonista sarà Enrico Montesano, che dai grandi successi comici passa così ad interpretare uno dei più crudeli e misteriosi personaggi shakespeariani.
Giugno 2004
Per questo allestimento la Wertmüller ha creato un personaggio, che non esiste nel testo originale, a cui affida il compito di tirare le fila della commedia, quasi fosse una regista-autrice sempre presente sulla scena
di Enrico Linaria Dopo Re Lear e Riccardo III, il 56° Festival Shakespeariano propone Molto rumore per nulla, spettacolo che si avvale di uno speciale binomio al femminile: la regista Lina Wertmüller e l’attrice Loretta Goggi. Per questo allestimento la Wertmüller ha creato un personaggio, che non esiste nel testo originale, a cui affida il compito di tirare le fila della commedia, quasi fosse una regista-autrice sempre presente sulla scena. A interpretare questo personaggio è appunto Loretta Goggi. Assieme a lei un cast fresco e giovane darà vita alle tante suggestioni dell’opera shakespeariana in scena dal 23 al 28 luglio al Teatro Romano in prima nazionale. Come spesso accade in Shakespeare, la commedia è una sorta di assemblaggio, ben confezionato, di situazioni e idee prese qua e là attingendo dalle fonti più diverse. Molto rumore per nulla, stampata in “in quarto” nel 1600 e in “in folio” nel 1623, fu scritta nel 1598. La vicenda dell’amante indotto in inganno per mezzo di una persona che assume le sembianze dell’amata Shakespeare la prende da due fonti: dalla ventiduesima novella del Bandello, nella versione do François de Belleforest (Histoires tragiques, 1569) e dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (storia di Ginevra e Ariodante). Le schermaglie amorose di Benedetto e Beatrice sono invece rielaborate su quelle di Gaspare Pallavicino e di Emilia Pia presenti nel
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Molto rumore per nulla La commedia fu scritta da Shakespeare nel 1598. In scena dal 23 al 28 luglio per la regia di Lina Wertmüller, con una personale interpretazione
Il Teatro Romano, sulla riva sinistra dell’Adige
Cortegiano di Baldassarre Castiglione, per la precisione nella versione inglese tradotta da Thomas Hoby nel 1561. Come si vede Shakespeare sarebbe in debito con molti autori. Della sua personale lettura di Molto rumore per nulla, Lina
Wertmüller anticipa l’ambientazione e i protagonisti. Ci sono un principe, dei giovani nobili di ritorno da una guerra, un luogo esotico, Messina, un aristocratico bastardo e le ragazze, figlie e nipoti del governatore. Questi sono i personaggi mossi da giochi d’a-
more del principe burattinaio. Uno dei tanti di Shakespeare. Un ruolo, quello del regista occulto, in cui il grande poeta nelle commedie si è spesso identificato. «I due temi – spiega Wertmüller – quello dell’inganno e della calunnia, e quello della finta morte per far trionfare l’amore, s’intrecciano, in un lusso di versi e parole, in questo play che è per l’appunto fatto di molto rumore per nulla». E aggiunge: «Molto rumore senza rispetto per nulla. È la prova di un gruppo di ragazzi che sotto la guida di una regista, si pongono sciaguratamente in piena libertà davanti a un sacro testo classico per dissacrarlo. Sono leggerini e affamati di musica e di scherzi. Ritagliano dalla commedia shakesperiana solo quel che serve loro per cercare uno spettacolo insolito. Il desiderio è cabarettistico, rivistaiolo, disordinato e allegro. Disturbare il più grande poeta del teatro per uno scherzo irrispettoso, potrebbe essere, di questi tempi nei quali tutto si spappola, si confonde, si degrada e si involgarisce, un’ironica metafora di quello che tutti i giorni vediamo accadere intorno a noi». Dunque una Wertmüller che, come in molti suoi film, conserva quei gusti corrosivi dei luoghi comuni e quella ricerca del grottesco che contraddistinse la serie Rai del Giornalino di Gian Burrasca da lei diretta con grande successo nel 1964-65. Ad assecondare questi gusti mordaci ci pensa la show girl, la cantante, l’attrice, l’imitatrice e la conduttrice televisiva Loretta Goggi con la sua giusta dose di raffinata irriverenza.
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Mostre PADOVA-MUSEI CIVICI
Petrarca e il suo tempo La mostra è allestita nei locali dei Musei civici agli Eremitani e resterà aperta fino al 31 luglio. Nove sezioni suddivise storicamente in otto sale, 170 opere
di Maria Grazia Tornisiello A settecento anni dalla nascita di Francesco Petrarca, la città di Padova rende omaggio al poeta e letterato toscano con una mostra dal titolo “Petrarca e il suo tempo”. La rassegna espositiva, promossa dal Comune di Padova, assessorato alla Cultura, in collaborazione con la Regione Veneto, la Provincia di Padova ed il Comitato Nazionale Francesco Petrarca, allestita nei locali dei Musei civici agli Eremitani a Padova, resterà aperta al pubblico fino al 31 luglio. Un percorso che si snoda attraverso nove sezioni suddivise storicamente in otto sale per un totale complessivo di 170 opere, tra cui i preziosissimi codici provenienti dalle più prestigiose biblioteche europee. Cuore della mostra è il manoscritto Vaticano latino 3196, concesso dalla Biblioteca Vaticana, che contiene venti carte autografe del poeta, scritte in tempi diversi (dal 1336 alla morte), una testimonianza che ci permette di capire i tempi e il procedere del lavoro del Petrarca, ma soprattutto di intuirne il pensiero e i ripensamenti. Il leit-motiv unificante della mostra è la scrittura: a ogni oggetto esposto corrisponde un pannello grafico con la spiegazione dei testi ed una postazione multimediale con approfondimenti a disposizione del visitatore. I colori predominanti sono il giallo e l’azzurro, colori frequenti nei codici del Trecento e presenti nei temi petrarcheschi. Ma quali sono i vincoli che legano Francesco Petrarca al Veneto e in
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La casa del Petrarca ad Arquà Petrarca. Sotto: manoscritto del Petrarca
particolare alla città di Padova? Tracce del passaggio petrarchesco si hanno durante il periodo della goliardia bolognese, quando il poeta, all’età di 18 anni, fece una scappata a Venezia. Più tardi a partire dal 1345, dopo lunghe peregrinazioni attraverso le principali città italiane ed europee, Petrarca riscoprì il Veneto scegliendo Verona come prima dimora.
Nella splendida Biblioteca Capitolare della città scaligera, il poeta rinvenne le Lettere di Cicerone ad Atticum, in un codice ormai illeggibile, e lo trascrisse per intero. Gli anni che seguirono furono densi di avvenimenti luttuosi, sia a livello sociale, come la terribile epidemia di peste che infuriò in Italia nel ‘48, descritta nel Decamerone, sia a livello personale: la morte di Laura, musa ispiratrice della poesia del Petrarca. Nel 1349 giunse per la prima volta a Padova, su invito di Iacopo II da Carrara, signore della città. Qui fu accolto con grandissimi onori, ma dopo qualche tempo riprese il suo peregrinare e tornò nella città patavina solo parecchi anni più tardi, questa volta stabilmente, dal 1368 al 1374, anno della morte ad Arquà nella notte tra il 18 ed il 19 luglio.
