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4 - OTTOBRE 2004 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIAME S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
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Primo piano
A Francoforte i libri parlano arabo
In copertina foto di Francesco Passarella
Più di cento i Paesi rappresentati per un totale di oltre sei mila e seicento espositori, su una superficie espositiva di 171.700 metri quadrati, mentre l’Italia è presente con 350 case editrici
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Si tiene in ottobre la Frankfurter Buchmesse, la più importante manifestazione internazionale del settore librario, in particolare per quanto riguarda lo scambio dei diritti. È il luogo di incontro degli operatori del settore editoriale di tutto il mondo: dagli editori agli agenti editoriali, ai bibliotecari, ai distributori, agli scrittori. Per questa edizione saranno più di cento i Paesi rappresentati per un totale di oltre sei mila e seicento espositori, su una superficie espositiva di 171.700 metri quadrati, mentre l’Italia sarà presente con circa 350 case editrici. L’Associazione Italiana Editori (AIE), in collaborazione con l’Istituto per il commercio estero, organizza uno stand collettivo nazionale di quasi trecento metri quadrati denominato Punto Italia al fine di promuovere i contatti tra operatori italiani e stranieri e informare sul mercato librario italiano. Al Punto Italia saranno esposti circa 1400 titoli di una sessantina di editori. La Fiera del libro di Francoforte ha origini antiche, nacque nel 1600 quando Johannes Gutenberg, a pochi chilometri dalla città, inventò la stampa a lettere mobili. Fino all’Ottocento questa buchmesse rimase la più importante in tutta Europa. Cambiamenti politici ed economici fecero sì che nel ’900 Lipsia diventasse il centro dell’industria dei libri e dell’editoria. Dopo la divisione della Germania, nel 1949 Francoforte riscoprì le vecchie tradizioni e in 50 anni si è trasformata nella Fiera del libro più grande del mondo, un marchio di qualità per la cultura. Ma alla Buchmesse non ci sono solo libri: gli spettacoli culturali che ruotano intorno all’esposizione sono numerosi, lo scorso anno addirittura più di tremila, con quasi trecentomila visitatori.
Il 2004 è dedicato al mondo arabo. Tra gli eventi di respiro internazionale che caratterizzano la Fiera ci sono anche due appuntantamenti teatrali che arrivano direttamente dal Cairo e da Beirut legati all’indimenticabile favola di Scheherazade delle Mille e una notte. Il Frankfurt Opera ospita infatti l’ensemble di danza e teatro del Cairo il quale mette in scena, con le coreografie di Walid Aouni e diretto musicalmente da Nader Abbassi, la leggendaria storia del sultano Schehrijâr. Lo spettacolo proposto a Francoforte fonde insieme il balletto classico con la danza moderna creando un emozionante contrasto e una nuova rappresentazione dell’originale fiaba. L’altro importante appuntamento è quello con l’ensemble di Abdel-Halim Caracalla, la più rinomata e popolare compagnia teatrale del mondo arabo, che presenta Duemila e una notte. Si tratta di uno spettacolo davvero fuori dagli schemi tradizionali che racchiude le maggiori composizioni di musica occidentale suonate con strumenti orientali e fuse con musica di artisti iraniani e arabi del calibro di Hooshang Kamkar, Toufic El Bacha e Charbel Rouhana.
LE CIFRE DEL MERCATO ITALIANO
Secondo i dati pubblicati recentemente dall’AIE il mercato del libro in Italia ha mosso nel 2003 un volume di 3621 milioni di Euro a prezzo di copertina (libri, collezionabili, editoria elettronica, coedizioni, export) +1,8% a valore corrente sul 2002, escluse le vendite di libri allegati a quotidiani e periodici. Sono circa 53 mila i titoli pubblicati tra novità e ristampe e 254 milioni di copie stampate e immesse nei canali di
vendita, con un trend sostanzialmente stabile (+2% medio annuo tra 1995 e 2003). Continua invece la riduzione (-1,5% medio annuo) nel numero di copie complessivamente prodotte; un indice di lettura di libri tra la popolazione italiana superiore ai 6 anni di età del 41%, in leggera crescita (+1,1%), ma ancora lontano dai valori degli altri Paesi europei. Si tratta di un mercato caratterizzato da una sempre modesta velocità di crescita (1-2% a valore corrente), che non consente nemmeno di recuperare l'inflazione reale e rischia di allontanarci dai Paesi e mercati tradizionalmente più sviluppati. Cinquantatremila titoli possono sembrare tanti, perfino troppi. È tuttavia sufficiente confrontare il rapporto del numero di titoli pubblicati per mille abitanti nei Paesi dell'Europa a quindici (i dati dei nuovi Paesi non sono ancora comparabili) per scoprire che il nostro Paese segue, con i suoi 0,95 titoli pubblicati per mille abitanti, la Francia (0,97 per mille abitanti), la Germania (con 1,01), la Finlandia (con 1,26), la Svezia (con 1,45), la Spagna (con 1,60) e il Regno Unito (con 1,85 - ma i suoi editori, come quelli spagnoli, possono contare su una sorta di lingua franca che rende meno facile il raffronto). Alle nostre spalle ci sono solo il Portogallo (con 0,90) e la Grecia (con 0,62 titoli per mille abitanti).
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Cultura MANTOVA-FESTIVALETTERATURA
A “Scritture giovani” esordiscono i mostri Quattro autori poco noti, scelti tra i più promettenti giovani scrittori europei, con i loro sogni e i loro nuovi linguaggi letterari si sono avvicinati al grande pubblico in una dimensione che annulla le distanze e favorisce il dialogo
di Giorgia Cozzolino Accanto ai divi del mondo letterario, ecco presentarsi autori poco più che esordienti, di Paesi e lingue diverse, accomunati oltre che dalla scrittura, dall’età anagrafica e dal talento. Si tratta della terza edizione di Scritture Giovani, la proposta ideata dal Festivaletteratura di Mantova e avviata nel 2002 anche grazie al contributo dell’Unione Europea, che quest’anno si è realizzata in collaborazione con The Guardian Hay Festival (Gran Bretagna), Bjørsonfestivalen Molde og Nesset (Norvegia) e Internationales Literaturfestival Berlin (Germania). Dallo scorso anno i racconti di Scritture Giovani girano per gli Illycaffè d’Europa grazie a Illystories, i volumi “mono-racconto” disponibili in italiano e in tedesco. Quattro autori pressoché sconosciuti, scelti tra i più promettenti giovani scrittori europei, sono stati i veri protagonisti di questo “evento nell’evento”. Si tratta della norvegese Ingeborg Arvola, dell’italiana Valeria Parrella, dell’inglese Owen Sheers e del tedesco Gernot Wolfram. A loro è stato chiesto di scrivere un racconto inedito sul tema dei “mostri”, racconti che sono poi stati pubblicati nel volume Monsters presentato al Festival di Mantova e a tutti gli altri eventi letterari europei “gemellati” come Hay-on-Wye, la cittadina del Gal-
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Qui sopra e nella pagina a fianco: i giovani autori incontrano il pubblico
Autori poco più che esordienti, di Paesi e lingue diverse, accomunati oltre che dalla scrittura, dall’età anagrafica e dal talento les famosa per le sue librerie con edizioni introvabili e fuori commercio, oppure Molde, la storica città della regione più settentrionale dei fiordi nota per i festival musicali, e infine Berlino, città del dialogo tra storia e modernità. Letture e dibattito con gli spettatori e con alcuni affermati autori internazionali sono alla base dell’idea che ha ispirato questo progetto culturale che cerca di mette-
re in luce le diverse generazioni di scrittori, la loro scelta di diventare autori ma anche il collegamento tra scrittura e attualità, la parola scritta nelle diverse lingue, le culture e tradizioni europee. Il tutto seguendo la filosofia che ha reso Festivaletteratura l’appuntamento culturale più atteso di fine estate: la capacità di avvicinare autori e lettori in una dimensione che annulla le distanze e recupera il dialogo, lo scambio, il piacere della conversazione; il carattere di manifestazione “orgogliosamente generalista”, attenta ai diversi gusti dei lettori e che offre al pubblico molti ed importanti momenti di riflessione. Ma chi sono i veri protagonisti dell’edizione 2004 di Scritture
Giovani? In primis Ingeborg Arvola, una ragazza norvegese che ha debuttato nel 1999 con il romanzo Korellhuset, tradotto anche in tedesco. Al suo attivo diversi volumi, tra cui uno di favole per bambini, pubblicato nel 2000 in danese e olandese e il romanzo Straffe, del 2003, mentre è già in stampa il suo ultimo lavoro, Forsiktig Glass. Il racconto realizzato appositamente per Scritture Giovani si intitola Regalo per la sorellina. Qui i mostri sono piccoli, viscidi esseri chiusi all’interno delle palle per l’albero di natale. «Non so come siano finiti là dentro, forse sono angeli che gli esseri umani coveranno» si interroga la piccola protagonista della sua storia che, tutt’altro che allarmata della loro presenza si preoccupa invece della loro salute: «Senza dubbio si tratta di una forma di vita, ma adesso i mostri non riescono a respirare. Musi umidi premono contro la superficie delle palle dall’interno. Boccheggiano come pesci». Ma a boccheggiare sembra piuttosto la situazione familiare, colpita dal lutto materno, in cui nella festività natalizia sembrano ritrovarsi spaesati e intimoriti la sorella maggiore (un’affermata stilista), il fratello più grande (stimato architetto), e la piccola sorellina ancora inconsapevole dei dolori della vita ma partecipe alla sofferenza dei piccoli mostri nascosti nelle palle di Natale. Tana dei falchi è invece il racconto
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Cultura Letture e dibattito con gli spettatori e con alcuni affermati autori internazionali sono alla base dell’idea che ha ispirato Festivaletteratura che cerca di mettere in luce le diverse generazioni di scrittori
Hanno catturato l’attenzione di una piazza gremita e hanno sorpreso per la loro originalità. Sono il norvegese Ingeborg Arvola, l’italiana Valeria Parrella, l’inglese Owen Sheers e il tedesco Gernot Wolfram
in VERONA
dell’italiana Valeria Parrella che, in un gioco di contrasto tra infantililità e maturità, parla del desiderio incontenibile da parte di una bimba di possedere un mostro gelatinoso, che «esce dalle merendine», e che si può sottoporre a qualunque maltrattamento senza variarne la forma originale. Mentre finalmente il giocattolo è nelle mani della ragazzina lei e la madre assistono al pestaggio da parte di alcuni “falchi”, zelanti poliziotti in borghese, nei confronti di uno scippatore scoperto in flagrante. Ironicamente si accosta il gioco, ritenuto “diseducativo” dalla madre apprensiva, alla meno delle “educative” realtà. La napoletana Parrella, anche lei trentenne, collaboratrice di Repubblica e Marieclaire, ha pubblicato una raccolta di racconti intitolata Mosca più balena e narrazioni sparse in diverse antologie.
Owen Sheers, vincitore dell’ Eric Gregory Award e il Vogue Young Writer’s Award nel 1999, è il giovane talento inglese che con il suo debutto The blue book, una raccolta di poesie, ha ottenuto la nomination al Forward Prize Best 1 st Collection e al Welsh Book of the Year 2001. Un esordio decisamente promettente, soprattutto considerando che è stato annoverato tra i primi trenta giovani scrittori britannici dalla classifica dell’ Independent on Sunday, ed è stato anche citato da Andrew Motion come uno dei poeti da tenere d’occhio nel corso del nuovo millennio. Ma se la poesia è il suo strumento preferito, anche nella prosa il suo talento non rimane incompreso. In Uccello in gabbia, il racconto scritto per il Festival, l’autore riesce a delineare gli umori e i pensieri nascosti dei due fidanzati protagonisti. La morte di un ignaro piccione, trovato ferito sul ciglio della strada e ucciso in una sorta di impeto di eutanasia dallo stesso giovane, lascia un segno fatto di sensazioni palpabili e immagini limpide che crea un originale parallelo con la fine del loro rapporto di coppia. Arriva invece dalla Germania l’estro lettera-
rio di Gernot Wolfram. Il ventinovenne di Zittau ha vinto il prestigioso premio Walter Serner nel 2002 e il suo libro Der Fremdländer (Il forestiero), è stato considerato dai critici come uno dei libri più interessanti della famosa lista dei migliori volumi stilata dell’emittente radiofonica Südwestfunk. Un talento che si riscontra facilmente anche nel breve racconto elaborato per Scritture Giovani dal titolo Lo Zio, dove un uomo, che vive le vite altrui attraverso i libri, le lettere e l’osservazione morbosa dalla sua finestra, s’imbatte in un furgoncino rosso abitato da un uomo anziano e il suo cagnolino. La curiosità per quest’individuo dal fare misterioso lo spinge fino all’azzardato gesto di penetrare nel veicolo per carpire qualche insondabile segreto. All’interno trova un disegno, la rappresentazione di una casa con la sagoma inquietante di un uomo che spia dalla finestra. E sotto una scritta: il mostro. Irritato nel riconoscersi in quell’ombra e in quella definizione, torna a casa agitato e arrabbiato. Ma con sollievo, poco dopo, sente una portiera sbattere, il rombo del motore e il rumore del furgone che se ne va. E così, con il mostriciattolo nascosto nella palla di Natale, con il gommoso mostro delle merendine, il povero piccione assassinato e l’inquietante uomo del furgone rosso, si chiude la rassegna di Scritture Giovani: una nuova generazione di artisti, nuovi linguaggi letterari e nuovi sogni, tutti da leggere.
