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7 - GIUGNO 2005 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
Primo piano
Cosa fare per le persone senza fissa dimora
In copertina foto di Francesco Passarella
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Mons. Francesco Avanzini negli anni ’70, dopo essere stato direttore della Caritas di Verona, fondò la sezione cittadina del Centro Italiano di Solidarietà (CeIS) che utilizzava il metodo terapeutico “Progetto uomo”, avviato a Roma da don Mario Picchi, per far uscire tanti giovani dal tunnel della droga. Una delle frasi che don. Francesco ripeteva spesso era: “Prima uomini, poi galatuomini, quindi cristiani”. La citazione ha il sapore di una conquista personale perché nel passare da un incarico all’altro il sacerdote, non più giovane, apprese un diverso modo di aiutare il prossimo. Un diverso approccio maturato nell’applicazione di un metodo che nelle comunità terapeutiche di Piazzetta S.S. Apostoli, Poiano e Isola della Scala sistematicamente eliminava quegli aspiranti operatori che nel proprio curriculum vantavano abbondanti frequentazioni parrocchiali ma scarsa conoscenza dei problemi umani e insufficiente maturità. Quel metodo fu etichettato come “metodo per il recupero dei drogati” ma in realtà aveva, e continua ad avere, una forte valenza culturale inespressa, che andrebbe ripresa
I veronesi, che provengono da una cultura contadina, sanno che devono alla solidarietà e alla fede nella provvidenza il superamento dei momenti difficili. Tale solidarietà si manifesta anche nell’offrire cibo, vestiti, un tetto a chi è povero, spesso senza pretendere, e qui sta l’errore, nulla in cambio e spesa per risolvere i problemi quotidiani della gente e della città. Ad esempio quello delle persone, molte provenienti da altri Paesi, senza fissa dimora, che abitano nei giardini, alcune delle quali campano di espedienti criminali. Due mani che si stringono: nel logo del CeIS c’è tutta la forza del metodo basato sull’assunto che è inutile tendere la mano se dall’altra parte non c’è la volontà di afferrarla per sollevarsi da una situazione problematica. Innescare nella persona questo scatto di dignità era la missione di mons. Avanzini. Il modo con cui i veronesi entrano in rapporto con questo terzo mondo che popola le strade di Verona è invece molto diverso e trova giustificazione in alcuni riferimenti culturali che appaiono inadeguati per definire e tentare di risolvere il problema. Uno è sicuramente il solidarismo, orientamento sociale proprio del pensiero cattolico, che si manifesta con un atteggiamento di compassione e di aiuto nei riguardi di chi nella vita è meno fortunato. I veronesi, che provengono da una cultura contadi-
na, sanno che devono alla solidarietà e alla fede nella provvidenza il superamento dei momenti difficili. Tale solidarietà si manifesta nel “fare la carità”, nell’offrire cibo, vestiti, un tetto a chi è povero, spesso senza pretendere, e qui sta l’errore, nulla in cambio. La frattura determinata dal benessere in questo contesto contadino-solidale, di gente semplice, ha fatto poi crescere un nuovo modello, una pericolosa miscela di ignoranza e ricchezza, di indifferenza nei confronti dei valori della tradizione religiosa che genera, e questo è vergognoso tra esseri umani, intolleranza e disprezzo. Infine, quasi a voler bilanciare questo strappo, e per l’abbattimento di antichi e nuovi privilegi, la cultura di sinistra si è diffusa a tutela dei deboli e della giustizia con un approccio forse troppo ideologico per essere convincente, soprattutto in una città come Verona. La presenza di diversi modelli interpretativi della realtà indica che siamo in una fase di transizione, da qui la difficoltà di giungere a una linea politica chiara per la soluzione di problemi come questo. Allora l’esempio del CeIS diventa illuminante. Applicato al problema suonerebbe così: possiamo aiutarti a migliorare la tua condizione, a patto che tu lo voglia. Lo faremo gradualmente, senza pretendere grandi sforzi, ma subito ti chiederemo un minimo di impegno per quel piatto di minestra (ad esempio tenere pulito il giardino pubblico, togliere le erbacce). E le regole del gioco devono essere molto chiare: massima disponibilità e politiche di integrazione per chi si impegna, tolleranza solo per i casi disperati; allo stesso tempo linea dura con chi non si adegua. Per il suo bene e per il bene della città.
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Società LA VERONA DI DOMANI
Fotografie dal futuro L’assessore alla Pianificazione territoriale Roberto Uboldi spiega il Piano Attuativo Territoriale che ridisegna la città. L’analisi e le critiche del presidente di Italia Nostra Giorgio Massignan
Quale sarà il nuovo volto della città? Nascosto tra le pieghe delle beghe politiche e di sgangherati consigli comunali prende corpo il progetto di come potrà essere la Verona di domani
di Giorgia Cozzolino Non c’è mondo fuor dalle mura di Verona sosteneva il Romeo di Shakespeare oltre quattro secoli fa. Ma il mondo cambia e con esso anche l’immagine della nostra città. Mai come oggi si sono riaccese le polemiche e le aspettative su quella che un tempo fu terra di Montecchi e Capuleti. Quale sarà il nuovo volto di Verona? Nascosto tra le pieghe delle beghe politiche e di sgangherati consigli comunali, vi è un disegno, una fotografia dal futuro, di come potrà essere la città fra qualche anno. Si tratta del PAT, una sigla che indica il Piano Attuativo Territoriale, ovvero un
L’ex stazione frigorifera specializzata nell’area degli ex Magazzini generali
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progetto che stabilisce dove possono sorgere case, teatri, parchi, strade, oppure dove si potranno recuperare aree in disuso affidando anche nuove funzioni sociali e commerciali. Il piano però, per i non addetti ai lavori, sembra un insieme di termini tecnici e di mappe multicolore nelle quali è arduo orientarsi. Per comprendere quindi come cambierà Verona (se mai il PAT entrerà in vigore) ci siamo fatti aiutare dall’assessore alla Pianificazione territoriale, Roberto Uboldi, che in un volume intitolato “Pensare Verona” ha paragonato la città a una farfalla. Prendendo infatti in prestito un’immagine suggerita dall’urbanista Marcello Vittorini, Uboldi spiega che al corpo immaginario del più suggestivo degli insetti, idealmente costituito dalla grande area ferroviaria che da Porta Nuova arriva a Santa Lucia, si legano due ampie ali: le zone urbanizzate a Nord e a Sud. «Le due ali non rappresentano solo due parti più o meno simmetriche ma due storie, due vocazioni» spiega Uboldi. La città antica e la Zai storica sarebbero quindi le due facce di Verona: la contemplazione e l’amore per il bello e per la propria storia la prima, e il coraggio del cambiamento e dell’innovazione, la seconda. Proprio come una farfalla, la città si fa metafora del principio della trasformazione, senza dimenticare però la propria essenza. Ma qual è la vera natura di questa millenaria Verona? È proprio qui che anche Shakespeare perderebbe la parola, perché in realtà la
città scaligera è un territorio molto vasto, ben 210 chilometri quadrati (contro i 180 di Milano, per fare un raffronto), che si dipana in tipologie completamente diverse: dalla zona montana a quella agricole e metropolitana. Una, nessuna, centomila si potrebbe dire parafrasando con ironia Luigi Pirandello, ma da ridere c’è ben poco: questa vastità di tipologie comporta infatti anche un’infinita serie di funzioni, dalla turistica all’aziendale passando per la commerciale e residenziale. Ebbene, tutto ciò ha contribuito a far sì che ci volessero quasi tre anni per realizzare un Piano eterogeneo che tenesse conto delle realtà e delle relative aspettative. Ma cosa si decide davvero per Verona con questo nuovo strumento urbanistico? In primo luogo, spiega Uboldi, si stabilisce il principio di “città compatta”, ovvero uno “Stop” alla continua espansione di edifici che vanno a rosicchiare sempre più le porzioni agricole, e via libera al recupero degli spazi già toccati dal cemento. Un altro principio è poi quello della compatibilità con l’ambiente che indica la creazione di diversi parchi. I maggiori sono denominati “Adige Nord” e “Adige Sud” ai quali si aggiunge il cosiddetto Parco delle Mura che creerà un percorso verde di collegamento tra i diversi forti difensivi. Il terzo punto fermo su cui si basa il Piano è il recupero dei centri storici minori, aree urbane che conservano ancora una valenza architettonica e sociale che il tempo e la speculazione edilizia non
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Società hanno cancellato, come per esempio Parona, Avesa e Quinzano. Ma la vera scommessa di questo progetto è tutta su Verona Sud. Per questo, all’interno del PAT, è stato studiato un ulteriore progetto definito Prusst (Piano di recupero urbano sostenibile) che riguarda l’area, di quasi 300 mila metri quadrati dove sorgeva il mercato ortofrutticolo, che tiene conto della riqualificazione che la Fondazione Cariverona apporterà ai vicini ex magazzini generali e del piano di ristrutturazione della Fiera. Sull’asse di via del Lavoro sorgeranno così tre poli: fieristico, finanziario e socio-culturale. Per sintetizzare, gli ex magazzini generali ospiteranno la nuova accademia Cignaroli, un auditorium, il teatro Estravagario e diversi servizi di tipo sociale come la nuova sede dell’Ussl 20. Nell’ex mercato ortofrutticolo
Massignan: «Per la prima volta viene definito un limite urbano della città bloccandone l’espansione. C’è però da dire che in alcune zone, come Borgo Trieste e Montorio, sono permesse ancora aree di “completamento” molto simili ad aree di “espansione”» Il Prusst definisce lo sviluppo dell’area dove si trovava il mercato ortofrutticolo
cambiata: sono state approvate ben 274 varianti al piano originario che oggi portano gli amministratori a dover, in determinati ambiti, «Prendere atto di alcune situazioni più che fare delle vere e
Al di là di ogni previsione, Massignan inizia spiegando tre motivazioni per cui trova positivo il Pat. La prima è l’introduzione dei parchi urbani come quello della collina che andrebbe a tutelare
Progetto per Verona Sud (PRUSST, versione definitiva 2004)
sorgerà invece un parco di 60 mila metri quadrati che dividerà un’area residenziale da quella direzionale-finanziaria e commerciale. «L’idea è quella di evitare la monofattorialità di Verona Sud ma di creare una città nella città, firmata da progettisti illustri, dotandola di superiori standard a verde per andare a colmarne l’attuale carenza» spiega Uboldi. Dopo 30 anni dall’ultimo piano regolatore, realizzare un nuovo progetto non è stata un’impresa facile. Soprattutto perché, spiega l’assessore, nel frattempo la città è
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proprie scelte». Anche in tema di viabilità sono stati necessari dei compromessi in gran parte accolti tenendo conto dell’incredibile e continuo incremento di auto che percorrono le vie cittadine, ormai attestato intorno al 3 percento annuo. Naturalmente un piano che riprogetti il volto della città si presta anche a delle critiche. Nel mare delle accuse e disapprovazioni abbiamo scelto di sentire gli argomenti dell’architetto Giorgio Massignan, presidente dell’associazione “Italia Nostra”.