La fama del Petrarca, già ampiamente diffusa durante gli anni trascorsi in Veneto, crebbe ulteriormente dopo la morte, quando Padova divenne il principale centro di divulgazione delle sue opere. Un rilevante numero di codici petrarcheschi fu infatti scritto proprio a Padova. La passione per gli antichi, il culto del mondo classico, una profonda conosce za della lingua e della letteratura greca e latina fanno del Petrarca l’inventore dell’Umanesimo, periodo che si estende convenzionalmente tra gli ultimi decenni del sec. XIV e la fine del secolo XV e che si caratterizzò per un rinnovato fervore per lo studio dell’antichità e per l’accentuata consapevolezza della posizione privilegiata dell’uomo nel mondo della natura. Mentre nel Trecento tra le opere del Petrarca più apprezzate troviamo i grandi trattati storici, nel Quattrocento oggetto di culto furono il Canzoniere e il poema allegorico I Trionfi. Alla stesura del Canzoniere, considerato il capolavoro del Petrarca, il poeta si dedicò dal 1336 fino alla morte. Espressione dell’inquietudine dell’animo del poeta, il Canzoniere è una vera e propria autobiografia intellettuale e spirituale, incentrata sul contrasto fra l’attrazione per gli affetti mondani ed il desiderio di conversione. La mostra “Petrarca e il suo tempo” è aperta dal martedì al venerdì dalle 9 alle19.
Per informazioni: tel. 049.8204551; e-mail: info@turismopadova.it
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Mostre Willy Ronis, le cui fotografie saranno in mostra agli Scavi Scaligeri durante il periodo estivo, nasce nel quartiere di Montmatre a Parigi nel 1910, figlio di ebrei immigrati: il padre è un fotografo ritrattista di Odessa e la madre una pianista d’origine lituana. Ha appena sedici anni quando per la prima volta esce dallo studio fotografico del padre per avvicinarsi alla gente di strada, da cui non si allontanerà più. Nel 1936, dopo la morte del padre, vende il negozio di fotografia per dedicarsi al reportage. Tra il 1940 e il 1950 si accosta alla classe operaia, cogliendo le atmosfere del lavoro e degli scioperi nelle fabbriche. Le sue immagini delle manifestazioni alla Citroen sono ormai storia del proletariato francese. La svolta politica del Fronte popolare, gli stessi ideali politici e la comune appartenenza ebraica avvicinano Ronis ai già famosi Robert Capa, Seymour e in questo ambiente ha modo di conoscere e confrontarsi con Kertez, Brassai, Cartier Bresson. Rispetto alla visione di questi grandi maestri, sviluppa una propria assoluta originalità, contraddistinta dall’attenzione all’armonia corale dei movimenti della folla e alla gioia delle feste popolari, ai momenti di riposo domenicali vissuti lungo le rive della Senna. Dopo la seconda guerra mondiale Ronis entra nell’Agenzia Rafho e collabora con le più prestigiose testate francesi e internazionali come Time e Life. Il suo obiettivo raffigura l’anima delle strade e la vita della gente comune: venditori ambulanti e mendicanti, amanti e bambini… la grandezza di Ronis sta soprattutto nella sua capacità di cogliere attimi di gioia e stati d’animo del popolo attraverso uno sguardo sincero e rispettoso. Per questo motivo, nel corso del tempo, le sue fotografie sono diventate un archivio storico e sentimentale della capitale francese, una straordinaria memoria dell’identità del suo popolo (va ricordato che nel 1983, alla presenza del ministro della Cultura francese, Ronis dona tutte le sue fotografie alla città di Parigi). Negli scatti dei fotografi che vi-
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SCAVI SCALIGERI
Willy Ronis fotografo di strada Le sue foto in mostra a Verona questa estate. Nei suoi scatti traspare la voglia di fermare l’attimo, di incorniciare il tempo e molte volte di interpretarlo, comunicando fermi d’immagine carichi di emozione e sentimento
Boulevard Garibaldi, 1955
vono il Novecento, soprattutto in quelli che hanno caratterizzato in modo incisivo i primi decenni, traspare la voglia di fermare l’attimo, di incorniciare il tempo e
molte volte di interpretarlo, comunicando fermi d’immagine carichi di emozione e sentimento. Pionieri di un’arte tra le più suggestive, essi passano il tempo
ad osservare, a ricercare il più nascosto dei particolari, a descrivere il fermento creativo della quotidianità, a fermare i momenti più importanti della vita e della storia. I più rimarranno rigorosamente fedeli al bianco e nero anche quando il colore diventerà protagonista, perché è con la luce che si scrivono foto, è con il contrasto tra scuro e chiaro che meglio si delineano i contorni di persone, paesaggi, situazioni ed emozioni. Perché una foto è spesso cronaca e, ancor più spesso, lirica e poesia. Prendete allora ad esempio Parigi, e non per caso naturalmente, ebbene troverete in essa tutto ciò che è l’essenza primaria della fotografia. La Parigi in bianco e nero è, per capirci, quella raccontata e resa immortale da Eugene Atget, Robert Capa, Willy Ronis, Andre Kertesz, Brassai, Izis, Cartier Bresson, Robert Doisneau e molti altri che sentono l’imperativo del documentare, di vivere da vicino gli avvenimenti. Nel periodo che abbraccia e segue le due guerre c’è un fermento in continua evoluzione di fotografi indipendenti, di fotoreporter. Nascono sempre in questo periodo le più grandi agenzie fotografiche, quelle che segneranno un’epoca non solo in Francia ma anche in Italia, basti pensare ad esempio alla mitica Magnum, alla Rafho o a importanti riviste italiane come il Mondo di Pannunzio, Epoca, la Domenica del Corriere, la Settimana Incom, riviste che faranno della fotografia il loro cavallo di battaglia, attirando alle proprie corti fotografi di altissimo livello. Ma la Francia e Parigi restano comunque un polo d’attrazione irresistibile per giovani talenti e per affermati professionisti dell’obiettivo, come Ronis. «Parigi – racconta egli stesso – è città dalla bellezza indistruttibile, dove mi chiedo tremando se è vero che non voglio più vivere, dove ancora mi porto dietro la macchina fotografica nel caso che... e il caso succede sempre...». Wilma Quartarolo
Rue Montmartre, 1956
(Note biografiche da ed.Motta fotografia)
Giugno 2004
Mostre Kandinskij torna a Verona. La città gli dedicò una mostra importante nel 1993, di cui rimane traccia all’indirizzo internet www.palazzoforti.it/kandinskij. Poi nel 1999 le opere del pittore russo furono esposte, sempre alla Galleria d’Arte Moderna, accanto a quelle di Chagall e Malevich, nell’ambito di una rassegna sullo spiritualismo russo. A partire dal prossimo autunno una mostra del massimo esponente dell’astrattismo sarà allestita a Palazzo Forti.