Cultura VERONA
Investire nella cultura riscoprendo la poesia Un Festival su misura per la città di Giulietta e Romeo. Verona Poesia 2004: dal 13 al 17 ottobre alcuni luoghi significativi saranno animati da letture poetiche
«Esiste un pubblico qualificato che cerca nuove proposte culturali e questo può voler dire incrementare l’afflusso di turisti. Fondamentale il sostegno degli enti locali, di promozione turistica, degli operatori commerciali e degli imprenditori» di Elisabetta Zampini L’autunno a Verona si apre nel segno della poesia. Per cinque giorni, dal 13 al 17 ottobre, alcuni dei luoghi più significativi del centro cittadino saranno animati da letture poetiche, e non solo. Promotrice del festival Verona Poesia 2004 è la Società Letteraria. «L’evento vuole avere una vocazione nazionale e internazionale e richiamare nella città un numero considerevole di visitatori – spiega il presidente della Letteraria, Alberto Battag-
Dante Alighieri
gia –. Abbiamo preso esempio da due esperienze vicine: Festivaletteratura di Mantova e Festivalfilosofia di Modena, perciò si sono progettati una trentina di eventi concentrati nel tempo e nello spazio, in modo da essere facilmente raggiungibili anche da un pubblico non cittadino». L’ESPERIENZA DELLA VALPOLICELLA
Già nel 2002 e nel 2003 la Società Letteraria e la Libera Università della Valpolicella hanno dato vita al Poesiafestival, portando anche in città la felice esperienza del Festivalpoesia della Valpolicella, ormai al traguardo dei suoi dieci anni: «Queste manifestazioni sono state molto importanti, per il consenso di pubblico e di critica – prosegue Battaggia – e ci hanno fatto capire come la città sia un ambiente particolarmente indicato per la promozione di una rassegna di grande richiamo. E poi non bisogna dimenticare che Verona, nell’immaginario collettivo di tutto il mondo, è la città di
Giulietta, di Shakespeare, dell’amore e quindi con una naturale vocazione alla poesia». UNO SFORZO COMUNE
Alla realizzazione di Verona Poesia partecipano, oltre alla Società Letteraria, Anterem edizioni, la Biblioteca Civica, Filo di Arianna, La Città Nascosta, Poetica, il Teatro Nuovo, Uqbar Teatro, l’Archivio Tommasoli ed il Circolo Malacarne. Collaborano anche le librerie Rinascita, Giubbe Rosse e Prosivendola. Le sedi della manifestazione sono l’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere, la Società Letteraria, il Conservatorio Evaristo Dall’Abaco, il Museo civico di Castelvecchio, la Galleria Palazzo Forti e il Teatro Nuovo. «Verona Poesia vuole anche essere lo stimolo a pensare la cultura come risorsa che si lega all’economia della città – spiega Battaggia –. Esiste un pubblico di massa qualificato che cerca proposte del genere e questo vuol dire incrementare l’afflusso di turisti, di nuovi fruitori delle risorse cittadine. Diventa allora fondamentale il sostegno degli enti locali, di promozione turistica, degli operatori commerciali e degli imprenditori. Lo scopo è quello di attivare quel processo per cui si giunga a considerare conveniente reinvestire parte delle risorse in cultura. A Verona c’è un’estate prodigiosa, con un’offerta cultu-
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Cultura «Un tempo la cultura era per pochi, per la parte colta della società. Oggi, utilizzando le grandi risorse economiche di cui disponiamo, tutti possiamo goderne, ciascuno secondo il proprio percorso, bisogno e gusto» rale di massa; da ottobre a maggio non mancano le proposte di qualità, ma sono rivolte soprattutto ad un pubblico locale. Con questa nuova iniziativa si vuole mantenere alto l’interesse anche a estate finita, allargando la cerchia dei fruitori».
ma. Sono previste infatti sette sezioni: lettura di Classici (Dante e Petrarca), scorci sulla scrittura poetica femminile, poesia e altre discipline (filosofia e psicoanalisi), incontri con l’autore, poesia recitata e drammatizzata, poesia e musica, poesia e arte.
I SOSTENITORI
ALTRE RISORSE DA VALORIZZARE
I sostenitori pubblici e privati sono: Banca Popolare, Athesis, Prima Circoscrizione, assessorato alle Pari opportunità, CNA, gli Albergatori, Ente Fiera e Aeroporto Catullo. Il fiorire di festival letterari e culturali in varie parti d’Italia pone il problema della qualità. Ci si domanda quanto il fenomeno sia una risposta a delle precise domande di senso, di bellezza, di cultura o non piuttosto subalterno e in funzione di interessi economici. Come tutelarsi allora per garantire la qualità e il senso vero di questo genere di iniziative?
«L’obiettivo – prosegue il Presidente della Letteraria – è che Verona Poesia diventi un appuntamento stabile nella città. Ma è solo un primo passo. Verona ha
In alto: Alberto Battaggia, presidente della Società Letteraria di Verona. In basso: Berto Barbarani
molte altre risorse che andrebbero valorizzate. Il teatro, ad esempio, in estate ha una dimensione internazionale, non è invece così in inverno. L’elevato numero delle compagnie amatoriali presenti è indice di un interesse peculiare. E allora perché non sviluppare questa ricchezza in un arco di tempo più ampio, magari con un festival permanente dedicato a
Shakespeare, coinvolgendo l’Università per approfondimenti, abbinando delle rassegne cinematografiche... Il punto è coordinare le risorse. Per ora la Società Letteraria si mette in gioco con la poesia, un genere letterario per molto tempo considerato sofisticato e oggi finalmente riscoperto dal grande pubblico”.
SPONSOR E CULTURA
«Cercando sempre con intelligenza di mantenere l’equilibrio – spiega Battaggia –. Un tempo la cultura era per pochi, per la parte colta della società. Oggi, utilizzando le grandi risorse economiche di cui disponiamo, tutti possiamo goderne, ciascuno secondo il proprio percorso, bisogno e gusto». Quella proposta ad ottobre a Verona sarà un poesia “contaminata”, per usare un termine diffuso: poesia letta dagli autori e poesia in dialogo con altre arti. Poesia con voce, suono, anima e corpo, insom-
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La Società Letteraria Frequentata da letterati e intellettuali come Ippolito Pindemonte, Cesare Betteloni, Aleardo Aleardi e Cesare Lombroso, la Società Letteraria di Verona, al numero 1 di piazzetta Scalette Rubiani, fu fondata nel 1808. Dal 1908 è ente morale con lo scopo di “offrire ai soci i mezzi per coltivarsi nelle scienze, nelle lettere e nelle arti”, come è scritto nel primo articolo dello statuto. La Biblioteca della Società Letteraria è dotata di circa 200 mila volumi, 2500 riviste italiane e straniere, di cui 400 correnti, e rappresenta il secondo patrimonio librario veronese, dopo quello della Biblioteca Civica. Si trovano pregiate collezioni di edizioni dal XVI al XIX secolo e una considerevole collezione di autografi di scienziati e patrioti. Per quanto riguarda l’attività culturale, la Società Letteraria organizza conferenze e convegni anche internazionali e pubblica una rivista annuale che ospita saggistica, interventi, testi poetici oltre a una collana di Quaderni monografici. Per informazioni tel. 045.595949 e.mail: letteraria.vr@libero.it
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Cultura di Marco Fittà La storia della bicicletta è cosparsa di innumerevoli contestazioni sia sulla paternità dell’invenzione, sia su cosa si intenda esattamente per bicicletta, come la definiamo noi oggi e sull’antesignano di questo mezzo: lo è il veicolo inventato nel 1748 dal francese Vaucanson, che per primo usò la trasmissione a catena e al cui collaudo assistette perfino il re di Francia Luigi XV? o lo è il celerifero del 1791 del conte francese Mede de Sivrac? Dai più è ritenuta madre della bicicletta l’invenzione del barone tedesco Karl Friedrich Drais, che nel 1816 creò il velocipede che perfino i francesi, per onorare l’inventore, chiamarono Draisienne e noi, in Italia, Draisina. L’uomo osteggiò l’utilizzo di questa invenzione da parte delle donne, adducendo, in primis, l’oltraggio al pudore che arrecava il loro utilizzo: era impossibile, infatti, “cavalcare” una bicicletta senza mostrare le caviglie e, magari (orrore!) qualche centimetro di polpaccio. Con grande disinvoltura i signori uomini dimenticavano le serate trascorse a vedere l’operetta Le Vélocifères, dove una piccola fata in abiti succinti pedalava a cavallo di un velocipede. Nel 1819 Denis Johnson apportò una modifica che consentiva di accomodarsi sul sellino senza scoprire le caviglie, né allargare indecorosamente le gambe, offrendo alla donna la possibilità di salire, per la prima volta, su un “cavallo meccanico”. Ma si trattava di un triciclo prontamente rifiutato. Verso la metà del 1860 Pierre Michaux applicò alla ruota anteriore due pedali: nacque la vera bicicletta e contemporaneamente scoppiò prima in Francia poi in
Ma dove vai bellezza in bicicletta? L’emancipazione femminile attraverso l’utilizzo della due ruote a pedali. Nei giorni dei mondiali di ciclismo a Verona, una storia fatta di faticose conquiste. Fu così che le donne iniziarono a portare i pantaloni Inghilterra e in Germania la moda di muoversi con questo modernissimo mezzo. La lotta dell’uomo contro l’utilizzo della bicicletta da parte del gentil sesso utilizzò nuove armi: dal disprezzo alla derisione, dagli insulti a veri e propri attentati come, a esempio, frustate da parte dei vetturini, sassaiole da parte dei ragazzi e ... morsi alle caviglie
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da parte dei cani. Ma la donna non desistette arrivando a travestirsi da ragazzo e recandosi a pedalare fuori le mura delle città. L’invenzione della bicicletta modificò anche il modo di vestire. l’Associazione tedesca delle Pedalatrici scrisse nel 1896 che “andare in bicicletta influenzerà i cambiamenti nell’abbigliamento femminile molto più di tutte le motivazioni, senz’altro valide, di parità di diritti e di carattere artistico e medico, che sono state avanzate fino a oggi”. Infatti la moda, che prevedeva cappellini e ombrellini, corsetti mozza fiato e gonne con lo strascico di due metri, venne in aiuto con i pantaloni, anch’essi osteggiati dalle “persone per bene”. Costrette a dover scegliere tra i pantaloni o caviglie e polpacci in mostra, le donne optarono per i primi e nel 1897 in più di cento si presentarono a un congresso a Oxford indossando pantaloni alla zuava, facendo capire a tutti che in futuro non si sarebbero limitate a utilizzarli solo per andare in bicicletta. Ne seguirono critiche, dibattiti, anatemi, perfino barzellette molto spesso salaci. Gli uomini passarono ad armi ancora più subdole e persuasive: aiutati dai medici si dichiarò che pedalare avrebbe nuociuto alla salute: il pedalare avrebbe sconvolto il sistema nervoso delle donne, provocato accumulo di sangue negli organi del bacino causando numerose malattie alle ovaie. I medici proibirono in modo categorico di utilizzare la bicicletta durante le mestruazioni, poiché si sarebbe incorsi in ulcere, dismenorrea, amenorrea e ... parti faticosi! Ma tutto fu vano; incuranti di ogni critica e di ogni pericolo, perfino dei frequenti capitomboli, le moderne amazzoni sfrecciavano spavalde lungo le vie delle città e dei paesi. L’ultima motivazione con cui gli uomini cercarono di impedire alla donna di emanciparsi anche attraverso l’utilizzo della bicicletta fu particolarmente aggressiva. Ad essere preso di mira fu il sellino, che avrebbe offerto il mezzo per praticare l’onanismo. L’accusa era grave, tanto più perché, inizialmente, fu avvalorata dai medici più conservatori i quali dichiara-
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Cultura
rono che “la posizione a cavalcioni offriva di per sé stimoli sufficienti ad assecondare questa inclinazione”. Ancora una volta furono i costruttori a venire in aiuto alle donne con la produzione del sellino Christy, che scongiurò la possibilità di questa pratica. L’uomo non poteva certo immaginare che la bicicletta sarebbe stata uno strumento così importante per l’emancipazione femminile e forse, con il suo comportamento, finì per favorirne il successo. Non tutti, in verità, hanno avuto la stessa avversione verso la bicicletta al femminile: Emile Zola, nel suo romanzo Il ventre di Parigi, fa dire alla sua eroina Marie: “Se un giorno avrò una figlia, la metterò in sella a una bicicletta già a 10 anni, perché impari subito come deve comportarsi nella vita”. Seguendo l’esempio degli uomini, le donne andarono oltre all’uso del velocipede per gli spostamenti o le passeggiate e nel 1868 a Bordeaux organizzarono la prima corsa ciclistica sulla distanza di 500 metri; l’anno successivo vide il salto di qualità: ben cinque donne parteciparono a una corsa ciclistica maschile sulla distanza di 124 chilometri, quanti separano Parigi da Rouen. Non sappiamo quanti furono i partecipanti,
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ma la prima donna si classificò al ventinovesimo posto. Da allora le gare miste e quelle riservate a sole donne (la prima si svolse a Gent, in Belgio, nello stesso anno) si moltiplicarono: Parigi, Monaco, Colonia, Berlino, Vienna per nominare quelle che entrarono nella storia. Si iniziò a prendere nota anche dei record: la francese de Saint Saveur, nel 1893, si aggiudicò il primo record mondiale percorrendo in un’ora 26,12 chilometri, tempo migliorato poco dopo dalla belga Hélène Dutrieux con 33,1 chilometri orari; la stessa atleta, l’anno successivo, lo migliorerà portandolo a 38,764. A Londra e a Parigi vennero organizzate per sole donne anche le “6 giorni”. Nel 1896 la donna aveva già percorso importanti tappe sulla lunga strada dell’emancipazione e i tempi erano maturi per il primo campionato femminile di ciclismo, a Ostenda, vinto da Hélène Dutrieux. Improvvisamente caddero tutte le argomentazioni contro l’utilizzo della bicicletta da parte delle donne, anzi, divenne di moda e consigliata per alcuni disturbi. La guerra era vinta. Nel 1896 nella sola Monaco si contarono più di
Dal disprezzo alla derisione, dagli insulti a veri e propri attentati come frustate da parte dei vetturini e sassaiole da parte dei ragazzi
Nella pagina a fianco, in alto: Marilyn Monroe (Modric Editore); in basso: immagine Musée de la Publicité, Paris. In questa pagina, a sinistra: immagine Museum für Gestaltung Zürich; a destra immagine Plakatsammiung Kunstgewerbemuseum Zürich (1915); in basso cartolina pubblicità Biciclette e ciclomotori Gloria
dodicimila ciclisti e moltissime erano le donne, mentre la città di Parigi vantava ben cinquemila pedalatrici. La pubblicità, infine, consacrò definitivamente la vittoria delle donne: l’immagine femminile sia isolatamente che con la famiglia
dominava le illustrazioni sui cataloghi di vendita e sui manifesti e affiches. Questo articolo è il frutto della lettura del bellissimo libretto di Gudrum Maierhof e Katinka Schröder, Ma dove vai bellezza in bicicletta?, edito da “La Tartaruga edizioni”. Milano, 1993.
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Cultura Una bella storia lungo l’Adige a San Michele Nel nostro territorio si contano a centinaia le Ville Venete, eredi di una tradizione nobiliare sviluppatasi nei secoli. Villa Buri, lungo l’Adige a San Michele ha però, nella sua storia, caratteristiche che la rendono unica. Chi la visita sarà colpito dalla ricchezza della vegetazione dei suoi tredici ettari di parco (si incontrano oltre ottanta specie diverse di alberi anche esotici, fra cui sequoie, tuje, sofore, cedri del Libano, farnie, magnolie, faggi, tigli, betulle, aceri, frassini, tassi, querce…), eredità diretta del giardino all’inglese realizzato alla fine del ’700 dal conte Giovanni Danese Buri. Oppure apprezzerà le linee architettoniche e gli affreschi settecenteschi della Villa. Ciò che non appare è però la vocazione educativa e formativa di Villa Buri: dopo la Seconda guerra mondiale ed il saccheggio sistematico, protrattosi per otto giorni, che la lasciò in rovina, nel 1953 si stabilì nella Villa il pedagogista Mario Mazza, che vi realizzò un’importante sperimentazione educativa. Mario Mazza, che era stato nel 1916 uno fra i fondatori dello scoutismo italiano, istituì un collegio che per sei anni, fino alla sua morte, ospitò un’ottantina di ragazzi fra i 10 ed i 16 anni, orfani di lavoratori nella misera Italia del dopoguerra. Fra il 1960 ed il 2000, la vocazione educativa di Villa Buri fu mantenuta dai Fratelli della Sacra Famiglia: per anni fu casa di formazione, per poi divenire scuola media diocesana, fino al 1997, anno in cui la Diocesi di Verona decise la chiusura di tali istituti. I Fratelli della Sacra Famiglia svolgono tuttora attività di catechesi e formazione, e dal 1994 hanno dato vita ad un Centro Diurno per minori.