una zona abbandonata a se stessa. In secondo luogo l’architetto sostiene che «Per la prima volta viene definito un limite urbano della città bloccandone l’espansione», anche se subito precisa: «C’è però da dire che in alcune zone, come Borgo Trieste e Montorio, sono permesse ancora aree di “completamento” molto simili ad aree di “espansione”». Infine, di buono questo Pat per Massignan ha la fascia di verde che collegherà i vari forti rivalutando sia l’ambiente che le rovine storiche. Fatte queste premesse ecco l’elen-
co delle bocciature, e non sono né poche né sommarie. «In primo luogo ritengo che il calcolo di crescita demografica stimato, e sul quale si basa l’incremento edilizio, sia eccessivo. Inoltre questo Pat non prevede un incentivo, anche privato, al recupero residenziale degli edifici militari del centro storico con la legge 167 per l’edilizia popolare. Trasformare in abitazioni le vecchie caserme in disuso avrebbe un duplice effetto: drenerebbe l’espansione della città e invertirebbe il processo di abbandono del centro da parte delle giovani coppie». Ma il vero tasto dolente è la viabilità che, a dire dell’architetto, non porta una scelta radicale sui trasporti. «Facendo un po’ di strade e un po’ di trasporto pubblico non si risolve nulla: ci vuole una scelta radicale che spinga con forza verso il minor utilizzo dell’automobile». E in quanto alla «scommessa» di Verona Sud, Massignan di certo non punterebbe i propri denari: «Manca un progetto di insieme: il tutto va visto in prospettiva, non si può decidere sull’ex mercato ortofrutticolo senza prevedere anche il futuro delle Cartiere Verona e dello scalo merci ferroviario». Il Pat, secondo l’architetto, dà indicazioni troppo generiche per alcune zone rilevanti e aggiunge: «Credo che nella definizione delle aree si sia guardato troppo alla proprietà più che agli effettivi benefici che i cambiamenti comporteranno per i quartieri di Verona Sud».
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IMMIGRAZIONE
Cittadini a basso costo Con Carlo Melegari, del Centro Studi Immigrazione, abbiamo parlato della difficoltà per gli extracomunitari di spostarsi da uno Stato all’altro. «Quelli che arrivano non sono criminali, ma persone in cerca di lavoro»
di Matteo Ferrari Completati gli studi di Teologia, Carlo Melegari, che a Verona dirige il Centro Studi Immigrazione (Cestim), si è specializzato in Sociologia della religione, in Sociologia della conoscenza, laureandosi in Scienze politiche a Bologna. Ha lavorato con le Acli in Germania, Belgio, Inghilterra e ha una lunga esperienza di coordinamento di iniziative per i lavoratori italiani all’estero. – Che idea si è fatto degli italiani che sono immigrati all’estero? Si dice che emigrano i migliori…
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«Non è possibile generalizzare, ma spesso è così. Durante la mia esperienza all’estero mi sono reso conto di quello che già una certa letteratura ormai consolidata in campo sociologico e di economia del lavoro ha messo in rilievo: i flussi migratori avvengono in relazione alle capacità di assorbimento che ha il mercato del lavoro locale. Quindi se uno si trova in un posto, in linea generale si trova lì perché ha verificato che ci sono delle opportunità di reddito da lavoro regolare o di lavoro nero». – Allora vincolare l’entrata in un
Paese alle esigenze lavorative che quello stesso territorio esprime potrebbe essere la soluzione a tanti problemi… «La libertà di circolazione degli immigrati è oggi vincolata al decreto sui flussi che stabilisce quanti individui possono entrare e di che nazionalità. Si è preteso di stabilire una programmazione dei flussi/ingressi in relazione a una domanda astratta di lavoro. Non è stato preso in considerazione è che è localmente che si verificano le reciproche aspettative del datore di lavoro e della forza lavoro. Come tutte le piani-
ficazioni rigide anche questa è quindi destinata al fallimento perché la congiuntura economica è soggetta a numerose variabili. La crisi di un determinato settore, ad esempio, comporta l’espulsione dal mondo del lavoro di un certo numero di persone che prima si ritenevano necessarie. Nel veronese, nella prima metà degli anni Novanta, sono state introdotte nelle aziende di produzione del tabacco tecnologie nuove che da un anno all’altro hanno ridotto di molto la necessità di mano d’opera. Ma gli individui non sono delle mac-
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Società Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è prevista la libertà di lasciare il proprio Paese, ma non è esplicitato il diritto a entrare in un altro chinette, sono delle persone che se si spostano portano con sé dei diritti, una vita di relazione, una famiglia, dei figli…». – “Ragionando pacatamente di immigrazione” è il titolo di un suo libro di quasi 10 anni fa. Quale era l’idea cardine, e soprattutto: è ancora attuale? «Ero e sono per la libera circolazione, oltre che dei capitali e delle merci, anche delle persone. Che non vuol dire assenza di regole. Faccio un esempio. La libera circolazione stradale è un diritto di tutti, però sarebbe vanificato se non ci fossero delle regole condivise e ragionevoli. Bisogna poi partire dal presupposto che la gente si muove in base a una convinzione: che anche gli altri si spostano e scelgono le loro “strade” in maniera ragionevole. Io sono dell’idea che uno se vuole circolare con l’automobile deve sapere che per farlo gli serve la patente». – Il problema è che proprio su questa basilare regola, la libertà di circolazione, non è facile trovarsi d’accordo. «Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è prevista la libertà di lasciare il proprio Paese, ma non è esplicitato il diritto a entrare in un altro. Questo significa che ogni Stato sovrano può autonomamente decidere quanti individui far entrare e per quanto tempo farli restare sul suo territorio. Ma le regole per la libertà di circolazione devono essere fissate dentro criteri di ragionevolezza. Ammettiamo dunque che possa esistere il “permesso di soggiorno” come qualcosa di analogo al “permesso di guida” (patente). È importante tener presente che se gli ostacoli per il suo ottenimento legale vengono percepiti come eccessi-
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vi, è chiaro che avranno buon gioco l’ottenimento illegale (corruzione e permessi di soggiorno falsi) e gli ingressi clandestini, con forti conseguenze negative per gli stessi immigrati, l’ordine pubblico, la civiltà del diritto, la credibilità dello Stato, i costi enormi degli apparati repressivi». – Rimane la paura di importare criminalità, di un’invasione di extracomunitari... «Uno dei motivi per i quali una persona si muove è legato al miglioramento delle proprie condizioni di vita, che può avvenire o grazie a un reddito da lavoro (regolare o irregolare), o per attività illecita. Dagli studi che si sono fatti la componente delinquenziale nella motivazione alla migrazione è estremamente marginale rispetto alla componente da ricerca di reddito onesto da lavoro. La negazione della libera circolazione non avviene per le ragioni che spesso sentiamo menzionare, come quella che teme in questo modo un aumento dell’immigrazione. L’invasione non ci sarebbe comunque, e oggettivamente, il risultato che si ha negando la libera circolazione è questo: io avrò comunque lo stesso numero di immigrati di cui ha necessità il mio territorio, ma invece di averli da cittadini che rivendicano i loro diritti, li ho da sottocittadini, cioè da “non persone” che posso in qualche modo sfruttare. Nella realtà avviene questo». – Come pensa di convincere l’opinione pubblica che lasciare girare le persone liberamente da
L’attività del Cestim 0Due i filoni di intervento del Cestim. Il primo riguardante l’attività di documentazione-studio, ricerca e formazione; il secondo inerente agli interventi in ambiti di particolare problematicità . Per quanto riguarda il primo ambito di azione segnaliamo i servizi della Biblioteca e del sito internet accessibili a tutti i cittadini www.cestim.it. Per dare delle risposte ai bisogni degli immigrati il Cestim si è impegnato in interventi di particolare problematicità quali la casa, il lavoro, la salute e la scuola. Nel corso del 2004 il Cestim ha continuato a garantire direttamente condizioni abitative dignitose ad alcune famiglie di immigrati (per un totale di 23 persone) nei 7 appartamenti acquistati e sistemati tra il 2000 e il 2001, grazie al contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona e della Fondazione S. Zeno. È stata portata avanti anche nel 2004, in sinergia con la “Cooperativa sociale La Casa per gli immigrati”, l’azione di promozione di accordi con le Amministrazioni locali per la gestione di alloggi destinati a famiglie di immigrati in situazioni di bisogno abitativo urgente. Per quanto riguarda il problema lavoro, per tutto il 2004 è proseguito l’impegno delle collaboratrici volontarie nel servizio di accompagnamento degli immigrati nell’esplorazione di opportunità di lavoro regolare. Sul fronte della salute continua l’azione di sostegno al volontariato Cesaim (Centro Salute Immigrati) attivo presso gli edifici della Croce Rossa a Porta Vescovo dal 1993. Anche nel corso del 2004 l’ambulatorio è stato aperto tutti i pomeriggi con un’affluenza media di circa 40-50 persone. Per quanto riguarda la scuola con l’anno scolastico 2003/2004 l’organizzazione del “Volontariato dell’integrazione scolastica” è entrata a far parte con i tradizionali corsi estivi di italiano del Progetto speciale del Comune di Verona denominato “La lingua come strumento di scambio, socializzazione e integrazione fra culture diverse”. Progetto della durata di due anni, finanziato dalla Fondazione Cariverona e condotto in sinergia con il Centro Tante Tinte. Per i compiti affidati al Cestim, in convenzione, dal Comune si sono avuti i seguenti risultati: 96 sono stati i volontari del Cestim preparati e impegnati nell’attività didattica; 61 sono state le scuole della città coinvolte nell’iniziativa; 262 sono stati gli alunni stranieri di varie età seguiti; b) 357 sono stati i bambini e ragazzi stranieri che hanno frequentato i corsi di italiano nell’estate 2004.