Simboli, macchie e forme colorate. L’astrattismo è soprattutto questo, ma non solo naturalmente. Libero, infatti, da ogni convenzione naturalistica e figurativa esso diviene espressione simbolica e creativa di una realtà mediata dal rigore espressivo degli artisti. I dipinti degli astrattisti imprimono la tela con forme geometriche e bidimensionali, i colori sono limitati, giocati esclusivamente tra quelli primari: giallo rosso e blu, con qualche contaminazione, a volte, di bianco e di nero. Ed ogni colore, manco a dirlo, è indicativo di stati d’animo e sensazioni: il giallo è energia priva di emozioni, il blu è nostalgia che ricorda il cielo, il verde è la calma che può a volte mutarsi in noia o indifferenza, il rosso è sì passione, ma questa varia di intensità a seconda si passi dai toni più chiari a quelli più scuri, bianco e nero invece sono silenzio puro. È attorno ai primi anni del Novecento che questa corrente artistica si diffonde in Europa, trova terreno fertile soprattutto in Francia e in Germania e si avvale, tra gli altri, del talento avanguardista di grandi autori russi. Già negli ultimi anni dell’Ottocento l’arte russa aveva avuto in Vrubel il protagonista di un’avanguardia pittorica che segnerà, tra Mosca e San Pietroburgo, la svolta innovativa dell’inizio del Novecento. Incomincia con lui a farsi strada il desiderio di ricerca d’una pittura estranea da ogni illusionismo tridimensionale. Ma è sicuramente Wassily Kandinskij (1866-1944) a segnare il passo in modo deciso, imponendosi nel panorama artistico euro-
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PALAZZO FORTI
Kandinskij e la realtà senza forma Il maestro dell’Astrattismo tornerà in autunno alla Galleria d’Arte Moderna con alcuni suoi capolavori. Un artista che oltrepassa l’illusione tridimensionale per esprimere l’essenza delle emozioni di Wilma Quartarolo peo come il più importante pittore dell’astrattismo. Nel 1910, con il primo acquerello astratto della storia dell’arte, dà inizio infatti a questo singolare movimento artistico. Egli pensava che il vero artista dovesse esprimere solo intime emozioni e sentimenti e per far questo ci doveva essere una totale assenza della rappresentazione realistica della realtà. Il colore per Kandinskij deve dare al dipinto forti e profonde emozioni, rivelando un mondo interiore, per questo la
sua scelta non può essere casuale, come non lo può essere la scelta della figura. Kandinskij è stato uno dei primi pittori a dipingere senza un reale motivo per la scelta di una forma specifica ed è stato anche il primo pittore a spiegare i suoi dipinti. Scrisse infatti molti libri teorici legati all’arte simbolica. A margine, ci piace ricordare un aneddoto che spiega come Kandinskij comprese la potenza espressiva dell’arte astratta guardando un quadro: trovò che possedeva una straordinaria bel-
lezza che lo faceva brillare di luce propria, tutto questo prima di rendersi conto che quello che aveva di fronte era un suo dipinto capovolto. Kandinskij nasce a Mosca da nobile famiglia e dopo gli studi di giurisprudenza decide di dedicarsi alla pittura, per cui a trent’anni si trasferisce a Monaco, frequenta l’accademia, fa parte di numerosi associazioni artistiche, ne fonda altre, effettua numerosi viaggi all’estero e soggiorna per un anno a Parigi. Allo scoppio della guerra ripara in Svizzera e poi in Russia fino al 1921. A partire dalla Rivoluzione di Ottobre, Kandinskij svolge un lavoro amministrativo per il Commissariato del Popolo per l’Educazione; tra i progetti di questo organismo c’è la fondazione di vari musei e la riforma del sistema scolastico nelle Scuole d’Arte. Nel 1921 torna in Germania e vi si stabilisce per oltre un decennio. È questo per molti aspetti il periodo più produttivo artisticamente della sua vita. Va detto che il suo talento oltrepassò la soglia della pittura: Kandinskij amava la poesia e il teatro, compose diverse poesie e qualche opera teatrale, faceva disegni a matita, realizzò qualche scultura in legno, dipinse murales, progettò mobili, vestiti e costumi. Insegnò anche, insieme a Klee, nei laboratori di creatività alla scuola del Bauhaus, l’Istituto d’Arte e Mestieri fondato a Weimar dall’architetto Walter Gropius nel 1919, che divenne il centro del design in Germania. Lo stile caratteristico del Baus haus era semplice, geometrico, accurato. Nel ’33 però la scuola fu chiusa dai nazisti con l’accusa di essere un centro di intellettuali comunisti. Kandinskij allora, abbandonata la Germania, si trasferisce in Francia, vicino a Parigi, dove rimane fino alla morte avvenuta il 13 dicembre 1944. Le sue opere intanto vengono confiscate da Hitler, molte saranno distrutte, altre vendute a collezionisti. Ma Kandinskij è già diventato il grande artista affermato che conosciamo. Rimangono di lui opere straordinarie, di forte impatto emotivo, celebri le Composizioni, i molti dipinti su tela, gli acquerelli.