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Le sfide di Villa Buri L’attenzione al mondo della scuola attraverso i laboratori didattici, sulla scia di una lunga tradizione pedagogica di Marco Menin
Un progetto che coinvolge ACLI Verona, AGESCI Verona e Veneto, Bilanci di Giustizia Verona, Il Germoglio, Banca Popolare Etica, CESTIM, La Rondine, Fondazione San Zeno, Legambiente Verona, MASCI Veneto, Diocesi di Verona
Dal luglio 2003 è operativo un contratto di comodato d’uso fra i proprietari e l’Associazione Villa Buri Onlus. Questa associazione, costituitasi formalmente nel febbraio 2003, è stata il punto d’arrivo di un percorso che dal settembre 2001 ha coinvolto vari soggetti della società civile veronese per consentire l’acquisizione della villa. I soci fondatori dell’associazione sono ACLI Verona, AGESCI Verona e Veneto, Bilanci di Giustizia Verona, Il Germoglio, Banca Popolare Etica, CESTIM, La Rondine, Fondazione San Zeno, Legambiente Verona, MASCI Vene-
to, Diocesi di Verona. L’idea e la grande sfida è coinvolgere mondi differenti non per realizzare a Villa Buri iniziative slegate, ma per sovrapporre i diversi “occhiali” con cui ogni soggetto legge la realtà e proporne una sintesi e una contaminazione Data la storia di Villa Buri e la sua vocazione educativa – concretizzatasi anche nella Festa dei Popoli, tradizionale appuntamento di Pentecoste che porta migliaia di veronesi nel parco – l’associazione ha rivolto in primo luogo l’attenzione al mondo della scuola. A partire dal febbraio 2004 sono stati proposti 15 laboratori didattici per gli allievi delle scuole di
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Cultura Le tematiche sono quelle dell’educazione alla pace, la cultura delle differenze, l’ambiente e l’economia di giustizia. In poco più di tre mesi hanno incontrato la proposta di Villa Buri quasi 180 classi: 30 di scuola dell’infanzia e 50 per ciascuno degli ordini superiori di scuola
ogni ordine e grado. Le tematiche sono quelle dell’educazione alla pace, la cultura delle differenze, l’ambiente e l’economia di giustizia. In poco più di tre mesi hanno incontrato la proposta di Villa Buri quasi 180 classi: 30 di scuola dell’infanzia e 50 per ciascuno degli ordini superiori di scuola. Il nodo centrale del progetto è la proposta di un percorso di ricerca per crescere come operatori di pace partendo dagli stili di vita quotidiani e dall’effetto delle scelte personali. La metodologia utilizzata nei vari laboratori è attiva, prevede il coinvolgimento anche emozionale e il protagonismo dei ragazzi, promuovendo il dialogo, la ricerca e la rielaborazione personale e in gruppo. Molto richiesti in particolare i laboratori sull’economia di giustizia (consumo critico e commercio equo e solidale) che hanno visto la partecipazione di quasi 65 classi, e quelli che portavano i ragazzi a riflettere sull’intercultura (55 classi). Interessanti alcuni progetti particolari: tutte le 23 classi del Liceo Levi di San Floriano hanno partecipato ai laboratori nel corso della Settimana della pace organizzata dalla scuola, mentre con l’ITC Calabrese di San Pietro in Cariano è stato realizzato un progetto di formazione che ha portato per due giorni tutti i rappresentanti di classe a Villa Buri, inoltre gli educatori dell’Associazione sono stati in 15 classi per due interventi sulla relazione e la comunicazione nel gruppo. Con il Circolo didattico di San Martino Buon
in VERONA
Albergo la collaborazione ha interessato quattro scuole dell’infanzia per due incontri sul viaggio del cacao. Le varie iniziative hanno portato a contatto con Villa Buri quasi 4000 ragazzi e centinaia di insegnanti, la metà dei quali neppure conoscevano la villa. La valutazione dei laboratori è stata generalmente positiva con l’80 per cento degli insegnanti che hanno espresso l’intenzione di ripetere l’esperienza: quindi gli organizzatori si sono messi subito al lavoro per progettare l’attività per il prossimo anno. Nel frattempo è stata effettuata una serie di interventi sulle strutture e sulle attrezzature: gli interni della villa sono stati tinteggiati e resi più accoglienti, le aule del laboratori sono state adeguatamente arredate e dotate della strumentazione necessaria: TV con videoregistratori, computer con videoproiettore, lavagna luminosa. Sono state ristrutturate e arredate le camere da letto che ora possono ospitare quasi trenta persone; tre locali, adibiti a cucina, sala da pranzo e soggiorno, sono a disposizione dei gruppi che effettuano esperienze di più giorni a Villa Buri. Il punto di ristoro equo solidale e biologico è stato ampliato e affiancato a una ricca biblioteca di testi sulle tematiche dei laboratori. All’esterno sono stati realizzati un orto didattico e un arboreto, con la messa a dimora di una gran varietà di piante da frutto, di erbe officinali e arbusti. Per quanto riguarda le attività sono state progettate alcune nuove proposte, prima di tutto nel campo dell’educazione ambientale: il progetto prevede tra l’altro laboratori su Sentire gli alberi e i loro ricordi…, un’esplorazione nel parco alla scoperta degli alberi e del fascino della loro diversità, su L’orto aromatico, che mira alla conoscenza diretta di erbe e piante e su I mangiasole, per comprendere da dove viene l’energia che permette la vita sulla terra. Particolarmente interessante è anche Nel bosco con tutti i sensi, esperienze di incontro e scoperta sensoriale, riflessività e crea-
zione nell’ambiente naturale per consentire ai bambini di “sentirsi di casa nella casa della natura”. Nel campo della “cultura delle differenze” le nuove proposte nascono dalla collaborazione con altri soggetti: La terra di tutti: gli uomini e gli animali convivono in pace intende promuovere il rispetto dei diritti di tutti gli esseri viventi, ed è proposto in collaborazione con la Lega Anti Vivise-
zione. Infine particolarmente interessante appare la mostra-laboratorio Mai dire squola, in collaborazione con l’Associazione Mani, che porta a riflettere sui modelli educativi nelle diverse parti del mondo, a partire dal confronto dei segnali stradali di Attenzione bambini. Per informazioni tel. 045.972082 www.villaburi.it
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Musica VERONA
Franco Donatoni maestro dell’invenzione Nato a Verona il 9 giugno del 1927 e morto a Milano il 17 agosto del 2000 lascia un vuoto profetico intorno al panorama musicale contemporaneo
di Nicola Guerini
«Le nuvole sono forme individualmente impermanenti, la nuvolosità è mobile ma costante, eppure deve ad esse il mantenimento del proprio stato di identificazione; è ancora alla mutazione conservata delle loro forme individuali asimmetriche che essa nuvolosità si identifica nel suo mutamento differenziato». Franco Donatoni
L’attività del comporre è concepita dal maestro veronese Franco Donatoni come puro lavoro artigianale, come “vizio solitario” fine a se stesso. La musica non comunica niente e non è riconducibile a nessuna spinta emotiva, non ha “potere” di guarire o abbandonare l’animo a uno slancio trascendente di passionalità. La musica, per Donatoni, non provoca alcun sentimento e il compositore non è altro che un instancabile lavoratore che frantuma, analizza, elabora, costruisce materiale nuovo partendo da materiale di base. Per il compositore scaligero l’opera scritta «... non è che il deposito acustico risultante dall’atto esistenziale del comporre», ciò che resta non è che il residuo, “la traccia di una vitalità che si è consumata in quell’atto e che non è più rintracciabile nella vuota inerzia del prodotto”. Franco Donatoni, nato a Verona il 9 giugno del 1927 e morto a Milano il 17 agosto del 2000, lascia un vuoto profetico intorno al panorama musicale contemporaneo e sul significato attuale che ha il suo linguaggio. Ha studiato composizione a Milano e Bologna e in seguito si è perfezionato a Roma con Ildebrando Pizzetti. Conosciuto Bruno Maderna, notissimo compositore e direttore d’orchestra, si reca a Darmstadt in Germania, rinomato centro sperimentale dell’a-
vanguardia musicale, dove si specializza. Insegna in diversi Conservatori, come Torino, Milano, Bologna, Roma e tra gli altri alla Chigiana di Siena, dove forma una delle più floride scuole compositive, in seno alla quale si sono specializzati intere generazioni di compositori. Donatoni inizia la sua carriera negli anni Cinquanta, con progressivi accostamenti, prima a Bartòk (fino al 1954) poi a Webern e infine ai giovani maestri di Darmstadt. «Sono quasi certo di poter condividere l’opinione secondo la quale non si può insegnare a comporre» scriveva con lucidità il maestro, creando un paradosso fra l’affermazione e il fatto che egli fu uno dei più grandi didatti che la musica abbia avuto. Donadoni sosteneva inoltre che «All’invenzione non si accede mediante una disciplina ricevuta dall’esterno, ma attraverso vincoli imposti a se stesso, allo scopo di orientare la scelta a un numero limitato di possibilità: in questo modo l’autodisciplina è un bisogno per la definizione di ogni comportamento e non assume alcun significato costrittivo». Nascono in quel periodo la Sinfonia per Archi (1953) il Quartetto II (1958), For Grilly per sette strumenti (1960) e Puppenspiel I per orchestra (1961). In seguito, assorbito dall’estetica di John Cage, il suo intento primario è quello di scardinare il tradizionale concetto di compositore-creatore: l’atto del
comporre è un’esperienza “negativa”, una sorta di autonegazione nell’abbandono al materiale musicale. Nella seconda parte degli anni Sessanta il suo procedere compositivo si affida a un automatismo, mentre poi prosegue come un fatto germinale, portando alla luce brani significativi e originalissimi quali Puppenspiel II (1966), Double II (1970) e Voci (1972-73). In tarda età la riflessione estetica e compositiva del maestro si rivolge verso un ritorno a schemi strutturali formali e ad accese varianti ritmiche che segnano il linguaggio donatoniano vero e proprio. Ne sono un esempio Duo Pour Bruno (1974-75), Spiri (1977), Arie (1978), The Heart’s Eye (1979-80) e In Cauta (1982). L’ultima produzione di Donatoni, da Refrain II (1991) a Rusch (1995) dimostrano come il maestro sia approdato a un felice esercizio ludico dell’invenzione conquistando una scrittura sicurissima e difendendo la libera spontaneità del linguaggio musicale, oltre che a una forte espressività che da sempre caratterizzano la fusione fra l’uomo e il musicista. «Chi può oggi – si chiede Pierre Boulez – unire le qualità dell’artigiano con l’originalità di un raffinato mondo immaginario?». Franco Donatoni è la risposta. «Egli unisce finezza sonora a un’invenzione forte» afferma un altro illustre ammiratore, Iannis Xenakis.
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I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA
Guido Zangrando prima uomo, poi giornalista di Giuseppe Brugnoli Ogni tanto mi ritorna alla memoria la figura del professor Guido Zangrando, giornalista, che fu per molti anni titolare della sede di Verona dell’ANSA. Allora l’agenzia nazionale della stampa italiana aveva una sede a Verona, nel palazzo del Mutilato, e gestiva l’informazione non solo per Verona, ma anche per Brescia, Trento, Bolzano, Vicenza e Mantova; poi la sua attività fu gradatamente ristretta, così che le rimase soltanto Verona, e quindi divenne solo un terminale di appoggio per il traffico delle telescriventi che dal nord arrivava a Roma, finché fu chiusa. Guido Zangrando non ne vide la fine, perché egli terminò prima la sua vita. Zangrando era un personaggio originale: nato, mi par di ricordare, da madre germanofona in una vallata dello Zoldano, aveva girovagato per l’Europa, insegnando in diverse università e facendo il giornalista free lance, e padroneggiava, oltre all’italiano e al tedesco, anche l’inglese, lo spagnolo e il francese. Arrivato a Verona, decise che la città gli andava a genio, e rifiutò le ripetute e insistite proposte del direttore dell’ANSA Sergio Lepri che lo voleva a tutti i costi direttore dell’ufficio di Bonn. A Verona conosceva tutti, ed era da tutti conosciuto e stimato, per la sua cordialità e per l’innata gentilezza del suo carattere che egli un poco anche ostentava con l’aplomb di un milord inglese, così che il suo aggettivo preferito, di fronte a un evento appena fuori del normale, era “Beautifulissimo!” Aveva un modo tutto suo per raccogliere notizie: in occasione di avvenimenti importanti, in cui non si accontentava di farsi mandare resoconti dai corrispondenti, arrivava sul posto, magari buon ultimo, con fare dimesso e trafelato, e non si buttava alla maniera dei reporter sui protagonisti e sui testimoni, ma si aggirava con il viso smarrito dietro le quinte, chiedendo a questo o quello dei cronisti o degli inviati qualche brandello di notizia, qualche scampolo di dichiarazione, mormorando ogni tanto con tono di autocompatimento «Povero me, povero Guidaccio!» per cui tutti erano larghi di qualche particolare. Poi, il giorno dopo, leggendo i giornali, si scopriva che il resoconto dell’Ansa era il più completo,
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il più puntuale, stringato ed essenziale ma anche ricco di notazioni che nessun altro aveva raccolto. Io allora lavoravo come abusivo precario a Il Corriere del Mattino, ma Zangrando mi utilizzava spesso per qualche “speciale” che l’ANSA offriva in pagamento ai suoi abbonati. Una sera mi mandò d’urgenza nella locanda di Punta San Vigilio, dove gli era giunta notizia che erano Laurence Olivier e Vivien Leigh, per intervistarli. Arrivai che stavano cenando, e mi misi in un angolo in attesa che finissero, pensando a come avrei fatto, con il mio inglese inesistente. Per fortuna arrivò una telefonata di Zangrando, che mi chiedeva notizie. Gli spiegai il caso, ed egli si fece passare il conte Guarienti di Brenzone, che cenava con i due attori. Con la sua cortesia e il suo aiuto come interprete misi insieme il tutto, e quando tornai a Verona dovetti riscrivere cinque volte il pezzo, in forme diverse, perché era stato richiesto da molti giornali. Una volta, in una di quelle algide proiezioni della domenica mattina che il Circolo del cinema faceva al Supercinema, e nell’intervallo si battevano i piedi sull’impiantito perché il gelo risaliva fino alle ginocchia, anch’egli fu chiamato con due critici di nome a commentare dal palco il film appena visto, ed egli, dopo aver lasciato parlare i due critici, quando toccò a lui esordì dicendo che non sapeva cosa dire, era soltanto un modesto giornalista di provincia, e forse avevano sbagliato ad invitarlo a dire la sua. Finché, dopo qualche minuto di quella solfa, quando i sorrisini di compatimento erano già stampati sulla faccia di molti e qualcuno cominciava anche a rumoreggiare, si decise con qualche interiezione autocommiserante a parlare del film, ed in pochi minuti lasciò tutti a bocca aperta, con un’analisi accurata, acuta, ironica, con riferimenti precisi alle interpretazioni e alla regia, così che alla fine tutto l’uditorio scoppiò in un corale applauso. Questo era Guido Zangrando. Ma il suo capolavoro forse lo compì in occasione di una grave disgrazia, quando fu catapultato di fretta insieme con gli inviati da tutta Italia a Guidizzolo di Mantova. Era il 1957, e si correva la Mille Miglia che sarebbe stata l’ultima, perché poi fu definitivamente sospesa ap-
punto per la tragedia accaduta in quel luogo, dove il marchese Alfonso De Portago, un hidalgo spagnolo bello e cordiale, che era stato tenuto a battesimo dal re Alfonso di Spagna, e che guidava una Ferrari Sport prototipo, a pochi chilometri dal traguardo di Brescia uscì di strada, uccidendo con se stesso, che aveva 28 anni, altre otto persone tra cui tre bambini. Zangrando fu tra i primi giornalisti ad arrivarci, e l’Ansa cominciò subito a mettere in rete i suoi flash e quindi i suoi servizi, precisi e puntuali come sempre, ma forse senza quel colore, quelle descrizioni d’ambiente e di persone che costituivano il maggior pregio del suo impegno professionale. Gli chiesi ragione di quella secchezza, di quella sorta di aridità. Mi confessò con qualche reticenza che, poco dopo il suo arrivo, in quel paesello del Mantovano giunse anche, trafelata e disperata, Linda Christian, che con il bel pilota della Ferrari era legata, come si diceva pudicamente a quei tempi, da una “affettuosa amicizia”. L’attrice, allora sulla cresta dell’onda, e che poi avrebbe sposato l’altrettanto famoso Tirone Power, aveva aspettato De Portago al giro di boa di Roma, ed era stata fotografata mentre lo baciava prima della partenza dal controllo orario, poi era corsa a Ciampino ed aveva preso un aereo privato per Linate, in modo da correre in auto al traguardo di Brescia per riabbracciarlo. A Brescia De Portago non giunse mai, e Linda Christian fu dirottata a Guidizzolo. «Quando arrivò – mi raccontò Guidaccio – era sconvolta e piangente, non conosceva una parola d’italiano, e lì intorno ero solo io che parlavo inglese. Si aggrappò a me, la portai in una casa vicina e lì mi raccontò tutto di lei, di lui, del loro amore. Quando, dopo qualche ora, mi chiese cosa facevo in quel luogo, le dissi che ero giornalista, e che ero lì appunto per la disgrazia. Ebbe una crisi di pianto, e mi disse che la sua storia sarebbe stata su tutti i giornali del mondo. Al che io mi alzai in piedi, e le dissi: “Signora, prima di essere giornalista, sono un uomo, e sono anche un signore”». E difatti, di quel suo incontro eccezionale in un momento così eccezionale, che avrebbe fatto la fortuna di qualsiasi giornalista negli ebdomadari di mezzo mondo, Guido Zangrando non fece mai parola.