uno Stato e l’atro può risultare più vantaggioso del suo contrario? «Anzitutto attraverso una corretta informazione su quello che
le migrazioni hanno voluto dire nel passato e vogliono dire nel presente, nelle loro cause e nei loro effetti, nei loro aspetti negativi e in quelli positivi, sotto i diversi profili della realtà sociale dei paesi di emigrazione e di immigrazione. In secondo luogo, mostrando l’attuale inefficacia, e quindi lo spreco enorme di risorse e la funzionalità oggettiva alla corruzione e ai traffici illeciti del preteso governo dei flussi, basato da una parte su complicate procedure nel rilascio dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno e dall’altra su misure di controllo e provvedimenti di espulsione velleitari e di conseguenza ineseguibili. In terzo luogo, mettendo in rilievo come l’autoregolazione dei flussi di fatto sia sempre esistita».
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Il monumento a Berto Barbarani in Piazza delle Erbe
I luoghi dei poeti
Il lunedì all’Osteria Sottoriva i poeti si alzano e leggono a turno le proprie poesie. A sorpresa regalano i loro testi ai presenti in una fantasia di foglietti, anche scritti a mano. Da settembre a maggio alla pizzeria La Fontana di Avesa, il secondo giovedì del mese, si ritrovano gli iscritti al nuovo circolo poetico Gatto Rosso. E poi altri incontri alla locanda Il Girasole a Santa Maria di Zevio, al circolo Malacarne...
di Elisabetta Zampini “La poesia è sempre in agguato dietro l’angolo” diceva Jeorge Luis Borges nelle sue lezioni americane, invitando ad aprire i propri orizzonti e a esplorare luoghi diversi. Un fenomeno non nuovo ma certamente in continuo aumento è la nascita di luoghi di incontro per poeti noti e sconosciu-
ti. Spazi informali, apparentemente inusuali per la poesia, generalmente luoghi pubblici, talvolta di passaggio, confinanti con il via vai della strada, il rumore delle macchine e il vociare della quotidianità. La poesia esce dai libri per essere letta a voce alta. È il caso dell’Osteria Sottoriva, ogni lunedì, alle 18.30. I poeti si siedono ai tavoli, parlano, discuto-
La Fontana, ad Avesa. Poesia da settembre a maggio, il secondo giovedì del mese
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no. Poi cominciano a sfogliare carte, si alzano e leggono a turno le proprie poesie. Il pubblico è quello casuale o abituale dell’Osteria. Qualcuno ascolta, altri mangiano, altri continuano a parlare, qualcuno che passa si ferma incuriosito. L’idea è nata all’instancabile Ugo Brusaporco e, un po’ alla volta, i poeti sono arrivati. Tra i molti ci sono gli affezionati: Roberto Nizzetto, Giorgio Maria Bellini, Alverio Merlo e Diego Barca. Scrivono in italiano o in lingua dialettale. «Qui c’è un’atmosfera che incoraggia a leggere – racconta Bellini – e in un certo senso si è recuperata un’antica abitudine popolare di incontro tra chi scrive poesie e la gente». La cosa piace. Ma perché la poesia? «Per me – spiega Nizzetto – la poesia è tante cose: divagazione, liberazione dell’anima. Aiuta anche a butar fora il magon. E poi – prosegue Bellini – è ricerca di linguaggio: si usano le parole come il pittore usa il colore». I poeti seguitano a leggere e poi, a sorpresa, regalano i loro testi ai
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Cultura presenti in una fantasia di foglietti, anche scritti a mano, che si sparpagliano tra la gente. Si ha quasi l’impressione che la scelta di questi luoghi non sia puramente formale, di folklore. È piuttosto una valutazione popolare, nel senso profondo. Si riscoprono e valorizzano spazi che fanno parte della storia della città e che ne disegnano i tratti più caratteristici. D’altra parte, però, c’è la voglia diffusa di poetare e il gusto di pronunciare le parole in verso, come esigenza artistica di ogni uomo e non del solo letterato, spinta dal desiderio di mettere in gioco la facoltà comune della parola. Se i confini della poesia si ampliano oltre i riconoscimenti ufficiali, diventa difficile dare una definizione della poesia che accontenti tutti e anche gli studiosi si dividono su questo argomento. Sulla variegata dimensione del far poesia è ben consapevole Armando Lenotti, segretario del Cenacolo di poesia dialettale “Berto Barbarani”: «Il senso della poesia? È un discorso ricco, non basterebbero due righe e poche parole». I poeti del cenacolo si ritrovano due volte al mese alle 21 alle scuole “Carducci” di via Betteloni, con incontri aperti al pubblico. «Tra i nostri soci – prosegue Lenotti - vi è una della grandi poetesse di sempre in vernacolo, Wanda Girardi Castellani, voce lirica di Verona». Poesia è sinonimo di bellezza. Una bellezza che ridisegna la realtà con parole non banali, emozionanti, vive. «Come dire che la bellezza è in agguato intorno a noi – sosteneva Borges –. Può venirci dal titolo di un film o da qualche nota melodia». Dello stesso parere è Nicola Saccoman, noto musicista, scrittore di poesie e gestore della locanda “Girasole” di Santa Maria di Zevio. Il suo locale ha ospitato serate di poesia, dedicate ai libri pubblicati per le edizioni Perosini. Incontri di musica e versi, a cui volentieri Saccoman ha dato ospitalità sostenendo: «File di parole in cerca di bellezza. Anche dove c’è il vuoto e
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L’Osteria Sottoriva. L’appuntamento con i poeti è il lunedì alle 18.30
si fatica. Definirei così la poesia». Sulla poesia ha scommesso anche Francesco Avesani, gestore della pizzeria “La Fontana” di Avesa dove si ritrovano, da settembre a maggio, il secondo giovedì del mese, i poeti del nuovo circolo poetico “Gatto Rosso”. Ogni appuntamento è dedicato a un poeta noto: Pablo Neruda, Amelia Rosselli, Vincenzo Cardarelli, Pier Paolo Pasolini, Thomas Stearns Eliot e molti altri. Una sorta di santi protettori della serata e dei poeti del circolo che leggono le proprie opere, accompagnati dalla musica, creando dei momenti a
metà tra l’incontro informale e la performance. Poesie in italiano e in lingua dialettale, dagli stili e dai modi più diversi. Ed è ciò che più è stato gradito: il variare delle voci. «Per me la poesia è una riscoperta – spiega Francesco Avesani –. Gli incontri del Gatto Rosso sono stati un’opportunità per vederla in maniera diversa. Prima ero curioso e disponibile ma non ero molto incline alla poesia. Mi sono ricreduto». Anche il circolo Malacarne prepara incontri letterari negli spazi più tradizionalmente veronesi. Proprio in maggio ha organizzato la quinta edizione del festival itinerante “Dar a Bere storie”. Tra poesia e narrazione gli autori abitano in maniera giocosa strade, piazze e osterie della città, accompagnati da orchestrine come nell’usanza dei cantastorie. Dieci anni ha poi compiuto il Poesiafestival della Valpolicella. Nato con l’idea di valorizzare i luoghi più suggestivi della zona e di farli conoscere a un pubblico sempre numeroso, ha portato nei comuni della Valpolicella molti tra i più importanti poeti italiani. Quest’ultima edizione si concluderà il 30 giugno, a Jago di Negrar, con un nome d’eccezione: Dacia Maraini. «Grazie al Festival i poeti si sono materializzati - commenta Franco Ceradini, direttore artistico della manifestazione - Averli lì, in carne e ossa, stare con loro a cena, parlare
non necessariamente delle grandi costellazioni ideali mi ha spinto a domandarmi che posto ha la poesia nella nostra vita. E poi, si può davvero distinguere tra il far poesia della moltitudine poetante e quello dei poeti “laureati”? Credo di no. C’è una distinzione di grado, non di essenza. Azzardo una ovvietà: poesia è ogni discorso bello. E la troveremo ovunque vi sia sincera ricerca del bello, del bello emozionante. Bisognerebbe allora ridiscutere il canone scolastico e le antologie. Un canone è una rinuncia a capire, una gabbia ottocentesca, adatta a una società gerarchica e autoritaria» conclude Ceradini. Ci sono molti modi in cui l’uomo manifesta l’inclinazione artistica e creativa. La poesia è una di queste. Il suo abitare tra la gente è un segno importante perché avvicina, diventa quotidiana, come il pane. «Parole da mangiare» titolava significativamente il proprio libro il poeta e scrittore brasiliano Rubem A. Alves. In una pagina c’è una poesia di Mario Quintana che suggerisce, forse, anche il senso di questi luoghi informali della poesia: “Sono come una poesia / le cui parole succulente colano / come polpa di un frutto maturo nella tua bocca, / una poesia che ti sazia di amore, prima ancora che tu ne colga il senso misterioso: / basta assaggiarne il gusto…”.
