Verona In 06/2005

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6 - MARZO 2005 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA



Primo piano

Un concerto per i non udenti

In copertina foto di Francesco Passarella

Il maestro Nicola Guerini

Martedi 10 Maggio al Teatro Filarmonico il primo progetto al mondo che coinvolge la dimensione dei suoni con quella dei non udenti. È stata invitata l’Orchestra Filarmonica Rumena, di Targu Mures, che sarà guidata dal giovane direttore Nicola Guerini

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Martedi 10 Maggio, alle 21 al teatro Filarmonico, Verona sarà il centro di un’operazione culturale di un evento musicale promosso dalla Fondazione Giorgio Zanotto in collaborazione con l’Associazione veronese “Progetti Felicità” che si occupa delle problematiche del mondo dell’infanzia, con particolare riguardo alla dimensione culturale e sociale della sordità. La serata rappresenta il primo progetto al mondo che coinvolge la dimensione dei suoni con quella dei non udenti, attraverso un percorso curato dalla dott.ssa Antonella Paternò Rana, per un lavoro percettivo delle vibrazioni del suono sul corpo. L’obiettivo di questa operazione è la sensibilizzazione del pubblico attraverso uno strumento universale di comunicazione come la musica nei confronti delle problematiche di un mondo che, se non può sentire i suoni, è comunque in grado di percepire la gestualità e le sensazioni che possono essere trasmesse attraverso la lingua dei segni. A questo scopo è stata invitata la prestigiosa Orchestra Filarmonica rumena, di Targu Mures, guidata dal giovane direttore Nicola Guerini in un programma interamente dedicato a Ludwig Van Beethoven. La scelta del compositore tedesco è esplicitamente legata alla sordità che colpì lo stesso artista. «Durante tutta la sua vita – spiega Guerini – Beethoven si fece visitare da numerosi medici nella speranza di trovare rimedio ai suoi problemi di salute e in particolare alle sue noie uditive che, malgrado i trattamenti, si evolsero verso una sordità profonda». Il compositore, spiega il direttore, ebbe frequenti ragioni di disaccordo e discordia con parecchi medici sino al punto che alcuni di loro si rifiutarono di prestargli le cure richieste. «Però non tutti

sanno – aggiunge Guerini – che ad alcuni dottori dedicò anche bellissime pagine come nel caso del Trio per piano, violino e violoncello, dedicato a Johann Adam Schmidt, della piccola cantata “Un lieto brindisi” composta per il compleanno di Giovanni Malfatti di Monte Reggio e dei due Canoni: “Doktor speert das Tor” e “Ich war Hier, Doktor” in onore ad Anton Braunhoffer. Il progressivo peggioramento, fino alla totale sordità, influenzò fortemente il processo creativo-spirituale di Beethoven trasformandolo in un panteistico atto d’amore» sostiene il musicista. La grande sfida del progetto che andrà in scena il 10 maggio è quello di affiancare all’Orchestra Filarmonica di Targu-Mures un gruppo di persone esperte nella lingua dei segni che possano comunicare ai non udenti le vibrazioni dei suoni di alcune pagine immortali della storia della musica. Questi traduttori silenziosi prenderanno posto nella buca dell’orchestra a voler significare la loro reale collocazione con gli strumenti musicali. Il concerto sarà però il culmine di una serie di incontri in cui i musicisti spiegheranno alle persone affette da sordità la partitura musicale trasmettendo, anche con l’uso della tecnologia, le vibrazioni dei brani scelti per il concerto. Inoltre, questi particolari astanti potranno mettere su carta le oscillazioni percepite trasformando un’arte sonora in una visiva che avrà spazio, la sera del concerto, al foyer del teatro Filarmonico. Naturalmente un’iniziativa tanto originale quanto lodevole non poteva che avere anche uno scopo benefico: il ricavato della vendita dei biglietti sarà infatti completamente devoluto a favore dell’Associazione Progetti Felicità e destinato a proposte tese a favorire,

con il linguaggio dei segni, l’integrazione tra il mondo dei suoni e quello del silenzio. E in questo ardito compito fa il suo appropriato ingresso Beethoven la cui musica rappresenta il superamento di quella che talvolta può sembrare un’invalicabile barriera. Guerini, che oltre ad essere un giovane e apprezzato direttore d’orchestra è anche un fine conoscitore della storia della musica, spiega che l’artista tedesco cercò in tutti i modi di tenere nascosto il suo problema uditivo ma infine, all’età di 31 anni, si confidò all’amico medico Franz Gerhard Wegeler scrivendo: «Devo confessarti che conduco una vita infelice. Sono almeno due anni che evito qualsiasi compagnia, perché non posso dire alla gente che sono sordo. E se i miei nemici, che non sono pochi, venissero a saperlo… A teatro, per sentire gli attori devo mettermi accanto all’orchestra, altrimenti non odo le note acute degli strumenti e delle voci… Posso udire i toni di una conversazione, ma non le parole». Negli anni successivi le condizioni peggiorarono drammaticamente e nel 1822, alla prova generale del “Fidelio”, apparve chiaro sin dal duetto del primo atto che egli non sentiva assolutamente nulla di ciò che si cantava sulla scena e del fatto che ciascun cantante andava per proprio conto creando una confusione generale. Fu per Beethoven un momento di assoluto dolore e smarrimento comprendere, dall’amico e biografo Schindler, la realtà dei fatti ma ciò non fermò la caparbietà creativa del genio della musica. Nel maggio 1824, al termine di un concerto, una cantante dovette prenderlo per le spalle e voltarlo verso il pubblico perché si rendesse conto che l’intero teatro lo stava applaudendo freneticamente.

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Cultura EDITORIA

Alla Fiera di Torino i sogni diventano libri I riflettori saranno puntati sull’utopia “compatibile”, su progetti arditi ma realizzabili, in un’epoca che sembra aver rinunciato a pensare in grande

Un messaggio in controtendenza perché oggi il sogno è spesso utilizzato per sollecitare i desideri dei consumatori rimuovendo ogni realtà sgradevole: una sorta di droga a buon mercato che non si nega a nessuno

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di Giorgia Cozzolino Se il sogno è “l’infinita ombra del vero”, come sosteneva Pascoli, la verità trionferà quest’anno a Torino, nell’annuale Fiera del libro (al Lingotto dal 5 al 9 maggio) dove il miraggio onirico sarà il motivo conduttore dell’esposizione. Prosegue infatti sul filone delle peculiarità umane la fiera piemontese che, dopo aver proposto l’ironia come tema centrale dell’edizione 2004, apre quest’anno i battenti sotto l’egida del sogno, quell’attività psichica che porta alla luce le elaborazioni profonde dell’inconscio e che, sin dall’antichità, è stata oggetto di un intenso fervore interpretativo.

La Fiera del libro non si limiterà a riconsiderare la centralità del sogno nelle culture di ogni tempo e paese, o lo scandaglio psicoanalitico che ha gettato luce nelle profondità dell’inconscio. Al centro del cartellone sarà il sogno come tensione progettuale, forte spinta verso obiettivi che il senso comune giudica difficili o impossibili, ricordando però che tutta la storia dell’umanità è segnata dal superamento, da parte dei cosiddetti sognatori, di quei limiti che si ritenevano invalicabili. Al Lingotto l’attenzione cadrà infatti sul momento dell’immaginazione, della fantasia intesa come invenzione capace di darsi una grammatica rigorosa. Riflettori puntati dunque sull’utopia “compatibile”, su progetti arditi ma realizzabili, sulle sfide e sulle scommesse, in un’epoca che sembra aver rinunciato a pensare in grande. Concentrando l’attenzione sulla tensione progettuale, si dipanerà un’accurata ricognizione della realtà contemporanea per accogliere voci e proposte autenticamente innovative. Sull’onda dell’esortazione del Caligola di Albert Camus “Siate realisti, chiedete l’impossibile”, la fiera di Torino invita quindi i protagonisti della cultura contemporanea, scrittori, filosofi, artisti, scienziati, architetti, musicisti, medici, imprenditori a parlare dei propri sogni, delle sfide che si sono imposti e delle avventure creative che ne sono scaturite.

Ma se Edgar Allan Poe sosteneva che “Chi sogna di giorno conosce cose che sfuggono a chi sogna solo di notte”, enfatizzando così le potenzialità dei visionari e dei sognatori, spesso emarginati e ridicolizzati dalle società di ogni epoca, bisogna considerare che anche il sogno notturno, quello che invade il nostro sonno regalando una sorta di vita parallela, ha un dignitoso seguito nel corso della storia. Fin dalle più lontane civiltà al sogno sono state attribuite proprietà divinatorie come premonizioni, profezie e rivelazioni, talvolta legate all’esperienza mistica. Il bisogno di attribuire un significato al sogno è documentato addirittura nelle scritture cuneiformi, risalenti a 1500 anni prima di Cristo, e non c’è cultura al mondo che non abbia collegato tale capacità interpretativa alla regalità e al potere. Nel territorio brumoso dell’Ade, o aldilà che dir si voglia, c’è posto per un Paese dei sogni, figli della Notte, potenza tenebrosa più antica degli dèi olimpici. Il sogno assume invece una valenza terapeutica nei santuari greci: il paziente si purifica alle fonti sacre e aspetta il sonno guaritore in apposite stanze dette di incubazione. Il dio visita l’ammalato e in sogno lo cura come ci testimoniano tante iscrizioni votive. Artemidoro, scrittore di Efeso del secondo secolo dopo Cristo, è il primo a organizzare, e addirittura a rendere sistematico, un repertorio simbolico basato su ben tremila

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Cultura

sogni. Il legame tra immagine onirica e salute si prolunga nel Medioevo cristiano, come narrano molti episodi della Leggenda aurea, un antico scritto dell’undicesimo secolo dell’arcivescovo domenicano Jacopo da Varazze, mentre la grande pittura del Rinascimento utilizza con frequenza il sogno nel prediletto ambito simbolico. A partire da Freud il sogno si rivela come un paesaggio interiore e un viaggio verso l’ignoto e il misterioso, uno strumento di rilevazione dell’interiorità che ci introduce a una realtà diversa da quella ordinaria dalla quale trae però linfa. I sogni dimostrano una potenza destabilizzante, perturbante, che tuttavia ci aiuta a capire meglio noi stessi, e, dopo aver alimentato nei secoli letteratura e pittura, trovano la loro consacrazione figurativa nelle libere associazioni del Surrealismo. Nel Novecento il linguaggio che descrive il sogno si preoccupa sempre meno di sopprimere gli elementi incongrui, anzi li accoglie

Con Freud il sogno si rivela come un viaggio verso l’ignoto, uno strumento di rilevazione dell’interiorità che ci introduce a una realtà diversa da quella ordinaria dalla quale trae però linfa come distintivi, segni di autenticità e originalità. Il sogno diventa un ponte tra cielo e terra, presente e passato, razionale e irrazionale, realtà e illusione, conscio e inconscio. Oggi il sogno è frequentemente utilizzato per sollecitare fantasticherie e desideri di persone, o consumatori, che tendono a rimuovere realtà sgradevoli: una sorta di droga a buon mercato, che non si nega a nessuno. Perché, come sosteneva Giacomo Leopardi, “Il più solido piacere di questa vita, è il pia-

cere vano delle illusioni” e se il sogno non è elevazione ma solo evasione, rovinare nella delusione ne è la tragica conseguenza. E a proposito di sogni, talvolta qualcuno trova sbocco anche nella realtà: è il caso della prestigiosa designazione da parte dell’Unesco che riconosce Torino come capitale mondiale del libro dall’aprile 2006 allo stesso mese del 2007. Una nomina importante che prima d’ora è toccata solo ad Alessandria d’Egitto, Madrid, Nuova Dehli, Anversa e Montreal. Il premio non si riferisce soltanto a una città che vanta una tradizione d’eccellenza delle sue strutture culturali, e che da quasi vent’anni ospita una Fiera del libro tra le più importanti manifestazioni europee del settore, ma riconosce l’originalità di un progetto che ha come tema conduttore i “segni della scrittura”. L’idea, nata dalla partnership Torino - Roma, si basa sulla realizzazione di alcuni eventi e su progetti originali che stanno già riscuoten-

Appuntamento a Bologna dal 13 al 16 aprile La Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna è l’appuntamento più importante a livello internazionale dedicato all’editoria libraria e multimediale per i più giovani e anche quest’anno apre i battenti con la 42° edizione, dal 13 al 16 aprile 2005. Qui sarà possibile trovare il meglio della produzione editoriale e multimediale per ragazzi, creare nuovi contatti e anche scoprire opportunità di business oltre a tastare il polso delle ultime tendenze del settore. E per il terzo anno consecutivo, il quartiere fieristico ospita, all’incirca nello stesso periodo, dal 14 al 17

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aprile, Docet: la maggiore esposizione dedicata alle idee e ai materiali per la didattica, un evento unico nel panorama fieristico nazionale, momento di incontro fra i produttori e gli operatori del settore e di dibattito sull’infanzia e sui giovani adulti. Fin dalla prima edizione la manifestazione si è connotata come luogo di dibattito per le grandi tematiche della scuola, attivando interessanti momenti di confronto sui temi pedagogici. Non solo esposizione dunque, ma piattaforma di discussione sulle problematiche dell’infanzia e dei giovani adulti in ambito scolastico e sociale.

do un forte coinvolgimento di pubblico, come il Festival delle letterature. Insieme alla capitale, Torino sta infatti investendo in misura significativa nella lettura come momento essenziale dell’apprendimento e della formazione dei cittadini, appoggiando pienamente la politica dell’UNESCO per la promozione del libro e lo sviluppo dell’industria culturale: strumento strategico in grado di interagire con altre realtà, in particolare con i paesi in via di sviluppo. I “segni della scrittura” riassumeranno un intero anno di eventi, incontri, convegni, dibattiti, letture, momenti di spettacolo: una festa mobile che coinvolgerà autori ed editori, librerie, biblioteche, associazioni e protagonisti della cultura mondiale in un scambio continuo di linguaggi e di esperienze, dalla letteratura all’arte, dalla scienza alla musica. In tal modo anche le Olimpiadi della Cultura, che accompagneranno i giochi invernali di Torino 2006, troveranno uno sviluppo di ampio respiro. E per Roma sarà un’ulteriore straordinaria occasione per promuovere il suo eccellente patrimonio culturale. Tra i progetti, la costruzione di un network internazionale di città del libro, che da Buenos Aires ad Addis Abeba, da Amsterdam a Washington, da Dehli a Kigali, da Parigi a Toronto fino a Dakar, stabiliranno con Torino e Roma iniziative di collaborazione e scambi come strumento di pace e di sviluppo nella ricorrenza del giorno natale di William Shakespeare, il 23 aprile di ogni anno.


Cultura STORIA

Verona 600 anni fa passava ai veneziani L’anniversario della dedizione cade il 23 giugno. Quel giorno in Piazza delle Erbe la Serenissima cambiò la storia della città, ma per il popolo fu ancora la fame

di Maria Pia Cottini In piazza delle Erbe un gruppo di turisti sta osservando la fontana di Madonna Verona, alle sue spalle il leone alato e poco più in là Palazzo Maffei. Sono questi alcuni tra i numerosi segni presenti in città di una storia antica che ha conosciuto periodi splendidi di espansione, ricchezza e stabilità alternati a guerre, carestie e pestilenze: il governo della Serenissima Repubblica. Quel leone è infatti il simbolo del dominio veneziano che qui ha avuto inizio il 23 giugno 1405, giusto 600 anni fa. È il 1387 quando Gian Galeazzo Visconti corona il sogno della sua famiglia conquistando Verona. La signoria milanese, nonostante i vari tentativi di insurrezione sostenuti dai Carraresi di Padova per riportare gli Scaligeri al potere, si concluderà soltanto dopo la morte improvvisa di Gian Galeazzo, nel 1402. Vista la debolezza dei Visconti, i da Carrara approfittano per prendere la città: il 22 maggio 1404 Francesco da Carrara si fa proclamare Signore di Verona. Scoppiano poi ostilità tra Venezia e i signori di Padova. Quindi i veronesi, stremati dalla fame e minacciati dalle epidemie, acclamano Capitano del Popolo Pietro da Sacco, che tratta con i da Carrara. Le truppe veneziane, appostate nei pressi di Montorio e pronte ad occupare la città, pongono fine al dominio dei da

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Le truppe veneziane, appostate nei pressi di Montorio e pronte a occupare la città, pongono fine al dominio dei da Carrara . A Verona non resta che accettare di passare alla Serenissima Carrara e a Verona non resta che accettare di passare alla Serenissima. Una delegazione si reca da Gabriele Emo, provveditore dell’esercito veneziano, per fissare le condizioni della resa, le stesse che saranno suggellate a Venezia. È il 22 giugno 1405. Il giorno successivo ha come sfondo della scena Piazza delle Erbe. Qui, al Capitello del Foro, con le campane di tutte le chiese che suonano, Gabriele Emo riceve i simboli del comando della città. Più fastosa e solenne è la

cerimonia che si svolge a Venezia, il 12 luglio, in cui la Serenissima festeggia la nuova conquista. La delegazione veronese consegna le chiavi della città e riceve in cambio le bolle d’oro contenenti i trattati e i privilegi, dove si assicura il possesso dei beni, si garantisce che non saranno imposte tasse eccedenti, se non per motivi eccezionali, con l’impegno a mantenere in vigore gli statuti della città e della casa dei mercanti. Inoltre si attesta che tutte le cariche saranno affidate a cittadini veronesi, tranne quella di podestà, di capitano e degli uffici della sicurezza e della difesa militare. Quanto agli incarichi ecclesiastici, che Verona vorrebbe come appannaggio dei suoi cittadini, saranno per lo più affidati a esponenti delle famiglie veneziane. È

chiaro che per quanto Venezia garantisca un potere stabile e duraturo, Verona perde per sempre la sua indipendenza. Ma vediamo per quali ragioni la città lagunare entra in lizza con i carraresi, mirando a conquistare la più occidentale delle città venete e che cosa concretamente comporta per Verona e la sua popolazione il dominio veneziano. Torniamo perciò al leone alato: le zampe sono due in acqua e due in terra a significare la natura anfibia delle sue componenti: città sul mare, isole e porti, ma anche la terraferma da cui la Serenissima si approvvigiona di cereali e legname. Inoltre Venezia ha bisogno di estendersi sul continente per prevenire il formarsi di un forte stato regionale alle sue spalle, ma anche per controllare le vie commerciali e garantirsi così degli empori oltralpe. Nei primi tempi dopo la resa i proventi di Verona sono importanti per la ripresa economica di una Venezia reduce e ancora impegnata in numerosi conflitti, ma le guerre successive e i disastri naturali accrescono le difficoltà di gestione. Tutto ciò, unito alla disonestà degli stessi amministratori veronesi che speculano sui proventi delle esazioni fiscali, esaurisce le entrate provenienti dalle tasse che vengono rese sempre più pesanti e impossibili da sostenere. “Nemo civis dare potest quod non habet” è la negativa risposta