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Scienza Il lavoro per la conservazione delle collezioni è poco noto, ma costituisce uno dei pilastri fondanti l’attività e l’esistenza stessa di un museo Un tecnico di Zoologia mentre verifica il livello di alcol nei vasi della collezione di ragni
Polvere, muffa, insetti... così il Museo si difende I tecnici del Museo Civico di Storia Naturale di Verona dedicano le loro energie alla conservazione, pur nelle difficoltà di risorse, contribuendo così a mantenere alto lo standard qualitativo di tutta l’attività museale
di Angelo Brugnoli Polvere e odore di muffa nell’aria, scatole e casse impilate disordinatamente su vecchie scaffalature, oggetti sparsi sul pavimento ingombro di materiali d’imballo e di sporcizia. Un’immagine ricorrente nella mente di quanti cercano di descrivere i depositi di un museo. Una “certezza” che fa parte dell’immaginario collettivo di quanti, frequentatori di musei o più spesso solo ripetitori di stereotipi, pensano al museo come ad un grande, inutile, disordinato magazzino di anticaglie. La realtà è ben altra. A tutti appare logico e apprezzabile che i musei facciano comunicazione culturale attraverso esposizioni, mostre,
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convegni, conferenze, attività divulgative e didattiche. Tuttavia viene data per “sottintesa” e, tutto sommato, di minore impatto pubblico l’attività di conservazione e ricerca. In realtà un museo regge la propria identità sul fatto di essere primariamente un luogo di collezioni, un archivio storico di oggetti e di dati che sono continuamente arricchiti di nuovi e più articolati significati. Anche il Museo Civico di Storia Naturale di Verona, alle più eclatanti attività di divulgazione naturalistica e di ricerca scientifica, affianca un’intensa attività di conservazione. Le sue collezioni oggi ammontano a più di due milioni di oggetti. Ciò che il museo oggi conserva è il risultato di passione
e attività sul campo di decine di ricercatori e naturalisti che, a partire dalla metà del 1500, hanno contribuito ad accrescere questo vasto patrimonio museale. Il museo di Francesco Calzolari nel 1500, le collezioni del conte Moscardo nel 1600 e del conte Gazola agli inizi del 1800 si sono via via integrate e fuse con materiali e raccolte diverse. Solo nel dopoguerra, con metodi moderni, si è provveduto a riordinare questa massa di oggetti naturali in collezioni specialistiche. Oggi il museo di Verona può presentare a studiosi e specialisti queste collezioni sistemate in depositi idonei e organizzate con criteri scientificamente corretti. Non tutte le collezioni sono ugua-
li, non tutte richiedono la stessa cura: è la stessa varietà di oggetti naturali che determina tecniche di conservazione differenti. Le piante superiori sono tipicamente conservate essiccate e fissate su grandi fogli di cartoncino; costituiscono quello che viene comunemente detto un erbario. La sezione di Botanica del museo, situata nella sede staccata di Palazzo Gobetti in corso Cavour, conserva l’erbario generale del museo ( con più di 300.000 esemplari) a cui si aggiungono alcuni erbari storici tra i quali senz’altro merita attenzione l’erbario pre-Linneano di Fra Fortunato da Rovigo, risalente al XVII secolo e formato da 9 volumi rilegati con 2352 esemplari di piante, descritte per la loro im-
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Scienza portanza farmacologica. Anche la grande collezione entomologica del museo è composta nella quasi totalità da animali essiccati e raccolti in apposite scatole. L’insetto viene fissato con un lungo spillo in acciaio che porta anche i cartellini con gli indispensabili dati di raccolta (tipicamente luogo, data e nome del raccoglitore). Queste collezioni assommano a più di un milione di esemplari e fisicamente occupano ben tre stanze dei depositi del museo. In tutti i musei del mondo, le piante e gli insetti essiccati soffrono di sistematici attacchi da parte di un piccolo coleottero, l’Anthrenus, che riesce in vari modi ad infilarsi in armadi e scatole e a deporre le uova tra i fogli d’erbario o tra le fila di farfalle preparate. Le larve di questo insetto in poco tempo “mangiano” le piante e gli insetti secchi, lasciando soltanto in ricordo poca polvere e resti sbocconcellati. Per cercare di arginare la diffusione di questo parassita oggi si usano tecniche che non facciano uso di sostanze tossiche. Nei casi più lievi e per attacchi isolati si usa la canfora, mentre per una completa disinfestazione si mettono i pacchi di fogli d’erbario o le scatole entomologiche in congelatori che raggiungono la temperatura di -40 °C. Il trattamento in cella frigo per una settimana o più è in genere in grado di uccidere uova e larve e bloccare completamente l’inva-
Sopra: due entomologi, collaboratori del Museo, mentre verificano lo stato di conservazione dei lepidotteri. In basso: parti di Orso delle Caverne conservate in un armadio dell’’800
sione. Tuttavia simili interventi sono prassi quotidiana in collezioni come quelle del museo di Verona, costituite da centinaia di migliaia di esemplari. Altri invertebrati, come tutti i molluschi o i ragni, ed alcuni vertebrati, come gli anfibi ed i rettili, sono conservati in alcol in flaconi e barattoli. Fino a pochi anni fa, il liquido principale per la conservazione era la formalina, risultata però altamente tossica e quindi abolita. Il museo acquista ogni anno parecchie decine di litri di alcol che usa per la preparazione delle nuove collezioni. Tutti questi
recipienti contenenti animali in liquido sono conservati in un apposito deposito, munito di un costoso e complesso impianto di autospegnimento. Qui gli antreni non hanno pane per le loro mandibole, ma il pericolo è un altro. Nonostante che la tecnica della conservazione in alcol sia universalmente adottata ormai da parecchi anni, a tutt’oggi nessuno è riuscito a produrre un contenitore con tappo a tenuta, ma che ne permetta una facile apertura ed una altrettanto certa sigillatura. E così il vaso Bormioli, quello delle marmellate della nonna, è divenuto lo standard de facto ed è adottato dai musei di mezzo mondo. Tuttavia l’alcol evapora, vincendo la presenza della guarnizione, e così periodicamente i tecnici del museo devono rabboccarlo… oppure rischiare il disseccamento dei preparati naturali e la conseguente loro distruzione. Perfino le collezioni paleontologiche, composte da organismi o parti di essi ormai divenuti pietra, devono ricevere le cure periodiche dei tecnici del museo. I fossili non sono sempre totalmente mineralizzati oppure in tempi passati sono stati restaurati con gesso ed altri materiali particolarmente sensibili all’umidità. Un abbandono incondizionato negli armadi e nei cassetti di questo materiale porterebbe senz’altro alla “fioritura” di sali e patine, compromettendo la stabilità e l’integrità di
pezzi che hanno superato indenni, o quasi, cento milioni di anni. Questi materiali vengono quindi periodicamente controllati e, dove necessario, sottoposti a bagni di consolidamento in apposite resine, oppure restaurati, cercando di asportare le eventuali integrazioni moderne prodotte con materiali instabili. Questo quadro, anche se assolutamente incompleto, mostra come la conservazione delle collezioni non solo sia e debba restare uno dei pilastri fondanti l’attività e l’esistenza stessa di un museo. Sottolinea anche il carattere dinamico di una battaglia contro il tempo, nel tentativo di perpetuare un grande patrimonio di informazioni, racchiuso negli oggetti naturali che i musei di storia naturale conservano. Da una parte le esigenze di una sempre più precisa e accattivante divulgazione naturalistica, dall’altra le esigenze di una ricerca scientifica che diventi anche metodo per una positiva applicazione di principi gestionali, non possono prescindere dal ricorrere spesso all’archivio rappresentato dalle collezioni correttamente conservate. I tecnici delle sezioni del Museo Civico di Storia Naturale di Verona che dedicano le loro energie alla conservazione, pur nelle difficoltà di risorse e attrezzature non sempre eccellenti, contribuiscono in modo concreto a mantenere alto lo standard qualitativo di tutta l’attività museale.