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Musica ACCADEMIA FILARMONICA
Pierre Boulez, maestro ... senza bacchetta Il celebre musicista dirigerà a Verona i Wiener Philharmoniker. Il Settembre musicale dell’Accademia anche quest’anno si presenta ricco e variegato
Luigi Tuppini, presidente dell’Accademia e ideatore artistico del Festival nato nel 1989, ha confermato la presenza a Verona di alcune tra le più prestigiose orchestre
di Nicola Guerini Anche quest’anno l’Accademia Filarmonica di Verona offre un settembre musicale di grande interesse artistico proponendo un calendario di appuntamenti con orchestre e interpreti di fama internazionale. Luigi Tuppini, presidente dell’Accademia e ideatore artistico del Festival nato nel 1989, ha confermato infatti la partecipazione della Danish National Symphony Orchestra, la London Philharmonic, la SWR Orchestra Sinfonica della Radio
di Stoccarda, l’Orchestre National de France, l’Orchestra Hallé Manchester e i Wiener Philarmoniker. Gli interpreti invitati sono Yuri Temirkanov, Vladimir Jurowski, sir Roger Norrington, Kurt Masur, Mark Elder e Pierre Boulez. Per la prima volta la nostra città ospiterà il compositore e direttore d’orchestra francese alla guida di una delle più prestigiose orchestre del mondo: i Wiener Philharmoniker. Parlare di Pierre Boulez vuol dire incontrarsi con una delle personalità più si-
Il programma Mercoledì 7 settembre, ore 20.30 Danish National Symphony Orchestra, (direttore Yuri Temirkanov) Grieg: Peer Gynt suite I e II Stravinsky: L’uccello di fuoco Suite Tchaikovsky: Sinfonia n°5 Martedì 13 settembre, ore 20.30 London Philharmonic Orchestra (direttore Vladimir Jurovski) Messiaen: L’Ascension Ravel: Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra Solista: Benedetto Lupo Prokofiev: Sinfonia n°5 Venerdì 16 settembre, ore 20.30 SWR Orchestra Sinfonica della Radio di Stoccarda (direttore Roger Norrington) Brahms: Concerto per pianoforte n°2 Solista: Hélène Grimaud Mahler: Sinfonia n°4
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Soprano: Anu Komsi Venerdì 23 settembre, ore 20.30 Orchestre National de France (direttore Kurt Masur) Franck: Sinfonia in re minore Debussy: Prelude à l’aprés-midi d’un faune la mer Ravel: Bolero Martedì 27 settembre, ore 20.30 Wiener Philharmoniker (direttore Pierre Boulez) Schoenberg: Notte trasfigurata Bruckner: Sinfonia n°7 Sabato 1 ottobre, ore 20.30 Orchestra Hallé Manchester (direttore Mark Elder) Brahms: Concerto per violino e orchestra Solista: Nikolaji Znaider Dvorak: Sinfonia n°8
gnificative del ’900 che ha affiancato all’attività di compositore quella del direttore d’orchestra. Nato nel 1925, inizia giovanissimo gli studi musicali sotto la guida di A.Vaurabourg-Honegger e di O.Messiaen ottenendo, nel 1945, il primo premio di armonia. Con R. Leibowitz ha studiato la tecnica seriale e la dodecafonia e P. Schaeffer lo ha iniziato alla musica concreta alla Radio Francese. Dal 1955 ha tenuto corsi di composizione a Darmstadt. Come direttore d’orchestra si è fatto notare per la prima rappresentazione francese del Wozzeck di A.Berg (Parigi 1963) e il Parsifal, diretto nel corso del Festival di Bayreuth nel 1966. Diventa direttore dell’orchestra della BBC di Londra come successore di Colin Davis e nel 1971 succede a L.Bernstein alla direzione della Filarmonica di New York. Dal 1974 dirige inoltre l’Ircam (Institute de Recherche et de Coordination Acoustique / Musique) al Centre Beaubourg a Parigi. Attualmente è invitato a dirigere le più prestigiose orchestre del mondo con programmi che lo vedono un interprete raffinatissimo del novecento. Attraverso l’intervista a Pierre Boulez da parte di Jean Vermeil, poi raccolta nel libro “Conversazioni sulla direzione d’orchestra” (edito da La Nuova Italia), è possibile conoscere tutte le fasi di
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Musica preparazione del direttore francese per un concerto: dalla scelta dell’opera, la sua minuziosa analisi, il gesto e la prova con l’orchestra come restauro stilistico. Da questo percorso-intervista si percepisce una mentalità lontana dall’effetto spettacolare strappa applauso, molto ricercato dal divismo di certi direttori, e una cura fraseologica e ritmica scrupolosa del particolare a difesa di tutti gli elementi cellulari di cui la partitura è fatta trascurando quella soggettività interpretativa che spesso nasconde ciò che vuole essere ascoltato. Le sue esecuzioni nascono da una lettura trasparente della partitura e sempre bene agganciata alla verità compositiva soprattutto nel repertorio contemporaneo che spesso, come lui stesso afferma, «Non è bene accolto dal grande pubblico perché suonato e diretto male!». Nella direzione d’orchestra, il gesto è il mezzo più importante per trasferire le informazioni agli strumentisti e Boulez colpisce
Il maestro Pierre Boulez, a Verona il 27 settembre
perché lo fa con estrema precisione e senza bacchetta. «La bacchetta? Più si va verso la musica contemporanea, meno si ha bisogno di questo prolungamento» sottolinea Boulez «Si tratta di una questione di tecnica: la precisione del gesto sta nella corrispondenza del braccio,
di Alice Castellani L’Estate Teatrale Veronese si apre il 18 giugno con la grande musica di “Verona Jazz 2005”. Al Teatro Romano saranno presenti artisti di valore come Elvis Costello (18 giugno), Lino Patruno e Charlie Mariano con la sua Ensemble (20 giugno), Charlie Haden (22 giugno) e il piano solo di Abdullah Ibrahim (25 giugno); mentre all’Arena di Verona si esibirà il 26 luglio Paolo Conte, a concludere un ciclo all’insegna del grande jazz con la sua “Elegia”. «Fino a quando ci saranno musicisti con la passione per l’improvvisazione e per la creazione di qualcosa che non c’è mai stato prima, la forma artistica del jazz potrà crescere e dare i suoi frutti» ha detto una volta il leggendario bassista nativo del Missouri Charlie Haden, vincitore di un Grammy Award per la Migliore Performance di Jazz Strumentale, Individuale o di Gruppo, con Pat Metheny per il loro “Beyond The Missouri Sky”. La curiosità per la composizione musicale caratterizza in genere i musicisti jazz, è il caso anche di Elvis Costello, che a Verona suonerà con “The Imposters” ma di cui si ricordano le più svariate performance e partecipazioni in concerti di personaggi quali il pianista Steve Nieve, Burt Bacharach, The Brodsky Quartet, Paul McCartney, il mezzo-soprano svedese
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della mano con ciò che si vuol fare, e con ciò che si vuole ottenere. Per esempio, per il fraseggio in particolare, sono necessarie le due mani». E aggiunge: «Non mi sono preoccupato di utilizzare una bacchetta perché, credo, ho cominciato con la musica da camera, la musica con
Verona Jazz 2005 Anne Sofie Von Otter e la Charles Mingus Orchestra, a riflettere il suo interesse verso un ampio raggio di stili musicali, con il gusto dell’ironia e dell’intelligenza tipico del jazz-man. La musica jazz non può mai venire partendo dall’idea di uno stile preconcetto, insegnano i maestri, è piuttosto come quando si cammina per la strada e si incontra una carrozzina con un bimbo dentro: lo si guarda e gli occhi s’incontrano, il bambino ci guarda e quel momento è come quando si suona il jazz, e come quando si ha la fortuna di ascoltarlo dal vivo in riva all’Adige, nelle sere d’estate. Lino Patruno, che iniziò la sua carriera nelle prime jazz band sorte a Milano negli anni Cinquanta e che ha poi lavorato con grandi interpreti della storia del jazz, Bill Coleman solo per fare un nome, suonerà in accoppiata con Charlie (Carmine Ugo) Mariano, considerato uno dei più importanti suonatori di sax alto del mondo, la cui formidabile originalità qualche critico descrive come «Una brillante combinazione di autorità, virtuosismo e ispirazione». Giramondo per vocazione, anche Charlie Mariano ha saputo sviluppare un linguaggio personalissimo attraverso le più disparate esperienze musicali: dal bop alla
gruppi strumentali molto piccoli. Questa musica fatta con un ensemble non la si dirige con una bacchetta, è del tutto inutile. Salendo di grado, per così dire, o comunque con l’aumentare del numero degli strumentisti, ho continuato a non farne uso. Eppure Dio sa se non ho diretto opere ritmicamente difficili! Ma mai ho trovato difficoltà con una grande orchestra, mai». E spiega: «Se dirigo così non è affatto perché ho seguito un modello o un altro, è che per personalmente non ne ho mai sentito il bisogno……Ciò che conta è la funzionalità del gesto e la sua precisione. Quando il gesto è assolutamente preciso, non è necessario un prolungamento ottico. Sa, è come la storia della coda degli animali e di quella dell’uomo. All’inizio è stata anatomicamente indispensabile, poi a poco a poco è scomparsa, nella nostra evoluzione. Io sono convinto che si imporrà sempre di più un modo di dirigere che non necessita… di una bacchetta!».