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Cultura che, nel 1411, il Consiglio cittadino invia a Venezia, di fronte a una richiesta di tremila ducati. Mai Verona aveva subito una pressione fiscale tanto superiore alle sue forze, in anni durissimi di carestia segnati anche da ondate di recrudescenza della peste che, appena nel secolo precedente, aveva decimato la popolazione di mezza Europa. Nonostante il sommarsi di tante difficoltà, nel corso del Quattrocento la popolazione veronese cresce, passando dai 14 mila abitanti del 1420 (valore molto ridimensionato rispetto ai primi del Trecento, a causa della peste) ai 42 mila del 1502. Parallelamente alla crescita demografica si registra anche un aumento di ricchezza per le classi più agiate, che si può senz’altro accre-

“Nemo civis dare potest quod non habet” è la negativa risposta che nel 1411 il Consiglio cittadino invia aVenezia di fronte a una richiesta di tremila ducati un vero e proprio cambiamento; semplicemente viene riconosciuta in forma legale una situazione già di fatto esistente: il 31 luglio, subito dopo la resa, il comune di Verona decide di sostituire il Consiglio Maggiore, composto da 500 persone, con un Consiglio di cinquanta membri, eletti semestralmente da un Consiglio dei XII, conferendo in questo modo al governo della città una chiara

La vitalità della borghesia scaligera è spenta dall’esosità di Venezia che impone pesanti dazi di uscita sui manufatti, proibendo anche l’esportazione di seta grezza. La conseguenza di tale politica fiscale è il contrabbando. Nella foto: Bocca di leone in via Dante per le denunce segrete nei confronti dei contrabbandieri della seta e dei bachi, per i quali era prevista la pena capitale

ditare a una maggiore stabilità politica, ma anche a una aumentata libertà di mercato con Venezia e con altre zone della Serenissima. Per la gente comune la vita invece non è facile: fra il 1400 e il 1509 si registrano altre riprese di pestilenza, terremoti, nuovi episodi di guerra, due inondazioni dell’Adige, inverni freddissimi che provocano la morte di olivi e viti e, come se non bastasse, nel 1477, le locuste divorano le coltivazioni. Quanto alla vita politica, Verona sotto il dominio della Serenissima viene sottoposta al controllo di due patrizi veneziani: il Podestà e il Capitano. Inoltre vengono introdotti dei cambiamenti costituzionali, i quali però sembrano una scelta autonoma veronese indipendente dell’influenza veneziana. Non si tratta nemmeno di

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impronta aristocratica. Nel corso del Quattrocento i nobili veronesi, come l’aristocrazia veneziana, cominciano a investire il proprio denaro acquistando terre creando così un rapporto molto stretto tra città e territorio. Il signorotto, invogliato a rendere più produttiva la propria azienda, bonifica, disbosca, introduce nuove colture, rinnova i sistemi per lavorare la terra. Nell’arco di un periodo non troppo lungo il paesaggio agrario si trasforma, non senza conseguenze sull’economia. L’attività laniera, tanto fiorente a Verona fino alla prima metà del XVI secolo, comincia a entrare in crisi anche a causa della diminuzione dei pascoli ovini che saranno piano piano sostituiti dalla lavorazione della seta che richiede la coltivazione del gelso.

In un documento del 1612 Girolamo Corner scrive che in quegli anni sono circa 25 mila le persone che a Verona si sedicano alla bachicoltura, soprattutto donne di ogni ceto sociale. Si assiste a un miglioramento della resa della terra e degli interessi del suo proprietario. L’élite cittadina sfrutta in questo periodo l’opportunità di acquistare le fattorie appartenute agli Scaligeri, ai Visconti e ai da Carrara che Venezia ha messo in vendita e vengono fissate nuove norme che regolano l’amministrazione delle campagne. Tali regole, però, sono spesso svantaggiose per i contadini che versano ancora in condizioni molto grame di sfruttamento, affamati, penalizzati da questo fenomeno di “rifeudalizzazione”: lavorano in condizioni molto precarie, spesso trattati come schiavi da quei nobili per i quali la campagna è solo un investimento da cui trarre profitti e il luogo in cui ritirarsi per trascorrere piacevolmente il tempo. Per consentire una certa libertà di mercato ai produttori, la Dominante ad un certo punto evita di imporre il prezzo dei cereali, a scapito dei ceti più umili che si nutrono quasi esclusivamente di cereali poveri, i “menudi” (segala e miglio) con cui impastano il pane. Per fronteggiare la fame Venezia emana alcune norme protezionistiche sulle derrate alimentari di prima necessità. Ma pure nel Quattrocento valeva la regola “fatta la legge, trovato l’inganno”: oltre a lamentare la sterilità delle terre, i proprietari ricorrono al contrabbando lungo l’Adige, sul lago di Garda e attraverso i sentieri montani verso il Tirolo. I cereali eccedenti, che si dovrebbero consegnare in città, prendono così altre strade e i funzionari addetti al controllo molto spesso si lasciano corrompere. Il quadro che riguarda la gran parte della popolazione continua quindi a non essere roseo, e non è destinato a migliorare nemmeno nel secolo successivo, quando Verona tenterà di limitare o di bloccare le richieste di cereali da parte di Venezia. La fame resterà una costante per la povera gente, unita alla malattia che, quella sì, non guarda in faccia nessuno.

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Cultura

COSTUME

In crescita l’interesse per le danze popolari Il valzer e la mazurca sono solo due balli, nemmeno i più gettonati, tra i tanti noti a questi ballerini di polka, manfrina, soti, furlana, sette passi, bourrè…

I danzatori si ritrovano la sera in palestra come si fa per una qualsiasi attività fisica. I maestri sono dei volontari interessati alla cultura popolare, spesso dediti a lunghe ricerche sul campo, tra i Monti Lessini o la Valpolicella, per portare alla luce antiche coreografie

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di Elisabetta Zampini Il mondo della danza popolare anche a Verona è vivo, dinamico e frequentato da un gran numero di appassionati. Non si tratta

di uno sparuto gruppo di etnomusicologi impegnati a recuperare remoti passi e arie di festa, ma è soprattutto un’occasione per unire tradizione e socializzazione. Il valzer e la mazurca sono

solo due danze, e nemmeno le più richieste, tra le tante note a questi ballerini amanti di polka, manfrina, soti, furlana, sette passi, bourrè… I danzatori si ritrovano la sera, in palestra, come si fa per una qualsiasi attività fisica. I maestri sono dei volontari interessati alla cultura popolare, spesso dediti a lunghe ricerche sul campo, tra i Monti Lessini o la Valpolicella, per portare alla luce antiche coreografie. È il caso di Francesco Pagani, animatore dei gruppi “Il Cerchio” e “Cantafilò”. Sono poi da ricordare lo storico e nutritissimo “Gruppo Ricerca Danza Popolare”, la “Prilla” e il neonato Gruppo Danze Popolari “Nievo”. Con sempre maggiore frequenza questi ballerini escono dalle spoglie palestre e riportano in vita danze che hanno una storia lon-

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Cultura tanissima, le reinterpretano, le arricchiscono anche di varianti personali e di armonia nei passi, a seconda della bravura e dell’agilità di ciascuno. La danza portata nelle piazze diventa così un fenomeno sociale e socializzante. Recupera la vecchia funzione per cui è nata ed è stata tramandata. In città e in provincia, nei contesti di festa di paese, di quartiere, nel periodo di Natale o di Carnevale, suonatori e ballerini vengono chiamati e coinvolti ad animare piazze e strade indossando costumi caratteristici. Per le donne è di rigore la gonna lunga, a balze: ballano, coinvolgono il pubblico, che si lascia prendere divertito soprattutto con le danze di cerchio che danno un’idea di coralità e di condivisione. Si seguono gli altri, in semplici passi, il contesto è rassicurante e sbagliare non compromette quasi mai la riuscita dell’insieme. Così la danza popolare riscuote consenso non tanto per il retaggio storico e per la bellezza delle musiche ma per l’atmosfera di divertimento e di gioco che riesce a creare grazie alla sua forza aggregante. Dal punto di vista antropologico, la danza popolare è un fenomeno che appartiene alla collettività. Tanto che è difficile risalire a un unico autore, così come distinguere gli elementi davvero popolari da quelli colti perché le danze hanno frequentato in alternanza la strada e le corti. Certo è che, come per tutte le varie forme di cultura popolare, si basa sulla memoria orale e pertanto è in continua rielaborazione. Cambiano le forme e figure a seconda delle esigenze e degli individui che la praticano. Gli esperti sostengono che nelle feste di paese era possibile capire la provenienza dei ballerini dalle varianti che eseguivano su un medesimo schema. La danza, infatti, era un modo in cui la comunità e il paese esprimevano i momenti delle feste e scandivano i passaggi più importanti della vita e delle stagioni. Perciò era un potente mezzo di identificazione per riconoscersi parte della collettività. Inoltre la musica e le danze da sempre hanno viaggia-

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Danze popolari in Piazza delle Erbe

La danza popolare è un fenomeno che appartiene alla collettività. È difficile risalire a un unico autore, così come distinguere gli elementi davvero popolari da quelli colti, perché le danze hanno frequentato in alternanza la strada e le corti. Come per tutte le varie forme di cultura popolare anche questa si basa sulla memoria orale e pertanto è soggetta a una continua rielaborazione

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Cultura to insieme agli uomini: soldati, commercianti, cantastorie, musicisti itineranti hanno favorito il diffondersi di danze nelle parti più diverse d’Europa, creando così i presupposti per sane contaminazioni culturali e segreti fili che hanno unito le genti nel profondo attraverso questa comune scansione rituale e festiva della vita, pur in lingue e geografie diverse. Non è difficile trovare impegnati insieme nelle danze giovani e anziani, adulti e bambini. Per i più piccoli poi si apre una particolare parentesi, visto che in molte scuole la danza popolare è di casa, perché il genere di musica che la accompagna piace ai bambini. Molte danze hanno inoltre figure semplici e ripetitive che esprimono il gusto del ballare insieme, rispettando ritmi e tempi per creare un’armonia. Ma soprattutto le danze popolari vengono proposte in contesti educativi per la loro valenza relazionale. Le manifestazioni più riuscite sono quelle che si inseriscono in feste che mantengono l’aspetto culturale alto e l’identità di paese forte. È il caso, ad esempio, di quel gioiello che è la “Festa della Fae” di San Giorgio Ingannapoltron. In novembre, assieme alla distribuzione beneaugurale del minestrone di fave ai capifamiglia, sono sempre presenti la musica e la danza popolare. Al mattino, subito dopo la messa, i musicisti accompagnano la processione che si apre con il pentolone fumante delle fave. Nel pomeriggio, fino a quando la luce lo permette, suonatori e ballerini ricreano i modi e lo stile delle feste danzanti. Qui, e in situazioni simili, i ballerini non esibiscono solo la loro bravura con costumi d’altri tempi, ma mostrano danze di un patrimonio comune se pur in gran parte dimenticato e soprattutto coinvolgono nella festa chi si ferma a guardare e ad ascoltare. Oltre ai classici balli di coppia, dove dall’inizio alla fine si danza con il partner scelto, ce ne sono molti altri che si basano sullo scambio continuo di dame e cavalieri. Modo questo con cui in passato, ma non solo, si iniziava a conoscersi, protetti dalla regola e

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Le manifestazioni più riuscite sono quelle che si inseriscono in feste che mantengono l’aspetto culturale alto e l’identità di paese forte. È il caso di quel gioiello che è la Festa della Fae di San Giorgio Ingannapoltron: in novembre, assieme alla distribuzione beneaugurale del minestrone di fave ai capifamiglia, sono sempre presenti la musica e la danza popolare

dal delizioso pretesto della danza. La distanza tra la cultura popolare e contadina, che ha mantenuto vive le danze, e la modernità, porta però a cercare nuovi spazi di espressione. Se le esigenze sono cambiate, anche la danza popolare, dinamica per natura, si adegua. E non sono solo le ricorrenze di paese a farla uscire allo scoperto. Da due anni Francesco Avesani, con uno spirito da mecenate, l’ultima domenica di ogni mese, mette a disposizione di ballerini e appassionati lo spazio della pizzeria “La Fontana”. È questo un luogo interessante per osservare il fenomeno; per chi non conosce la realtà della musica popolare o pensa che si identifichi con le feste di liscio, rimarrà sorpreso dalla quantità delle persone presenti e dalla varietà dei balli. Le musiche sono eseguite dal vivo con gli strumenti tipici della cultura popolare: fisarmonica, organetto diatonico, chitarra, mandolino, violino, contrabbasso, pifferi, flauto, piva. Molto apprezzato è il gruppo veronese dei “Folkamazurka” che vanta un vasto repertorio che fa contenti i ballerini, anche i più instancabili. Alcuni sono davvero bravi, eleganti nei movimenti e misurati, altri, più creativi, sorprendono con nuove figure. L’importante è stare al gioco anche per conservare, nella pratica, un prezioso patrimonio musicale e gestuale che magari non sempre sarà di rigore filologico, ma almeno non è in pensione nei musei. Per curiosare (e magari provare) ci sono varie possibilità: Il gruppo “Il Cerchio” si ritrova ogni mercoledì, alle 21 alla palestra delle scuole elementari Frattini, via Monzambano (Francesco, tel. 0458033955). Le scuole Carducci di via Betteloni sono il punto di ritrovo del “Gruppo Ricerca Danza Popolare”, il lunedì sera, alle 21.30 (Ornella, tel. 045573765); “La Prilla” invece è il lunedì dalle 21.15 nella palestra del Circolo Culturale Mazzini, in via Biancolini (Emanuela, tel. 045974895), mentre il mercoledì alle 21.15, in via Valdonega, la palestra Nievo si anima dell’omonimo “Gruppo Danze Popolari” (Cristina, tel. 3476863633).

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Cultura COSTUME

Il gioco delle maschere in Sant’Anastasia Nella basilica veronese alcune rare rappresentazioni di questo peculiare modo di camuffarsi che i bambini nel tempo impararono ad utilizzare nei loro giochi

Non possiamo ancora dire con certezza a quando risalgono le origini di questa pratica. Sappiamo che nel Medioevo la maschera fu utilizzata dalle nutrici per spaventare e, quindi, far star buoni i bambini

Fig. 1

Fig. 2

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di Marco Fittà Celarsi e cambiare sembianze inventandosi nuove identità e avventure è sempre stata un’attrattiva di tutti i bambini che consente di sbrigliare la loro inesauribile fantasia. Se a questo aggiungiamo l’utilizzo furtivo di indumenti appartenenti ai genitori o ai fratelli maggiori, avremo la chiave di lettura di questo gioco. Quando poi questa attività ludica di emulazione diviene un divertimento con il quale misurarsi con i compagni, il tutto risulta ancora più eccitante e divertente. Come cambiare quindi il proprio aspetto se non infilandosi una maschera che celi il proprio sembiante? È il metodo più semplice utilizzato anche dai bambini dell’antica Roma. Un affresco proveniente da Ercolano (Fig. 1) rappresenta un amorino che cerca di spaventare due compagni di gioco, uno dei quali mima un terribile spavento che lo getta in terra. Analogo soggetto è ripreso da alcune sculture tra cui una del IV-III secolo a.C. dove un fanciullo, ridente, gioca con una maschera silenica che sta per mettersi davanti al viso. La statua è conservata nei Musei Capitolini di Roma e, sempre nella Città eterna, a Villa Mattei si può ammirare un fronte di sarco-

Altare Miniscalchi, basilica di San’Anastasia (Verona). Due bimbi con maschere. In basso: l’esatta ubicazione del blocco marmoreo all’interno della chiesa

fago dove un eroe gioca con un’altra maschera. Non sappiamo se nell’antichità esistesse questa pratica, certo è che la maschera, nel Medioevo, fu utilizzata dalle nutrici per spaventare e, quindi, far star buoni i

bambini. Dovevano quindi essere orribili, barbute, pelose (Fig. 2, Manoscritto Royal, Londra - British Library). Dovevano rappresentare il diavolo, l’orco e il lupo mannaro. Un significativo esempio possiamo ammirarlo nel Li-

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Cultura

Alcune maschere ideate da Picasso

bro d’Ore di Carlo d’Angoulême, risalente al 1470 circa. Più tardi i bimbi si appropriarono di questo strumento “educativo” per spaventarsi l’un l’altro per gioco, quindi le maschere persero, a poco a poco, il loro aspetto terribile venendo utilizzate anche solo per nascondere la propria identità per qualche gioco inventato lì per lì. Ricca e varia è l’iconografia: Pieter Bruegel nella sua tavola I giochi dei fanciulli ha rappresentato, all’estrema sinistra del dipinto, un bimbo che, affacciato a una finestra, tiene sul volto una grande maschera; una, molto bella di fine 400, è attribuita a Gaspero da Padova e un’altra, del 1533, si trova nel Libro d’Ore di Antoine le Bon, duca di Lorena.