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Spettacoli VICENZA - OLIMPICO
Alcesti di Euripide in “Miti ed enigmi” È la più antica tra le diciassette tragedie rimaste dell’autore greco. Il tema è quello del sacrificio. Da questo 56° ciclo di spettacoli classici uno sguardo profondo e sempre attuale sull’animo umano
Dal 24 al 27 settembre. L’allestimento è curato dal Teatro dei Due Mari per la regia di Walter Pagliaro. Admeto è Giuseppe Pambieri, Alcesti è Micaela Esdra
di Elisabetta Zampini
Miti ed enigmi è il titolo del 56° ciclo di spettacoli classici che il Teatro Olimpico di Vicenza propone tra settembre e ottobre. Il programma è vario: la rilettura, anche poetica e musicale, dei volti, miti e vicende del teatro greco si alterna allo spettacolo tradizionale, nel segno di Euripide. Dal 24 al 27 settembre è infatti in scena Alcesti: la più antica tra le diciassette tragedie di Euripide che ci sono rimaste (438 a.C). Il tema è il sacrificio di Alcesti, che accetta di morire per salvare il suo sposo. Ma la trama è ricca di sguardi attenti sugli aspetti dell’animo umano. Il dio Apollo, in cambio della generosa ospitalità ricevuta, concede al re Alcesti di evitare la morte. Qualcun altro dovrà però accettare di morire al suo posto. Il vecchio padre Ferete e la madre rifiutano il sacrificio per la salvezza del figlio. La giovane sposa Alcesti offre invece la vita e chiede al marito la fedeltà anche dopo la sua morte. La decisione è presa. Il momento è però straziante. Lo stesso dio Apollo (nel prologo) prega Tanato, il dio della morte, di prolungare la vita della regina, ma invano. Tanato entra nel palazzo e Alcesti muore tra le braccia del marito. Il palazzo è in lutto quando arriva Eracle, diretto in Tracia, e chiede ospitalità. L’ospitalità non viene negata e Admeto, nonostante il dolore, non dimentica i suoi doveri
in VERONA
Il Teatro Olimpico aVicenza
nei confronti di un viandante. Eracle viene a sapere da un servitore le circostanze della morte della regina e, in segno di amicizia nei confronti di Admeto, va alla tomba di Alcesti e lotta con Tanato. Vince e porta ad Admeto una donna muta e velata, imponendogli di accoglierla in casa. Admeto accetta con fatica ed è grande poi la sorpresa quando nel volto della donna, finalmente scoperto, riconosce la sposa amata: «E ai cittadini tutti indíco, e ai quattro regni, che per questa prospera sorte, danze istituiscano e canti, e l’are fumino di vittime. Verso piú dolce vita ora moviamo: ché non lo nego: io sono, io son felice!». La vicenda di Alcesti si risolve, dunque, come in una favola, con il lieto fine, insolito per una tragedia. Ma non a caso Euripide è stato de-
finito il poeta della ricerca: la sua poesia è semplice ma nello stesso tempo avvincente. Per cui anche la costruzione delle sue tragedie è varia. Alcesti si sviluppa in un susseguirsi di momenti legati insieme dalla morte della protagonista: tutto gira intorno a questo fatto. È proprio la morte di Alcesti a rivelare la complessità dei sentimenti e le vicende interiori dei personaggi. Nella sposa c’è l’immagine della donna che segue la sua passione arrivando eroicamente a sacrificare senza lacrime né afflizione la sua esistenza. In Admeto e nel padre Ferete c’è l’antieroica ma umanissima incapacità di rinunciare alla vita. L’istinto di conservazione affratella i due uomini che hanno escluso il coraggio dalla loro vita e fa emergere il forte attaccamento all’ideale di immortalità radicato nella cultura classica. Admeto è anche la persona pia e giusta che non rinuncia ai doveri sacri dell’ospitalità: prima Eracle e poi, cosa più dolorosa, la donna velata. Lo stesso dio Apollo concede una grazia che
è fonte di vita e di morte e tenta di porvi rimedio. La morte di Alcesti infine muove Eracle, commosso, a intraprendere una durissima lotta con Tanato fino a infrangere, vittorioso, la rigida legge che impedisce ai morti di tornare in vita. E così la fine diventa l’inizio, la separazione il ritrovarsi. L’allestimento dell’Alcesti è curato dal Teatro dei Due Mari per la regia di Walter Pagliaro. La figura di Admeto è affidata a Giuseppe Pambieri mentre Alcesti è Micaela Esdra. Gli altri interpreti sono Gianni Salvo (Tanato), Adriano Braidotti (Apollo), Franco Alpestre (Ferete), Edoardo Siravo (Eracle), Giovanni Argante (il servo) e Dely De Majo (l’ancella). Il cartellone dell’olimpico prevede inoltre l’11 settembre L’angelo e il fuoco, lettura musicale di Paolo Furlani tratta da Giovanna d’Arco di Maria Luisa Spaziani; dal 16 al 19 settembre Edipo e la sfinge di Hugo von Hofmannsthal, presentata dal Teatro de Gli Incamminati; il 6 ottobre Ippolito di Euripide, a cura del Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni - Comune di Padova e dell’Accademia Palcoscenico Scuola Civica d’Arte Drammatica; il 9 ottobre Clori, Tirsi e Fileno, Cantata a tre HWV 96 di G. F. Händel a cura dell’ Associazione culturale Spazio e Musica; infine il 14 ed il 15 ottobre il Teatro Stabile del Veneto presenta Pigafetta, “In fines orbis terrae exivit sonus eorum”.
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Spettacoli TEATRO NUOVO
“Memorie di Adriano” Un grande uomo raccontato da una grande donna Dal 23 al 28 novembre Interprete Giorgio Albertazzi di Alice Castellani Il Grande Teatro propone, dal 23 al 28 novembre al Teatro Nuovo di Verona, lo spettacolo tratto dal libro di Marguerite Yourcenar Memorie di Adriano. Si tratta di una riduzione di Jean Launay per la regia di Maurizio Scaparro e l’allestimento del Teatro di Roma. Questo testo, vivo e profondo, diventa sul palcoscenico “un’autobiografia” che adotta la forma del monologo con un interprete d’eccezione, Giorgio Albertazzi, che già interpretò il ruolo di Adriano nel 1989 quando debuttò la prima assoluta a Tivoli, nella storica cornice di Villa Adriana. Il regista Scaparro contrappone ai fondamentalismi e all’ignoranza che seminano morte e distruzione, ignorando la storia, le parole e la saggezza dell’imperatore che si sentì moralmente responsabile della bellezza e della giustizia nel mondo. Albertazzi/Adriano esprime i problemi degli uomini di ogni tempo e comunica con forza il bisogno etico di un rapporto totale con la cultura, la storia, la filosofia, la bellezza, la vita delle persone e della società. Ben oltre la narrazione documentata della sua vita, il libro della Yourcenar è una rivelazione commovente e sublime che scioglie non solo nodi storici su Adriano, imperatore dal 117 al 138, famoso per aver mantenuto la pax romana, ma anche nodi sulla vita dell’autrice. La scrittrice fu infatti letteralmente ossessionata dalla ricostruzione dei risvolti più intimi della vita di uno dei “Cinque buoni imperatori” e nei suoi Taccuini di appunti racconta il trentennale travaglio per arrivare alla stesura definitiva del testo. Per scrivere Memoires d’Hadrien pubblicato in Francia nel 1951 (in Italia solo nel 1963, Einaudi), Marguerite reimmaginò la perduta biografia di Adriano calandosi in quella che doveva essere stata la vita dell’uomo. Egli era, a poco a poco, giunto a
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Marguerite Yourcenar
una saggezza pragmatica d’amministratore e di Princeps delle istituzioni e dei valori romani con le sue esperienze personali, la sua cultura, la sua sensibilità. Ciò che il libro rende del personaggio storico approda a uno studio sul destino umano, illuminante ed illuminato. La Yourcenar finge che sia l’Imperatore, vecchio e malato, più che mai consapevole dell’avvicinarsi della sua fine, celebre è infatti la citazione:«Io comincio a scorgere il profilo della mia morte», a scrivere una lunga lettera, testamento spirituale per il nipote adottivo, il diciassettenne Marco Aurelio scelto per succedergli. Quella di Adriano è la voce di un uomo che ripercorre la parabola della sua esistenza senza temere «d’entrare nella morte a occhi aperti», così come la stessa Marguerite che si spense a 84 anni (1987) quando ancora non aveva terminato di rivedere e trascrivere le sue memorie. A 16 anni aveva deciso il suo destino di scrittrice; a 21 anni la visita ai resti della villa Adriana di Tivoli assieme al padre coltissimo che l’aveva iniziata all’a-
more per la letteratura. Fu per lei l’inizio del viaggio nella storia di Adriano, interrotto e ripreso più volte a causa della “disperazione della scrittrice che non scrive”. Sommersa dai dubbi anche sulla forma del lavoro, inizialmente immaginato come dialoghi, le ricerche trentennali di Marguerite ruotarono intorno a un pensiero di Flaubert annotato nel ’27: “quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”. Procedendo per indizi alla ricostruzione di un carattere poliedrico, la Yuorcenar si avvalse di quella “magia simpatica” che consiste nel trasferirsi con il pensiero nell’interiorità di un altro, sottraendo all’oblio del tempo la sensibilità e la grandezza di un uomo che elevò il senso dell’umano ad abito morale del suo agire. Questa versione di Memorie di Adriano è uno dei più riusciti e suggestivi viaggi teatrali nel Tempo; restituisce la passione della scrittrice insieme alla complessità del personaggio storico.
Ottobre 2004
Spettacoli La struggente storia d’amore di Tristano e Isotta, in forma semiscenica di Richard Wagner, sarà rappresentata al teatro Filarmonico a partire dal 16 novembre. Una scelta impegnativa per il più prestigioso dei teatri scaligeri che metterà in scena l’opera wagneriana che scosse critica e pubblico nella seconda metà dell’Ottocento. Tristan und Isolde è la tormentata vicenda sentimentale che unisce amore e morte nel modo in cui avviene in ognuna delle più celebri narrazioni drammatiche. Come nell’icona veronese degli amanti scespiriani Romeo e Giulietta, la vita viene sacrificata a un valore superiore: l’amore. La morte riunisce gli amanti separati in vita e crea il mito, la leggenda infinita di un sentimento che mai si può rinchiudere nelle spire di una società o di una sola vita. Ma ciò che rende immortale la storia di Tristano e Isotta è proprio l’utilizzo che Wagner fece dell’antico mito celtico, mantenendo intatta la sua religiosa paganità e dotandolo di una magia di sorprendente incanto che cattura con le note e le vibrazioni della musica. Del romanzo cortese di origine celtica, appartenente al ciclo arturiano, quello cioè che narra le vicende dell’indimenticabile Re Artù, e pervenuto in modo frammentario fino ai giorni nostri, rimane l’impronta narrativa e l’intreccio tra avventura, sentimento e destino, ma è la policromia della musica wagneriana, il suo particolare flusso istintivo che guida lo spettatore negli avvenimenti, a rendere il giusto riconoscimento storico all’antica leggenda. La storia narra di Isotta vedova di Morod. Tristano, un giovane cavaliere che era stato accolto al castello per essere curato dalle potenti doti magiche di Isotta, ne è l’assassino. Quest’ultima medita la vendetta e attende il viaggio che dall’Irlanda la porta al suo futuro marito, Marke, re di Conovaglia per avvelenare Tristano con una pozione di morte. Bevono entrambi dalla stessa coppa dove però l’ancella Brangane aveva riposto un filtro d’amore e non di morte. Tra i due scocca una scintilla incontenibile che li lega l’uno all’altra con una bruciante passione e un profondo e incontenibile amore. Ma il
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Sopra e in basso: Richard Wagner (Lipsia 1813-Venezia 1883)
TEATRO FILARMONICO
L’amore di Tristano e Isotta Nell’opera di Wagner, che sarà rappresentata a partire dal 16 novembre, la vita viene sacrificata al valore superiore dell’amore destino di Isotta è di sposare re Marke, un matrimonio che dovrebbe suggellare la pace e l’alleanza fra Irlanda e Inghilterra. La scena wagneriana si riapre sul primo incontro tra gli amanti ma all’alba, i due vengono sorpresi e Tristano viene gravemente ferito. L’ultimo atto si sposta nei giardini del castello di Tristano, in Bretagna, dove l’eroe è in attesa che Isotta arrivi a curarlo. Mentre Tristano corre incontro all’amata, la ferita si riapre e il cavaliere muore fra le braccia di lei che, affranta, cade inanimata sul suo cadavere. Anche re Marke giunge al capezza-
le di Tristano, convinto da Brangane dell’incolpevolezza del loro grande amore causato dal filtro magico. Isotta si rianima per un momento ma, nella catarsi del dramma, sente il proprio essere sommerso da un’onda incantata, dentro la quale svanisce annullandosi per sempre. A re Marke tocca quindi l’ultimo gesto di pietà liberatoria: la benedizione dei due cadaveri. In Tirstano e Isotta Wagner mette in pratica per la prima volta la sua concezione di “melodia infinita”. Non più l’opera strutturata da successione di recitativi, cori, arie, duetti e scene d’insieme dotate di una propria autonomia, ma una musica continua, senza più cesure che frenino il fluire continuo dell’azione. La “melodia infinita” non è però che una delle componenti, per quanto primaria, dell’azione: per Wagner l’opera è Gesamtkunstwerk, un insieme inscindibile di parola, musica e azione scenica. Ecco quindi che il testo letterario non si costruisce più secondo schemi e formule rigide, non obbedisce all’obbligo delle rime finali, bensì è libero, slegato da qualsiasi metrica alla quale conformarsi. È il contenuto fonetico, fatto di allitterazioni consonantiche che legano i suoni ai significati, a donare alla frase una musicalità interiore. Al di là della tecnica innovativa usata da Wagner ciò che forse dà originalità e magia all’opera è la pulsione personale che ha spinto il compositore. Nel 1857 Wagner conobbe Mathilde Wesendonck, moglie di un ricco industriale di Zurigo. La travolgente passione per questa giovane donna, colta e intelligente, in grado di cogliere in profondità il pensiero e l’arte del compositore, fu la molla definitiva per la realizzazione dell’idea artistica. «Non avendo mai goduto nella vita la vera e genuina gioia d’amore» confidò a un amico il compositore tedesco «Voglio innalzare al più bello dei sogni un monumento, in cui dal principio alla fine questo amore sia appagato davvero e interamente. Ho in mente l’idea di un Tristano e Isotta, la concezione musicale più semplice e intensa. Con la vela nera che sventola alla fine voglio poi avvolgermi e morire». (G.C.)