“progressive music”, dal jazz-rock alla fusion, dalla musica etnica alla musica indiana. Sarà poi la volta di Abdullah Ibrahim, geniale pianista sudafricano che da decenni ipnotizza migliaia di entusiasti a ogni suo concerto: un pilota, come lui stesso ama definirsi, che dirige i suoi passeggeri nei meandri più reconditi della propria mente, in posti dove di solito non osano andare. Nella sua musica i ritmi africani e jazz si miscelano a melodie senza tempo, creando ritmi forti ma scorrevoli in una dimensione di primordiale chillout. E per finire alla grande Paolo Conte propone, questa volta nel grandioso scenario areniano, la sua “Elegia”, l’ultimo gioiello del cantautore astigiano dopo nove anni senza un disco di canzoni inedite. Una nuova suggestione con parole che vibrano e melodie che avvolgono. Con le nuove canzoni “Elegia” aprirà certamente interi universi, facendo scoprire storie e persone, incantando con quel magico modo di incrociare parole e musica, percorsi di vita e suoni, sempre ad altissimo livello artistico ed estetico, naturali quasi fossero un sogno nitido in cui perdersi e ritrovarsi grazie al timbro di una voce che nel canto ha il suo lascia passare oltre tutti i confini, all’esplorazione dell’umanità senza mai bassi compromessi con le mille banalità del nostro tempo.
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Musica
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Scienza MUSEO CIVICO DI STORIA NATURALE
Giocattoli in mostra nell’anno della fisica Il 2005 è stato proclamato dall’Unesco anno internazionale della fisica. Ancora non è stata fissata la data ma gli esperti sono al lavoro. Saranno esposti giocattoli “naturalistici” che per funzionare sfruttano un principio fisico
di Francesca Paradiso Ghiande che si trasformano in trottole, sambuco che diventa uno schioppetto e ancora mascelle di cavallo trasformate in slittini per bambini: tutto questo, e molto altro ancora, si potrà vedere alla mostra in preparazione al Museo civico di Storia naturale di Verona, in collaborazione con il Consorzio Verona Tecnologie e l’Associazione culturale Hermes di Marco Fittà. «La mostra – spiega Angelo Brugnoli, responsabile della Sezione didattica del Museo – proporrà giochi e giocattoli naturalistici, botanici e zoologici che per funzionare sfruttano un principio fisico». Il 2005 è stato infatti proclamato dall’Unesco Anno internazionale della fisica e quella di Verona è una delle tante iniziative italiane per celebrare i cento anni delle rivoluzionarie scoperte di Albert Einstein sulle leggi che governano l’universo. Incontri e manifestazioni, congressi e mostre si moltiplicano offrendo l’opportunità di conoscere questo ramo della scienza e l’importanza che ha nella vita quotidiana. Nella mostra in preparazione si potranno osservare curiosi giochi che la natura offre, ricavati da piante o animali, che per funzionare utilizzano proprio le leggi della fisica. Vedremo esposti in vetrina lo xilofono realizzato con
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Uno xilofono realizzato con canne di bambù, un nocciolo di albicocca, appositamente limato, diventa un fischietto, le parti inferiori delle zampe del bue o del cavallo si trasformano in sorprendenti birilli... Numerosi pannelli saranno a disposizione per raccontare le origini dei giochi
canne di bambù, il nocciolo di albicocca, appositamente limato, che diventa un fischietto, le parti inferiori delle zampe del bue o del cavallo trasformate in sorprendenti birilli. Oltre a questi giochi “naturalistici” saranno in mostra anche quelli “scientifici”, tra i quali la lanterna magica e i dischi rotanti. I primi esemplari di lanterna magica risalgono alla fine del 1500, ma la loro diffusione avvenne solo nel 1700. Erano costruite con una scatola metallica al cui interno veniva messo un lume a petrolio. Con un sistema
di lenti si possono proiettare immagini dipinte a mano su sottili vetrini. Importantissimi per la mostra sono anche i dischi rotanti di Marcel Duchamp. Un cortometraggio di Charles Eams rivela gli effetti ottici creati dai dischi: una macchina, con l’ausilio di un motore, fa girare vorticosamente una serie di vetri concentrici producendo effetti straordinari. Altre curiosità che troveremo esposte sono il Diavoletto di Cartesio e la Trottola di Newton. Numerosi pannelli saranno a disposizione per raccontare la storia dei giochi, le loro origini e caratteristiche, mentre una parte più didattica fornirà le istruzioni per la realizzazione del gioco. Bambini e ragazzi potranno usufruire degli applicativi multimediali per scoprire i dettagli dei giochi in vetrina, oltre al supporto cartaceo con tutte le “istruzioni per l’uso” per la mostra. Grazie alla creazione di alcuni laboratori sarà anche offerta la possibilità di partecipare attivamente giocando, oppure costruendo alcune creazioni ludiche, che poi potranno essere conservate come ricordo.
A partire dall’alto, a sinistra: dischi rotanti di Marcel Duchamp, lanterna magica, slittino costruito con la mandibola del cavallo, trottola di Newton
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I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA
Giacomo Lampronti di Giuseppe Brugnoli Cinquant’anni fa, il 23 ottobre del 1955, moriva in un letto dell’ospedale di Borgo Trento Giacomo Lampronti, la cui figura di uomo e di giornalista ogni tanto mi torna in mente. Ebbi con lui soltanto un rapporto che si può dire epidermico, quando giovane aspirante giornalista lavoravo sotto la sua direzione benevola, quasi svagata e insieme coinvolgente, in quei due anni che precedettero la sua scomparsa. Eravamo a “Il Corriere del Mattino”, vecchia gloriosa testata dei Popolari veronesi, fondata da Giovanni Uberti, che fu chiusa di forza dal fascismo, quando redazione e tipografia furono devastate e distrutte dagli squadristi, e che poi risorse per poco tempo, sempre per opera di Giovanni Uberti, nel secondo dopoguerra. Renato Gozzi, nel suo estremo tentativo di conservare qualcosa dell’eredità morale dei cattolici popolari, dopo la scomparsa della DC, fondò con Giorgio Zanotto e altri pochi amici un’associazione che si chiamava “Amici del Corriere del Mattino”, e che pubblicò tre o quattro numeri, alla fine degli anni Novanta, di un giornaletto che riprendeva la testata per rivendicare, in un momento di deriva berlusconiana imperante, la sopravvivenza, pur in mezzo allo sfacelo, di quella parte della defunta DC che in altre due epoche tumultuose della nostra storia provinciale si era riconosciuta ne “Il Corriere del Mattino”. Un impegno che avrebbe dovuto preparare, o almeno si augurava di poterla tentare, una seconda rinascita. Ma poi anche Gozzi venne a mancare, e con lui morì anche questo terzo “Corriere del Mattino” al quale aveva dedicato le sue ultime forze, nella seconda pubblicazione, Giacomo Lampronti. Ma non furono queste lacrimevoli memorie di un tempo che fu a farmi tornare in mente Giacomo Lampronti, quanto la circostanza che la Rai avesse messo in onda, in due giorni a cavallo del 25 aprile da poco passato, un bel sceneggiato televisivo dedicato ad Alcide De Gasperi uomo, politico e statista, e la “fiction”, come oggi si dice in modo meschino e quasi volgare, disseppellì in me un lontano ma non svanito ricordo in cui entrava appunto Lampronti, redattore capo del giornale veronese che nel frattempo era diventato edizione locale, pur mantenendo la vecchia testata, de “L’Avvenire d’Italia”.