I bambini oltre che giocare a spaventarsi mettendosi maschere orripilanti, per aumentare gli effetti scenici potrebbero aver indossato ali da pipistrello, come si vede nell’affresco quattrocentesco di Michele Giambono nell’abside di Sant’Anastasia

Bimbi che giocano festosamente con una maschera si possono ammirare nel Palazzo Te di Mantova e, nella stessa città, in un affresco di una lunetta della Galleria dei marmi del Palazzo Ducale, opera di Giulio Romano. Da gran signori sono le maschere che due bimbi tengono, nell’atto di mettersele davanti al viso, scolpite su uno dei basamenti delle colonne dell’Altare cinquecentesco dello Spirito Santo o altare Miniscalchi nella chiesa di San’Anastasia a Verona. Forse i bambini oltre che giocare a spaventarsi mettendosi maschere orripilanti, per aumentare gli effetti scenici potrebbero aver indossato ali da pipistrello a imitazione di Lucifero, demone il cui solo nome crea timore nei fanciulli. Sarebbe così possibile interpretare un affresco quattrocentesco di Michele Giambono, rappresentante l’Annunciazione nel monumento a Cortesia da Serego, sempre nella chiesa di Sant’Anastasia; nel dettaglio dell’architettura dell’angelo sono rappresentati putti che cavalcano bastoni, che tirano con l’arco, che fanno pipì ed esibiscono grandi ali di pipistrello. Con simile travestimento il successo di terrorizzare i compagni è assicurato. Pratica fanciullesca documentata anche in altre raffigurazioni, ma nessuna con la personificazione del diavolo. Il Libro d’Ore di Marie Ango, di-

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pinto a Rouen nel 1505 in occasione del suo battesimo, chiamato anche Le livre des enfants poiché contiene 185 miniature di giochi fanciulleschi, riporta ben cinque immagini di travestimenti fantastici: in una di esse vediamo un essere peloso da capo a piedi picchiato vigorosamente da un bimbo mentre i suoi tre compagni di gioco avendolo preso al laccio, lo trascinano con una lunga corda; in un’altra si vede un bimbo che indossa un cappuccio con le sembianze di lupo. Il miniaturista ha rappresentato un bimbo, carponi, che con tale mascherata, che gli arriva fino a metà busto, mette in fuga i suoi compagni. Nel XVI secolo erano molto in voga i romanzi del ciclo arturiano e le chansons de geste raccontavano di cavalieri in perpetua lotta con mostri e draghi, così che il codice Ango rappresenta due bimbi che fuggono davanti a un drago con enormi ali, mentre un compagno più coraggioso si volta per stordirlo sferrandogli una gran botta in testa; operazione fruttuosa perché, nella miniatura della pagina successiva, il drago viene rappresentato al guinzaglio. Scene di giochi fanciulleschi in lotta con draghi sono riprese da vari artisti tra i quali Pieter Bruegel ne La battaglia fra carnevale e quaresima. Non si possono dimenticare le numerose rappresentazioni di San Giorgio che ab-

batte il drago e dei vari demoni, con Satana in primis, rappresentati con enormi ali di pipistrello che, sicuramente, avranno influito sui giochi infantili. Una grande maschera barbuta con un enorme naso aquilino viene mostrata a quattro bimbi due dei quali, rendendo la scena ancor più verosimile, sono caduti, per lo spavento, all’indietro in un’incisione cinquecentesca di Claudine Bouzounet-Stella. Nel dipinto Lot e le sue figlie (Norfolk, The Crysler Museum of Art), Bonifazio de’ Pitati dipinge due putti di cui uno spaventa l’altro con una maschera e Giulio Carpioni dipinge Fanciullo con maschera (Conservato nella Pinacoteca Martini a Ca’ Rezzonico a Venezia). Ci sono perfino giunte maschere in cuoio, una risalente al 1400 circa, conservata ad Amersfoort in Olanda e un’altra, di un secolo posteriore, conservata a Kampen, sempre nel paese dei tulipani. Anche il grande Pablo Picasso, che ha dedicato al gioco molti suoi dipinti, non ha disdegnato costruire per i suoi figli prima e per i nipoti dopo, giocattoli e, tra questi, maschere; nel suo caso non per spaventare, ma per celarsi, considerato che una di queste fu realizzata con un pezzo di carta lacerata da una tovaglia, altre due tagliando un vile cartone e altre, invece, più elaborate e “artistiche”.

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LESSINIA

Gli esseri fantastici della fantasia popolare Le creature di sesso femminile si chiamavano Fade, Anguane e Guandane, Genti Beate, Strie. Quelle maschili erano gli Orchi, il Basilisco e... il Diavolo

di Piero Piazzola I Cimbri, il popolo della Lessinia, erano genti provenienti dalle terre del nord, dalle quali si sono portati dietro una congerie eccezionale di usanze e di consapevolezze, influenzate dalla stregoneria, da un’appassionata fantasia e dal loro stesso habitat. Se da un lato avevano tanta fiducia e convinzione nei confronti della fede e della chiesa, per l’altro verso possedevano altrettanta superficialità e qualità molto elevate di superstizione. Le credenze popolari erano così forti che ancora oggi qualche persona della Lessinia nutre una certa tendenza a credere nella presenza di talune creature extraterrestri che la fantasia locale si è creata e che la religione cristiana non è riuscita ad assimilare. Le “creature” della fantasia popolare, in un certo senso, erano più vicine, più familiari, più alla mano, perché concepite dalle proprie convinzioni e convenienze anche se in generale esse sembravano essere creature mostruose o ripugnanti, rispetto alle forme dell’uomo. Certe “Fade” della Lessinia Orientale, in alcune zone, sono considerate buone, socievoli, generose e altruiste, per esempio quelle di Camposilvano che inse-

Le Anguane di Campofontana (M. Berolazzi)

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gnavano alle donne a ottenere la lana dal siero del latte e tante altre cose utili; in altre località, come a Sprea, erano invece considerate malvagie, introverse, scostanti e mangiatrici di bambini. Gli esseri fantastici di sesso femminile, dunque, si chiamavano “Fade”, “Anguane e Guandane”, “Séalagan Laute” (o “Genti Beate”) e “Strie”. Le creature di sesso maschile, invece, erano gli “Orchi”, il “Basilisco”, il Diavolo. Servirebbe un trattato per descrivere tutti questi esseri nella dovuta maniera. Ci limiteremo, pertanto, ai tratti essenziali. Le Fade erano di diversa natura, di differente sembianza e costituzione fisica da zona a zona, vestivano in maniera diversa, esercitavano impegni diversi. Le “Fade” di Velo e Camposilvano erano donne del contado, né più né meno. A Sprea, invece, vivevano una vita normale, ma con grossi difetti fisici: mani e corpo pelosi, piedi terminanti a zoccolo di capra e, più di tutto, mangiavano carne umana. Ma pure loro un lato buono lo avevano: insegnarono alle donne a ottenere e a conservare a lungo la lana. Le “Fade” di Bolca, invece, erano donne del popolo, sposavano uomini del luogo, potevano avere figli, però non dovevano farsi scoprire di essere delle streghe, perché allora erano costrette a sparire dalla faccia della terra. A Giazza, invece, abitavano le “Genti Beate”, cioè le “Séalagan


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Spettacoli A lato: L’Orco e le sue trasformazioni (M. Bertolazzi) In basso: Ittele, la Guandàna di Durlo (P. Gabrielli)

Laute”, donne bellissime, sempre vestite di bianco, rilucenti di fuori, ma dentro formate da una scorza di pianta, vuota. Ogni anno, il dì dei morti, scendevano in processione dalla loro caverna, la “Séalagan kuval”, sui costoni della Val Fraselle, tenendo in mano un tizzone acceso, che era il braccio di un cadavere, e chi le toccava moriva sul colpo. Campofontana era il luogo delle “Bele Butéle”, meglio conosciute con il nome di “Anguàne”. Parevano donne normali: si sposavano ma di notte scomparivano e andavano a lavare la biancheria della gente del paese; poi la stendevano ad asciugare su lunghe funi tese tra un monte e l’altro, cantando e danzandovi sopra e cacciando via gli uccelli perché non la sporcassero (Sciua, schiua, ra, ra…; cioè: Via, via, andate via). Il mattino dopo, prima che albeggiasse, riportavano la biancheria pulita alle case dove l’avevano ritirata. Vestivano sempre di nero e cantavano in modo meraviglioso trasmettendosi gli ordini con grida altissime. In alta Val del Chiampo esseri molto simili venivano chiamati “Guandane”. Nel territorio dei 13 comuni della Lessinia, il termine “orco” non specifica se si tratti di diavolo, di mostro, di drago o di altro essere deforme, malvagio, spaventoso. Il

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Il “Basilisco”, infine, lo si può immaginare come un lucertolone lungo un metro circa, con una cresta rossa sul capo e con una sporgenza ossea lungo la spina dorsale, con due zampette corte e munito di ali. Sprizzava fiamme, fuoco e fumo dalla bocca e dalle narici. Il suo sguardo ammaliava e immobilizzava le persone. Di solito le “strie”, come scrive Ezio Bonomi, si identificavano in donne ordinariamente anziane, mal vestite, trascurate, spettinate, curiose e chiacchierone, magari con qualche difetto fisico, considerato segno di maledizione o di castigo divino. Talora, però, col nome di “strie” erano conosciute anche quelle donne che andavano di contrada in contrada a chiedere l’elemosina e, intanto, curiosavano e chiedevano informazioni. Con il loro modo di comportarsi

suscitavano timore e riguardo, per paura di malefici e di disgrazie. Nel territorio dei Cimbri, il Diavolo era conosciuto come “Bòke”, oppure come “Berlìche” o “Berlichete”, ma anche “Tauval”, tant’è che una valle di Giazza si chiama Tauvetal. Corpo da caprone, zampe pelose, sempre terminanti in zoccolo da cavallo, ma molto spesso anche di capra, di becco, di satiro. Il sostantivo tedesco Bock, e il cimbro Woche, infatti, significano montone, capra. Il Boke dalla cintola in su aveva forma di corpo umano, ma le mani erano armate di unghioni lunghi e acuminati; sopra la fronte portava due corna dritte e aguzze, il viso rosso fuoco, gli occhietti vispi e roteanti. Abitava in grotte e caverne, ma appariva raramente e di notte; scompariva subito, invece, con un segno di Croce.

vocabolo cimbrico Orke è tradotto con “Orco”, ma il termine è anche sinonimo di “Orso”, di “Diavolo”, di “Demonio”. Dell’Orco si può dire che era una creatura strana, viveva isolato dentro le spelonche, ma si poteva incontrarlo dappertutto e in qualsiasi ora del giorno o della notte, perché appariva e spariva improvvisamente, assumeva diverse fisionomie e forme, spesso si burlava della gente che prendeva in giro col suo fare strambo: talvolta era collerico, talaltra conciliante, placido e servizievole. L’Orco controllava l’operato delle “Fade” e delle “Anguane” per una corretta esecuzione dei suoi ordini.

Orchi, Anguane, Fade... un libro Il volume “Ochi, Anguane, Fade in rotte e caverne” (da cui sono tratte le immagini di queste pagine) è il frutto di un convegno dal titolo “Immaginario popolare e grotte delle Venezie” organizzato dal Club Speleologico Proteo di Vicenza. L’incontro, svoltosi nell’eremo di San Cassiano sui Colli Berici, fu l’occasione per i ricercatori veronesi Benetti, Bonomi, Piazzola e Rama di trattare le tematiche relative alla religiosità e alle credenze popolari dei Cimbri ben inserite in una serie di interventi che tratta-

vano le diverse realtà geografiche. Il libro, coordinato dal Curatorium Cimbricum Veronense, in collaborazione con il Club Speleologico Proteo, del Consorzio Comuni del BIMA di Verona, della Federazione Speleologica Veneta e dalla Società Speleologica Italiana e stampato dalla Comunità Montana della Lessinia può essere, a pieno titolo, considerato come uno dei volumi più autorevoli sulle leggende che circondano le singolari forme di vita del folclore montano

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Scienze UNIVERSITÀ

Il sapere e la ricerca al servizio delle imprese di Chiara Cappellina Spy, Stars, Vips, Air Area: insomma, cartoline dal futuro. Al Dipartimento di Computer Science dell’Università degli Studi di Verona, il domani è già realtà. Parliamo di software all’avanguardia, laboratori sofisticati e tecniche altamente automatizzate per accelerare l’innovazione e sviluppare la ricerca e la cooperazione tra università e imprese. C’è ARIA nuova, infatti, al dipartimento diretto dal professor Vittorio Murino: l’ha portata l’Acceleratore di Ricerca Informatica Applicata. “Aria” è appunto l’acronimo del progetto del Dipartimento di Informatica, cofinanziato dalla Regione Veneto e con l’assistenza del Parco STAR di Verona, per favorire la collaborazione tra università e industria. Tutto ciò mettendo a disposizione delle imprese una serie di servizi

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Al Dipartimento di Computer Science dell’Università di Verona, diretto dal prof. Vittorio Murino, troviamo software all’avanguardia, laboratori sofisticati, tecniche automatizzate per accelerare l’innovazione e sviluppare la ricerca e la cooperazione tra università e imprese orientati alla ricerca applicata e all’innovazione di prodotti, per capire come le tecnologie muteranno il nostro imminente domani. «Si tratta di un progetto esplorativo della durata di due anni – spiega Vittorio Murino – che si rivolge alle aziende del territorio veneto e nazionale per aprire il Dipartimento alle imprese che

sentono l’esigenza di innovarsi e vogliono investire nella ricerca, per raggiungere maggiore competitività in tempi rapidi. In Italia mancano in maniera drammatica imprese con la vocazione alla ricerca – continua Murino che dirige il dipartimento dal 2001 – mentre servono progetti che siano in grado di facilitare l’accesso all’innovazione grazie,

per esempio, all’utilizzo di nuovi sistemi informatici che le aziende possano poi trasformare in prodotti commerciali». E l’Acceleratore di Ricerca Informatica Applicata trasforma il tempo dedicato alla ricerca, attraverso un effettivo avvicinamento tra le imprese e l’università, creando non solo uno spazio fisico di incontro, ma anche un progetto comune di lavoro, una vera e propria partnership. L’iniziativa cerca di «portare le aziende a contatto con il mondo accademico per la co-progettazione di nuovi prodotti ad alto contenuto tecnologico – sottolinea Murino – mettendo a loro disposizione alcuni spazi universitari, detti hosting, in cui lavorare insieme ai ricercatori, magari distaccando uno o più dipendenti per meglio realizzare la collaborazione». Si tratta infatti di hosting attrezzati con più postazioni di lavoro complete, connesse a Internet, dotate di strumenti di videoproiezione e teleconferenza, software Cad e dedicato, oltre all’accesso ai laboratori di dipartimento, ai servizi di segreteria, all’uso delle sale riunioni, il tutto a costi agevolati. «L’azienda dirige il progetto, noi forniamo le competenze e a loro resta il prodotto finale» dichiara Murino. Oltre alla creazione di progetti congiunti, per l’azienda si aggiunge la possibilità di far crescere le proprie risorse umane, sia in tema di programmazione hardware che software in cambio di opportunità di eventuali assunzioni del personale dedicato al progetto. La prima azienda a cre-

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Scienze dere nell’iniziativa, nell’ottobre 2004, è stata la Sitek che attualmente «sta collaborando con i gruppi di ricerca dell’università per realizzare due importanti progetti hardware» afferma Murino. «L’acceleratore offre infatti alle aziende un programma di avvio della ricerca e sviluppo di impresa che, affiancato al mondo universitario, stimola quello che comunemente viene definito brainstorming, ovvero un confronto di idee, e porta a veri e propri studi di fattibilità dei prodotti» ribadisce Murino. Un lavoro interdisciplinare che richiede il lavoro gomito a gomito di informatici, ricercatori e imprenditori. Fondato nel 2001, il Dipartimento di Informatica (Department of Computer Science), offre quattro corsi di laurea e un Master in Progettazione e Gestione dei Sistemi di Rete, ma pur essendo giovane, ha già ottenuto i finanziamenti della Commissione Europea per cinque progetti di ricerca e sviluppo. Oggi ospita informatici, ingegneri, matematici e fisici e si occupa di un ampio spettro di aree, tutte in qualche modo legate al calcolo. «Una caratteristica del Dipartimento è l’interazione tra la fisica e la matematica da una parte, l’informatica e le tecnologie dell’informazione dall’altra» spiega Murino. Quindi accanto a ricerche sui linguaggi, l’informazione, i modelli di calcolo e le architetture di sistema, il dipartimento ospita ricerche sulle strutture multimediali, sulla robotica e sui sistemi intelligenti, grazie a quattro laboratori didattici con più di duecento postazioni di lavoro Windows e Linux, e sei laboratori di ricerca tematica: Eda (Electronic Design Automation), Stars (Semistructured Temporal Clinical Geographical Systems), Spy (Static Program Analysis), Lds (Luce di Sincrotone), Vips (Vision, Image Processing and Sound) e infine AIR Area (Artificial Intelligence and Robotics). E i prodotti che potrebbero essere creati dalla sinergia universitàimpresa sono legati proprio a queste aree di ricerca: dai sistemi di videosorveglianza ai controlli biometrici di sicurezza per il riconoscimento di volti e impron-

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L’iniziativa cerca di portare le aziende a contatto con il mondo accademico per la progettazione di nuovi prodotti ad alto contenuto tecnologico mettendo a loro disposizione alcuni spazi universitari, detti hosting, in cui lavorare insieme ai ricercatori, magari distaccando uno o più dipendenti per meglio realizzare la collaborazione

Nelle due pagine: laboratori di informatica della Facoltà di Scienze. Qui sopra: l’aula conferenze del Dipartimento di Informatica

te, dalle applicazioni biomedicali per la diagnosi precoce di tumore, con spettroscopia ad alta risoluzione su cellule e tessuti, alla chirurgia con bracci robotici. E infine si parla di bioinformatica, con ricostruzione in 3D di organi, di genetica con il DNA computing e l’analisi e modellazione di proteine e stringhe di DNA, passando per l’ispezione automatica di prodotti e processi industriali per il controllo di qualità fino all’informatica della sicurezza e intrusion detection, contro hackeraggio e spionaggio industriale, oltre all’analisi e verifica automatica della correttezza di programmi e codici e alla progettazione di offuscatori per la tutela della proprietà intellettuale del codice. Un ambito di attività molto vasto che non lascia fuori nemmeno l’intelligenza artificiale, con l’interazione uomo-macchina basata su visione, suono e gesti, né i sistemi di navigazione e guida di veicoli autonomi o la realtà virtuale per il telecontrollo di mezzi in ambienti ostili come quello sottomarino o spaziale. «Il settore informatico è stato per l’università in questi ultimi anni uno dei principali ambiti con cui incentivare e favorire produzioni industriali innovative» aggiunge Murino. Incorporare “tecnologia e intelligenza” nei prodotti è diventato un fattore competitivo di importanza strategica. In questo modo il trasferimento tecnologico diventa terreno di collaborazione tra università e imprese. «L’idea è di attuare delle spin-off, ovvero delle piccole società di consulenza universitarie – conclude Murino – in cui il mondo accademico e quello industriale si uniscano per creare prodotti innovativi e di qualità». Nel corso del mese di aprile l’università organizzerà un open-day, ovvero un’intera giornata in cui tutte le aziende veronesi potranno toccare con mano le potenzialità del progetto Aria. Per informazioni contattare il Dipartimento di Informatica, Università degli Studi di Verona. Telefono 045.8027069; e.mail: aria@sci.univr.it; web: www.di.univr.it.