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Ambiente ALLARME DIOSSINA
Riva Acciaio: la salute prima di tutto La storia delle ex Officine Galtarossa, troppo vicine al centro storico, in una zona poco adatta a un’industria pesante. Servono scelte urbanistiche adeguate
di Michele Bertucco * Parlare di Riva Acciaio (ex Galtarossa) significa ricostruire la storia industriale di Verona, che affonda le sue radici nell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando in Basso Acquar si installarono una serie di fabbriche, tra cui la cartiera Fedrigoni (1888), il cotonificio Crespi (1890) e il mulino Consolaro (1893). Le officine Galtarossa non trovarono spazio in quella zona e si stabilirono nel 1897 sulla riva opposta dell’Adige. Dal 1920 l’azienda si trova nell’attuale sistemazione e occupa una superficie complessiva di 527 mila metri quadrati dando lavoro a circa cinquecento addetti. Alla fine degli anni ’80 avvenne il passaggio dell’azienda al gruppo industriale Riva, pur rimanendo per i veronesi sempre la storica “Galtarossa” che dà di fatto anche nome al Lungadige.
Tante le segnalazioni di inquinamento acustico e atmosferico, allarmi confermati dagli organismi preposti al controllo e alla salute del territorio
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Il trafficato ingresso di Riva Acciaio
Nei mesi scorsi la cronaca si è interessata alle acciaierie Riva destando preoccupazione sull’inquinamento dovuto a questa azienda che se da una parte ha accompagnato la crescita della città, dall’altra rappresenta in maniera emblematica anche le “non scelte” fatte in materia urbanistica dalle varie amministrazioni che si sono succedute. Da vent’anni i cittadini e Legambiente segnalano situazioni di in-
quinamento sia acustico che atmosferico, allarmi più volte confermati dagli organismi preposti al controllo e alla salute del territorio. Fino all’ultimo, dovuto alla presenza – accertata dalla Procura della Repubblica – di diossina sui terreni circostanti l’azienda. Inoltre, sulle rive dell’Adige la ditta ha accumulato negli scorsi anni, spesso senza autorizzazione, scorie provenienti dalla lavorazione. Le analisi effettuate dal-
l’ARPAV (Azienda Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto) hanno rilevato la presenza di metalli pesanti in quantità superiore ai limiti di legge e il direttore dello stabilimento di Verona della Riva Acciai ha patteggiato nell’ottobre 2001 una condanna per discarica abusiva. Anche il forte afflusso di camion verso la ditta rappresenta, da sempre, un grosso problema per il traffico cittadino.
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Ambiente La presenza di diossina, la bonifica da effettuare nei terreni usati come discarica per i materiali di scarto della lavorazione e i problemi legati alla viabilità rendono necessario lo spostamento della ditta per garantire la salute dei cittadini e la qualità del territorio. Trasloco indispensabile per programmare il recupero dell’area pensando al futuro di Verona. È infatti anacronistico che nel 2004 sia ancora presente un’industria pesante a 800 metri dal centro storico e a poche decine di metri da zone abitate. Nelle varie stesure di varianti al Piano Regolatore si è avanzata la ricollocazione in aree industriali specifiche e il recupero della zona a fini naturalistici, come il Parco dell’Adige, ma anche residenziale e commerciale. Tutto però è rimasto immutato perché le amministrazioni comunali che si sono succedute nel tempo non sono riuscite ad approvare nessun nuovo strumento urbanistico. A oggi rimane infatti in vigore il Piano Regolatore del 1975. All’immobilismo del Comune dobbiamo aggiungere una posizione molto rigida da parte dei vertici aziendali della Riva, che hanno sempre rifiutato qualsiasi proposta di delocalizzazione. * Presidente Legambiente Verona
Così è nata la Verona industriale L’indomani dell’annessione all’Italia, la situazione economica di Verona era precaria. Cessate le possibilità di lavoro legate alla presenza della guarnigione austriaca e alle opere di fortificazione, non era certo l’industria che poteva risollevare le sorti della disoccupazione. Nel comune di Verona nel 1861 restavano solo un paio di filande di seta, una trentina di mulini da grano e diverse concerie. Dopo l’unificazione la città non riuscì a portare a termine alcuna iniziativa degna di nota nel settore industriale e tutti i tentativi per impiantare nuovi opifici fallirono, anche per la difficoltà di raccogliere i capitali sufficienti al loro avvio. Alla precarietà economica si aggiungeva l’incertezza che veniva da un acceso dibattito tra i sostenitori di una “Verona industriale” opposti ai conservatori che sostenevano la vocazione agricola della città e del territorio. La scelta per il futuro industriale di Verona fu dunque combattuta tra desideri di sviluppo e timori per la presenza di estranei in grado
di modificare il tradizionale ambiente sociale e culturale costituendo un fattore di turbamento dell’ordine pubblico. L’occasione per un confronto tra i sostenitori dello sviluppo industriale e quelli della Verona agricola fu il progetto per un canale destinato alle fabbriche che il sindaco Camuzzoni affidò all’ingegnere Enrico Carli nel 1872. La localizzazione della futura zona industriale, che doveva usufruire dell’energia prodotta dal canale, fu oggetto di discussioni e, dopo una prima proposta di utilizzo della Campagnola, che vide insorgere i possibili espropriati, fu infine individuato Basso Acquar quale area di sviluppo industriale. Una spinta alla ricerca di nuova forza motrice e di nuovi spazi per l’industria venne dalla catastrofica inondazione del 1882 e dalla successiva costruzione dei nuovi argini.La chiusura del canale dell’Acqua Morta comportò il trasferimento di concerie di pellami, tintorie e segherie tra cui si ricordano le segherie Foresti e il cappellificio Borsalino.
Altre piccole industrie dovettero trasferirsi a seguito della chiusura dell’Adigetto e ai lavori per la costruzione dei lungadige che implicavano l’abbattimento di case e opifici. Un passo in avanti nello sviluppo dell’industria veronese fu dunque la costruzione del canale Camuzzoni, la cui energia, dopo ulteriori discussioni e variazioni rispetto al progetto originario, fu utilizzabile a partire dal 1887. È da notare come il canale e l’area industriale del Basso Acquar siano state il frutto di diversi compromessi che ridimensionarono l’idea di fare di Verona un vero centro industriale. Come evidenziano Facci e Palmieri ne “L’industria a Verona negli anni della grande crisi” (Cierre 1998): «Il progetto di una Verona industriale era ormai caduto (...), molto più modestamente al canale si assegnava il solo compito di alimentare alcune industrie di medie dimensioni nell’area industriale di Basso Acquar e contemporaneamente di fornire energia a piccole attività artigianali diffuse sul territorio circostante».