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Giacomo Lampronti era veneziano, di vecchia famiglia israelita, come anche la moglie, ma si era convertito al cattolicesimo in tempi non sospetti, prima cioè che in Italia fossero promulgate le leggi razziali e cominciasse la persecuzione contro gli ebrei. Lavorava come giornalista professionista a “L’Avvenire d’Italia”, il quotidiano cattolico di Bologna. Quando, ormai in piena guerra, anche lui e la sua famiglia, nascosti a Carpi di Modena, stavano per essere catturati e deportati in campo di eliminazione, fu avvertito di quel che gli stava succedendo dal direttore amministrativo del suo giornale, Odoardo Focherini, e con la moglie e i due bambini intraprese una difficile e pericolosa fuga che lo portò poco dopo ad attraversare a piedi il confine con la Svizzera, dopo essere sfuggito alle guardie di frontiera tedesche, e a trovarvi rifugio fino al termine della guerra. Al suo posto, fu catturato Odoardo Focherini, che portato a Dachau vi morì prima della liberazione del campo, e di cui qualche anno fa era in corso il processo diocesano per la beatificazione per le virtù eroiche che aveva dimostrato prima di finire nella camera a gas. Quando “Verona Libera”, il quotidiano veronese del Comitato di liberazione nazionale, nato sulle ceneri de “L’Arena” (soppressa dal Comando alleato per i suoi trascorsi fascisti), cessò le pubblicazioni e nelle edicole ricomparve “L’Arena”, Lampronti vi fu assunto dalla nuova proprietà con l’incarico di “responsabile”, in attesa che i tempi si calmassero e potesse tornare l’antico direttore prebellico Antonio Galata. Fu una scelta felice: niente di meglio, in una Verona ancora percorsa da fremiti ribellistici, con masse di disoccupati che ogni tanto assediavano la sede del giornale, che avere un direttore ebreo, anche se convertito, e perseguitato politico. Poi, quando il 18 aprile del 1948 fece capire che non c’era più bisogno di lui, fu licenziato, finché non trovò ospitalità, certo meno gratificante sul piano professionale e soprattutto economico, a “Il Corriere del Mattino”. Il quale giornale era allora alloggiato in due scomodi e maestosi locali al primo piano di Palazzo Maffei, con le finestre ancora mezzo scardinate dagli scoppi delle bombe e quattro tavoli di abete grezzo in cui sedevano a turno i redattori, Gino Nenz e Pino Sambugaro, e i collaboratori. Fu lì che, in qualità di abusivo senza prospettive di assunzione, io
conobbi Lampronti, che reggeva con piglio scanzonato e battute salaci commiste a bonarie imprecazioni, in un gergo veneziano da gondoliere, quella specie di porto di mare in cui convenivano a ondate politici e postulanti. Aveva una gran testa di capelli grigi perennemente arruffati, e un ghigno sempre storto a sostenere un mozzicone di sigaretta fumigante, sul quale brillavano a tratti gli occhi vividi e puntuti in cui si accendevano lampi di ironia. Scriveva di fretta, e mentre stendeva le sue prose limpide ed asciutte, in cui emergeva la sua vena di polemista, trovava il tempo per inserirsi con un rapido sferzante commento nelle conversazioni che fiorivano imperterrite intorno a lui. Quando morì De Gasperi, e Pino Sambugaro fu inviato di corsa a Borgo Valsugana per seguire il feretro lungo tutto il lento viaggio in treno del trasporto a Roma, io fui incaricato di coprire la cronaca della messa di suffragio che la Democrazia Cristiana veronese aveva fatto celebrare nella chiesa della Scala. Era il mio primo incarico di qualche peso, ed ero un po’ preoccupato perché, come si usava allora, dovevo fare l’elenco di tutte le personalità e autorità presenti al rito. Nella chiesa affollata a ranghi compatti di visi noti ma ai quali non sapevo attaccare un nome e una carica mi trovai accanto a Bepi Faccincani, autorevole vicecapocronista della concorrente “Arena”, il quale coltivava il vezzo, che poi vidi in molti grandi colleghi, di non prendere appunti, ma di segnare qualche nota sui margini di un giornale ripiegato. Dopo avermi osservato per un po’ con il mio quadernetto intonso in mano, cominciò a sussurrarmi a mezza bocca: il prefetto tal dei tali, il senatore…, l’onorevole…, finché non riempii un paio di paginette. Alla fine, racconsolato, stavo per uscire tra gli ultimi della folla quando nell’angolo più buio, inginocchiato su una sedia malferma, vidi con la solita giacca stazzonata e la cravatta di traverso Giacomo Lampronti. Mi accostai ed egli mi disse: Fermati qui, che adesso che è finita la sfilata facciamo una cosa per il povero De Gasperi. Trasse dalla tasca una corona del rosario e cominciò la sfilza delle avemarie, mentre io rispondevo, finché non venne un sacrestano a mandarci fuori perché chiudevano. Fu quella l’ultima volta che lo vidi, perché poco dopo non venne più al giornale.
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Spettacoli VICENZA - TEATRO OLIMPICO
Le Troiane di Euripide «Dalla parte dei vinti» La tragedia in scena dal 7 al 10 ottobre per il 58° Ciclo di spettacoli classici proposto dal Teatro Stabile del Veneto “Carlo Goldoni” con la coproduzione della Fondazione “Atlantide Teatro” di Verona. La regia è di Piero Maccarinelli
È l’unico dramma rimasto della trilogia euripidea, comprendente il Palamede e l’Alessandro, ed è dominato da un desolante senso di morte e di lutto. Nell’esasperazione degli aspetti devastanti della guerra di conquista traspare anche una critica dell’autore verso le scelte politiche imperialistiche del governo ateniese
in VERONA
«Alza, o infelice, su da terra il capo, il collo: Troia più non esiste… O fasto alto degli avi precipitato, il tuo splendore antico era un segno del nulla». È con queste struggenti parole che Ecuba, moglie di Priamo e regina di Troia, sigilla la fine della propria civiltà e l’inizio dell’inconsolabile disperazione. È l’assurda sofferenza cagionata dalle guerre, vista dalla parte delle madri e delle donne dei vinti, che Euripide trasmette nelle sue Troiane, in scena al teatro Olimpico di Vicenza, dal 7 al 9 ottobre (alle 21) e lunedì 10 ottobre (alle 16). La tragedia di Troia, tradotta da Dario Del Corno e interpretata da Valeria Moriconi per la regia di Piero Maccarinelli, fa parte del 58° Ciclo di spettacoli classici proposto dal Teatro stabile del Veneto “Carlo Goldoni” con la coproduzione della Fondazione Atlantide Teatro di Verona. Ma i veri protagonisti dell’immortale vicenda questa volta non sono Achille e Agamennone, ma le mogli e le figlie di quella Troia in fiamme costrette a diventare schiave dei loro nemici. È la tragedia delle tragedie, quella che unisce morte e tortura, che accende il fuoco dell’odio e trova nella rassegnazione e nella fantasia l’unica via di uscita a un destino troppo crudele: una partenza che non lascia intravedere un ritorno perché le radici delle proprie origini vengono divelte e perdute per sempre. Nello scenario di distruzione e sof-
ferenza, anche gli dei si indignano: Atena e Poseidone, ciascuno per diversi rancori, complottano la vendetta contro l’armata greca autrice di tanto scempio. Intanto i vincitori si sorteggiano le donne troiane per tramutarle in schiave. Agamennone si impadronisce di Cassandra mentre Andromaca, figlia di Ettore, viene destinata a Neottolemo, figlio di Achille, e allo stesso tempo le viene sottratto il figlio Astianatte e gettato giù dalle mura di Troia. E infine la vecchia regina Ecuba va in premio a Ulisse mentre sua figlia Polissena viene immolata sulla tomba di Achille la cui ombra la richiede in cambio di venti favorevoli al ritorno in Grecia. E non poteva certo mancare Elena, la causa scatenante del decennale conflitto, che il marito Menelao vuole ricondurre in patria per ucciderla. La regina decaduta maledice la nuora ma Elena si difende con un abile discorso, consapevole che Menelao, ancora una volta vinto dalla sua fatale bellezza, la risparmierà. La tragedia di Euripide si conclude con Ecuba che, dopo aver ricomposto il cadavere devastato del nipotino, si avvia con le altre prigioniere verso le navi greche mentre la città è in fiamme. Le Troiane è l’unico dramma rimasto della trilogia euripidea, comprendente il Palamede e l’Alessandro, ed è dominato da un desolante senso di morte e di lutto. In questa tragedia, infatti, messa in scena nel 415 a.C., nel pieno della guerra del
Peloponneso, Euripide riserva uno spazio del tutto eccezionale alle situazioni dolorose e agli stati d’animo d’impotenza dei personaggi, le vittime superstiti della spedizione militare greca contro Troia. Ma nell’esasperazione degli aspetti devastanti della guerra di conquista traspare anche una critica dell’autore verso le scelte politiche imperialistiche del governo ateniese. Così, di fronte a un mondo che sente sempre più lontano, Euripide dà voce al proprio disagio attraverso le parole delle donne troiane che cantano il desiderio di fuggire dalla realtà verso splendide terre lontane. «L’ambiguità del mondo è abolita, la psicologia euripidea contenuta, il dolore è insomma il dolore del mondo. Ed Ecuba la sua voce più intensa» spiega il regista Maccarinelli «Per questa ragione ho volutamente omesso nell’allestimento le dispute capricciose fra gli dei e la specificità della vicenda di Troia, perché in questa più che in tutte le altre tragedie euripidee il dolore delle troiane mi sembra voler essere il dolore del mondo, della Donna rispetto all’insensatezza della guerra, di tutte le guerre». Nella sofferenza cantata da Euripide non resta che l’amara consolazione dell’immortalità provocata dall’immane tragedia: «Se un dio non avesse sconvolto e sprofondato le sorti di questa terra, noi non avremmo nome e non vivremmo nel canto dei poeti, dando voce alla poesia dei mortali che verranno».