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Spettacoli CENTRO MAZZIANO
Germi, Risi, Monicelli Damiani, Truffaut... Sedici titoli sul cinema italiano dal Neorealismo sino al ’68. Quindi i classici con omaggi a Brando e Troisi. Per arrivare alle pietre miliari del cinema muto
di Giovanni Guado
“Farenheit 451” di François Truffaut
Marlon Brando
La rassegna italiana del Mazziano sarà patrocinata dal Comune di Verona
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Forte di più di 3000 soci, animato da un nutrito gruppo di volontari, è soprattutto nell’ambito del cinema che il Mazziano continua a costituire un punto di riferimento per chi voglia fruire di rassegne tematiche o di pellicole storiche, oltre che di ciò che di meglio offre il cinema contemporaneo d’autore. Vediamo cosa è in cantiere per l’anno sociale 2004-2005. Innanzitutto, una rassegna particolare, di una certa ampiezza (circa 16 titoli, divisi in due rassegne) riguardante il cinema italiano dalla fine del Neorealismo sino alle soglie del ’68. Un cinema forse non abbastanza noto, fatta eccezione per gli ormai classici Fellini o Antonioni, che il Mazziano vuole rivisitare a partire proprio da quegli autori, spesso a torto ritenuti “minori”, che pure hanno illustrato la storia del cinema europeo e mondiale. Un Pietro Germi, ad esempio, in via di riscoperta da qualche anno, sul quale l’associazione pubblicherà un saggio critico apposito, scritto da Alessandro Tedeschi Turco, docente presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia; Bolognini o Comencini, registi appartati ma spesso originali e anticonvenzionali; Risi e Monicelli, maestri commedianti, ma anche acuti osservatori della società e del costume; Antonio Pietrangeli, che il tempo ha ormai rivelato
come autore di statura internazionale (suo il capolavoro Io la conoscevo bene, recentemente restaurato e presentato nei maggiori festival nazionali); fino ad arrivare a Damiano Damiani, “artigiano” asciutto e veloce, capace di muoversi tra il film di genere e la rilettura sapiente di romanzi importanti della letteratura italiana (si
pensi al Giorno della civetta). La rassegna “italiana” del Mazziano sarà patrocinata dal Comune di Verona, con il quale si inaugura una collaborazione che si spera possa continuare negli anni, in una visione strategica della diffusione culturale cui il Mazziano e la stessa Amministrazione credono moltissimo.
Non solo proiezioni Al momento attuale, oltre che sulla storica sala di Via Madonna del Terraglio, il Mazziano può contare, per la diffusione dei propri programmi, anche del sito internet www.centromazziano.it, attraverso il quale, da un paio d’anni a questa parte, viene distribuito in rete un periodico bimestrale, Appuntamenti On Line, che si dimostra particolarmente vivace nell’approfondimento non solo di quegli aspetti cinematografici che le rassegne in sala propongono, ma anche nell’analisi di letteratura, musica e spettacolo in genere. In questo senso, la vocazione agli studi e alle ricerche ha avuto un impulso notevole, che si è poi anche maggiormente concretizzato, nel 2004, con l’organizzazione di due giornate di studio, dedicate alle espressioni artistiche del sacro nel ’900 e alla cultura sinta e rom, oppure con le due serate (proposte grazie a Enrico De Angelis e al Club Tenco) dedicate alla canzone d’autore, con la proiezione di rari filmati di Giorgio Gaber e Fabrizio De André. Da anni, poi, il Mazziano è impegnato nell’organizzazione di corsi di cultura cinematografica presso sedi esterne che ne facciano richiesta: scuole, biblioteche di circoscrizione, altri circoli culturali. Nella scorsa stagione si sono tenuti cicli di lezioni, cineforum con dibattito, corsi di formazione (anche su tematiche non strettamente inerenti alla decima musa), condotti da studiosi che lavorano con il Centro da anni, raccogliendo un vivo consenso. Per “servirsi” delle competenze del Mazziano, le scuole o i centri culturali possono telefonare in ufficio, e concordare con i responsabili dei corsi le modalità degli interventi presso le loro sedi. Un altro servizio, quest’ultimo, messo a disposizione della città.
Ottobre 2004
Spettacoli Pietro Germi e il cinema dell’impegno
“Ricomincio da tre” di Massimo Troisi
“Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini
Ancora, proseguiranno come sempre le riprese di classici della settima arte, con omaggi a Marlon Brando, a François Truffaut (nel ventennale della morte), a Massimo Troisi. Non mancheranno poi le pietre miliari del cinema muto, la cui memoria si fa via via più remota, e che il Mazziano intende invece tenere ben viva e presente. Serate speciali, poi, di carattere più marcatamente “accademico”, saranno condotte da Alberto Scandola, docente presso l’Università di Verona, con le quali il Mazziano cercherà di approfondire la poetica di autori particolarmente significativi (Peter Greenaway, David Cronenberg e Ingmar Bergman, tra gli altri): conferenze di alto profilo, accompagnate come sempre da numerosi spezzoni esemplificativi della rigorosa analisi testuale che Scandola sa proporre. A novembre, infine, verrà anche presentato un volume dedicato alla grande scrittrice francese Colette, di cui nel 2004 cade il cinquan-
in VERONA
tenario della morte: una serata eccezionale, durante la quale Nicola Pasqualicchio, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Verona, commenterà il saggio In pagina e in palco. Suggestioni sceniche nell’opera di Colette, scritto da un’altra collaboratrice storica del Mazziano, Paola Palma. Nel corso della serata, verrà proiettato un rarissimo documentario del 1951, dedicato a Colette e alla sua straordinaria vita artistica: un’occasione imperdibile per vedere e sentire non solo la scrittrice, ma anche molti dei suoi amici e collaboratori, tra i quali Jean Cocteau e Georges Wague. Non solo cinema, dunque, al Mazziano. O meglio, cinema come arte e cultura, come occasione per la propria formazione intellettuale la più ampia e articolata; non solo proiezioni, ma studio e ricerca, appunto, così come afferma la ragione sociale di un’associazione più che mai attiva e vitale.
Il termine Neorealismo indica gli orientamenti predominanti della cultura letteraria e artistica all’incirca nel decennio 19451955: sua principale caratteristica è quella di rappresentare la quotidianità nel suo farsi, adottando un taglio tra il reale ed il documentario. La cultura italiana da decenni stagnava in una aristocratica raffinatezza. Mentre in Francia Sartre propugnava attraverso la rivista Tempi moderni (1945) la necessità dell’impegno, ossia la finalità della cultura e dell’opera d’arte, che "deve concorrere a produrre certi mutamenti nella società", anche in Italia iniziò a svilupparsi un’imponente e appassionata opera di revisione della cultura precedente. In Italia uno dei capiscuola di questa nuova sensibilità fu Pietro Germi (Genova 1914 - Roma 1974). Il regista iniziò la sua carriera cinematografica nel 1946 con Il testimone, confermando poi il proprio talento e la vocazione per i soggetti drammatici in Gioventù perduta (1948); ma il suo pieno inserimento nella corrente neorealista si ebbe con In nome della legge (1949), opera sulla mafia siciliana diretta con grande sincerità e maturità stilistica. Seguirono Il cammino della speranza (1950), sul doloroso calvario dell’espatrio clandestino di un gruppo di emigranti meridionali, e La città si difende (1951), tentativo di film - gangster ambientato in Italia. Dopo Il brigante di Tacca del Lupo (1952), sullo sfondo storico della lotta al brigantaggio, il regista si indirizzò verso temi più intimisti a ispirazione sociale e umanitaria nel Ferroviere (1956), acuto e patetico ritratto psicologico di un umile lavoratore, descritto con autentica forza poetica e interpretato dallo stesso regista, protagonista anche in altri suoi film. Caratteristiche di genuina e commossa istintività narrativa si ritrovano anche nell’Uomo di paglia (1958), mentre in Un maledetto imbroglio (1959), tratto da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C. E. Gadda, Germi tornò al film a tinta poliziesca. Una svolta decisiva nella varia e complessa tematica del regista si ebbe, a partire dal 1961, con Divorzio all’Italiana, dove la critica di costume si approfondisce unendosi felicemente a una aperta vena ironico-umoristica, nella cornice della mentalità e dei pregiudizi siciliani. Il film, che ottenne largo successo, ebbe nel 1964 una replica in Sedotta e abbandonata e, sebbene su uno sfondo sociale e regionale diverso (la borghesia della provincia veneta) e con maggior coloritura farsesca, in Signore e signori (1966). Con L’immorale (1967) il regista mise a fuoco una situazione familiare assurda, nascondendo sotto il paradosso satirico una realtà seria e sentita. Dopo aver ottenuto un buon successo con Serafino (1968), film d’apoteosi campagnola che si fondava soprattutto sulle doti di simpatia umana e di chiassosa comunicatività del protagonista Adriano Celentano, il regista tentò di ripetere gli stessi temi in Le castagne sono buone (1970), ma con esito discutibile. Migliore accoglienza trovò, nel pubblico e nella critica, Alfredo, Alfredo (1972), basato sulle vicende di una giovane coppia. In complesso negli ultimi film si accentuò l’involuzione del cinema di Germi, la cui vena più felice e autentica resta legata al suo primo periodo creativo, nel quale egli, regista tra i più personali e impegnati del cinema italiano ed europeo, colse le contraddizioni della società e dell’uomo con vigorosa spontaneità e con uno stile che trovava la sua forza espressiva e morale proprio in una certa ingenua e rude schiettezza.
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Mostre ROVERETO - MART
Le opere di Joan Miró pittore e scultore La mostra, che rimarrà aperta fino al 28 novembre, espone oltre 100 opere, tra cui 60 sculture, dell’artista catalano. Un’interprete originale del Surrealismo
«In un quadro, dobbiamo poter scoprire cose nuove ogni volta che lo vediamo. Ma possiamo guardare un quadro per una settimana e non pensarci mai più. Possiamo anche guardare un quadro per un secondo e pensarci tutta la vita». Joan Miró
“Personaggio”, 1970 (bronzo)
in VERONA
Al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (MART) è in corso dall’11 settembre e chiuderà il 28 novembre la mostra Joan Miró, pittore e scultore. Frutto della collaborazione internazionale tra il Mart, la Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence in Francia e lo State Russian Museum di San Pietroburgo, l’esposizione presenta oltre 100 opere, di cui 60 sculture, 5 dipinti e oltre 30 tra disegni, acquerelli e arazzi realizzati dall’artista catalano. «L'opera di Joan Miró sorprende ogni volta e affascina sempre – commenta Gabriella Belli, direttore del Mart –. Dopo molte mostre di ricerca sull'arte contemporanea e moderna è un piacere tornare ad un artista la cui conoscenza sembra quasi scontata, e invece è una miniera inesauribile di nuovi suggerimenti e poesia». La mostra di Rovereto seguirà la prestigiosa tappa al Museo Russo di San Pietroburgo, che segna la prima volta in assoluto per una mostra su Miró in quel Paese. La tappa italiana sarà però arricchita da una ventina di importanti lavori eccezionalmente prestati solo al Mart, tra cui una grande scultura da giardino, intitolata “Personaggio”, un bronzo del 1970. Joan Miró nacque a Barcellona nel 1893 e morì a Palma di Maiorca nel 1983. Le sue prime opere sono strettamente legate alla terra e alle tradizioni catalane. Nel modo di stendere il colore e nella struttura
“Senza titolo”, olio su tela (1960)
compositiva si avverte l’interesse per l’arte francese in generale, (impressionismo, cubismo, futurismo), ma soprattutto per la pittura di van Gogh, Cézanne e Renoir. A partire dal 1918 Miró imprime una svolta radicale al proprio stile pittorico. Semplifica le forme, presta maggior attenzione ai dettagli. Realizza paesaggi che richiamano l’arte popolare e un po’ naïf del Doganiere Rousseau. Il trasferimento a Parigi a metà degli anni ’20 e la frequentazione di Masson segnano un ulteriore allontanamento di Miró dalla rappresentazione realista. Attraverso pochi segni grafici, deformazioni fantastiche e fortemente evocative di elementi naturali, resi con colori accesi e intonati alle gamme primarie dello spettro cromatico, Miró offre un’interpretazione assai originale al Surrealismo, che in quegli anni tenta di esprimere l’io interiore in piena libertà, come è realmente, senza l’intervento della ragione che ci condiziona, obbligandoci a reprimere istinti e sentimenti. Quella di Mirò
è una rappresentazione leggera e fantastica, gioiosa e ricca di memorie e di insospettabili richiami all’inconscio e al mondo onirico. La sua pittura è fatta di linee e forme leggere, prive di volume, che si dispiegano su vasti scenari di colore omogeneo. Le diverse forme risultano definite da zone di colore piatto, talvolta quasi trasparente. In uno sforzo espressivo portato ai limiti adotta anche la tecnica del collage inserendo nelle opere materiali di scarto e oggetti vari. Ma il lavoro di Miró non è circoscrivibile alla pittura. Il suo universo si dispiega anche nella ceramica e nell’opera incisoria. Un’importanza fondamentale spetta anche alla scultura, che Miró pratica con particolare impegno a partire dagli anni ‘60. Le opere, spesso di grandi dimensioni, evidenziano con particolare evidenza la componente fantastica e surreale dell’artista.(G.M.) Per informazioni tel. 0464 438887 www.mart.trento.it
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Mostre SCAVI SCALIGERI
La vita in bianco e nero di Otto Bettmann Sbarcò in America nel ’35 per sfuggire al nazismo portando con sé due casse di libri, film e immagini che fecero la sua fortuna. La mostra che si tiene dal 23 ottobre al 9 gennaio propone una parte importante dell’archivio fotografico
di Wilma Quartarolo La collezione Bettmann è una tra le raccolte di fotografie più importanti e famose al mondo e Verona, dal 23 ottobre fino al 9 gennaio 2005, ospita negli spazi espositivi degli Scavi Scaligeri un’ampia rassegna di opere di questo prestigioso archivio fotografico, rappresentato in Italia da Contrasto. Va ricordato che la collezione Bettmann dal 1995 fa parte di Corbis, l’archivio di fotografie fondato nel 1989 da Bill Gates, nato in via quasi sperimentale in vista del ruolo che le immagini digitali avrebbero poi avuto nell’era del computer. Intuizione a quanto pare niente male, visto che all’epoca solo pochi conoscevano internet e praticamente nessuno avrebbe mai immaginato lo sviluppo che avrebbe avuto il mercato del digitale. Corbis negli anni Novanta inizia la corsa all’acquisizione delle più importanti raccolte fotografiche esistenti e diventa in poco tempo distributore esclusivo della gran parte di immagini usate in tutto il mondo per la pubblicità, i libri, i giornali, il cinema e la televisione. Il primo di questi ingenti investimenti fu appunto, e non poteva essere diversamente, l’enciclopedica collezione Bettmann, che attualmente viene conservata in un immenso deposito climatiz-
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L’intera collezione, milioni di scatti, patrimonio storico per le generazioni future, appartiene alla Corbis di Bill Gates zato e protetto, ricavato da una vecchia miniera nella Iron Mountain, in Pennsylvania. L’archivio Bettmann conserva milioni di immagini, anche se il vero valore della raccolta non consiste tanto nella quantità, quanto piuttosto nella qualità delle immagini stesse. Esse abbracciano un periodo di tempo vastissimo, molte delle fotografie conservate sono vecchie di oltre cento anni. Raccontano storie, suscitano emozioni e sentimenti che vanno al di là del tempo e sono diventate patrimonio storico e sociale per le future generazioni. Catalogati per argomento, immagini e negativi sono stati suddivisi in cinque gruppi fondamentali che spaziano dagli eventi mondiali, guerre, avvenimenti, scoperte, ritratti di personaggi politici, artisti, situazioni di vita quotidiana, problematiche sociali, immagini pubblicitarie. Questo la dice lunga sulla meticolosa e caparbia ricerca del dottor Bettmann che iniziò la sua raccolta sistematica agli inizi del Novecento.