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Scienze MUSEO CIVICO DI STORIA NATURALE

Monitorare la biodiversità Potenti strumenti informatici forniscono un aiuto nella fase di progettazione della pianificazione di un territorio. La cartografia digitale può essere integrata con archivi di dati: la prima permette di localizzare i singoli oggetti, mentre la base di dati fornisce utilissime informazioni specifiche

di Angelo Brugnoli Tra le attività di un moderno museo, una particolare attenzione viene oggi riservata a tutto ciò che può creare un legame tra museo stesso e pubblico. O meglio tra museo e pubblici, tanti quanti sono gli interessi e le emozioni che spingono i visitatori alla frequentazione di esposizioni e mostre. La scoperta del proprio territorio di appartenenza è la molla nascosta che crea nella comunità territoriale attenzione alle ricerche, alle attività di conservazione e alla divulgazione proposta dal museo. In questo contesto il Museo Civico di Storia Naturale di Verona ha avviato da anni alcuni progetti sul territorio veronese, culminati nella pubblicazione di importanti monografie scientifiche. Si tratta di impegnative campagne di ricerca, durate diversi anni, che hanno coinvolto tutto il personale tecnico-scientifico del Museo in complesse attività di campionamento e raccolta dati. La formazione di banche dati territoriali è di importanza strategica nello studio e nel monitoraggio della cosiddetta “biodiversità”. La parola ha origine dal concetto di diversità biologica, formulato nel 1980, in riferimento al numero di specie che compongono una comunità. Il termine contratto “biodiversità” è apparso per la prima volta durante il “Forum nazionale sulla biodiversità” che si è tenuto a Washington nel 1986. Gli atti di tale forum sono stati poi pubblicati nel 1988 nel libro dal titolo “Biodiversità” che ha avuto un grande successo e ha dato il via a numerosi studi sull’argomento. Da allora, come confermato dai risultati dei Summits mondiali di Rio de Janeiro nel 1992 e di Johannesburg nel 2002, la conservazione della biodiversità è considerata come fondamentale nello sviluppo sostenibile a livello mondiale. I dati raccolti sul territorio oggi vengono informatizzati; l’archivio dati diventa così il punto di partenza per ricerche successive ed analisi future. Tra le attività che si servono delle banche dati del Museo vi è anche la pianificazione territoriale. Potenti strumenti informatici possono fornire un aiuto nella fase di progettazione e gestione della pianificazione di un territorio. I Sistemi Informativi Territoriali (detti SIT) sono appunto queste basi di dati geografiche, create grazie ad appositi software di gestione dati geografici (GIS). In altre parole si tratta di programmi che integrano cartografia digitale con archivi di dati: la prima permette di localizzare sul territorio i singoli oggetti (località di ricerca, campioni raccolti sul terreno, aree di diffusione di un animale o di una pianta), mentre la base di dati fornisce per ciascun punto della carta tutte le informazioni riguardanti quello specifico punto. Questa tecnica, oltre alla realizzazione di nuova cartografia molto dettagliata, mostra la propria utilità in un’ampia gamma di applicazioni come la gestione ambientale, le telecomunicazioni, l’archeologia, l’ecologia, e molte altre. L’uso del SIT permette inoltre di depositare in un computer le informazioni basandosi su diversi livelli e tematismi. La gestione compute-

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rizzata dei dati è quindi estremamente utile, particolarmente per interpretare grandi quantità di dati complessi, mostrando così gli ecosistemi in relazione alla biodiversità. Grazie ai database, che raccolgono tutte le informazioni sulla fauna e sugli habitat del Veronese presenti in bibliografia e quelle derivanti da nuove ricerche, si può procedere alla creazione di un SIT della provincia di Verona. Ad oggi nel SIT sono stati inseriti i dati catastali delle cavità naturali, artificiali, la fauna presente, le schede dei Siti di Importanza Comunitaria con gli elenchi degli habitat e delle specie animali e vegetali e infine i dati relativi ai vertebrati e invertebrati osservati recentemente in diverse campagne di ricerca. Il SIT sarà utilizzato come base di partenza per la formazione di uno strumento che fornisca metodi oggettivi per identificare i punti caldi di biodiversità, rarità ed endemicità. Le recenti ricerche del Museo hanno avuto, tra gli altri obiettivi, quello di raccogliere ed organizzare tutti i dati faunistici e vegetazionali, riguardanti il nostro territorio, attualmente dispersi nelle diverse pubblicazioni scientifiche e, soprattutto, nei dati non pubblicati in possesso dei numerosi specialisti. Tutte queste informazioni, completate dai dati raccolti sul campo dal personale del Museo, confluiranno nella banca dati del SIT. L’insieme dei dati permetterà, unitamente all’utilizzo di dati storici, un monitoraggio permanente della situazione ambientale del territorio comunale e delle sue modificazioni nel tempo. Queste tecnologie e le loro concrete applicazioni nel monitoraggio ambientale saranno oggetto di una mostra del Museo di Storia naturale, in programma per l’autunno 2005.

I Sistemi Informativi Territoriali (detti SIT) sono basi di dati geografiche, create grazie ad appositi software di gestione (GIS)

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Società Letteraria

“Politiche culturali” il tema di un dibattito

La sede della Socità Letteraria in piazzetta Scalette Rubiani, 1

Un tempo c’erano i caffè letterari, fumosi, creativi e passionali, dei ritrovi nei quali scambiarsi idee, leggere racconti, confrontarsi. Ora questi luoghi prediletti da studiosi e scrittori rivivono a Verona nei LetterariaCafè organizzati dalla Società Letteraria scaligera. È partito infatti il ciclo 2005 che offre momenti d’incontro e di dibattito sui grandi temi culturali, sociali e politici dell’attualità cittadina. In primavera sono già previsti, ogni martedì alle 21, due importanti appuntamenti: il 5 aprile si incontreranno il vicesindaco Maurizio Pedrazza Gorlero e l’assessore Luciano Guerrini con Giancarlo Beltrame, Daria Anelli, Interzona, Diego Perez, Paolo Valerio e Sirio Tommasoli che discuteranno sul tema delle “Politiche culturali a Verona”. Il 12 aprile sarà la volta di Michele Colantoni, Gianni Zenatello, Salvatore Massa, Paola Marini e Roberto Cortenova, che ragioneranno su “Cultura e impresa a Verona”. «Si tratta di un nuovo modello di dibattito, che si è rivelato in questi anni una formula che funziona» spiega Alberto Battaggia, Presidente della Società Letteraria. «Già dal 2002, infatti, siamo

riusciti a mettere intorno allo stesso tavolo persone con cariche istituzionali, problemi e interessi diversi – aggiunge –, che non trovano solitamente il tempo per scambiarsi idee, abbozzare soluzioni, o semplicemente parlare». Così la Società Letteraria diventa un luogo che non solo accoglie la tradizione letteraria, ma promuove uno scambio aperto. «Il nostro è un territorio neutrale dove si possono liberamente esprimere le idee, senza scatenare liti o polemiche» spiega Battaggia. Tra gli argomenti affrontati in questi mesi spiccano la questione Rom, i problemi e le politiche della sicurezza e della tossicodipendenza a Verona, e l’affaire Fondazione Arena. Un resoconto dei LetterariaCafè, ai quali possono partecipare esclusivamente i soci della Società Letteraria, viene inoltre pubblicato sul BollettinoNews della Società, distribuito gratuitamente ai soci e a mille interlocutori veronesi. Per informazioni, Società Letteraria di Verona, p.zza Scalette Rubiani 1, 045.595949, email: societaletteraria@societaletteraria.i, web: www.societaletteraria.it. Chiara Cappellina

Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere

Convegno sui diritti umani con Tathiana Flores Schram Che cosa si intende per diritti umani? Che cosa si fa per tutelarli? Di grande attualità e risonanza mondiale, il tema dei diritti umani e del diritto umanitario è stato oggetto di un recente convegno all’Accademia di agricoltura scienze e lettere di Verona e che ha visto la partecipazione di Tathiana Flores Schram, membro del Tribunale Penale Internazionale de l’Aja. Il diritto umanitario quasi paradossalmente nasce dalla guerra, disumana per sua stessa natura, sotto la primordiale forma di diritto all’assistenza medica: vede infatti la sua prima espressione nella creazione dell’istituzione della Croce Rossa Internazionale, che fu fondata sotto gli auspici della convenzione di Ginevra del 1864 con lo scopo di assistere in tempo di guerra feriti e prigionieri. Da allora è stato intrapreso un lungo cammino verso la tutela del diritto alla vita e l’istituzione del Tribunale Penale Internazionale, sancita il 17 luglio 1998 con la sottoscrizione da parte di numerosi paesi del cosiddetto Statuto di Roma, ne costituisce una tappa fondamentale. Organo giudiziario permanente e indipendente, finanziato esclusivamente dagli stati

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aderenti, questo tribunale svolge un ruolo complementare rispetto alle Corti nazionali, ossia agisce soltanto nei casi in cui le istituzioni giudiziarie nazionali coinvolte da un crimine sanzionabile non siano in grado di agire oppure, pur potendo, si rifiutino di farlo. Ma quali sono i crimini rientranti nella giurisdizione del Tribunale Penale Internazionale? Genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, crimine di aggressione, da intendersi in senso lato come crimine contro la pace. Quattro categorie dal contenuto apparentemente intuitivo ma dai confini spesso labili, quattro reati accomunati indubbiamente dalla negazione del diritto alla vita. Nei procedimenti penali svolti dal tribunale dell’Aja un nuovo ruolo è ricoperto dalle vittime perché queste, siano esse paesi o persone, non sono più considerate solo testimoni da ascoltare, ma vittime a tutti gli effetti: da difendere, quindi, da proteggere e da aiutare anche economicamente grazie ad un fondo speciale di riparazione di prossima istituzione. Marzia Sgarbi

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I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA

Il mio amico Rino Argento di Giuseppe Brugnoli Quella volta che andai negli Stati Uniti, più di quarant’anni fa, in una specie di viaggio premio per giornalisti, avevo due missioni da compiere: la prima, affidatami un po’ per scommessa e un po’ per scherzo dal mio direttore, intervistare il presidente degli USA John Kennedy; la seconda, datami in consegna con grande serietà dalla signorina Argento, una vecchia maestra che abitava vicino alla nostra casa, di consegnare un prezioso pacchettino al nipote Rino, mio amico di giochi e di parrocchia, che era in America da più di dieci anni. Il primo compito andò buco. Ebbi occasione di essere ricevuto, con una comitiva di italiani in viaggio, dal mitico Kennedy, allora al culmine della sua fama, nella saletta vicino alla sala ovale, e il presidente degli USA ci fece un discorsetto. Poiché non capivo una parola di inglese, invece di starmene pigiato sotto la tribunetta, mi collocai solitario in fondo alla sala, dove avevo una vista migliore. Quando Kennedy terminò, non uscì da dove era entrato, ma attraversò la piccola folla e si diresse verso la porta, accanto alla quale ero io. Mi si fermò davanti, mi rivolse un “Hello!”, mi strinse la mano e mi disse alcune parole con tono interrogativo. Al che io non seppi che rispondere “Sorry”, e Kennedy, sorridendo, se ne andò. Dopo quattro mesi, era ucciso a Dallas. Giuro che non c’entro. Rischiò di andarmi buco anche il secondo impegno, quello importante, affidatomi dalla gentile signorina Argento, che oltretutto era stata mia maestra di catechismo in parrocchia, perché un imponente doganiere dall’aria di cerbero, subito dopo il mio arrivo all’aeroporto, mi fece aprire la valigia, frugò con mano guantata tra le calze e le mutande, estrasse con aria insieme trionfante e disgustata il pacchettino avvolto in carta a fiorellini, e me lo tenne davanti al naso con atteggiamento interrogativo. Non mi restò che recuperare in fretta le mie inesistenti nozioni di inglese e mormorare “present”, per poi aggiungere, visto che egli rimaneva con il pacchetto in mano “friendly”. Devo averlo commosso. Rimise il pacchettino al sommo del mucchietto di indumenti, io richiusi la valigia e guadagnai l’uscita. Rividi Rino Argento qualche sera dopo, mercè una laboriosa telefonata al numero che mi

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aveva dato la zia, fatta attraverso il soccorso di un cameriere italiano dell’albergo. Mi portò a cena in un ristorante italiano, e mi dispiace ancora pensare a quanto gli sarà costato, e poi in Times Square, in un bar fumoso da nottambuli, dove stemmo a parlare fino alla mattina. Gli consegnai l’involtino, e scopersi che conteneva due pacchetti di sigarette nazionali esportazione. Mi disse che, da quando era in America, non fumava più Marlboro, ma sigarette italiane, che però a New York si trovavano, ogni tanto, solo in una stazione della metropolitana. Era partito innamorato dell’America ma negli USA vestiva italiano, fumava italiano e guidava una rossa Alfa Romeo. Da allora, ho rivisto Rino più spesso, perché una o due volte l’anno viene in Italia da Los Angeles, dove lavora ed abita, ma ci scriviamo abbastanza, e adesso più di prima, da quando ho imparato a utilizzare Internet. La sua è stata una vita intensa e laboriosa, prima come progettista in ditte dell’indotto automobilistico, poi direttore di una catena di montaggio alla Ford, quindi dirigente alla Chrysler sempre a Detroit, e capo della sezione corse, aiutando anche quelli della Ferrari, Maserati e Abarth quando andavano negli States per le gare. Infine il trasferimento in California, direttore di una fabbrica con 230 operai e 500 macchine utensili della General Dynamic che costruiva missili, e poi un provvisorio ritorno in Italia, alla Harley-Davidson di Varese che poi diventò Cagiva, e in giro per il mondo ad acquistare componenti, fino all’ultima assunzione a Parigi con l’americana Bausch&Lomb a dirigere una fabbrica di strumenti per analisi chimiche e il ritorno con la stessa ditta a Los Angeles dove fu trasferita l’intera produzione. Ma con tutte queste peregrinazioni, con moglie filippina e figli del tutto americani, Rino Argento è rimasto, quasi miracolosamente un veronese de soca, che parla un perfetto dialetto con qualche inflessione yankee e che nella sua casa di Lomita, un paese sull’oceano a poca distanza da Los Angeles, si è costruito un piccolo sacrario dove ha sistemato, accanto ai ricordi del padre medico, morto durante la tragica ritirata di Russia, i cimeli della sua vita, da un paio di tabelle stradali che gli occupanti tedeschi durante la guerra fissavano sugli alberi dell’attuale via D’Annunzio, i resti di quelli che correndo rischi staccavamo di sera per poi alimentare la

stufa, ai preziosi reperti della nascita e dei primi anni di vita del glorioso “Verona X”, il primo reparto degli scout cattolici nato subito dopo la guerra, fino alle tessere di quando fu interprete della nazionale italiana di Bearzot alle Olimpiadi del 1984 e ai documenti di un’associazione di calcio giovanile di Los Angeles da lui diretta che ora è diventata la più grande degli States, con oltre mille iscritti. Adesso, da quando c’è Internet, legge tutti i giorni l’Arena, e non manca di fare commenti anche pepati sui personaggi e sui fatti del giorno. L’ultimo, via e-mail pochi giorni fa, sul Prusst e sul piano di Verona Sud, dice: «Ricordo che nel ’50 ci fu una riunione in una sala della Cassa di Risparmio per discutere uno dei tanti piani regolatori, ed era aperta al pubblico. Il pubblico ero io, solo soletto, e quasi tutte le proposte sono ancor oggi ‘in fase di studio’. Incredibile!”. È lo stesso Rino Argento che nel lontano 1963 incontrai nel bar per nottambuli di Times Square. Era un maggio freddo e ventoso, e nella notte algida e limpida di New York, di là dai vetri sporchi del locale, nel breve riparo della rientranza si addossavano gli homeless, una fauna umana allora sconosciuta qui da noi, prima di andare a distendersi sui cartoni sotto i porticati delle grandi banche nella vicina Bowery. Ad un certo punto arrivò e si fermò davanti alla vetrata, impedendo la vista dell’ininterrotto scorrere delle macchine nella piazza, un gruppo dell’Esercito della Salvezza, ad intonare con un complessino di ottoni stonati i suoi cori sacri. E su quello sfondo di poveri infreddoliti e di ricchi nelle limousine, tra le multicolori luci ammiccanti dei neon pubblicitari sui palazzi e le note intermittenti, a seconda delle raffiche di vento, dell’Esercito della Salvezza, Rino Argento mi parlava di Verona, mi chiedeva notizie di amici e conoscenti che io avevo ormai dimenticato, di sindaci ed assessori di amministrazioni scomparse, degli antichi e nuovi problemi urbanistici e sociali della città. Ho sempre pensato, da allora, che assai probabilmente egli, con la sua voglia di vivere e di fare, di conoscere e di progredire, avrebbe avuto fortuna anche senza andare in America, e che, senza dover leggere l’Arena su Internet, avrebbe potuto attivamente interessarsi dei problemi di Verona anche stando a Verona, da bravo cittadino imperterrito amante di Verona qual è.