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Spettacoli TEATRO ROMANO
Romeo e Giulietta adolescenti trentenni Cinque spettacoli a partire dal 30 giugno che portano la firma del regista Gabriele Vacis, considerato l’iniziatore del teatro di narrazione in Italia
di Paola Quattrucci L’amore contrastato, perseguitato, giocato, deriso, sofferente e gioioso, distruttivo e catartico è il principale motore dei drammi di Shakespeare. Dietro a questo eros multiforme c’è un’idea drammaturgica geniale che da cinquecento anni aleggia, con il suo fascino misterioso, nella mente degli artisti. Una formula da carpire e re-inventare più che da decifrare. Il 57° Festival Shakesperiano si apre all’insegna dell’innovazione all’interno dell’Estate teatrale veronese, con due originali edizioni di Romeo e Giulietta, in cinque appuntamenti a partire dal 30 giugno, e la Bibe-
La casa e, nella pagina accanto, la statua di Giulietta, in via Cappello
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tica domata, proposta in altrettante serate, dal 13 al 17 luglio. La storia dei due amanti veronesi appartenenti a famiglie da sempre rivali, i Montecchi e i Capuleti, è una rielaborazione shakespeariana di un ben noto racconto popolare. Ma la poesia di alcuni versi del drammaturgo anglosassone è entrata nell’immaginario collettivo. Celebre è il passaggio in cui, nel buio, Romeo resta abbagliato dalla visione di Giulietta, che già sospira all’aria il nome del suo amato, e non esita a definirla “luce che apre l’ombra da quel balcone”. E più avanti nel dramma quando i due innamorati, stretti dopo la loro prima notte di nozze, sanno che è giunto il tempo di separarsi
In questa nuova edizione saranno gli attori Jurij Ferrini e Sarah Biacchi a vestire gli insoliti panni di Romeo e Giulietta. Due trentenni, figli dei nostri tempi, con le problematiche che vivevano cinquecento anni fa i giovani dell’immortale storia che nel mondo è legata alla città di Verona Giugno 2005
Spettacoli La bisbetica domata
ma, sentendo il verso dell’uccello del mattino, si confortano nell’illusione che “non era l’allodola ma l’usignolo”. La storia prosegue con la partenza di Romeo, che si allontana per un breve periodo affinché Giuletta si finga morta grazie a una pozione che le fermerà il cuore per poco tempo. Uno stratagemma che permetterà loro di darsi appuntamento nella cappella di sepoltura dei Capuleti prima di fuggire da Verona e dalle ostilità delle loro famiglie. Invece “il crudele destino” fa sì che le cose non vadano secondo i piani ed entrambi i giovani muoiono vittime del loro contrastato amore. E proprio l’effetto narrativo era stato quello perseguito da Gabriele Vacis, che firma la regia di questo nuovo lavoro, nella sua precedente edizione del 1991. Allora, il regista, considerato l’iniziatore del teatro di narrazione in Italia, aveva ideato una messinscena tutta basata sulla parola: un Shakespeare letto e non agito fisicamente, dove le voci degli attori, filtrate dalla sonorizzazione elettronica, rendevano le situazioni spaziali e le atmosfere del dramma. Vacis aveva inoltre estrapolato dal testo shakespeariano le parti discorsive
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più famose e le aveva ricucite intorno al nucleo narrativo del poemetto del poeta veronese Betteloni, raccontato dai toni affabulatori di Marco Paolini. In questa nuova edizione saranno gli attori Jurij Ferrini e Sarah Biacchi a vestire gli insoliti panni di un Romeo e Giulietta trentenni, figli dei nostri tempi, con le stesse problematiche che vivevano cinquecento anni fa i giovani dell’immortale storia. Ma qual è il motivo di tale scelta? «Probabilmente perché oggi è a trentacinque anni che finisce l’adolescenza» ironizza il regista proponendo una lettura drammaturgica che riflette un particolare approccio ai classici che oramai fa scuola. Questa Giulietta e Romeo punta a una qualità di presenza scenica che riflette la chiave di lettura dell’opera. «Mi piacciono gli attori che lavorano per denudamento, che cercano delle verità interne» afferma Vacis. Un’interpretazione, insomma, che va oltre la costruzione di una verità esterna, che non penetra nell’immaginario dello spettatore, grazie al fondamentale lavoro dell’attore, spesso complementare alle scelte registiche.
L’altro spettacolo shakespeariano che andrà in scena al Teatro Romano, La bisbetica domata, é firmato dalla regia di Matteo Tarasco, con l’attore comico Tullio Solenghi nei panni del protagonista maschile Ferruccio. Introduce la commedia un prologo dove l’ubriacone Sly si addormenta per una sbronza e un signore decide, con l’aiuto di alcuni commedianti, di fargli uno scherzo, facendolo credere, al suo risveglio, un uomo ricco che dovrà dominare una bisbetica. Un teatro che ne introduce un altro, in un gioco di ruoli. La storia, ambientata a Padova, racconta di Caterina, figlia insolente di un ricco signore che nessuno vuole sposare per via del suo caratteraccio, a differenza della sorella Bianca, considerata esempio di virtù e corteggiata da molti pretendenti che però potrà sposarsi solo dopo che la sorella maggiore si sarà maritata. Pertuccio, giovane veronese in cerca di una moglie ricca, attratto dalla dote di Caterina la ottiene in sposa, destando meraviglie e perplessità nella gente a cui va dicendo: “Credete che qualche strepito possa ferirmi le orecchie?... la lingua di una donna neanche eguaglia lo schiocco d’una castagna nel focolare di un contadino”. Convinto di farne una docile moglie, Petruccio, nella sua casa di campagna, costringe Caterina a privazioni e umiliazioni di ogni genere, per domarne l’irruente carattere. Alla fine della commedia, durante una festa, lo scaltro Petruccio riuscirà a dimostrare a tutti i convitati ammogliati, che la sua Cate é la moglie più obbediente tra tutte le presenti. Sarà Caterina, nel suo monologo finale, a raccomandare alle donne di “spianare la fronte minacciosa e di non scagliare altezzosi sguardi verso il proprio marito”. Una donna capricciosa, arcigna, disobbediente diventa brutta a vedersi e perde ogni grazia, se ha il cuore gonfio di orgoglio e di ribellione. Il dramma, scritto originariamente per una compagnia di soli uomini, come accadeva ai tempi di Shakespeare, sarà riproposto nella stessa maniera con interpreti solo maschili. Una sperimentazione nel solco della tradizione in una commedia che «contiene anche il lato oscuro, farsesco e forse tragico nel quale si cela l’eterno conflitto tra eros e psiche» spiega Tarasco. Ma al di là delle filosofie e dei sensi più profondi, sarà interessante vedere quale effetto sortirà questa scelta registica, normale ai tempi di Shakspeare ma inusuale ai nostri giorni, se non sia pura spettacolarizzazione ma intelligentemente orchestrata e se sappia rendere l’ironia caratteristica dell’autore. Rimane solo una constatazione: sorprende vedere che un festival di tale portata, unico in Italia dedicato alle opere dell’attore e drammaturgo William Shakespeare, abbia solamente due spettacoli in cartellone. Un’idea potrebbe essere quella di valorizzare quei teatri che lavorano di un artigianato costante e che sono fucine di creatività dando così spazio a figure emergenti, accanto a nomi conosciuti, per offrire una maggiore varietà di proposte. (P.Q.)
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Spettacoli di Paola Quattrucci “Che gelida manina, se la lasci riscaldar...” sussurra Rodolfo a Mimì, con voce piena d’emozione. È la vigilia di Natale e, in una fredda soffitta di Parigi, un giovane poeta sta componendo inquieto. Bussano alla porta: una timida voce di donna chiede di poter accendere il suo lume. È Mimì, la vicina di casa fragile e malata, dal sorriso malizioso. I due giovani restano entrambi al buio, in cerca di una chiave smarrita. Dalla finestra entra la luce della luna, che fa brillare i tetti innevati, poi Rodolfo prende la fredda mano di Mimì, che ricama fiori senza odore, e trova la sua poesia. È questo il passaggio più celebre della Bohème, l’opera pucciniana che sarà uno dei cinque eventi della stagione lirica veronese, a partire dal 9 luglio. Un appuntamento che non si ripeteva in Arena dal 1994, anno dell’ultima produzione veronese diretta dal regista Lorenzo Mariani, mentre nel 2003 la città ospitò l’opera al Filarmonico, con un allestimento curato dal Teatro Massimo Bellini di Catania, per la regia di Marco Pucci Catena. Il tema dell’amore, che accende e riscalda la vita, percorre la storia della Bohème da cui Giacomo Puccini trasse la sua opera, rappresentata per la prima volta nel febbraio del 1896 al Teatro Regio di Torino. Il libretto, dal taglio innovativo, nato dalla felice collaborazione di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa (librettisti della successiva Madama Butterfly), fu scritto rielaborando le Scenes de la vie de la Bohème di Henri Murger, una serie di episodi autobiografici, composti mezzo secolo prima, la cui storia era ben nota al pubblico. Puccini concepì la sua Bohème, in apparenza semplice e immediata, con forme nuove nell’orchestrazione e nella rappresentazione che risultò più fluida, scandita in macroscene dette quadri. Innovativa per il suo linguaggio moderno e mobile, con esigue frange di romanticismo, quest’opera smantellò il modello drammaturgico ottocentesco e per questo all’inizio non raccolse consensi da parte della critica.