Otto Bettmann nasce in Germania nel 1903 ed inizia la sua carriera professionale come curatore di volumi antichi presso la Prussian State Art Library di Berlino. La svolta decisiva avviene però nel 1935, quando a causa del nazismo è costretto a riparare negli Stati Uniti: raccolte le proprie cose le invia oltre oceano assieme a due casse stracolme di libri, immagini, film. A New York fonda il suo primo storico archivio proprio nel monolocale preso in affitto in uno stabile della 44esima strada. Soldi, pochi in principio, ma grande ingegno, cultura, passione ed una buona dose di fortuna fanno di Bettmann un grande protagonista del secolo scorso. Il suo arrivo a New York coincide infatti con l’inizio della nascita e della popolarità del fotogiornalismo, delle riviste di fotografia, delle immagini neorealistiche. È lo stesso Bettmann a ricordare quegli anni dicendo: «Tutti in quell’epoca di grandi mutamenti politici e sociali erano alla ricerca di immagini. L’immagine era il centro di ogni cosa. Ed io ne avevo portato dall’Europa due casse piene». Comincia così la sua attività di documentarista e archivista, cresce intanto anche la febbrile intenzione di raccogliere, catalogare, conservare quante più immagini possibili. Nel 1938 la sua collezione conta già 15 mila foto
e i suoi primi clienti sono realtà di prestigio quali Look Magazine e la mitica Life. La richiesta di immagini aumentò progressivamente durante la Seconda guerra mondiale e con l’avvento della televisione. Gli anni a seguire, in particolare quelli compresi tra il Sessanta e il Settanta, segnano ulteriormente lo sviluppo, l’affermazione e il riconoscimento pubblico dell’archivio, che nel frattempo acquisisce sempre nuove e prestigiose collezioni. Nel 1980 l’archivio arriva a contare ben due milioni di immagini in esclusiva. Il grande sogno di Beetmann è arrivato al culmine. La sua vita per l’immagine è giunta ad un traguardo ineguagliabile. Ha 78 anni quando decide di vendere l’intera collezione alla Kraus Thomson Organisation, la quale, dopo altre operazioni di marketing e acquisizioni significative, soprattutto in campo giornalistico, decide nel 1995 di cedere l’intera collezione alla Corbis di Bill Gates. La collezione è giunta in buone mani, Beetmann può dormire sonni tranquilli. E così farà. Vive infatti gli ultimi anni della sua vita in Florida con la sua famiglia scrivendo una decina tra libri e saggi. Muore nel 1998 all’età di 94 anni lasciando in eredità al mondo un patrimonio storico e documentaristico di valore inestimabile.
Ottobre 2004
Scienza MUSEO CIVICO DI STORIA NATURALE
L’orso delle caverne Dal 29 ottobre un affascinante percorso che ricostruisce la vita e le abitudini di questo plantigrado, mentre continuano gli scavi negli anfratti dei Covoli di Velo, con risultati di sorprendente valore scientifico di Angelo Brugnoli
le di Verona. La maggior parte delle ossa è andata dispersa a seguito dell’utilizzo dei resti fossili per la fabbricazione di fertilizzanti e in anni più recenti a causa di scavi non autorizzati che hanno saccheggiato il deposito. Ma chi era questo personaggio un po’ misterioso che abitava la nostra Lessinia? E oggi perché non vivono più gli orsi nel Veronese? Dove sono finiti? È a queste e ad altre domande che cerca di dare risposta la mostra “Orsi”,
voli di Velo con gli impressionanti resti fossili delle collezioni paleontologiche del museo. Agli inizi del 1800 un vecchio montanaro ferPoi alla ricerca di figure e rappresentazioni ma il suo carretto davanti all’osteria del paese. preistoriche dell’orso e del discusso rapporto Ha sete e la strada che lo aspetta, giù fino alla uomo-orso in età paleolitica. L’orso vivente in città di Verona, è ancora lunga. Mentre l’uoItalia (bruno e marsicano) viene presentato mo è all’interno dell’osteria a discutere con nella terza parte, che racconta anche il non fal’oste sul livello del vino del suo bicchiere, cile rapporto uomo-orso con i tentativi di fuori un annoiato signore, che dal vestito apreintroduzione in Italia e di studio scientifico pare certamente uno di città, getta uno sguardell’orso in natura. Nell’ultima parte si afdo distratto al carro: è uno dei fronta il grande spazio dell’imtanti carri che trasportano dalla maginario collettivo sull’orso: montagna alla città i prodotti di da marca di birra a simbolo un’economia basata su ciò che la araldico, da peluche a maschera terra può dare. Ma all’improvvigrottesca, a totem, a simbolo so il personaggio si blocca, ha un magico-religioso. Tutto questo sussulto, si slancia verso il carattraverso materiale proveniente retto, riempito fino oltre le dalle collezioni del museo, pansponde da un gran cumulo di nelli illustrativi e didattici. In alossa. Vecchie ossa di animali cuni punti dell’esposizione sono morti che ben triturate andranpreviste manipolazioni di oggetno a produrre un ottimo fertiti e giochi tattili. lizzante. Dall’ammasso di ossa E l’orso delle caverne dei Covoli lunghe, frammenti e pezzi estrae di Velo? Dall’ottobre del 2001 la un cranio gigantesco, fornito di sezione di Geologia e Paleontodue poderosi canini, tipici dei logia del Museo ha iniziato una grandi carnivori. È un cranio di serie di campagne di scavo alorso delle caverne, un animale l’interno di una delle cavità riBozza di allestimento della mostra “Orsi” al Museo Civico di Storia Naturale vissuto più di 12.000 anni fa. sparmiate dagli scavi dei secoli Con un po’ di immaginazione, così possiamo in programma al Museo Civico di Storia Na- passati. Il lavoro di ricerca ha portato al ritropensare la scoperta/incontro tra la scienza pa- turale di Verona dal 29 ottobre 2004. La mo- vamento di oltre un migliaio di reperti ossei leontologica, la scienza che studia i fossili di stra vuole ripercorrere per tappe la storia evo- di Ursus spelaeus, tra i quali sono certamente piante ed animali estinti, ed il grande giaci- lutiva di un animale che per dimensioni e interessanti quelle appartenenti a cuccioli. Gli mento fossilifero dei Covoli di Velo Veronese. modi di vita ha da sempre colpito l’immagi- scavi hanno anche permesso di ricostruire Il sistema carsico dei Covoli, modellato dal- nazione dei popoli più diversi, che lo hanno con sufficiente precisione la stratigrafia della l’acqua in milioni di anni, è formato da tre ca- rappresentato e raccontato nei modi più biz- grotta ed i campioni di terreno prelevati dai vità che sono state usate da tempi immemo- zarri. La progettazione di “Orsi” ed il suo alle- diversi livelli, dopo le analisi specialistiche, ci rabili come tane e rifugi di animali diversi e stimento scenografico è il frutto di un lavoro permetteranno di ricostruire l’ambiente ed il per ultimo anche dall’uomo. Tra le specie che congiunto del personale tecnico scientifico clima dell’area dei Covoli in epoca preistoriutilizzavano le grotte, l’orso delle caverne del museo e di Studio Alcedo di Moncalieri ca. Oggi i Covoli di Velo possono essere visita(Ursus spelaeus) è l’animale numericamente (TO) che ha portato la propria esperienza in ti nelle loro aree d’ingresso; l’entrata alla più presente. Negli ultimi duecento anni sono exhibit dedicati agli orsi. Il percorso espositi- “Grotta inferiore” è stata chiusa per impedire state estratte dai Covoli migliaia di ossa di or- vo accompagna il visitatore attraverso quattro scavi abusivi e vandalismi alle parti di giaciso e tra queste soltanto pochi, ma importanti tappe: dapprima alla scoperta dell’estinto or- mento ancora rimaste miracolosamente inreperti sono giunti al Museo di Storia Natura- so delle caverne e quindi della storia dei Co- tatte ed oggetto delle ricerche del Museo.
in VERONA
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Ambiente La Giunta comunale di Verona ha presentato nei mesi scorsi il Progetto Preliminare di Piano, la base di partenza per arrivare al nuovo strumento urbanistico che darà un nuovo volto alla città. Il progetto non è una vera e propria Variante Generale, ma una sorta di PAT (Piano di Assetto del Territorio), in cui vengono indicate le linee guida che poi saranno rese operative con il Piano degli Interventi comunali (PI), così come prescritto dalla nuova Legge urbanistica regionale. Secondo Legambiente nel Progetto Preliminare di Piano non sarebbero state osservate alcune indicazioni relative ai contenuti e alle finalità degli strumenti di pianificazione, quelli che definiscono l’evoluzione della città nei diversi aspetti. In particolare gli ambientalisti accusano il disinteresse per la tutela del paesaggio rurale e di importanza naturalistica e affermano che sarebbe stata pressoché ignorata la partecipazione dei cittadini e delle rappresentanze economico-sociali all’iter di elaborazione del Piano. «È stato solamente un coinvolgimento formale e del tutto ininfluente» sostiene il presidente di Legambiente Michele Bertucco. – Quali sono le specifiche carenze che denuncia Legambiente? «Analizzando la proposta della Giunta si comprende che il sistema insediativo, produttivo e dei servizi rispetta a grandi linee i contenuti dei piani delle precedenti giunte “Sironi”. È rimasta infatti la contestata area edificabile di Parona, localizzata a ridosso dell’Adige in zona di esondazione e paesaggisticamente preziosa. Sono inoltre previste ampie zone di futura edificazione nella parte nord di Borgo Venezia, a sud dell’autostrada e ai confini con il Comune di San Martino B.A.: tutte aree attualmente verdi. La stessa cosa vale per le frazioni di Marzana, Quinto e Poiano, dove andrebbe tutelato il rapporto tra edifici e spazi verdi. Fabbricati sono previsti anche a San Massimo in aree ora verdi a ridosso della tangenziale e all’interno del nuovo ambito urbano che comprende l’attuale seminario. In Borgo Roma le aree da edificare sono quelle
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LA VERONA DI DOMANI
Il futuro urbanistico della città Le critiche del responsabile di Legambiente Michele Bertucco a sud dell’autostrada, a ridosso della Marangona, a Dossobuono e alla Palazzina, dove, con tutto il patrimonio edilizio da recuperare non c’è bisogno di ulteriore territorio da cementificare». – In Zai sarà attuato il “Prusst”. Come giudica Legambiente questo progetto di riqualificazione ? «La Giunta ha confermato il Prusst senza tenere assolutamente conto delle esigenze del quartiere, suggerendo di espandere la Fiera negli stabili dell’ex Manifattura Tabacchi, non considerando quanto potrà costare acquistarla all’asta. Non è chiaro quale criterio sia stato adottato per la scelta delle zone destinate a integrazione tra residenza e servizi, e quali sono invece lasciate a destinazione produttiva. Lo stesso vale per le aree a uso misto (direzionale, commerciale e residenziale) ed è incomprensibile la finalità che ha dettato la differenza tra la destinazione d’uso del Foro Boario (uso misto) e quella di tutte le aree circostanti a destinazione residenziale. Manca poi un’ipotesi sullo Scalo Merci della Ferrovia. Noi di Legambiente pensiamo che sia un’eccezionale opportunità per progettare un ambito verde piantumato con dei percorsi pedonali e ciclabili come elemento di ricucitura tra i quartieri di Borgo Roma, Santa Lucia e Borgo Milano, oltre che a collegare la stazione di Porta Nuova con la Fiera. Le eventuali cortine edificabili, previste
per motivi economici, potrebbero essere localizzate sul fronte strada di Stradone Santa Lucia». – Un altro tema “caldo”, quello della viabilità… «Non si capisce se si punti sul trasporto privato a motore o su quello pubblico, se i flussi di traffico verranno previsti nella direzione est-sud-ovest, oppure nord-ovestsud-est e conseguentemente su quali aree si baserà il futuro sviluppo urbano della città. Si ipotizza la “mediana”, che da Borgo Venezia, passando a ridosso di Porto San Pancrazio e correndo sulle aree del futuro Parco dell’Adige, dovrebbe tagliare il Boschetto, attraversare il fiume e quindi collegarsi con la Transpolesana, superare il Basso Acquar e passare per lo Scalo Merci della Ferrovia entrando nell’attuale bretella per Verona Nord. Per quale motivo deturpare il mai nato Parco dell’Adige? Infine la tangenziale nord, o traforo delle Torricelle, soluzione inutile per la città e pesantemente dannosa sotto il profilo sanitario, ambientale e idrogeologico. Ciò che inoltre preoccupa è la ventilata ipotesi che l’attuale tangenziale sud venga trasformata in tratto autostradale: in tal caso tutto il traffico che su di essa grava verrebbe trasferito sulla tangenziale nord. La città si troverebbe così circondata da strutture viarie pesantemente inquinanti». – E per quanto riguarda la tramvia?