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Spettacoli di Alessandro Anderloni Giunto al traguardo della cinquantatreesima edizione, il più antico e prestigioso festival per film di montagna del mondo, nato da un’intuizione del Club Alpino Italiano e del Comune di Trento nel 1952, rivolgerà quest’anno la sua attenzione alla conquista, all’esplorazione e alla ricerca scientifica dei due poli terrestri. “Artide & Antartide - Polo nord e Polo sud” sono il tema che dominerà la rassegna cinematografica che avrà inizio a Trento il 30 aprile per proseguire fino all’8 maggio 2005. Sulla locandina del Filmfestival campeggia una suggestiva immagine di un uomo che discende da un’ampia distesa di ghiaccio rotondeggiante, chiaramente riferita al Polo nord. Speculare a essa la calotta antartica, dalla quale si innalza una montagna di neve che a qualcuno ricorderà la montagna del Purgatorio dantesco risalita dal Poeta nel suo viaggio ultraterreno. Il mistero, quindi, ma anche l’innata propensione dell’uomo a conoscere, a scoprire, a esplorare, ad andare oltre a ciò che può sembrare invalicabile. Dopo il cinquantenario della conquista italiana del K2, festeggiato lo scorso anno a Trento in un’edizione ricca di eventi speciali, di dibattiti ma anche di ridondanti polemiche, quest’anno saranno i protagonisti delle esplorazioni dei due poli gli invitati speciali al Filmfestival. Il programma della manifestazione (consultabile sul sito www.trentofestival.it) prevede una grande esposizione dedicata ai due poli terrestri. Ma sarà il cinema il principale protagonista, come ha preannunciato il regista Maurizio Nichetti che, dopo aver presieduto la giuria internazionale della scorsa edizione, da quest’anno prende in mano la rassegna come direttore artistico e preannuncia di volerne rilanciare il profilo internazionale. Oltre al concorso e alle ampie retrospettive dei film che hanno raccontato la storia della conquista e dell’esplorazione dei poli, si prevedono una serie di incontri per produttori, registi e autori cinematografici.

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TRENTO - FILMFESTIVAL

2005: Artide e Antartide Dal 30 aprile all’8 maggio la 53ª edizione del Festival dei film di montagna dedicata quest’anno ai Poli terrestri

Il Filmfestival Internazionale di Trento si conferma così il punto di riferimento consolidato per tutto ciò che riguarda la cinematografia “di montagna”. Nel corso di oltre cinquant’anni di vita a Trento sono stati proiettati film che testimoniano l’evolversi non solo delle tecniche e della filosofia dell’alpinismo, ma anche dei problemi che oggi ruotano intorno al territorio montano, all’ambiente, al territorio, al rapporto con l’uomo che vive in montagna. Tutto ciò non soltanto con i film, ma anche con i convegni e le tavole rotonde, con le mostre tematiche, con i concorsi fotografici “Tre Ranuncoli d’oro” (svoltisi dal 1955 al 1964) con la Rassegna internazionale dell’editoria di montagna “Montagnalibri” (nata nel 1987), oggi la più importante a livello mondiale, con il Premio Itas del libro di montagna (istituito nel 1971) con la Mostra mercato delle librerie antiquarie della montagna che arriva quest’anno alla nona edizione. Il Filmfestival di Trento è capofila dell’International Alliance for Mountain Film, un’alleanza internazionale che ad oggi riunisce, in una rete mondiale di collaborazione, 14 Festival di Cinema di montagna di Italia, Canada, Stati Uniti, Francia, Austria, Svizzera, Spagna, Regno Unito (Inghilterra e Scozia), Slovacchia, Slovenia e Repubblica Ceca che, in fondo, possono essere considerati tutti “figli” della rassegna trentina. Lo scorso anno anche Verona e la Lessinia sono stati protagonisti al Filmfestival di Trento con l’iniziativa “Velo Veronese, la montagna in scena” che ha raccontato l’esperienza teatrale e cinematografica che da 15 anni ha cambiato il volto del paese di Velo Veronese. Il festival di Trento è stato ospitato a sua volta alla decima edizione del “Premio Lessinia”, la manifestazione cinematografica che si svolge a Cerro Veronese nel quale ha trovato spazio, nell’estate del 2004, la mostra “52 Gran Premi, 52 Anni di Cinema di Montagna” con le fotografie dei primi 52 vincitori della rassegna trentina. Un ponte di amicizia tra il capostipite del festival di film di montagna e uno tra i più giovani nati.

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Spettacoli «Ombre di mia prosàpia, non arrossite ancor! Tutto la morte vendica, anche il tradito amor!». È su queste tenebrose parole che si innalza uno dei motivi musicali classici più celebri al mondo: la Danza delle Ore, il ritmo che Amilcare Ponchielli compose sul finire dell’0ttocento e che, insieme a Tobia Gorrio, pseudonimo di Arrigo Boito, firmò come una delle opere maggiormente rappresentate nei più prestigiosi teatri internazionali: la Gioconda. La “cantatrice” di Ponchielli e Boito tornerà a struggere i cuori degli animi sensibili nel suggestivo scenario areniano il prossimo 17 giugno. Nei panni della primadonna ci sarà Andrea Gruber diretta da Donato Renzetti con l’inedita regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi, già straordinariamente acclamato per l’allestimento dell’Ernani al Filarmonico. E, per campanilismo, è quasi obbligatorio citare che fu proprio questo dramma lirico in quattro atti a dare i “natali” artistici a Maria Callas che debuttò all’Arena di Verona nel 1947. La Gioconda fu l’opera più tormentata e ambiziosa di Ponchielli che, in cerca di quella notorietà che proprio questo progetto gli diede, si preoccupava dell’effetto che avrebbe avuto sul pubblico, una platea in bilico tra la voglia di rinnovamento e l’attaccamento alle tradizioni operistiche. Un esame che l’artista superò a pieni voti fin dalla prima alla Scala di Milano, l’8 aprile del 1876, dove registrò un successo immediato e internazionale. Mario Bortolotto, critico musicale e musicologo, in occasione dell’ultima rappresentazione della Gioconda a Verona, nel 1988, fece notare come il connubio tra un Boito «sofisticatissimo, ipernevrotico, coltissimo, schifiltoso capofila della Scapigliatura milanese» e un Ponchielli definito come «bonario, umile, modesto, semi-illiterato direttore di banda cremonese» potesse far pensare a uno scherzo. Di burla non si trattò ma, scrive Bortolotto, di «una scommessa, una ingente somma puntata da un editore di fiuto sicuro, Giulio Ricordi, che aveva subdolamente compreso come proprio dalla fusione di collaboratori spaventosamente

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ARENA

La Gioconda di Ponchielli Il 17 giugno in scena l’opera più tormentata e ambiziosa del musicista cremonese interpretata a Verona nel 1947 dall’esordiente Maria Callas

leno la rivale, ma successivamente scopre che Laura è colei che ha salvato la madre dal linciaggio e decide di sacrificarsi offrendo così una possibilità di salvezza ai due amanti ormai scoperti da un Alvise che pretende vendetta. Gioconda scambia la fiala di veleno con un potente sonnifero, lo fa bere a Laura che così simula il suicidio e, mentre il capo dell’inquisizione celebra festosamente la morte della moglie sulle note della Danza delle Ore, promette a Barnaba che si concederà ai suoi desideri in cambio di una via di fuga per Enzo e Laura. Un dramma della gelosia in piena regola che mescola nel finale il sommo sacrificio di Madama Butterfly all’inganno romantico di Giulietta e Romeo. “Scorre il pianto a stilla a stilla nel silenzio del dolor, piangi o turgida pupilla mentre sanguina il mio cor” canta Gioconda mentre, assicuratasi della salvezza di Enzo e Laura, si appresta a rispettare i patti: “Che temi? Mantengo il mio detto, non mento, non fuggo, tradirti non vo’! Volesti il mio corpo, dimòn maledetto? e il corpo ti do!” e così dicendo la “cantatri-

La compagnia de “La Gioconda” del 1952. Quinta da sinistra Maria Callas

eterogenei potesse saltar fuori qualcosa di inedito, almeno di piccante». Ambientata nella Venezia seicentesca, la storia narra del drammatico e funesto amore di Gioconda per il nobile Enzo. Costui è in realtà un principe genovese proscritto dalla Repubblica che ritorna nella Serenissima capitale sotto mentite spoglie per ritrovare un antico amore, una fanciulla promessa a un altro uomo: Laura moglie di Alvise, capo dell’inquisizione di Stato. In questo quadrilatero sentimentale entra in gioco il malvagio Barnaba, spia del tribunale che fin dalla prima scena mostra tutta la sua crudeltà accusando la madre cieca di Gioconda di aver lanciato un maleficio su una delle imbarcazioni perdenti impegnate nella regata. A salvare

la vecchia ci pensa Laura che, da dietro la provvidenziale maschera, grazia la donna e ritrova in quel momento il suo amato ed esiliato Enzo. Barnaba organizza un incontro clandestino tra i due innamorati con l’unico scopo di umiliare Gioconda, che da sempre respinge le sue avances, smascherando l’infedeltà di Enzo. In un primo tempo l’ira si impadronisce della protagonista tradita che decide di uccidere con del ve-

ce” si trafigge a morte sotto gli occhi increduli del suo aguzzino. Barnaba, colmo d’ira e frustrazione, lancia il suo grido finale confessando all’orecchio “che non ode più” di Gioconda di aver comunque avuto la sua perfida soddisfazione annegandole la vecchia madre. Tragedia nella tragedia che dispiega però le ali dell’amore, quell’amore che nessuna barriera sociale o morale può abbattere.

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Spettacoli NUOVO - SCHERMI D’AMORE

“L’@mour est à réinventer” a Verona nove film di Vecchiali matica, da lui espressa attraverso un cinema di corpi che per alcuni richiama i classici del realismo poetico degli anni del Fronte Popolare e del dopoguerra come Ophuls, per esempio. Cineasta sui generis, sperimentatore anticonformista di generi e di linguaggi, creatore poliedrico e problematico – sempre attivo al di fuori dell’ufficialità dei grandi circuiti produttivi – ha intrecciato nel suo universo creativo un interesse descrittivo, quasi docuÀ vot’ bon cœur

Qualche anno fa Godard, parlando del cinema francese, pare abbia detto «c’è solo Vecchiali», mentre quest’ultimo rispondeva «c’è solo Godard» di Alice Castellani Paul Vecchiali, cineasta corso (nato ad Ajaccio nel 1930) che è stato pure critico dei Cahiers du cinéma e della Revue française de cinéma oltre che scrittore di romanzi, anagraficamente appartiene alla gloriosa stagione delle “nouvelles vagues”, avendo tra l’altro esordito con Les petits drames (1961) poco dopo Godard e Truffaut, poi influenzato da un certo cinema francese degli anni ’30 e ’40. La fruizione distorta che i suoi film hanno avuto in Italia (delle circa 40 pellicole da lui girate in 40 anni da noi ne sono giunte solo tre, a cavallo degli anni ’80) lo colloca però tra i registi degli anni ’70 e ’80, ripensatore raffinato e coerente dell’estetica melodram-

Femmes femmes

Paul Vecchiali

Once more; À vot’ bon cœur. Quest’ultimo titolo, presentato a Cannes nel 2004, si rifà all’espressione tipica dei mendicanti che chiedono la carità, autoironia che Paul Vecchiali utilizza per denunciare lo spietato mercato cinematografico che, dopo avergli bocciato numerosi progetti, lo ha costretto a far lavorare gli attori a titolo gratuito. Il film è infatti un’amara messinscena della marginalità dell’autore, che comunque non rinuncia al suo desiderio di cinema solo per la mancanza di soldi, ma piuttosto dichiara: «Non sono arrivato alla mia età, 73 anni, per chiedere a delle persone di lavorare senza compenso. Questo non fa parte della mia morale». E i suoi atto-

À vot’ bon cœur

mentaristico per la minuta realtà quotidiana, e un’analisi approfondita e coinvolgente delle complesse e variegate vicende umane. Il melodramma come scelta etica, vissuta e creduta, evita ai suoi film di cadere nel compiacimento e nell’ambiguità; è il caso del suo lavoro forse più viscerale e più estetizzante, Once more (1988), che racconta l’amore omosessuale, e non solo, ai tempi dell’Aids. Gianni Amelio ha detto di lui che è uno dei registi che con maggior rigore ha saputo esplorare i sentimenti nel nostro tempo “malato”, utilizzando in maniera originale i codici del melodramma. Qualche anno fa Godard, parlando del cinema francese, pare abbia detto «c’è solo Vecchiali», mentre quest’ultimo rispondeva «c’è solo Godard». È dunque una fortuna che, grazie alla personale “L’@mour est à réinventer” a lui dedicata all’interno della nona edizione del festival Schermi d’Amore (1524 aprile al teatro Nuovo), quest’anno sia possibile la visione di almeno nove dei suoi film, tra cui Femmes femmes; Corps à coeur; Rosa la rose, fille publique;

Corps à coeur

ri, che sulla Croisette di Cannes protestavano contro i tagli ai sussidi per gli artisti approvati dalla legislazione francese insieme a molti altri lavoratori dello spettacolo, hanno preso per davvero delle sonore manganellate, mentre sulla scena Vecchiali può far morire uno dopo l’altro, a parte il Presidente, i membri della Commissione giudicatrice degli stanziamenti pubblici per il cinema, piccola vendetta e rivincita personale alla base dell’intreccio del film, in accoppiata con le scorrerie di un moderno Robin Hood muto che gira su pattini a rotelle rubando ai ricchi per dare ai poveri. Con tragica ilarità Vecchiali rappresenta la propria morte intellettuale e la crisi dell’industria culturale francese in un film sull’economia del cinema, ma anche sull’amore e sulla sua concezione del cinema, mescolando in un coacervo tragicomico la commedia, anche quella musicale, il muto, il poliziesco e la critica sociale... sempre nel caso che al pubblico sia data la possibilità di fruirne!

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Mostre Sottsass è nato a Innsbruck nel 1917. A partire dagli anni ’50 ha affiancato all’attività architettonica la ricerca sul design, avviando rapporti di collaborazione con rinomate gallerie, musei e aziende. La mostra al MART di Rovereto curata da Gabriella Belli e Milco Carboni propone due sezioni tematiche: una dedicata al design non industriale e l’altra all’architettura

Casa Mourmans e sopra Casa Wolf

«Se qualcosa ci salverà, sarà la bellezza». È la figura eclettica e poliedrica di Ettore Sottsass a sostenerlo. Il designer, architetto, urbanista, pittore, viaggiatore e fotografo la cui estetica, difficilmente inquadrabile, è stata più volte messa in discussione durante tutta la sua lunga carriera. A fare omaggio a questa particolare ricerca artistica, etica ed esistenziale è il Mart di Rovereto che fino al 22 maggio 2005 darà spazio ai momenti salienti dell’attività dell’artista, a partire dal 1948, in una mostra estremamente ricca e articolata. Un riconoscimento a quella sua ricerca globale che ha investito il senso stesso del vivere umano e che il Centre Gorges Pompidou di Parigi già gli aveva reso con un’ampia esposizione nel 1994. Nato a Innsbruck nel 1917, accostatosi all’architettura sulle orme del padre, Sottsass junior a partire dagli anni ’50 ha affiancato all’attività architettonica la ricerca sul design, avviando rapporti di collaborazione con rinomate gallerie, musei e importanti aziende. Tra queste la Olivetti, di cui è stato il responsabile del design per oltre trent’anni e per la quale ha creato oggetti divenuti icone del disegno industriale mondiale. La mostra del Mart, curata da Gabriella Belli e Milco Carboni, indagando questa duplice dimensione dell’attività di Ettore Sottsass, oggi ottantasettenne, propone due di-

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ROVERETO - MART

Il design metafora della vita Ettore Sottsass fino al 22 maggio stinte sezioni tematiche: una dedicata al design “non industriale” e l’altra all’architettura, entrambe ordinate con rigore filologico, con materiali antichi e recenti, e anche con opere inedite. «Per me, il design è un modo di discutere la vita, società, la politica, l’erotismo, il cibo e persino il design stesso – sostiene l’artista –. È un modo di costruire, una possibile utopia figurativa o una metafora della vita. Certo, per me il design non è limitato dalla necessità di dare più o meno forma a uno stupido prodotto destinato a un’industria più o meno sofisticata; per cui, se devi insegnare qualcosa sul design, devi insegnare prima di

tutto qualcosa sulla vita e devi insistere anche spiegando che la tecnologia è una delle metafore della vita». Con questo spirito Sottsass ha rinnovato profondamente la concezione del funzionalismo propria della prima metà del Novecento, restituendo agli oggetti uno spessore simbolico ed emotivo. La mostra presenta le varie tipologie progettuali che hanno visto impegnato l’architetto con accostamenti sempre nuovi di forme, materiali e colori. Ecco dunque i gioielli, realizzati dagli anni ’60 ad oggi, e presentati insieme per la prima volta, oppure i vetri, vera passione del grande architetto. Eccezionale la

sezione dedicata alla ceramica: la più importante retrospettiva mai realizzata sul lavoro dell’artista in questo campo, ambito in cui la sottsassiana interpretazione dell’incontro tra spiritualità orientale e materialismo occidentale si fa più evidente. Ma è soprattutto nella progettazione dei mobili, che la forza innovativa dell’ingegno di Sottsass non conosce ostacoli, facendo dell’architetto una figura centrale del design internazionale. La seconda sezione della mostra si propone come la prima antologica sull’attività di Ettore Sottsass architetto e ripercorre, attraverso un centinaio di disegni, schizzi e modelli, l’intero arco della sua attività, dai primi lavori in collaborazione con il padre agli inizi degli anni ’50, al periodo dell’architettura radicale sino ai progetti realizzati con lo studio Sottsass e Associati e a quelli attualmente in corso. Quella di Sottsass è un’architettura disegnata attorno all’uomo: una creatività e una progettazione antropocentrica tesa a stabilire un contatto organico tra la natura e la costruzione, seguendo un’ideale di saggezza contadina ed interpretando i dettami del genius loci, ovvero l’antico spirito protettore dei luoghi. Insomma, un maestro dalla straordinaria, ironica, fresca creatività, che continua a stupire. Info: Tel. 800.397760; sito web: www.mart.trento.it.