Rimane in vigore il Piano Regolatore del 1975. Nelle varie stesure di varianti si è avanzato il progetto della ricollocazione in aree industriali specifiche e il recupero della zona a fini naturalistici, come il Parco dell’Adige, ma anche residenziale e commerciale Un’immagine storica dell’interno delle ex Officine Galtarossa
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Territorio FOSSE
Una breve escursione sul Corno d’Aquilio Si può arrivare a Fosse in auto o in corriera, portando la bicicletta. Tante le cose da osservare, tra cui la Spluga della Preta e la meno nota Grotta del Ciabattino
di Guido Gonzato L’orizzonte di Verona è incorniciato di belle colline e montagne: il Baldo e l’Altissimo guardando verso il lago, il Gruppo del Carega verso Nord, e il curioso sperone del Corno d’Aquilio tra i due. Questo piccolo monte dal profilo aguzzo sembra molto più alto dei suoi 1545 metri, anche perché le sue ripide pareti si ergono all’improvviso dai pascoli pianeggianti della media Lessinia. Il Corno è una montagna particolarmente adatta alle escursioni: è vicino alla città (meno di un’ora di macchina), consente passeggiate che possono spaziare dalla mezz’ora all’intera giornata e nelle giornate limpide regala al visitatore un panorama incantevole. Una particolarità di questo monte è il modo in cui la neve si accumula nelle mezze stagioni: si può iniziare la scampagnata in un bel paesaggio primaverile, camminando tra prati fioriti e faggi coperti di gemme per poi ritrovarsi, saliti un po’ in quota, a camminare nella neve alta, tra abeti e pini ricamati di ghiaccio. Inoltre, per chi vuole qualche cosa di più di una semplice passeggiata, ci sono tante cose da vedere: particolarità geologiche, flora e vestigia storiche. Tra le molte escursioni possibili, una è forse l’ottimale, in mezza giornata, in qualunque stagione ed è quella che proponiamo. Il Corno si trova a poca distanza
in VERONA
Cavalli al pascolo nello splendido scenario del Corno d’Aquilio. Sullo sfondo il Monte Baldo
da Fosse (il percorso ottimale è infatti: Verona, Negrar, Fane, S. Anna d’Alfaedo, Fosse). Se la stagione lo consente, si può raggiungere Fosse in corriera con la bicicletta al seguito. In questo modo, è possibile concludere la giornata con una lunghissima, fantastica discesa verso Verona. Se invece si preferisce arrivare in auto, giunti a Fosse è necessario seguire la strada fino ad arrivare a contrada Tommasi, dove termina la via asfaltata e si parcheggia. Per chi non è attrezzato per il pranzo, a Fosse ci sono diversi bar e un piccolo supermercato aperto an-
che la domenica. A Tommasi, i cartelli segnaletici indicano due percorsi in direzioni opposte: il sentiero di sinistra (contrada Coste) giunge al Corno passando da Roccapia, ovvero il tragitto previsto per il ritorno, mentre quello di destra, lo sterrato, è la direzione da seguire in questa emozionante escursione. Prima di partire per l’avventura, è necessario sapere una cosa importante: proseguendo si entra in un’area protetta, il Parco Naturale della Lessinia. Valgono le solite raccomandazioni del caso: non raccogliere fiori, rocce, funghi,
animali, non fare fuochi, non lasciare immondizia. O più semplicemente, come dicono gli speleologi, «Prendete solo fotografie, lasciate solo impronte!». Presa la via di destra al bivio, il tragitto prosegue in leggera salita lungo la Valle Liana, superando un balzo di circa 250 m che porta verso l’altopiano degli Alti Lessini. Il Corno è la parte più occidentale di una grande piega (i geologi dicono “anticlinale di scorrimento”) che attraversa tutta la Lessinia. Salendo lungo la valle si vede bene come la forma stessa del Corno D’Aquilio e dell’adiacente Corno Mozzo
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Territorio
L’area del Corno d’Aquilio fa parte del Parco Naturale della Lessinia
sia data dagli strati di roccia inclinati e piegati. La frequentazione della zona da parte di geologi è testimoniata da scritte a pennarello sulle rocce che indicano faglie e altri dettagli. Dopo poche centinaia di metri, ci si imbatte in un sentiero che si inerpica sulla sinistra, è bene però proseguire lungo la strada sterrata, voltandosi di tanto in tanto verso la pianura per godersi il panorama. La strada attraversa dapprima una bella faggeta punteggiata da qualche larice, poi, salendo, prevalgono gli abeti. La strada si fa leggermente più ripida ed ecco che, dopo una curva, gli alberi spariscono all’improvviso. Si raggiunge così l’altopiano, la zona dei pascoli: da qui il paesaggio cambia completamente, sembra di essere a quota ben più alta dei 1400 metri misurati, tanto che l’assenza di alberi invoglia a fare delle scorciatoie attraverso i prati. La vetta del Corno d’Aquilio è sulla sinistra, si potrebbe tagliare per la valletta che porta direttamente alle malghe presso la Spluga della Preta… ma che fretta c’è? Molto meglio, invece, voltare verso destra per raggiungere il Corno Mozzo, trampolino di lancio prediletto per chi pratica parapendio. Se è primavera, i ripidi prati del versante nord del Corno Mozzo sono splendidamente ricoperti di fiori. Niente di straordinario, ver-
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rebbe da dire... ma in estate, lo spettacolo è assolutamente imperdibile: i campi letteralmente biancheggiano di stelle alpine, e a tratti rosseggiano chiazze di gigli martagoni e si possono scattare fotografie da fare invidia agli amici. Tornando indietro e riprendendo la strada, fingete di non vedere l’orrida costruzione di cemento che campeggia sulla vetta del monte Cornetto (chissà che un giorno un meteorite non ne faccia giustizia), e seguite i tornanti. Si giunge così a un incrocio di sentieri, da dove è possibile dirigersi verso Sega di Ala o Passo Fittanze. Questo è un altro magnifico punto panoramico: il Baldo, il Monte Altissimo, le Dolomiti di Brenta, la Val D’Adi-
ge, le Piccole Dolomiti... Seguite il sentiero di sinistra. Il paesaggio è ora di alta montagna, anche se si è a poco più di 1400 m di quota: ovunque si possono osservare piccole doline e rocce calcaree corrose dalla pioggia e dal ghiaccio, e altri spettacolari fenomeni carsici si trovano a poca distanza. Giunti a malga Preta, un cerchio di lastre di pietra delimita la dolina di ingresso di una delle voragini più profonde d’Italia: la Spluga della Preta. Solo gli speleologi possono avventurarsi in questo abisso, ma nella valletta sottostante possiamo visitare la Grotta del Ciabattino. Questa piccola caverna, così come la Spluga della Preta, è stata scavata dall’acqua a partire
La Grotta del Ciabattino, nei pressi della più conosciuta Spluga della Preta
da fratture nella roccia. Entrando, si sente la temperatura abbassarsi notevolmente, l’aria fredda tende infatti ad accumularsi, e non è raro osservare stalattiti di ghiaccio anche a primavera avanzata. Non trascurate di ammirare il soffitto, una lastra di Rosso Ammonitico costellata da decine di ammoniti. Dirigetevi verso la vetta del Corno, costeggiando alcune piccole “città di roccia”, ovvero affioramenti di blocchi di calcare Rosso Ammonitico. Giunti in vetta, ci si può riposare sotto la grande croce di ferro osservando uno dei panorami più belli della provincia di Verona. In lontananza, al di là della Pianura Padana, si possono vedere le cime più alte degli Appennini, tra cui si staglia la piramide del Monte Cimone, il settore meridionale del lago di Garda, la cerchia di montagne che va dal Baldo al Carega fino agli Euganei. Con poco sforzo, dalla cima del Corno si potrebbe andare in Trentino. È infatti sufficiente spostarsi di cento metri e andare a vedere l’antico cippo di confine tra l’Italia e L’Austria. Il confine attuale tra le province di Verona e Trento segue quello che era la frontiera tra i due stati fino alla prima guerra mondiale. Tornate verso la grotta del Ciabattino, costeggiate la grande pozza e discendete la valletta fino a raggiungere il sentiero che riporta, attraversando una bellissima faggeta, verso il punto di partenza della escursione. Ora, un ultimo sforzo: anziché tornare all’auto o alla bici, fate venti minuti di agevole sentiero per andare verso il Passo di Roccapia. Dopo aver incontrato alcune gallerie militari della prima guerra mondiale, giungerete al Passo. Un altro cippo confinario, datato 1754, vi darà il benvenuto e il minuscolo praticello vi inviterà a sedervi per ammirare le sovrastanti pareti del Corno. Meritano una visitina anche i resti dell’installazione militare in cima al dirupo di fronte a voi, dal quale si domina la Val d’Adige. La giornata è terminata. Si tratta ben più di una semplice escursione fuori porta, ma di un percorso che sicuramente vi indurrà la voglia di conoscere altri splendidi itinerari che i Monti Lessini offrono.