«Per motivi economici è stata ridotta a un’unica linea accorpata che collega Borgo Venezia con lo stadio e Borgo Trento, evitando il centro storico che raccoglie il maggior numero di potenziali utenti. È grave che non venga preso in considerazione il tratto Verona est - Verona sud, che è quello che produce il maggior flusso di traffico; in compenso viene proposta una metropolitana che collegherebbe il centro città con la stazione di Porta Nuova e quindi con la zona Fiera, senza considerare che i costi di costruzione di una metropolitana sono molto superiori rispetto a quelli della tramvia». – Legambiente denuncia la mancanza di attenzione alle zone naturalistiche. Perché? «Il Parco dell’Adige, già considerevolmente ridotto dal precedente Prg, subisce un ulteriore ridimensionamento, oltre a essere lambito o addirittura attraversato da una serie di infrastrutture a pesante impatto ambientale. Ci sono poi le previste opere di “lastricazione” delle sponde del fiume a sud da parte del Genio Civile Regionale, con il rischio di compromettere la vocazione naturalistica e la fruibilità delle aree. Pensiamo poi al Parco delle Mura, per il quale si adotta semplicemente il Piano predisposto per la precedente variante senza apportare alcun aggiornamento necessario visto il cambio di destinazione d’uso di alcuni aree che lo coinvolgono direttamente, come la Passalacqua e Monte Castiglione. Riteniamo invece positiva, anche se andrebbe rafforzata, la proposta di realizzare una fascia verde di collegamento tra i forti collocati fuori dalle mura come Forte Chievo, San Massimo, Santa Lucia, Azzano e Pestrino. Non è chiaro invece cosa si farà della Spianà e di come e dove sarà realizzato il verde di quartiere. Infine, il “Parco che non c’è” ovvero quello della collina. Nel piano non si parla assolutamente di creare un parco e, tranne la corona che circonda la città, il resto del territorio collinare è definito a destinazione rurale. Così facendo, rischiano di rimanere senza una tutela specifica i forti San Mattia, Sofia, e Torricelle». (D.C.)
Ottobre 2004
Territorio Rimase per secoli la strada più nota e più vitale in tutto il sistema orografico della Lessinia. Correva a cavallo tra le valli di Mezzane e del Progno-Illasi. L’abbiamo divisa in tre tratti, con base di partenza contrada Contrasti di Montecurto
Contrada La Bà, nei pressi della montagna Pàrpari
LESSINIA
Ripercorrere oggi l’antica Via Vacàra Dagli archivi storici la ricostruzione della via di transumanza percorsa dalle mandrie di bestiame che andavano e tornavano dai pascoli estivi
di Piero Piazzola
Il “Campion delle strade”, un’esplorazione sulle vie di comunicazione, sui corsi d’acqua e sulle sorgenti esistenti nella giurisdizione del Comune di Verona, compiuta nel 1589 da alcuni periti del Comune
in VERONA
«Andar per strade in Lessinia» può diventare un piacevole e utile diversivo, soprattutto, nei giorni di vacanza, anche per il fatto che lassù si ha modo di parlare con la natura a 360 gradi, d’autunno in modo particolare, quando la vita accenna ad assopirsi, quando i giorni non sono più scanditi dai rintocchi delle ciòche, dalle grida dei vacàri che raccolgono il bestiame vicino al bàito per la mungitura, quando il sole non ha più la forza di imperlarti la fronte di sudore, quando il silenzio sarà tanto grande da assalirti e da fermare il tuo passo.
Alla Lessinia o, più esattamente, ai pascoli alti dei Monti Lessini, all’alta Lessinia centrale, per dirla in parole più realistiche, una volta si arrivava con la cosiddetta “Via Cara” o, meglio, Via Vacàra, molto nota e trafficata dalle mandrie del bestiame che andavano e tornavano dalla “monticazione”, cioè dai pascoli estivi. Per certi aspetti, rimase per secoli la strada più nota e più vitale in tutto il sistema orografico della Lessinia, strada che correva a cavallo tra le valli di Mezzane e del Progno-Illasi. Le informazioni e le nozioni che tenteremo di riassumere alla meglio le attingiamo dal cosiddetto “Campion delle strade”, un’esplorazione sulle vie di comunicazione,
sui corsi d’acqua e sulle sorgenti esistenti nella giurisdizione del Comune di Verona, compiuta nel 1589 da alcuni periti del Comune, che si recavano, giorno dopo giorno, in uno dei comuni della montagna, nel nostro caso, e alla presenza di tre rappresentanti delle varie comunità e di un notaio che ne trascriveva gli accertamenti eseguiti, ne formalizzavano l’esistenza e la percorribilità. Il “Campion delle strade”, oltre alla Via Vacàra, non indica, in via di massima, altre grandi vie di comunicazione in partenza dal fondovalle con l’Alta Lessinia; ci saranno state ma il “Campion” non le cita. Il “Campion”, se proprio vogliamo essere precisi, indica una strada
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Territorio che partiva ai confini con Prun, saliva ad “Alfaedo”, ed usciva ai limiti dei Lessini, ed era detta “La via di Lessini”, e una seconda strada che iniziava a Lugo, in contrada delle “Due Valli”, passava per Alfaedo, si dirigeva verso la borgata “Grole” ed usciva ai confini “…dei Lessini”.Via Vacàra, Via Vaccara, Via Vachara, Via Vacaria, Via Cavalara o Via Cara? Questi i nomi con cui la strada fu conosciuta e denominata lungo il tempo. Giovanni Rapelli, un interprete autorevole della toponomastica veronese, afferma: «… Il confine nord-orientale del comune di Illasi coincide per un certo tratto, a partire da Montecurto, con la Via Cara… è molto antica, certamente praticata già in epoca pre-romana. Il nome compare in vecchie mappe e in un documento del 1591 col nome di Via Cara. Nella carta di Gio.Batta Pellesina del 1759, invece, compare come Strada vaccara; e in un’altra mappa, anonima, della metà del Settecento, è detta, invece, strada commune detta cavallara vien dai Lessini va alla strada regia…». Per conoscerla più da vicino, prendiamo come base di partenza contrada Contrasti di Montecurto e dividiamola in tre tratti principali: da Contrà Contrasti al capitello di San Vincenzo; dal capitello, al Monte di San Moro; da San Mauro di Saline alla Chiusa di Camposilvano e poi alla Croce dei Pàrpari. PRIMO TRATTO
Attualmente la Via Vacàra parte da corte Contrasti e procede verso nord, aggira il Monte Vegro (306 metri) e nuovamente, a sera, il Monte del Guala (401 metri), sormontato da una croce (che secondo gli storici indicherebbe il luogo
che passava dai Vazzi e saliva sul Monte Stotz (o Stoze) m. 1047. TERZO TRATTO
Sopra: la Via Vacàra attraversava la contrada Bèttola di Badia Calavena. Sotto: il tratto vicino alla Croce del Guala
dove era stata posta la prima pietra per il nuovo monastero benedettino di San Cassiano, dipendente dall’abbazia dei santi Pietro, Vito e Modesto di Badia Calaveva); poi scende dolcemente, arriva al valico di San Vincenzo, noto con questo nome per la presenza di un capitello dedicato a questo santo. Fino a questo punto la Via Vacàra è praticabile con mezzi agricoli e, in qualche caso, peraltro poco affidabile, con mezzi di trasporto persone. Più avanti alcuni reperti esistenti confermano il passaggio indiscutibile della Via Vacàra, perché se ne registrano i relitti lungo i tratti che la nuova strada provinciale (Mezzane, San Mauro di Saline, Bettola di Velo), portata termine nel 1960, non ha usurpato il suo passaggio, ma lasciano molti dubbi sulla sua percorribilità con carriaggi. I resti del tracciato, infatti, fanno capire che qua e là, magari con l’aiuto di cavalli o di buoi da traino, i carri potevano anche superare certe difficoltà del suolo. Forse, per tale motivo, ci sono stati anche dei ricercatori che hanno attribuito il
nome di Via Cara al fatto che la strada serviva quasi esclusivamente al movimento dei carri per il trasporto del sale dalle dispense di Verona ai vari “comuni” cimbri della Lessinia, come legiferarono le autorità veronesi. SECONDO TRATTO
La Vacàra, subito dopo il capitello, marcia sul crinale di un dosso, il Monte Marcon (che significa “confine” - m 4849) alla sommità del quale è stato istallato un colossale ripetitore, e scende alle cave di ghiaia del Monte Tomelón, ricche di marna di cemento che furono sfruttate fino agli anni Sessanta dal cementificio di Tregnago. Ritornerà in “strada” con un “reperto”, ancora molto evidente, un po’ più a monte, andando ad allacciarsi alla provinciale che sfiora la frazione di Centro e si dirige a Bettola di Badia Calavena. Quindi si dirige verso San Valentino. San Valentino è situato a cavallo proprio della Via Vacàra, ai piedi del Monte di San Moro. I rilevatori del “Campion”, si affrettano a scrivere che: « Una via comune diretta verso le Montagne inizia ai confini di Tavernole tra i possedimenti della chiesa di San Valentino …». La Vacàra, dunque, passava (e tuttora passa) vicino alla chiesa di San Valentino, sale quindi sul monte su cui è stata edificata la pieve di San Moro (m. 821). Procede poi verso San Vitale in Arco (o meglio “in Arce”), ai confini della competenza territoriale dell’antica comunità di Moruri. Lungo questo tronco di strada si incontra la Via da Verona
Da San Mauro di Saline, nel “Campion delle strade”, si legge già comunque un avvertimento che anticipa la parte terminale della Via Vacàra. Troviamo scritto: «…Una strada comune inizia ai confini di Moruri, in contrada del Vazzo, e salendo il monte si dirige verso Velo fino alla Chiusa di Campo Silvano verso i Lessini ed è detta la Via da Verona e la Via Vaccara ». Passa per contrada Viaverde (m 1016), poi per Bèttola di Velo (m 1034) e procede a nord per Velo Veronese, Camposilvano e la Lessinia. Dopo Velo, la Vacàra diventa piuttosto indeterminata; ne rintracciamo solamente un tratto alla Chiusa, dove attualmente insiste un monumento alle vittime dell’ultima guerra. Il manoscritto dei rilevatori, infatti, recita: «Una via comune diretta verso i Lessini, inizia ai confini di Velo, presso la Chiusa, tra i beni di Matteo dalla Chiusa, e salendo si dirige ai Parpari, ai confini dei Lessini, tra i beni di Tommaso di Garonzi e di Gaspare dalla Chiusa con il maso detto Della Ba; ed è detta la Via Vaccara» Dopo Camposilvano, la Vacàra s’inerpica sulle “Montagne dei Lessini”, fino ai Pàrpari, dove esiste una stele in pietra, con nicchia vuota, indicata come la Crose dei Pàrpari. È il punto dove i rilevatori del “Campion” si sono fermati con le loro indagini e concluso la loro fatica precisando che la … Via Vacàra …tendit usque ad Parparas ad confinia Lessinorum. Par dunque di capire che i Lessini, le vere “montagne” per l’alpeggio, secondo quelle conclusioni, avevano inizio proprio ai Pàrpari. Di conseguenza, ai Pàrpari, come si è detto, si sarebbe fermata anche la Via Vacàra. L’escursionista, prima di arrivare ai Pàrpari, come un tempo, potrà ancora camminare in dorsale sul Monte Bellocca, dentro le recinzioni di lastre di Rosso Ammonitico, piantate nel suolo per limitare i danni nei terreni attigui del bestiame in transito. Il tracciato, che probabilmente non faceva parte della “Vacàra”, si chiama El stradón de la Bà; lo afferma Attilio Benetti.