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Mostre PALAZZO FORTI

Olivieri e Rivadossi Alla Galleria d’Arte Moderna due mostre in contemporanea fino al 12 giugno. Si tratta di artisti locali di fama internazionale, diversi nelle scelte e negli esiti artistici. Il primo pittore, il secondo scultore e designer

di Laura Muraro La Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Forti a Verona torna a focalizzare l’attenzione sull’arte italiana e lo fa con le mostre in contemporanea dedicate a due artisti locali ma di fama internazionale: il pittore veronese Giorgio Olivieri e lo scultore-designer bresciano Giuseppe Rivadossi. L’attività e l’opera di Olivieri e Rivadossi coprono il medesimo arco di tempo che va dagli anni ’70 ad oggi: è il solo dato che accomuna questi due artisti, pressoché coetanei, ma così diversi nelle scelte e negli esiti artistici. Giuseppe Rivadossi

GIUSEPPE RIVADOSSI IL CUSTODE DEL TEMPO Giuseppe Rivadossi, designer e scultore, è nato nel 1935 a Nave, in provincia di Brescia, dove risiede e dove si trova la sua famosa “Officina Rivadossi”. Esordisce negli anni ’60 con sculture in legno e terracotta, quindi dedica la sua attenzione allo spazio casa trasformando la vecchia falegnameria del padre Clemente, dal quale aveva ereditato l’amore per l’arte, in un cantiere-studio, avvalendosi della collaborazione dei figli e dell’aiuto di un’equipe specializzata. Qui si elaborano progetti e si realizzano mobili, strutture e situazioni per lo spazio abitativo dove il legno è la materia principe, usata nel massimo rispetto delle sue caratteristiche. A Verona si potrà vedere una raccolta di opere realizzate nella lunga stagione

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«Il lavoro di Rivadossi, sia come scultore che come designer – spiega Giorgio Cortenova, direttore della Galleria d’Arte Moderna e curatore di entrambe le mostre –, richiama una visione della forma plastica contenitrice dello spazio che si innesta nel solco della tradizione italica. L’arco etrusco, passato poi al mondo romano, è la più compiuta rappresentazione di questa idea»

creativa di Rivadossi: dalle sculture alle opere di design. Per quanto riguarda la scultura, dopo le iniziali esperienze giovanili, nascono prima i nudi bronzei di donna, vista come archetipo della vita stessa, e altre sculture lignee, poi, negli anni ’90, opere in terracotta, pietra e bronzo rappresentanti la maternità. Il Rivadossi designer, definito il Gaudì italiano, propone negli anni ’70 credenze, contenitori, madie in legno dalle forme chiuse, semplici, forti e simbolicamente protettive, e alcune mosse in superficie da cavità e aperture. Successivamente l’idea di fusione fra uomo, storia, natura, ambiente e quella della casa come rifugio gli fanno realizzare opere massicce, possenti e di maggior impatto. Ne seguono altre che presentano invece una maggior leggerezza strutturale e

altre ancora che ricercano più funzionalità e linearità. «Il lavoro di Rivadossi, sia come scultore che come designer – spiega Giorgio Cortenova, direttore della Galleria d’Arte Moderna e curatore di entrambe le mostre –, richiama una visione della forma plastica contenitrice dello spazio che si innesta nel solco della tradizione italica. L’arco etrusco, passato poi al mondo romano, è la più compiuta rappresentazione di questa idea. Suggerisce infatti una forma costruttiva che è uno spazio vivibile all’interno della stessa e che, trasformato in navata, abside e arcata, continua poi nella tradizione romanica e gotica nord europea. Nell’opera di Rivadossi emergono quindi una grande forza che deriva dalla storia artistica e architettonica cui egli si richiama, una grande concezione del tempo che gravita nello spazio e ancora un grande slancio mistico che deriva dall’attenzione all’arte gotica». Per spiegare il titolo di questa esposizione “Giuseppe Rivadossi - il custode del tempo” si deve far riferimento al rapporto fra l’artista e il tempo. «Mentre lo spazio è misurabile concretamente, la misura del tempo è un concetto puramente virtuale e astratto ed esiste solo nella nostra coscienza ed esperienza mentale – conclude Cortenova –. Ma gli artisti cercano da sempre di rappresentarlo visivamente e lo fanno attraverso l’unico strumento a loro disposizione: lo spazio. Il tempo viene raffigurato quindi come prospettiva nella pittura e come vuoto lasciato dal pieno della materia nelle arti plastiche». E ciò vale anche per Rivadossi.

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Mostre ARTE MODERNA GIORGIO OLIVIERI. SULL’ORLO DELLA LUCE

Giorgio Olivieri

«L’artista lavora sulle relazioni che ci sono tra gli elementi della pittura (luce, superficie, spazio)così che ogni elemento si viene a trovare sull’orlo dell’altro» Giorgio Olivieri nasce nel 1937 a Verona, dove vive e lavora. Si diploma all’istituto d’Arte di Modena ed inizia la sua attività espositiva alla fine degli anni ’50, partecipando a mostre ed esposizioni in Italia e all’estero, sviluppando la propria ricerca nell’ambito della pittura non oggettiva. A Palazzo Forti si potrà trovare una scelta di opere eseguite fra gli anni ’70 e ’90, che vanno da “quadri-oggetto”, geometrici e monocromi, a lavori caratterizzati da una maggiore libertà espressiva e cromatica, dove bande multicolori o bastoncini colorati sono disposti ai bordi di fondi monocromi. Si passa poi a matasse di colore filamentose e opere caratterizzate dalla presenza di sabbie, impasti acrilici, spaghi, fino a dipinti più recenti percorsi ancora da corde, ora però impreziosite da nappe che si dispongono lungo il perimetro della tela o ne intersecano la superficie. «Questa antologica di Olivieri – spiega Cortenova – si inserisce in un percorso di sviluppo e approfondimento di “Astratta”, una precedente mostra ad ampio raggio storico che riuniva le esperienze dell’arte astratta italiana dal dopoguerra agli anni ’90. Questo artista infatti, fin dai suoi inizi, ne ha seguito la traccia fornendole un serio contributo, specie nell’ambito della cosiddetta “nuova pittura” e rivelandosi in questo settore uno dei pittori italiani più apprezzati anche a livello europeo. È stata la sua storia a suggerirci di allestire una antologica che percorra il suo iter artistico, molto utile anche per capire come le esperienze dell’arte astratta, nate intorno agli anni ’70, si siano sviluppate nel corso di oltre 30 anni». Il titolo della mostra in questione “Giorgio Olivieri. Sull’orlo della luce” chiarisce ulteriormente il significato dell’opera di questo nostro concittadino, autore di una pittura semplice, minima ed essenziale . «L’artista lavora sulle relazioni che ci sono fra gli elementi della pittura (luce, superficie, spazio) – precisa il direttore della Galleria –, così che ogni elemento si viene a trovare sull’orlo dell’altro. In particolare questo artista concentra la sua attenzione sul rapporto che c’è fra la luce e il buio (elementi primari della pittura): si colloca quindi al confine fra l’uno e l’altro».

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Oggetti inutili ma densi di significato Arcangelo Sassolino scopre la sua fede artistica alla School of Visual Art di New York di Silvia Castagna «A me non interessano le immagini, viviamo nelle immagini siamo immersi nelle immagini, tutti vogliono fare immagini. Io lavoro contro l’immagine, la trovo un congegno funebre e angoscioso». Si apre con questa affermazione, criptica e apparentemente paradossale per uno che di mestiere fa lo scultore, l’ultima mostra personale, intitolata Rimozioni, di Arcangelo Sassolino, giovane artista che ha recentemente fatto tappa a Verona, alla Galleria Arte e Ricambi. Arcangelo Sassolino ha 38 anni, vive a lavora a Trissino, in provincia di Vicenza, con un passato di disegnatore di giocattoli in una filiale americana della Casio. «Il lavoro era creativo, interessante – spiega l’artista –. Mancava però l’aspetto poetico della creazione». Si iscrive dunque alla School of Visual Art di New York, dove scopre

ciò che definisce la sua fede. «Mi affascinava l’idea di costruire oggetti apparentemente inutili, non funzionali, che fossero, tuttavia, espressione di valori fondamentali per l’uomo». Abbandona i giocattoli, rientra in Italia e inizia la sua carriera artistica. Si lega alla galleria milanese Grossetti dove allestisce tre mostre personali: Concrete Matters nel 2001, MiArt e Art Cologne nel 2002 e nel 2003. Contemporaneamente partecipa ad alcune collettive, fra cui: N-E ossia Nordest, a Milano, Materia e Niente a Venezia, alla Fondazione Bevilaqua, Mito-Logica-Mente a Castelbasso (in provincia di Teramo) e Autonomie di Milano. La sua produzione viaggia a cavallo tra l’arte e l’architettura: «Mi interessa intaccare i piani spaziali, non solo usarli come piedistalli. Per questo taglio l’architettura, la rimuovo dalla propria sede». È il caso dell’opera Rimozioni, in pratica un pezzo di pavi-

Arcangelo Sassolino

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Mostre

Arcangelo Sassolino. Rimozioni mento strappato dal suolo: quintali di piastrelle e calcestruzzo a formare un quadrato di 20 metri, tenuto insieme da una rete metallica elettrosaldata e sospeso per aria grazie a cavi di metallo. «È una rivoluzione concettuale – spiega l’artista –. La galleria diventa essa stessa oggetto artistico, il contente si fa contenuto». Per le sue opere, spesso enormi, usa materiali standard da costruzione. Le sue creazioni sono lastre e parallelepipedi grandi come pareti, color grigio opaco come il più comune cemento da cantieri. Sassolino parla di «riferimento antropologico» per spiegare la scelta del cemento come materiale scultoreo. È infatti il cemento a dominare il paesaggio del Nordest italiano, fra capannoni, prefabbricati, centri commerciali, rivendite all’ingrosso e locali, ma spiega: «Il mio non è un elogio al cemento, quello che mi interessa è la sua lavorabilità, la sua valenza sociale, e poi non riesco a sfuggire dal fare qualcosa di fisicamente pesante». E “fisici” i suoi lavori lo sono di certo: evocano il senso della pesantezza, della massa, della pressione trattenuta, di stridore di superfici in attrito

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fra loro. Non possiedono alcuno spunto figurativo, nessun riferimento a icone dei media. «Mi piace lavorare sull’oggetto» conferma «i miei lavori sono contenitori di pressione, non mi interessa creare figure simboliche o rappresentative». Delle immagini e di chi le crea, i cosiddetti creativi, Sassolino diffida con ironia: «Oggi si confonde la creatività con l’arte, invece non sono la stessa cosa. L’arte impiega venti a volte trent’anni a compiersi e quando ciò accade fa terra bruciata di tutta questa abbondanza di creativi». Non teme le affermazioni nette Arcangelo, né le difficoltà legate alla realizzazioni di opere così complesse, faticose da allestire e da trasportare. «Nell’arte bisogna avere pensieri radicali, bisogna aver coraggio». E aggiunge:«Per fare arte bisogna avere un forte senso del proprio tempo e della propria cultura. Si devono fare i conti con ciò che ci ha preceduto e fare scelte precise. Le mie sculture sono espressione di un tempo compresso, di una memoria continua. Fare arte – conclude Sassolino – è il tentativo di conciliare la coscienza di esistere con il resto della realtà».

«Oggi si confonde la creatività con l’arte, invece non sono la stessa cosa. L’arte impiega venti, a volte trent’anni a compiersi e quando ciò accade fà terra bruciata di tutta questa abbondanza di creativi»

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Mostre VERONA

La collezione Fnac agli Scavi Scaligeri Nata nel 1978 sarà in città a maggio. Potremo così ammirare i 400 scatti che hanno fatto la storia della fotografia Jean Shrimpton (David Bailey). Acquisizione Fnac del 1984

di Wilma Quartarolo In principio – forse molti non lo sanno – fu solo fotografia. Poi, solo poi, alla Fnac vennero anche libri, dischi, cd, apparecchiature tecnologiche e tutto il resto. Attualmente la società è presente in tutto il mondo con oltre 100 punti vendita e fa parte del Gruppo Pinault-Printemps-Redoute (PPR). Le origini però sono sacre e la fotografia rimane senza alcun dubbio una parte fondamentale di questo percorso di successo. A testimoniarlo sono proprio le preziose immagini raccolte ed acquistate dalla Fnac in più di mezzo secolo di attività culturale e commerciale in una prestigiosa collezione che dal prossimo 6 maggio vedremo allestita negli spazi espositivi del Centro Internazionale di Fotografia - Scavi Scaligeri, organizzata in collaborazione con il Comune di Verona. La collezione Fnac, nata nel 1978 per un’iniziativa dell’allora direttore delle Gallerie Fnac Gil Mijangos, si compone in realtà di più di 2000 stampe originali e negli ultimi anni ha fatto tappa in numerose città italiane ed europee. Ha come intento principale quello di conservare una memoria storica e documentaristica delle esposizioni organizzate nel corso degli anni nei suoi negozi, ma anche quello di proseguire l’impegno costante nella diffusio-

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ne e nel sostegno dell’arte della fotografia e di giovani artisti di talento. La mostra veronese presenta una selezione di circa 400 scatti che hanno fatto la storia della fotografia, come quelli celebri di Daguerre, di Cartier Bresson, Man Ray, Berenice Abbot, Robert Doisenau, Erwit, Brassai, Berengo Gardin, Ghirri, Tina Modotti e di moltissimi altri autori di enorme spessore artistico, senza trascurare anche alcune opere di giovani talenti. Svincolate da limitazioni temporali, tematiche o stilistiche, le immagini spaziano dai più svariati generi fotografici: ci sono ritratti, riproduzioni paesaggistiche, reportage, immagini di moda ed anche lavori di ricerca e sperimentazione. Si tratta di una raccolta di stampe che, a detta degli stessi promotori, intende mantenersi libera da considerazioni speculative e svincolata da limitazioni temporali o stilistiche. Così come era stato del resto negli intenti di chi, fin dalla

seconda metà del secolo scorso, ebbe l’idea di creare Fnac, che muove i primi importanti passi in una Parigi (e non poteva essere altrimenti) ricca di fermenti artistici e culturali che toccano ogni genere espressivo, in primis, naturalmente, un’arte giovane e coinvolgente quale la fotografia.

Bord de Sein (Henri Cartier-Bresson) Acquisizione Fnac del 1976

Così il primo negozio aperto nel 1954 da due lungimiranti imprenditori francesi, Andrè Essel a Max Theret, è sì un punto di vendita di articoli fotografici, ma ospita al contempo opere di giovani artisti di talento, presenta mostre di pregio culturale, sociale e storico, organizza dibattiti e workshop. Diventa in breve tempo punto di riferimento di molti appassionati dello scatto in bianco e nero. L’idea, decisamente all’avanguardia per l’epoca, è affascinante ed ottiene larghi consensi e riconoscimenti in tutta la Francia. Fnac coglie al volo l’occasione di promuovere la propria attività: allarga gli orizzonti, apre nuovi negozi e centri culturali, varca i confini, organizza altre mostre, comincia ad acquistare e mettere da parte immagini rare ed importanti e si dedica contemporaneamente anche alla vendita di libri, dischi e apparecchiature elettroniche di vario genere. Decide che sempre – comunque – all’interno dei suoi negozi uno spazio debba essere dedicato all’incontro, al dibattito, all’evento culturale. Il resto è storia contemporanea: Fnac diventa in qualche decennio il famoso colosso commerciale ed imprenditoriale che tutti conosciamo.