Giugno 2004
Viaggiare BARCELLONA
A spasso per le Ramblas con Pepe Carvalho La Sagrada Familia, il Parc Guèll, le case di Passeig de Gracia. I quartieri poveri del Barrio Chino e del Barrio Gotico. E poi l’arte nei musei, a partire da Picasso
di Michele Domaschio Barcellona è una città che vive dando le spalle al mare. Poche volte si è visto uno scalo portuale essere così indifferente alle opportunità legate all’approdo turistico e, soprattutto, mercantile. Ma, forse, questa è stata la fortuna della capitale della Catalogna. Per carità, non dite alle attempate “piassarote” della Boqueria, il variopinto mercato di carne, verdura, pesce e fantasia a due passi dalle Ramblas, che siete in vacanza in Spagna; potrebbero sbattervi in faccia un bel cartello con su scritto “es tancàt” (è chiuso) e tanti saluti al vostro corso accelerato di castigliano. L’orgoglio della regione autonoma di Catalogna, prima ancora che nella lingua, campeggia dalle vetrine dei negozi di souvenir, gremite delle maglie “blaugrana” della compagine calcistica, protagonista di memorabili sfide contro gli acerrimi nemici del Real Madrid. Il tifo sugli spalti va ben oltre la passione sportiva ed è contagioso al punto da portare un campione assoluto come Joan Cruijff (che qui è stato prima giocatore e poi allenatore) a chiamare il figlio Jordi, il nomignolo di mille e mille ragazzini catalani. Ma la passione sportiva è come un fiume carsico, che scompare tra le viscere della città seguendo il corso delle fermate della metro:
in VERONA
Le Ramblas, strade pedonali nel quartiere Gotico, vicino al lungomare, con dozzine di caffè all’aperto, famose per la musica di strada e per i giocolieri
Il tempio della Sagrada Familia con le caratteristiche guglie
da Palau Reial a Sants Estaciò, da Catalunya a Liceu, a Drassanes. Ed eccoci, all’improvviso, di fronte al mare. In una bella giornata di sole è quasi d’obbligo fermarsi ai tavolini di un bar per sorseggiare un buon bicchiere di cava, lo champagne catalano, accompagnato da qualche tapas o più semplicemente da un po’ di pan y tomate, pane e pomodoro. Quest’ultima specialità è infatti considerata l’indoeuropeo della cucina mediterranea, il punto d’origine, come direbbe Pepe Carvalho, l’investigatore-gourmet creato dalla fantasia di Manuel Vazquez Montalban, destinato a scorazzare in eterno per i vicoli e le contraddizioni di questa città. Se Carvalho ci facesse da guida, probabilmente si affretterebbe a condurci in qualche bettola a degustare madriguera con chanfaina (polmone stufato con pomodoro e verdure), così, tanto per risvegliare l’appetito. Oppure, fingendo di perdersi nel dedalo di viuzze del Barrio Gotico, sbucherebbe proprio di fronte all’insegna di Casa Leopoldo, il ristorante della sua infanzia e dello svezzamento gastronomico e… etilico. Per accorgersi dei contrasti che convivono pacificamente a Barcellona basta, invece, una rapida visuale dal colle del Montjuic. I quartieri poveri e malfamati del Barrio Chino e del Barrio Gotico subiscono quotidianamente l’oltraggio di “opere di risanamento”
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Viaggiare Gli appassionati d’arte possono visitare l’imponente Museo d’Art de Catalunya dove la storia delle genti catalane è stata fedelmente ricostruita nelle sale progettate da Gae Aulenti
che ne stravolgono la natura e l’aspetto, mentre i locali notturni della Barceloneta attirano i giovani che già da tempo hanno disertato i malfamati bar del centro, dove non è più possibile servire impunemente acqua zuccherata e assenzio. Forse era questo il nettare che ispirava le ardite geometrie di Gaudì, l’architetto che ha prima scandalizzato e poi stregato i suoi concittadini. La Sagrada Familia, così come il Parc Guèll o le case di Passeig de Gracia, sono
esempi mirabili del modernismo catalano, ancor oggi meta di fiumi di turisti che ammirano le contaminazioni e le suggestioni di questi inusitati e ineguagliati esempi d’arte contemporanea. Per ritrovare forme classiche e
L’interno della Basilica de Santa Maria del Mar
Barcellona attraverso i Pirenei La via più semplice per raggiungere Barcellona è certamente quella aerea: tutte le principali città italiane sono collegate con l’aeroporto della metropoli catalana. Per chi volesse, invece, intraprendere un cammino poco conosciuto, ma estremamente affascinante, si consiglia di attraversare, in auto o in treno, la regione dei Pirenei, a nord-est della città. Si può visitare l’antica cittadina di Puigcerdà (sorta nel dodicesimo secolo), a circa 180 chilometri da Barcellona, e concedersi qualche escursione nella vicina Valle di Cerdanya, ideale per il trekking e le escursioni a cavallo. Altrettanto suggestiva è la Valle di Nuria, circondata da montagne che sfiorano i 3000 metri, a cui si giunge unicamente con un trenino a cremagliera che parte da Ribes de Freser e attraversa il paesino di Queralbs. Qui si può visitare la chiesa romanica di San Jaume, risalente al decimo secolo. Anche la valle di Nuria è un vero paradiso per gli escursionisti: con una discreta preparazione ci si può cimentare, ad esempio, nel Gran Recorrido 11, un percorso che si snoda tra gole e corsi d’acqua con un dislivello di oltre 1000 metri. Chi desidera, invece, itinerari storici e culturali avrà modo di puntare su località come Camprodon, con il ponte romanico del dodicesimo secolo, o Sant Pau de Segùries, dove si trovano i resti della via romana Capsacorta. Altre informazioni sull’affascinante regione dei Pirenei della Catalogna si trovano poi sul sito www.turismospagnolo.it.