Ottobre 2004
Viaggiare
Islanda, la terra dei ghiacci Il Vulvaco “Viti” (Inferno)
Per il ribollire magmatico del sottosuolo, che può cambiare la fisionomia di un territorio nel breve volgere di qualche ora, gli islandesi sono soliti dire che in questi luoghi non si è ancora giunti al mitico settimo giorno, quello del riposo di Dio di Michele Domaschio Mentre contemplavo il cielo d’Islanda – a testa in giù nell’abitacolo della mia utilitaria, appena rovesciatasi sul ciglio della stradina sterrata in direzione Kàlfhamarsvik – mi trovai a considerare un paio di cose: la prima, è che quest’isola è davvero ricca di sorprese; la seconda, è che per girarla agevolmente in lungo e in largo può
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essere opportuno dotarsi di una vettura a trazione integrale. Al di là di queste riflessioni di circostanza, la “terra dei ghiacci” merita, infatti, una visita che possa almeno consentire di cogliere i tratti salienti di un siffatto concentrato di paradossi naturali. Primo paradosso: alla faccia della forza di gravità, l’acqua si muove dal basso verso l’alto, sparata con forza inusitata contro il cielo ogni-
qualvolta i fiumi caldi sotterranei trovino un varco, un’infiltrazione che li colleghi all’acqua più fredda delle pozze di superficie. Quando tutto ciò accade si assiste al fenomeno dei geyser, che traggono il nome dalla località di Geysìr, ove si possono ammirare eruzioni di vapore alte più di 20 metri. Secondo paradosso: la cascata con la maggior portata d’Europa, Dettifoss, è alta solamente 44 metri. Tuttavia, è impressionante assistere al salto di 500 metri cubi d’ac-
qua al secondo che precipitano da un modesto fiume nell’orrida gola del canyon Asbyrgi, una delle numerose fratture di cui è costellato l’intero territorio dell’Islanda. E sempre per restare in tema di “cicatrici a cielo aperto”, ecco un’altra particolarità: all’interno del parco nazionale di Pingvellir (a pochi chilometri dalla capitale, Reykjavìk) si può scorgere nitidamente come si stia passeggiando non già su di un semplice sentiero, ma addirittura su due continenti, distanti solo pochi metri l’uno dall’altro. La frattura tra la zolla europea e quella nord-americana è così evidente, infatti, che a volte le guide ironizzano sulla necessità di portare con sé il passaporto per avere libero accesso all’intera area su cui insiste il parco. L’impressione che si coglie rimanendo anche per una breve manciata di giorni sull’isola – come emerge dai fenomeni fisici qui
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Viaggiare
Sculture di ghiaccio nella laguna di Jokulsàrlòn. In basso la cascata di Dettifoss
succintamente descritti – è quella di essere catapultati indietro nel tempo: si ritorna alla giovinezza del nostro pianeta, quando ancora il ribollire magmatico del sottosuolo poteva cambiare la fisionomia di un territorio nel breve volgere di qualche ora. È con questo spirito – un po’ fatalista, un po’ sornione – che gli islandesi sono soliti dire che dalle loro parti non si è ancora giunti al mitico settimo giorno, quello dell’agognato riposo di Dio: la creazione è tutto-
ra in fase di svolgimento, e chissà per quanto tempo ancora durerà. Testimonianze tangibili e.. annusabili di tale assunto si manifestano, ad esempio, nella regione del lago Myvatn: i vapori di zolfo che qui ammorbano l’aria scaturiscono da una serie di crateri, l’ultimo dei quali ha pensato bene di destarsi, in un turbinio di pinnacoli di fumo e colate laviche, alla metà degli anni ’90. Senza scomporsi troppo, le autorità hanno deciso di convogliare almeno una parte
di tutta questa energia nelle condotte forzate che seguono i dolci pendii circostanti, sino a confluire nel cuore di un’imponente centrale geotermica (con tanto di singolare “arco di trionfo”, formato dai suddetti tubi metallici, sotto il quale si è costretti a transitare per salire al vulcano Viti). Risulta facile comprendere, di fronte a tanto spiegamento di forze della natura, come abbia potuto attecchire in questi luoghi una copiosa messe di leggende, saghe e miti di qualsivoglia genere. Ogni islandese che si rispetti conosce a menadito, ad esempio, le complicate vicende della Njàls Saga, una sorta di Beautiful in salsa vichinga. I bambini, invece, preferiscono di gran lunga le fiabe legate alle festività di fine anno, come quella dei “monelli di Natale”: si tratta di tredici personaggi che si presentano, uno al giorno, dal 12 dicembre sino alla vigilia della Natività, combinando ogni sorta di dispetto nelle case delle famiglie islandesi. Poi, in ordine inverso rispetto alla loro venuta, se ne tornano sui monti, donde provengono. Questo “controesodo” si conclude così il 6 gennaio, giorno in cui si accendono grandi fuochi per festeggiare la dipartita dei folletti burloni e
per tenere al contempo lontana la loro matrigna, la crudele Grilla. Un ottimo sistema, non c’è che dire, per prolungare la magica atmosfera natalizia (e per ricevere dolciumi e regalini ininterrottamente per ben 26 giorni consecutivi!). Accanto a queste, che sono le principali narrazioni epiche, si affiancano poi miriadi di storie minori, legate a singole regioni o sperdute contrade. Come quella che racconta di Naddi, il bisbetico mostro che – appostato sul costone di un’erta pressoché invalicabile – scruta minaccioso l’unico, accidentato percorso che conduce ad un piccolo villaggio di pescatori, adagiato su un fiordo della costa orientale. Poco incline a familiarizzare con i forestieri, Naddi compare d’improvviso dopo un dosso o una curva, a volte sotto le sembianze di un’innocua pecora, sfruttando la penombra della sera o i riflessi abbacinanti del meriggio: così facendo, egli causa la rovinosa uscita di strada dei malcapitati viandanti, i quali si ritrovano, loro malgrado, un po’ acciaccati e privi di mezzi per proseguire il cammino. Ma queste, si sa, sono solo leggende…
Musica, cinema, letteratura Uno dei misteri d’Islanda è la comparsa di un fenomeno musicale come Björk, specialmente se si considera la paccottiglia proposta dalle radio locali: a parte il rock di di Radio Reykjavìk, le altre emittenti deliziano gli ascoltatori con il Brit-pop più commerciale (Duran Duran, Wham e company), oppure sciorinano classici evergreen tradotti in islandese (imperdibile la colonna sonora di Flashdance nella lingua locale). Tornando a Björk, la cantante islandese – dopo l’esordio con Gling-Glo nel 1990, l’exploit con l’album Debut del ’93 e la definitiva consacrazione con Homogenic – ha trovato pure il tempo di dedicarsi al cinema: per non smentire il proprio talento, l’interpretazione d’esordio in Dancer in the dark di Lars von Trier (2000) le è valsa la Palma d’Oro al Festival di Cannes. La cinematografia islandese, peraltro, ha raggiunto raramente la ribalta internazionale: recentemente, il film 101 Reykjavìk di Baltasar Kormàkur è riuscito – non si sa bene come – a intrufolarsi nella programmazione di qualche circolo d’essai del Vecchio Continente.
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La pellicola è tratta dal libro omonimo di Hellgrìmur Helgason (pubblicato in Italia da Guanda nel 1996), ove si narrano le vicende di Hlinur, trentenne che vive ancora con la madre divorziata e che trascorre gran parte del giorno navigando su internet alla ricerca di siti pornografici o vegetando davanti alla televisione. Abbondano nel libro le descrizioni delle serate passate con i due inseparabili amici alla ricerca di qualche avventura sentimentale e di nuove sbronze nei locali notturni che si trovano nel centro storico di Reykjavik (città con codice di avviamento postale 101, da cui il titolo del romanzo). L’introspezione psicologica e il tema del difficile ritorno nei luoghi d’origine costituisce, invece, la cifra narrativa dell’islandese Olaf Olafsson, ex dirigente della Sony ora prestato alla letteratura. I primi due romanzi di questo autore (The Journey Home e Walking into The Night) sono stati tradotti in italiano con i titoli Il viaggio di ritorno e Una passeggiata nella notte (entrambi usciti per i tipi di Corbaccio). Il terzo lavoro di Olafsson, Absolution, arriverà tra qualche mese nelle librerie del nostro paese.
Ottobre 2004
Libri MEDITAZIONE
La via dello Zen Un viaggio che avvicina alla radice dell’essere, alla realtà ultima che è senza determinazioni. Rendere relativo il nostro ego per scoprire cosa c’è oltre
«Tenete le mani aperte, tutta la sabbia del deserto passerà nelle vostre mani. Chiudete le mani, non otterrete che qualche granello di sabbia». Dogen (Kyoto 1200-1253) fondatore Soto Zen
A cura di Thoma Cleary Wumenguan. I precetti segreti dei Koan zen Oscar Mondadori pp. 220, euro 6,80 Tsai Chih Chung Dice lo Zen Univ. Economica Feltrinelli pp. 169, euro 7,75
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di Claudio Parmelli Sensazioni di calma, di serenità, di coscienza di sé: in una parola, Zen. Da qualche anno lo Zen conosce in Occidente un seguito senza precedenti. Perché? Lo Zen è un metodo semplice e diretto, che aiuta a ritrovare la tranquillità interiore. Una pratica in cui le attività del quotidiano rivestono la stessa importanza dei grandi progetti professionali. Lo scopo dello Zen non è di capire in modo intellettuale come funziona il mondo o di conoscere meglio la propria personalità, ma di essere coscienti di ciò che si è veramente. È ciò che viene definito kensho, ovvero “risveglio”. «Imparare a conoscersi è dimenticare se stessi. Dimenticare se stessi è essere illuminati da tutto ciò che si trova nell’universo», scriveva il monaco Dogen. Il viaggio verso il vero sé passa quindi attraverso la cancellazione dell’ego e il distacco dalle proprie emozioni. Questo principio è così universale che uno dei pionieri della psicologia occidentale, Roberto Assagioli (1888-1974), fondatore della Psicosintesi, ha a lungo insistito sul concetto di “disidentificazione”: per trovare se stessi è necessario eliminare tutte le “identificazioni parziali” che ci impediscono di avere piena coscienza di noi stessi. Per esempio, certe persone si identificano nel proprio corpo, lasciandosi obnubilare dai propri muscoli, dalla propria apparenza; altre invece si identificano nel lavoro fino a non essere più in grado di dissociare la
vita privata da quella professionale; altre ancora nella loro funzione psicologica o nelle loro emozioni, recitando la parte dell’intellettuale, del depresso e via di seguito. Per “disidentificarsi” bisogna osservare se stessi, distinguendo ciò che si ha da ciò che si è. Questo è Zen. Noi siamo nati, viviamo e moriremo. Nel frattempo ci sforziamo di ottenere ciò che desideriamo e di fuggire ciò che temiamo, senza riuscirci sempre. Esiste una via di liberazione e di realizzazione di sé che non ci rinchiuda in un nuovo sistema di pensieri e credenze? Lo Zen fornisce queste risposte conducendo all’abbandono dell’ego. Il che non significa perderlo ma renderlo relativo, non dipendere più da un eccessivo attaccamento al nostro io che vorremmo eternamente al centro del mondo. Perché rinunciare a questo attaccamento? Perché esso si fonda su un’illusione che diviene volontà ossessiva di negare la realtà: ovvero che nulla di ciò che mi costituisce, mi appartiene propriamente. Si tratta di elementi provenienti dall’universo che per un tempo determinato si uniscono trasformandosi in continuazione. La meditazione Zen ha lo scopo di portare alla radice dell’essere, alla realtà ultima che è senza determinazioni. Ma come si può raggiungere questo scopo? Secondo lo Zen abolendo il pensiero concettuale e logico e affidandosi all’intuizione, frutto di un’esperienza interiore personale. Per abolire il pensiero razionale ci sono tre mezzi: shikantaza, che significa “stare quietamente seduti
senza fare nulla”. Non compiere alcuno sforzo per bloccare i pensieri, che inevitabilmente vanno e vengono, ma lasciare che la mente si calmi e poi si fermi da sola. Bisogna essere coscienti però che un pensiero, per quanto positivo è sempre rivolto al passato, al presente o al futuro: quindi sempre separato dalla realtà. Un pensiero pensa la realtà, non la vive. Il secondo mezzo è la concentrazione sulla respirazione, facendo attenzione quando si inspira, soltanto all’inspirazione e, quando si espira, solamente all’espirazione. Con questo metodo si elimina ogni altra preoccupazione e si raggiunge la pace interiore. Il terzo mezzo, il più conosciuto e documentato, è l’uso del koan. Si tratta di un aneddoto (ne esistono più di 1700 tradizionali) che non ha un senso logico, oppure una domanda a cui non si può rispondere in maniera sensata. Un esempio: «in un battito di mani, qual è il suono di una sola mano?». Lo scopo di questa domanda è quello di umiliare la ragione e di mostrarne l’impotenza così da costringerci ad abbandonare il nostro flusso di pensieri, liberare la coscienza da pregiudizi e renderla quindi pronta a una nuova visione della realtà. Ma questo non è rifuggire dalla realtà e dalle proprie responsabilità? Assolutamente no. Avere una nuova visione della realtà significa spogliarsi dai propri egoismi e falsi obbiettivi per poter raggiungere il centro del proprio essere, ricordando sempre che la verità si trova laddove non esistono né centro né circonferenza.
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Libri Enrico Pieruccini Corrusco. Un guastafeste DOCG in una città di provincia negli anni 80 Greco&Greco pp. 316, euro 12 C’è di tutto e di più, insomma c’è da perdersi. Ma probabilmente è proprio questo il motivo per cui Enrico Pieruccini ha scritto questo libro. Forse non siete eruditi e pensate che vi state perdendo la parte migliore tra una citazione e l’altra di libri mai letti, ma non è così. Tra il groviglio di personaggi, fatti ordinari e straordinari, rimandi a storici film, a soap opera, quiz televisivi anni Ottanta, rebus e anagrammi mescolati a discorsi da bar più o meno spinti, ne esce una figura particolare: Corrusco, un individuo che come Virgilio per Dante conduce il lettore tra le spire di un intreccio senza capo né coda. Ma è proprio questo il bello del libro: lasciarsi trasportare da un capitolo all’altro trovando il senso del primo in quello successivo. C’è qualcosa di geniale che si cela in un mix di goffo atteggiamento alla “Paperino” o di innocente schiettezza da “scemo del villaggio”, qualche cosa che getta sprazzi di luce così da poter vedere chiaro tra i pensieri. Tutto ciò è racchiuso in Corrusco, questo buffo ometto che l’autore definisce “Un guastafeste Docg in una città di provincia degli anni Ottanta”. Una città che somiglia tanto a Verona ma che ha tratti familiari a diverse province toscane o emiliane. C’è n’è per tutti i gusti: in alcuni nomi e circostanze è possibile riconoscersi, e godersi come un sorso di frizzante allegria il manoscritto di Pieruccini.
ROMANZO
Corrusco: incorreggibile guastafeste C’è qualcosa di geniale (e di folle) nelle goffe situazioni del personaggio di Pieruccini. Tutto si potrà dire di questo libro ma non certo che manca di originalità
Alcuni esempi per capire le finezze del libro. Tra il ridicolo e l’ironico si rischia di rimanere di sasso quando nel bel mezzo di una digressione storico-letteraria su Conan Doyle tra due improvvisanti astanti dell’osteria Saliunca, che per un gioco di pa-
Brevi note sull’autore Enrico Pieruccini (Pitigliano, 2 agosto 1953) avrebbe voluto fare il biologo, invece si è ritrovato a fare il critico di teatro e danza, e l’addetto stampa di vari festival. Dopo Sillabario (1995) e Un curiosone al telelefono (1996), entrambi per Colpo di fulmine edizioni, è al suo primo romanzo, terminato nel 1990 e rimasto nel cassetto per tredici anni. Pieruccini scrive di letteratura sul sito www.eseresi.it
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role sembrano essere due cani da esposizione piuttosto che due persone in carne e ossa, si passa alla definizione chimico-molecolare della scoreggia, con tanto di disegnino nel più classico degli stili didattici. Traumatico è seguire il flusso di discorsi, all’intervallo teatrale di un balletto, per poi sprofondare nella parafrasi di un Rinoceronte di Ionesco sponsorizzato dalla Lines, trasformato per esigenze di marketing nel famoso ippopotamo, che scorrazza beato per la città fino a raggiungere l’anfiteatro. Lo spettacolo, i cui protagonisti celano in anagramma nomi famosi come Sandra Milo e Maurizio Costanzo sotto gli alias di Sandra Olmi e Mauro Castionizzo, si trasforma in un vero e proprio evento da stadio con relative scazzottate. Quando Corrusco non è testimone di fatti bizzarri, si rende protagonista di scherzi e burle d’ogni genere. Sembra che non sia felice senza complicarsi la vita e finire, come minimo, per farci una figuraccia. Girando per la città in bicicletta con un cartellino di plastica infilato tra i raggi della ruota, per farsi sentire così dagli automobilisti, egli diventa il precursore di una moda da ciclisti. Oppure getta nel panico i negozianti del centro quando lancia l’idea, subito copiata dai
concittadini e dai turisti, di pulirsi le scarpe imbrattate da un escremento canino, sui tappeti degli esercenti fingendo, naturalmente, di guardare le vetrine. Agli scherzi telefonici si aggiungono quelli “ufici”, quelli cioè che fingono arrivi improvvisi di extraterrestri. Corrusco riesce infatti a mandare all’aria la rappresentazione del Malato Immaginario, non casualmente patrocinata dall’Usl, inscenando un finto disco volante e inducendo il sindaco e il vescovo a organizzarsi per dare il benvenuto al fantomatico ET. Il Pieruccini/Corrusco, autoironico e cervellotico, prende per il naso i potenti della città e si fa gioco delle loro ipocrisie: dal sindaco ai vari amministratori, passando per l’addetto stampa comunale e al giornalista della “Gazzetta” locale. Il tutto condito con anagrammi, rebus, palindromi, cifrari omofonici e, per concludere, un perfetto cruciverba… ma non ci provate a farla a Corrusco: riuscirete a compilarlo solo se avrete letto il libro! G. C.
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N° 4/ottobre 2004 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.
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