Ascension (Clark et Pougnard) Acquisizione Fnac del 2001

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Mostre DA VEDERE FUORI PORTA a cura di Maria Grazia Tornisiello Monet, la Senna, le ninfee. Il grande fiume, il nuovo secolo Fino al 3 aprile Brescia, Museo di santa Giulia Una delle più grandi storie della pittura in Europa, narrata in oltre 110 opere provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo. Un fiume che è diventato una leggenda dell’arte. Tel. 0438.412647; e-mail: info@lineadombra.it; web: www.lineadombra.it. I sentieri delle origini Fino al 9 aprile Milano, Galleria Agoràrte È il titolo della prima personale italiana di Emmanuel Rocco-Cuzzi, esponente della giovane pittura sudamericana. La mostra raccoglie quaranta opere che rappresentano luoghi irreali trasformati in altari su cui sono dipinti segni primitivi, monoliti e totem. Tel. 02-86917441; e-mail: info@agorarte.com; web: www.agorarte.com. Primaticcio, un bolognese alla corte di Francia Fino al 10 aprile Bologna, Palazzo di Re Enzo e del Podestà La rassegna è già stata presentata al Louvre ed ora giunge in Italia con alcune aggiunte. Il percorso si dipana illustrando lo sviluppo dell’arte di Francesco Primaticcio, che riunisce lo spirito del Manierismo italiano con le influenze del Rinascimento francese. Tel. 800.697616; web: www.primaticcio.it. Gaetano Pesce. Il rumore del tempo Fino al 18 aprile Milano, Fondazione la Triennale di Milano La Triennale di Milano presenta la prima grande mostra mai realizzata in Italia sull’architetto e designer Gaetano Pesce. L’esposizione, suddivisa in nove capitoli, ognuno dei quali mette a fuoco questioni affrontate dall’artista nelle sue opere, si avvale di oggetti, disegni, testi e video. Ogni quindici giorni un personaggio conosciuto, non necessariamente un esperto, sceglierà di mostrare alcune opere e nasconderne altre. Tel. 02.724341; web: www.triennale.it. Sotto l’ombrello della fantasia. Gianni Rodari e i suoi maggiori illustratori dal 1950 a oggi Fino al 25 aprile Centro Arte Contemporanea di Cavalese (TN) Un’inedita esposizione che permette di ripercorrere la felice produzione di Gianni Rodari,

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importante figura della letteratura per l’infanzia in Italia e in Europa, attraverso un’esposizione dedicata ai bozzetti originali dei più famosi illustratori. Tel. 0462.235416; e-mail: info@artecavalese.it; web: www.artecavalese.it. Omaggio al Quadrato Fino al 30 aprile Bologna, Museo Morandi, Palazzo d’Accursio Il Museo Morandi di Bologna, in collaborazione con il Museo Josef Albers Quadrat di Bottrop in Germania e con la Anni and Josef Albers Foundation di Belthany nel Connecticut, ospita la retrospettiva sul maestro del Bauhaus tedesco Josef Albers. In mostra dipinti, opere su carta, fotografie e oggetti, ma soprattutto i famosi Omaggi al quadrato e le Varianti della fine degli anni ’50 e ’60, i tanti studi su carta e i fotocollage. Tel. 051.203128; e-mail: mmorandi@comune.bologna.it; web: www.museomorandi.it. Il Bello e le bestie. Metamorfosi, artifici e ibridi Dal mito all’immaginario scientifico Fino all’8 maggio 2005 Mart di Rovereto (TN) Dalla mitologia classica alle manipolazioni dell’età contemporanea, l’ibrido come incrocio tra umano e animale, spirituale e carnale, come metafora della realtà e punto di vista sul mondo. Centauri e sirene, fauni e meduse, sfingi e arpie, visioni di sogno e apparizioni da incubo nella cultura visiva occidentale tra passato, presente e futuro. Tel. 800.397760; web: www.mart.trento.it. Camille Pissarro. Impressioni Incise Fino all’8 maggio Centro d’Arte e Cultura Brolo Mogliano Veneto (TV) Dedicata a uno dei fondatori del movimento impressionista, Camille Pissarro, e promossa dall’assessorato alla Politiche culturali, la rassegna moglianese presenta oltre 90 dipinti che fanno il punto sull’intensa e significativa opera grafica dell’artista francese. Tel. 041.5905151 Giovanni Boldini Fino al 29 maggio Padova, Palazzo Zabarella La grande retrospettiva su Giovanni Boldini (1842-1931): una selezione di circa centoventi opere illustra il percorso artistico del grande pittore, dalla giovinezza legata a Firenze all’adesione al gruppo dei Macchiaioli, alla maturità. Le opere esposte sono solo una porzione

della sua enorme produzione pittorica, provenienti dai maggiori musei e collezioni private europee e americane. Tel. 049.8753100; e-mail: info@palazzozabarella.it. Paolo Veronese. Miti, ritratti, allegorie Fino al 29 maggio Venezia, Museo Civico Correr La mostra propone trenta capolavori attraverso i quali indagare i caratteri innovativi e peculiari dell’ opera di Paolo Veronese, dalle allegorie agli splendori degli anni ’70 e ’80, dai ritratti alle scene mitologiche, caratterizzati da una visione favolosa, sensuale e vibrante. Si tratta di opere provenienti da collezioni e musei europei e americani, in molti casi mai esposte in tempi moderni in Italia. Tel. 041.5209070; e-mail: mkt.musei@comune.venezia.it; web: www.museiciviciveneziani.it. Nicolò dell’Abate. Storie dipinte nella pittura del Cinquecento tra Modena e Fontainebleau Fino al 19 giugno Modena, Foro Boario In mostra circa 250 lavori, tra dipinti, disegni, incisioni, sculture e oggetti della produzione superstite di Nicolò dell’Abate, l’artista famoso per i suoi fregi e i suoi paesaggi, artisticamente attivo presso la corte del re di Francia, ma anche opere del Correggio, del Dosso, di Girolamo da Carpi, di Parmigianino e Pordenone. Tel. 059.200100. Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa Fino al 3 luglio 2005 Vicenza, Museo Palladio Un viaggio affascinante attraverso 300 opere provenienti da oltre cinquanta musei internazionali, tra cui dipinti di Veronese, Tiziano, Tintoretto, Guercino e un itinerario che tocca le più belle fra le quasi 5mila ville disseminate tra Veneto e Friuli. Tel. 199.112.112; web: www.cisapalladio.org. Il vino di Dioniso - Dei e uomini a banchetto Fino al 31 agosto Rovereto (TN), Museo Civico Mostra che presenta una selezione di eccezionali materiali archeologici, del periodo magnogreco e dell’età romana, in gran parte provenienti dal Museo di Metaponto e con una scelta di reperti appartenenti alle collezioni del Museo Civico di Rovereto. Tel. 0464.439055; e-mail: museo@museocivico.rovereto.tn.it; web: www.museocivico.rovererto.tn.it.

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Cultura

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Territorio L’ESCURSIONE

La Valle dei Progni: un tesoro da conservare Il Parco della Val Sorda si raggiunge percorrendo la vecchia strada per Molina, prima dei tornanti. Già all’inizio del percorso si possono ammirare le bizzarre forme scavate nella roccia dall’acqua e dal ghiaccio nel corso dei millenni

Il sentiero segue il torrente ed è spesso attrezzato con corrimano, catene, scalette e passerelle

di Guido Gonzato Anni fa mi capitò di sentire il commento di una coppia di turisti inglesi che dalla Stazione ammiravano, incantati, la cerchia di montagne innevate che contornava la città: «Che meraviglia.

Non sapevamo che ci fosse tutta questa natura vicino a Verona!». Anche molti veronesi non sanno che nella nostra provincia ci sono tanti piccoli paradisi da visitare. Il termine sembrerà forse esagerato o retorico, ma non lo è: basti ricordare i toni entusiastici con cui lo scrittore tedesco Wolfgang Goethe descrisse il panorama da lui goduto dal crinale del Monte Baldo. LA VALLE DEI PROGNI

Il particolare habitat della Val Sorda

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Una delle particolarità naturalistiche che più rappresentano i Monti Lessini sono le profonde incisioni vallive, denominate localmente “vaj”, che si dipartono dalle Piccole Dolomiti a formare un bel ventaglio rivolto verso la Pianura Padana. Sul fondo delle nostre vallate raramente possiamo incontrare un corso d’acqua, se non in caso di forti piogge: infatti, a causa della natura carsica del territorio, l’acqua viene assorbita nel sottosuolo. Naturalmente, ci sono delle eccezioni a questa regola. Il più bell’esempio è forse rappresentato dalla meravigliosa oasi naturalistica denominata “Valle dei Progni”, ovvero la “Valle dei torrenti”. Situata pochi chilometri a nord dell’abitato di Fumane, in Valpolicella, la Valle dei Progni è un piccolo bacino idrografico relativamente separato dal resto della Lessinia. In termini sempli-

ci, si tratta di un’area dove vari piccoli torrenti confluiscono in uno unico, il Progno di Negrar: uno dei pochissimi della Lessinia a non essere quasi mai in secca. La zona della Valle dei Progni ha beneficiato di particolari attenzioni da parte del Creatore, che sembra avervi voluto concentrare un gran numero di meraviglie della Natura. La vallata è infatti molto raccolta, silenziosa, completamente ricoperta di verde: prati nel fondovalle, fitta boscaglia lungo i versanti. Il rumore della civiltà sparisce, sembra essere assorbito dalla vegetazione; gli unici strepiti sono il canto degli uccelli e il mormorare del torrente. Numerose piccole vallate laterali si innalzano ripide su entrambi i versanti, formando spesso pareti verticali di roccia: veri e propri piccoli canyon umidi e ombrosi, da cui spesso scendono minuscoli rigagnoli. Vi trovano riparo numerosi animali selvatici, come la volpe, il tasso, lo scoiattolo e diverse specie di anfibi e di rettili. GIUSEPPE PERIN

Conosciuta in precedenza solo dai contadini della zona, negli anni ’60 e ’70 la Valle dei Progni venne “riscoperta” da Giuseppe Perin: naturalista, insegnante di scienze, poeta e instancabile divulgatore. Molti si ricordano di lui come Fratel Perin: era infatti

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Territorio

un membro laico della comunità di Don Calabria. L’IDEA DEL PARCO

Esplorando la zona per motivi di ricerca archeologica (oltre a tutto il resto, la Valle dei Progni è anche ricca di importantissimi siti e reperti preistorici), Fratel Perin rimase colpito dalla bellezza dei luoghi, peraltro decisamente impervi e difficili da visitare. Decise quindi che avrebbe fatto in modo che tutti potessero goderne: era nata così l’idea della realizzazione del Parco delle Cascate di Molina e del Parco della Val Sorda. Quest’ultima è una profonda incisione che scende dall’abitato di Mondrago. L’imbocco della valle si trova lungo la vecchia strada per Molina, dove iniziano i tornanti; qui si può parcheggiare e si incontrano i cartelli che segnalano l’inizio del percorso. Il sentiero segue il corso del torrente, ed è spesso attrezzato con corrimano, catene, scalette e passerelle; l’accesso non è purtroppo possibile ai disabili e i bambini piccoli. Il percorso completo fino a Mondrago richiede all’incirca un paio d’ore; da qui, altri sentieri conducono a Molina. LA TRADIZIONE E IL DEMONIO

Fratel Perin sosteneva, non so quanto seriamente, che il nome di Mondrago deriverebbe da De-

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mon Drago: la tradizione locale, infatti, attesta la costante presenza del demonio nella zona. In effetti, durante il periodo invernale la Val Sorda è cupa e ombrosa, e ha un certo che di dantesco. Fratel Perin si adeguò comunque a questa diceria, e com’era solito fare battezzò alcune particolarità geologiche con nomi come “la balera dei diavoli”, “le impronte dei demoni”e così via. IL PERCORSO

Già all’inizio del percorso si ammirano le bizzarre forme scavate nella roccia dall’acqua e dal ghiaccio nel corso dei millenni. Sulle pareti si leggono ancora le indicazioni scritte da Fratel Perin per l’utilizzo di alcune attrezzature (teleferica, altalena, via ferrata), rimosse in seguito per motivi di sicurezza, e per evidenziare i dettagli geologici più interessanti. Tra questi, un filone verticale di basalto, spesso meno di mezzo metro, che taglia gli strati di calcare grigio, visibile sulla destra per chi risale la valle. Sempre in quella direzione, poco più avanti, si osserva una bancata di calcare grigio, composto quasi interamente di gusci fossilizzati di un mollusco bivalve tipico di questi strati: il Lithiotis problematica. Per chi sa guardare, ci sono anche splendidi esemplari di piccole spugne fossili che, essendo per fortuna poco appariscenti,

Fratel Perin rimase colpito dalla bellezza dei luoghi. Decise quindi che avrebbe fatto in modo che tutti potessero goderne: era nata così l’idea della realizzazione del Parco delle Cascate di Molina e del Parco della Val Sorda sono sfuggiti all’attenzione dei raccoglitori. A tale proposito, da tenere presente che la Val Sorda fa parte del Parco della Lessinia, e che quindi vige il divieto di raccolta di piante, animali e rocce. MASSI E CASCATE

Proseguendo lungo la valle, il sentiero diventa a tratti piuttosto impegnativo. Le passerelle e le scale aggirano e scavalcano di continuo enormi massi, cascate, scivoli naturali coperti di muschio e mucillagine. In un punto situato a circa metà percorso, il sentiero sembra terminare contro una cascata: invece si seguono le indicazioni, ci si infila sotto un masso in una piccola grotta, si fa attenzione a non sbattere la testa... e si emerge qualche metro più in alto, dove si può proseguire con maggior facilità. Se porta-

te bambini, state certi che saranno entusiasti della piccola avventura! Il fondo del torrente è cosparso di ciottoli bianchi e neri. Paradiso e Inferno, diceva Fratel Perin: calcare bianco, formatosi dal fondo melmoso di antichi mari tropicali, e basalto nero, lava che veniva a giorno in filoni che sconvolgevano il fondo di quei mari. Mano a mano che si sale, diventano sempre più frequenti anche i frammenti di selce: una roccia liscia, simile a vetro colorato, con cui i nostri antenati costruivano i loro strumenti. Se avete la possibilità di farvi accompagnare da qualcuno che ne capisce, vi indicherà che alcuni dei frammenti di selce sono chiaramente lavorati dalla mano dell’uomo. Fino ai primi anni del Novecento, infatti, sopravviveva l’industria della fabbricazione delle pietre da acciarino e la selce grigia della zona si prestava molto bene allo scopo. Piccoli frammenti rettangolari di selce lavorata, cioè piccole lame da acciarino mal riuscite, sono piuttosto frequenti da trovare. Raccoglietele, osservatele, e poi rimettetele a terra! L’ultimo tratto del sentiero, che si inerpica uscendo dalla valle per raggiungere i prati di Mondrago, è letteralmente ricoperto di schegge di selce. Qui l’esperto potrà anche riconoscere scarti di lavorazione di manufatti risalenti alla preistoria. La valle termina poche centinaia di metri più avanti, il sentiero raggiunge una strada bianca che conduce a Mondrago. Dopo il meritato riposo, decidete se tornare indietro o se proseguire per Molina e da qui, con una passeggiata facile ma piuttosto lunga, tornare alla base. IL PROBLEMA DELLE CAVE

Rientrando verso Verona, pensate se la visita alla Valle dei Progni e alla Val Sorda vi ha risollevato lo spirito. Credo che non ne dubiterete. Considerate allora se varrà la pena darsi da fare per difendere questo piccolo paradiso dal pericolo che una nuova cava, di cui si prospetta l’apertura, lo sfiguri per sempre.

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Viaggiare PORTOGALLO

Lisbona, sogni mancati La città ha un glorioso passato. Una superpotenza negli anni d’oro del 1600, quando le navi solcavano l’oceano per tornare colme dei tesori delle Americhe

di Michele Domaschio C’è una scala, in Praça do Comercio: ti ci portano i vecchi lisboeti, se gli offri qualche spicciolo e un sorriso. È una scala speciale: parte imponente dalla balaustra che delimita la piazza, e i suoi gradini discendono – sempre più coperti di fango e salsedine – fino a immergersi nelle acque del Tago. Qui la città finisce e inizia il suo amore per il fiume. Lisbona digrada indolente verso il Tago come questa scala, e ti lascia una malinconia che nessun ponte può colmare, nemmeno se si protende con le imponenti arcate del “25 de Abril”, il monumento architettonico che celebra la storica e incruenta Rivoluzione dei Garofani. Abituata a nascere e rinascere dalle acque, Lisbona ha vissuto epoche di fastoso splendore e straordinaria decadenza. Dopo il terremoto del 1755, ad esempio, il marchese di Pombal la fece nuovamente abbellire con palazzi traboccanti di

stucchi e ori, e nemmeno gli incendi che a più riprese hanno martoriato l’Alfama, il quartiere storico della città, sono stati in grado d’intaccarne il fascino. La città conserva gelosamente la memoria del suo glorioso passato, più con la Torre di Bèlem – a dire il vero – che con il moderno monumento ai navigatori, un passato fatto di grandi speranze di là dall’oceano e altrettanto enormi illu-

Lisbona, Praça do Comércio

sioni svanite. La si sarebbe definita una superpotenza, questa terra lusitana, negli anni d’oro del 1600, quando le navi solcavano spavalde il mare per tornare colme dei tesori delle Americhe. Un declino lento e invisibile ne ha fatto il punto d’approdo, in epoche ben più recenti, degli eredi derelitti delle ultime vestigia del colonialismo europeo: i volti africani dei nativi provenienti dall’Angola, dal Mozambico e dalla

Guinea ancora punteggiano i vicoli dei quartieri più malfamati. Per ammirare l’intero dispiegarsi dell’urbe – ininterrotta alternanza di strette viuzze e lussuose avenida, di ripide salite ove arrancano i tram e piazzette appartate, ottime per riposarsi e gustare un caffè – si può scegliere l’ottima visuale offerta dal Castello de Sao Jorge. Oppure, per i più pigri, ricorrere all’Elevador de Santa Justa, un vero e proprio ascensore che collega la parte bassa e la parte alta della città: progettato da Eiffel, come la più famosa torre è un catafalco di putrelle e bulloni, inserito però in un anfratto seminascosto tra le case, ben diverso dalla svettante e altezzosa parente parigina. Le rotaie che portano al Barrio Alto sono invece il viatico migliore per accostarsi all’imponente facciata della cattedrale, del Carmo, alla chiesa Pantheon di Santa Engràcia, dove si rifugiano le beghine infastidite dal rutilante vociare dei turisti. In una scalcinata tabacche-

Letteratura: da Pessoa ad Antunes La letteratura portoghese è stata per lunghi anni sovrastata dalla figura di Fernando Pessoa (1888-1935), poeta estremamente eclettico, capace di esprimere il proprio talento ricorrendo a diversi pseudonimi, ciascuno dei quali dotato di una propria cifra stilistica (dall’oraziano Ricardo Reis, al bucolico Alberto Caeiro, al futurista Alvaro de Campos e così via). L’opera completa di Pessoa è stata pubblicata dopo la sua morte, fino al 1974. In Italia ne dobbiamo la conoscenza allo scrittore Antonio Tabucchi, che ha compiuto un’imponente opera di traduzione e si è dedicato alla figura dello scrittore portoghese anche attraverso la stesura di saggi critici e testi teatrali a lui ispirati. Più di recente, il panorama letterario portoghese ha visto affermarsi la scrittura avvolgente di Antònio Lobo Antunes, autore capace di de-

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scrivere nei suoi romanzi la decadenza della sua terra (dall’impero perduto, alla dittatura di Salazàr, alla difficile transizione verso la democrazia) come simbolo della corruzione dei costumi umani. Le prime opere tradotte in Italia sono state “In culo al mondo” e “Le navi” (editi da Einaudi), che hanno subito incontrato l’interesse dei lettori, affascinati da uno stile di scrittura-recitata, sospesa sul confine tra epica e tragedia. Il ritmo narrativo ha sicuramente trovato manifestazione ancor più compiuta nei romanzi successivi, “Trattato delle passioni dell’anima” (1998), “Il manuale degli inquisitori” (1999), “L’ordine naturale delle cose” (2001), sino al recente “Che farò quando tutto brucia?” (Feltrinelli, 2004), vera e propria discesa agli inferi sullo sfondo di una crepuscolare e attonita Lisbona.