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armonia è d’obbligo una tappa al Museo Picasso, dove si possono ammirare le opere del famoso autore, sin dai primi bozzetti a china: proprio queste tele giovanili testimoniano una capacità rappresentativa sopraffina, che nel corso del
tempo lascerà il posto a un tratto sempre più essenziale, quasi urlato. Gli appassionati d’arte possono poi visitare l’imponente Museo d’Art de Catalunya dove la storia delle genti catalane è stata fedelmente ricostruita nelle sale progettate da Gae Aulenti. Qui è facile ripercorrere la strada dei pellegrini diretti a Santiago de Compostela che hanno costellato di gioielli romanici una regione aspra, impervia, affascinante. Fuori dal museo ci attendono le fontane del Montjuic, che durante l’estate si esibiscono in pirotecniche coreografie acquatiche, illuminate da luci multicolori e accompagnate dalle più stucchevoli musiche del mondo (da ‘O sole mio fino a Grenada, melodie che nemmeno i Tre Tenori riuscirebbero più a sopportare). Meglio tornare verso il porto, oppure scegliere un itinerario alternativo e dirigersi verso l’Anella Olimpica, il complesso di impianti sportivi edificato in occasione delle Olimpiadi del 1992, sovrastato dalla collina dove si
staglia il monumentale Cementiri Nou. Questi altri non è che il mausoleo per le famiglie della ricca borghesia locale che sembra sottolineare, con uno stridente contrasto racchiuso nel medesimo colpo d’occhio, la celebrazione della forza fisica e il suo ineludibile decadimento. L’ultima veduta su Barcellona la possiamo godere da Collserola, punto d’osservazione a pochi chilometri dal centro cittadino, raggiungibile con una graziosa funicolare. La gente del posto lo chiama confidenzialmente “Tibidabo”, evocando la luciferina tentazione di Cristo (“Ti darò tutto questo, se..”, “Tibi dabo, si...”). Che sia questa città una tentazione in sé? O forse un miraggio, come quello prospettato al Salvatore nel deserto? Difficile rispondere: Barcellona rimane lì, a pochi passi da noi, evanescente e immobile, con le guglie della Sagrada Familia che spiccano lucenti, le minuscole stradine che d’improvviso paiono sbucare contemporaneamente sul baricentro effimero delle Ramblas e questo vezzo, tutto femminile, di dare le spalle al mare…
in VERONA
Giornale di attualità e cultura Direttore
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N° 3/giugno 2004 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.
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Giugno 2004
Orientamenti per il futuro Calendario manifestazioni 2004 SETTEMBRE
GENNAIO 24/01 1/02
Vivi la Casa
Evento mostra mercato Soluzioni d’arredo classiche e moderne. Prodotti e servizi per la casa e gli sposi.
7 - 15 Luxury & Yachts
Salone italiano del lusso
7 - 15 Nautic Show
Salone internazionale della nautica
7-9
Salone delle attrezzature per la pesca sportiva
18 - 20 Pte Expo
I giochi dei grandi
16 - 20 Abitare il Tempo
Giornate internazionali dell’arredo
OTTOBRE
FEBBRAIO
Pescare
10 - 12 Ver-Con
Progetto terza età - Fiera e congresso delle tecnologie, prodotti e servizi per la terza età
7 - 10
Marmomacc
14 - 17 Iosposa
La fiera per il tuo matrimonio
22 - 25 Texmacos
Salone costruttori macchine tessili
NOVEMBRE 4-7
Fieracavalli
Fiera internazionale dei cavalli e salone delle attrezzature e delle attività ippiche
13 - 14 Elettroexpo
Mostra mercato di elettronica, radiantismo, strumentazione, componentistica informatica
18 - 20 Ecocoating
Mostra convegno di prodotti, tecnologie e servizi per verniciatura, galvanica ed altri trattamenti a basso impatto ambientale.
18 - 21 Expografica
Mostra industriale per arti grafiche
19 - 21 Veronafil
Manifestazione filatelica, numismatica, cartofila
25 - 27 Job & Orienta
Scuola, orientamento formazione e lavoro
25 - 28 Big Buyer
Mostra convegno del settore cartoleria/cancelleria di prodotti ufficio/casa/scuola per grandi compratori italiani ed esteri
MARZO 3-7
15
Fieragricola
Fiera internazionale biennale della meccanica, dei servizi e dei prodotti per l’agricoltura e la zootecnia
Concorso Internazionale di Packaging
18 - 21 Progetto Fuoco
Mostra internazionale di impianti ed attrezzature per la produzione di calore ed energia della combustione di legna
24 - 28 Concorso Enologico Internazionale APRILE 1-5
Vinitaly
Salone internazionale del vino e dei distillati
1-5
Enolitech
Salone internazionale delle tecniche per la viticoltura, l’enologia e delle tecnologie olivicole ed olearie
1-5
Sol
Salone internazionale dell’olio d’oliva vergine ed extravergine
22 - 25 Transpotec & Logitec Salone internazionale delle tecnologie del trasporto, dei servizi intermodali e della logistica MAGGIO 8 - 12 Siab
21 - 23 Veronafil
FIERE ALL’ESTERO 8 - 10
Gennaio
IFOWS - INDIA FOOD & WINE SHOW Taj Palace Hotel - New Delhi - India Salone internazionale del prodotto alimentare di qualità, vini, bevande alcoliche e analcoliche
9 - 12
Settembre
BAUCON INDIA - New Delhi - India Fiera internazionale delle macchine e dei materiali per la costruzione
26
Ottobre
VINITALY- US TOUR - Miami - U.S.A. Presentazione di vino, olio e prodotti tipici italiani.
28
Ottobre
VINITALY- US TOUR - San Francisco - U.S.A. Presentazione di vino, olio e prodotto alimentare italiano
Salone internazionale dell’arte bianca, panificazione, pasticceria, dolciario pasta fresca e pizza
21 - 23 Borsa del Minerale Mostra di pietre preziose, pietre dure, pietre ornamentali, fossili e derivati , oggettistica in pietra Manifestazione filatelica, numismatica, cartofila
Mostra internazionale di marmi, pietre e tecnologie
24 - 26 Novembre
VINITALY CHINA - Shangai - Cina
www.veronafiere.it CALENDARIO SUSCETTIBILE DI VARIAZIONI IN COLLABORAZIONE CON