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Libri ria, vicina alla Cattedrale, l’anziana signora di là dal banco elargisce sorrisi e francobolli per cartoline, ed è disarmante quando chiede se l’Italia fa parte dell’Unione Europea. Forse è l’unica lisboeta risparmiata dalla valanga pedatoria riversatasi la scorsa estate sul Paese: per un mese, infatti, il Portogallo è stato sotto i riflettori del continente e del mondo grazie agli Europei di calcio, e poco importa se sul filo di lana il trofeo è andato agli sconosciuti greci. Anzi, sembra quasi insito nel carattere di questo popolo arrivare sempre a sfiorare il successo, per poi perdere tutto a un passo dal traguardo. Per consolarsi, niente di meglio del bacalhau, il merluzzo onnipresente sulle tavole del Portogallo. La tradizione popolare vuole che qui lo sappiano cucinare in 365 modi diversi, perché per molto tempo questo è stato l’unico cibo da servire in tavola ogni giorno dell’anno, estate e inverno, molto spesso insaporito dalla miseria e dalla fame dei commensali. Il bacalhau rappresenta, inoltre, un infallibile stratagemma per riconoscere un ristoratore degno di questo nome: basta attendere l’abbinamento etilico proposto con la pietanza, perché solo i più consapevoli ne esalteranno la roboante consistenza dandolo in sposo a una buona caraffa di viño tinto, il rosso corposo della regione del Douro. Gli sprovveduti, ligi alla regola “pesce-quindi-vino-bianco”, tenteranno invece di magnificare le virtù del viño verde, un bianco giovane e un tantino sciapo che può andar bene, sì e no, per i palati malaccorti delle torme normanne, solitamente acquartierate presso gli esclusivi Club Med dell’Algarve. Non a caso, autoctoni e turisti che bazzicano questa zona – ovvero l’estremo lembo meridionale del Paese, proteso a guardare le coste nordafricane – sono additati dagli abitanti di Lisbona e di tutto il Nord come una massa di beoti, magari con le tasche piene di denaro, ma certamente a corto di materia grigia. Niente a che fare con gli occhi vispi dei ragazzini che giocano a pallone per le via del Rossio, a pochi passi dai tavolini dove Fernando Pessoa era solito fare tappa, per scrivere, riposarsi o solamente per contemplare la sua città, il suo fiume.

in VERONA

VERONA

Edizioni Achab L’altra editoria Una casa editrice come alternativa all’informazione globale. Con un particolare riguardo per quanto avviene a Cuba

Nato con la valigia in mano, da sempre impegnato nelle cooperative internazionali di volontariato, grazie alla curiosità di chi vuole conoscere i fatti da vicino, Paolo Rossignoli da tipografo si è trasformato in editore

Paolo Rossignoli in cima alla antica torre della moschea di Samarra (Irak)

Tutto è iniziato per passione, per la volontà di far conoscere i problemi della parte sfortunata del pianeta anche tra i grattacieli delle ricche metropoli. Infine per Paolo Rossignoli, che a Verona è titolare della Achab Edizioni, farsi amplificatore di chi fiato per urlare non ne ha quasi più è diventato un lavoro in opposizione allo strapotere dell’informazione globale, o globalizzata che dir si voglia. Rossignoli ammette di sentirsi un po’ come il mitico capitano del romanzo di Melville, alla perenne ricerca di una balena bianca che gli sfugge dannandogli l’anima, e questo anche se nel logo della sua casa editrice Moby Dick ha la lingua rossa e lo sguardo simpatico che la fa assomigliare a un delfino.

In questo gioco delle parti ci siamo inseriti anche noi di Verona In. Come novelli Ismaele (la voce narrante delle avventure della balena bianca) ci apprestiamo a raccontarvi di questa realtà che è tutta veronese, ma che ha occhi e braccia aperte sul globo. Lo “scaffale della balena” come lo definisce l’editore, ospita parecchi titoli, tra cui un volume dedicato alla tragedia del Kosovo, dove si ricostruisce l’immagine di un Paese conteso dalle grandi potenze per il possesso di una delle più vaste riserve di carbone d’Europa. Si viaggia poi nell’Africa distrutta dalla miseria, nel Burkina Faso, dove il rivoluzionario Thomas Sankara, ostacolato dai grandi interessi internazionali, riuscì a dare vita a uno sviluppo autonomo del Paese e fu per questo ucciso. Nato con la valigia in mano, da sempre impegnato nelle cooperative internazionali di volontariato, grazie alla curiosità di chi vuole conoscere i fatti da vicino, Rossignoli da tipografo si è piano piano trasformato in editore. «Mi sono accorto che l’informazione offerta dai principali canali mediatici è carente e spesso manipolata – ci spiega –. Così, grazie alla mia passione per il reportage e a una rete di informatori che operano nel volontariato sparsi nei vari Paesi del mondo, nel 1998 è nata la rivista Maiz (www.edizioni-achab.it/maiz) con la quale ci proponiamo di divulgare quel-

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Editoria le notizie che normalmente non vengono considerate dai grandi circuiti internazionali». Secondo l’editore il conflitto fra informazione e verità è oggi all’esasperazione e solo chi non si accontenta di una conoscenza superficiale dei fatti, utilizzando canali alternativi come i libri, adatti all’approfondimento, può arrivare a farsi una corretta opinione. È per questo che, malgrado la situazione difficile dell’editoria italiana, Achab edizioni riesce a vivere dignitosamente: «Non faccio grandi numeri» spiega Rossignoli, «il mio è un lettore impegnato, che cerca qualcosa al di là dei canali convenzionali e in questo ampio ventaglio rientrano davvero le categorie più disparate: dalle suore ai centri sociali». Achab trova in internet un grande alleato e il suo indirizzo, dove è possibile visionare l’offerta editoriale, è cliccato da circa 70 mila persone ogni mese. In rete si trova anche un’altra rivista, Isla Grande, un periodico con redazione all’Avana che racconta tutto ciò che avviene sull’isola caraibica più famosa del mondo. Ciò che più contraddistingue l’Achab edizioni è infatti la caparbietà e la completezza con cui racconta Cuba, mostrando, con gli occhi di chi la Revoluciòn ce l’ha nel patrimonio cromosomico, un fenomeno che ha fatto storia e che continua a

rappresentare per il Sudamerica un baluardo di indipendenza nei confronti degli USA. Rossignoli, che recentemente è stato anche in Iraq, ha aperto con la “Flaca” un vero e proprio canale culturale, tanto che non è raro

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L’editore scaligero con una collaboratrice alla Fiera internazionale del libro de La Habana (Cuba)

vederlo passeggiare per le vie di Verona in compagnia di dirigenti cubani, nell’ambito di quegli scambi bilaterali che con fatica e dedizione ha messo in piedi in questi ultimi anni. Che Cuba sia il suo grande amore glielo si legge negli occhi ancor prima che nel catalogo di vendita. Per Rossignoli il paese caraibico è un esempio per il Terzo mondo, un messaggio di speranza per tutta l’America Latina, un verbo da diffondere durante le numerose conferenze a cui è invitato a partecipare un po’ in tutta Italia. «A pensarci sembra incredibile come questa piccola isola abbia potuto tener testa al grande vicino con 45 anni di embargo, aggressioni e sabotaggi solo grazie alla propria volontà politica» dice l’editore. E subito aggiunge: «Qui si realizzano cose che nemmeno il cosiddetto primo mondo riesce a fare».

In particolare Rossignoli si riferisce alla sanità cubana, «tra le migliori al mondo, tanto che l’isola di Fidèl invia ogni anno migliaia di medici in tutte le aree più bisognose della terra». A dimostrazione di ciò, dati alla mano, fornisce alcune cifre significative, come quella sulla mortalità infantile attestata sul 6%, contro il 7% dei cosiddetti paesi avanzati. Per il titolare delle Edizioni Achab Cuba è un esempio anche per quanto riguarda l’istruzione: «All’epoca della rivoluzione il Paese contava il 60% di analfabeti, un anno dopo quasi tutti i cubani erano in grado di leggere e scrivere almeno il minimo indispensabile. Questo grazie a una campagna di alfabetizzazione che ha utilizzato un metodo di insegnamento unico, oggi impiegato dall’Unicef. Inoltre nelle università cubane si formano ogni anno, gratuitamente, centinaia di studenti africani. Ma queste sono tutte notizie… che non fanno notizia» commenta avvilito Rossignoli, che considera Cuba «il massimo esempio di disinformazione globale perchè raccontare la verità mostrerebbe l’alternativa possibile al nostro modello di sviluppo». Ma la libertà, i diritti civili, la democrazia, la proprietà privata? «Tutti pensano che a Cuba ogni cosa accada perché lo impone Fidèl Castro, e infatti una delle più erronee credenze è che a Cuba non ci siano elezioni libere. In realtà gli eletti devono tornare davanti al popolo ogni sei mesi di operato per garantirsi l’appoggio plebiscitario». Secondo Rossignoli solo un 15% dell’intera popolazione cubana

vorrebbe il libero mercato, tutti gli altri sarebbero fedeli alla Rivoluzione. Un altro mito da sfatare sarebbe la mancanza di proprietà privata: «A Cuba tutti hanno un’abitazione propria, quello che non esiste affatto è invece l’accumulo di ricchezza. Certo non stiamo parlando del paradiso terrestre. Come in ogni altra società ci sono problemi e limiti ma, a mio parere, è la realtà che più si avvicina a un modello di vita a misura d’uomo». Rossignoli nell’isola ha fatto il muratore come volontario e conosce quindi tutte le norme che regolano la vita ma anche le peculiarità caratteriali del popolo cubano: ammette l’atteggiamento talvolta “ruffiano” con il turista, ma anche la grande generosità e operosità nei momenti di crisi, la tempestività con cui si affrontano i problemi come la prostituzione o la droga. Calarsi nella realtà di questo paese, dove la violenza è quasi nulla, dove per legge i bambini non possono fare più di tre chilometri per andare a scuola, è difficile per chi come noi è abituato a non fare rinunce e ad accumulare tutta la ricchezza che può nel tentativo di garantire a se stesso e ai propri figli un avvenire sicuro. Parlando del suo lavoro Rossignoli conclude dicendo di aver raccolto l’eredità spirituale di Giovanna Rossi, staffetta partigiana compagna dell’artista Mario Salazzari, che oltre all’edificio in cui ha sede la sua casa editrice e una statuetta (nella foto) che solo lui e Mao Tse Tung possiedono, gli ha lasciato la passione, la dedizione e la speranza per un mondo migliore.

Marzo 2005



Libri di Cinzia Inguanta Sostanze Arnaldo Ederle Edizione Bonaccorso pp. 120, €10

anche in un mondo tecnologico, i trucchi antichi possono creare il panico. E in fondo, al di là di tutto, la natura umana è sempre la stessa, con i suoi vizi e le sue virtù. Valpantena: valle degli dei Bruno Avesani e Fernando Zanini Editrice Verona Spa 2004 pp. 183

Un libro, Sostanze di Arnaldo Ederle, che pur continuando il percorso inaugurato con Il fiore d’Ofelia e proseguito con Paradiso e Cognizioni affettive, evidenzia un innalzamento di tono linguistico e una nuova inclinazione. La frequentazione del poemetto, come poesia di lungo respiro, si ritrova invece nell’ultimo capitolo del libro. “Oh me diviso”, infatti, è un poema drammatico separato in tre parti, che affronta il secolare tema dell’anima nel suo difficile rapporto con il corpo. Sono quindi presenti entrambe le tendenze, quella lirica e quella poetica, a confermare la capacità di Ederle di affrontare i due registri con la stessa proprietà espressiva e la stessa convinzione etica. Venezia 2036 Anna Paola Stefani Edizioni Marotta - Collana Fuori pp. 192, €12,50 Venezia nel futuro è plumbea e piovosa. Il sole si affaccia raramente in laguna. Nulla in città però è cambiato dal millennio precedente. La dottoressa Manin scopre, nell’antico e labirintico palazzo in cui lavora, il cadavere di un politico. L’assassino è vicino, mescolato tra coloro che percorrono quotidianamente i corridoi dell’Eurocenter. Un folto stuolo di personaggi si dipana tra imprevedibili meandri architettonici, che ricordano i percorsi psicologici umani. La protagonista si troverà coinvolta in un intreccio di sesso, soldi e malapolitica ai danni della laguna. Una storia senza tempo. Nonostante la visione di una città che cerca di amalgamare le nuove tecnologie al suo grande bagaglio storico, Venezia 2036 è un giallo autentico, di stampo classico. Perché,

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Un mosaico di testimonianze storiche, naturalistiche, culturali e sociali ricostruito pazientemente da due appassionati di storia locale e da un imprenditore, Stefano Albrigi, titolare di un’azienda di Stallavena che ha sostenuto l’attività di ricerca per valorizzare una delle più belle zone di Verona: la Valpantena. La denominazione “Valle degli dei” è dovuta alla presenza di templi dedicati alle divinità pagane e al Pantheon di Santa Maria in Stelle. Il volume è stato realizzato per far conoscere, soprattutto alle nuove generazioni, le peculiarità di una vallata che fin dalla preistoria ha accolto i primi insediamenti abitativi e quindi le tracce di una civiltà, contadina e poi industriale, che arrivano fino ai giorni nostri. Il risultato della collaborazione è un testo divulgativo e quindi di facile lettura, che contiene parecchi disegni e fotografie sul passato e il presente della Valpantena, intesa non in termini generici, ma di patrimonio di saperi tramandati. Conosciamoci meglio: un percorso guidato alla conoscenza delle personalità Alessandro Norsa Editrice Millennium pp. 290

Il lavoro è nato dall’idea dell’autore di raccogliere e sintetizzare il materiale e i concetti appresi nel quadriennio formativo RIZA per l’abilitazione alla professione di psicoterapeuta. Lo studio del professor Norsa, che vive e lavora a Verona, sostiene che solo attraverso la lettura comparata dei diversi approcci delle teorie sulla personalità si può avere una conoscenza complessiva e acritica. La trattazione di ogni “tipo” è affrontata da tre diversi punti di vista: prima si analizzano le caratteristiche fisiche, emotive, comportamentali e relazionali proprie della tipologia, spesso facendo riferimento ad alcune delle più accreditate teorie sulla personalità; in seguito si assimilano a quelle delle figure mitiche e simboliche nate all’interno delle diverse culture; e infine, nell’ultima parte, il terapeuta può trovare alcune indicazioni in ottica diagnostica e riabilitativa per gli eventuali aspetti patologici delle diverse tipologie. Chi avesse iniziato da poco una psicoterapia potrà avvalersi di questo libro come un ulteriore strumento di autoconoscienza, evidenziando le parti dove si riconosce maggiormente e discutendone in seduta col proprio terapeuta. Pagine di storia della Polizia italiana. Orientamenti bibliografici Pasquale Marchetto e Antonio Mazzei Neos Edizioni 2004 pp. 63, € 5,00

necessità d’informazione bibliografica nel vasto ambito delle pubblicazioni esistenti che hanno come soggetto la Polizia. Guinea Bissau Foto di Alessandro Tosatto Testi di João Dias Vicente Edizioni CMD-CUM pp.143

Questa pubblicazione sulla Guinea Bissau, pur privilegiando l’aspetto fotografico, è accompagnata da alcuni elementi narrativi sui principali aspetti di vita delle popolazioni della Guinea Bissau. Il libro presenta un Paese che nonostante la gravissima crisi sofferta ha molti aspetti interessanti, a partire dalle nobili popolazioni che lo abitano. Un Paese che vale la pena di conoscere più da vicino, per poterlo meglio apprezzare. In allegato il DVD “Guinea Bissau” prodotto da Luci nel Mondo.

in VERONA

Giornale di attualità e cultura Direttore

Giorgio Montolli g.mont@libero.it Redazione

Giorgia Cozzolino Elisabetta Zampini STUDIO

e

DITORIALE

Giorgio Montolli

Lungadige Re Teodorico, 10 37129 -Verona. Tel. 045.592695

Questo volumetto, promosso dal Centro Studi e Ricerche sulla Storia della Polizia di Stato, fornisce un’informazione su quanto finora è stato scritto sulle forze di polizia italiana, dall’arma dei carabinieri alla guardia di finanza, dalle polizie locali ai servizi segreti. L’attento lavoro degli autori ha consentito il recupero di 222 indicazioni bibliografiche sulle forze dell’ordine del nostro paese. Il volume si presenta come un’importante risposta, alla

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Novastampa di Verona Registrazione al Tribunale di Verona n° 1557 del 29 settembre 2003

N° 6/marzo 2005 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.

www.verona-in.it

Marzo 2005




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