in VERONA
ARENA
«Vita gaia e terribile» La Bohème di Puccini torna dal 9 luglio con un nuovo allestimento. L’opera è un omaggio alla giovinezza che passa e segna la fine di un’epoca
Bohème, bozzetto per la scenografia
A debuttare in Arena sarà un giovane regista francese, Arnaud Bernard, che dal 1989 è direttore di scena al Theatre du Capitole de Toulose. Allievo di Nicolas Joel, il regista francese che ama “rispolverare il copione”, Bernard sperimenta sempre nuove soluzioni, senza stravolgere la struttura delle opere e puntando sulla narrazione continua degli atti. A differenza di una Leonida, di un’Aida di una Violetta o di una Turandot, la protagonista della Bohème non spicca per la forte valenza eroica che dona spessore e vigore scultoreo alle altre figure femminili. Mimì, dipinta fragile ed esile, sofferente per il freddo e la fame, ha una bellezza chiaroscurale che s’accende a tratti e si affievolisce nel corso del dramma, allegoria di una giovinezza
destinata a morire. Una natura briosa che la malattia spegne lentamente. Volto pallido che d’improvviso si illumina di un vivo rossore, incorniciato dalla cuffietta rossa che il suo amato le regala al primo incontro. E così altalenante è anche il ritmo interno al tessuto narrativo, permeato di tinte veriste e accenti lirici, dove il realismo diventa poesia, con il suo mondo di piccole cose e frammenti melodici. La musica corre agile e vivace per arrestarsi in attimi di pathos e farsi struggente nella sospensione di una tragedia imminente. Il linguaggio musicale, concepito sui piani teatrali del libretto, evoca e descrive atmosfere, in un rac-
conto a sbalzi. I personaggi, che appartengono a un’umanità semplice e quotidiana, sono emanazioni di questi scenari, ritratti leggeri che si fondono in un’unica coralità poetica, anticipazioni di un imminente Impressionismo. La vicenda di alcuni giovani bohèmiens, tra cui il poeta Rodolfo e il pittore Marcello, apre il primo quadro, ambientato nel quartiere latino di Parigi, in una fredda soffitta e si conclude con l’incontro e l’innamoramento di Rodolfo e Mimì. Nel secondo atto la vicenda scende in strada, al Caffè Momus, lungo il marciapiede gremito di clienti ai tavolini e di venditori ambulanti. La procace femminilità di Musetta fa disperare Marcello e questa coppia si pone come l’altro polo della vicenda amorosa, con la sua dominante passionale e un destino diverso rispetto a quello di Rodolfo e Mimì. Caratterizzata da un ininterrotto flusso melodico, la vicenda si conclude con la morte di Mimì che, separatasi da Rodolfo, inquieto per la sua malattia, viene soccorsa morente da Musetta in strada e condotta a casa dei giovani artisti dove si spegne come in un sonno. Il grido disperato di Rodolfo pone fine al quarto e ultimo quadro. Un tableau vivent che chiude la stagione della giovinezza, quella “vita gaia e terribile” che Puccini ripercorre senza accento moralistico e che avverte, in un respiro più ampio, come chiusura di un’epoca.
Spettacoli VELO
Un palcoscenico sui monti di Verona VeloFestival 2005: teatro, cinema, musica, mostre, eventi... da luglio a ottobre nel cuore della Lessinia una manifestazione diventata un classico da non perdere
di Alessandro Anderloni Velo Veronese, una sera d’estate. Sul sagrato della chiesa parrocchiale, sotto l’imponente campanile di pietra rosa, ci si ferma a chiacchierare dopo gli spettacoli in teatro. Il piccolo teatro di Velo si apre sotto le arcate di pietra del Patronato, l’edificio che la gente di Velo costruì nel 1947 in memoria dei caduti di tutte le guerre. Un teatro di 200 posti che la Parrocchia di Velo da anni ha intrapreso a ristrutturare. È principalmente in questa sala, dove si respira l’intimità e il calore degli antichi filò, che va in scena nei mesi estivi la rassegna di teatro, musica e cultura a cui da qualche anno è stato dato il nome di VeloFestival. A Velo, dal 1990, un gruppo teatrale, che è anche un coro polifonico, racconta sul palcoscenico la storia del proprio paese. Si tratta de Le Falìe di Velo Veronese. Falìe, in dialetto, sono i fiocchi di neve, ma sono anche le centinaia di persone che hanno recitato e cantato dando vita a un fenomeno di cui parla ormai anche la stampa nazionale. Lo scorso anno La Repubblica ha dedicato un’intera pagina a “Velo Veronese: un paese in scena”. Le Falìe replicano per una ventina di serate, durante l’estate, gli spettacoli che hanno inventato durante l’inverno. L’ultimo, “Gli esulanti dell’8 settembre”, dopo oltre 40
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Un’immagine della precedente edizione del VeloFestival
Dal 1990, un gruppo teatrale, che è anche un coro polifonico, racconta sul palcoscenico la storia del proprio paese. Si tratta de Le Falìe di Velo Veronese repliche in due anni, anche fuori provincia, lascia il posto quest’anno alla nuova invenzione teatrale che porta la memoria agli anni Settanta con un titolo che è già un programma: “Scudocrociati”. Dopo il debutto, attesissimo, venerdì 1 luglio, altre 17 repliche fino a ottobre. Il cartellone del VeloFestival comprende, per l’estate 2005, ben 37 serate. Ce n’è per tutti i gusti, sempre però con l’attenzione a un teatro di ispirazione e
di sapore popolare, meglio se dialettale. Così il 20 luglio sarà a Velo Silvio Castiglioni con lo spettacolo “Filò”, da un testo di Zanzotto, al termine del quale gli spettatori potranno gustare il risotto preparato, “in diretta”, sul palcoscenico, mentre in agosto lo spazio sarà dato alla commedia dell’arte con il “Sior Todero Brontolon” di Roberto Puliero, il 9 agosto, e la commedia con maschere “Il Principe Moro” del gruppo Pantakin da Venezia, il 13 agosto. Il calendario musicale è ricco quanto quello teatrale. Si va dal d-Quartet di Raffaella Benetti, straordinaria interprete veronese, l’8 luglio, agli appuntamenti musicali nelle contrade di Velo, a Bepi De Marzi che, con il coro La Falìa, racconterà la storia dei suoi 150 canti. Il 14 e il 16 agosto, sul sagrato della chiesa, che si trasformerà
per una settimana in teatro all’aperto, andrà in scena, in prima nazionale, una co-produzione Le Falìe - Teatro Martinelli: “Mozart prodigio”. Per la prima volta nella provincia di Verona l’opera di Mozart dodicenne, “Bastiano e Bastiana”, per la regia di Beatrice Zuin e la direzione d’orchestra del maestro Carlo Miotto. Un evento che sarà il culmine dell’estate musicale a Velo Veronese. La mostra fotografica “Oceani di pace” di Maurizio Marcato, aprirà il 9 luglio la serie di mostre che troveranno spazio nella nuovissima Sala dei Centomila, l’edificio che Le Falìe hanno ristrutturato, nel corso dello scorso inverno, e che diverrà sede di esposizioni, concerti, eventi culturali nonché di una scuola di teatro e di musica che sarà inaugurata il prossimo autunno. Una seconda mostra dello sculture Andrea Vesentini si terrà nel mese di agosto. E ancora una serata speciale dedicata agli ottant’anni di esplorazioni nella Spluga della Preta (11 luglio), il meglio del cinema di montagna con il TrentoFilmfestival (11 agosto) e il Filmfestival Premio Lessinia (4 settembre). Per il programma completo del VeloFestival www.lefalie.it; lefalie@lefalie.it; tel. 045.7835566, numero al quale ci si può rivolgere per la prenotazione dei biglietti per le serate musicali e teatrali.
Spettacoli CERRO
Agosto in Lessinia con il Film festival “Vita, storia e tradizioni in montagna”. Si tratta dell’11ª edizione di una rassegna sempre più seguita da esperti e amatori. Le opere in concorso e fuori concorso saranno proiettate nel teatro di Cerro Veronese dal 20 al 28 agosto
di Piero Piazzola Si ripropone anche quest’anno a Cerro Veronese, dal 20 al 28 agosto, il concorso del “Film festival Premio Lessinia”, giunto all’undicesima edizione con il tema “Vita, storia e tradizioni in montagna”. In gara saranno le opere in video che – come recita il regolamento – “rappresentino, valorizzino e favoriscano la conoscenza di realtà sociali, linguistiche, umane, economiche, ambientali, storiche e artistiche della montagna, nonché delle tradizioni, delle usanze e delle consuetudini dei popoli che abitano in montagna”. Per entrare nello spirito del con-
In gara saranno le opere in video che rappresentino, valorizzino e favoriscano la conoscenza di realtà sociali, linguistiche, umane, economiche, ambientali, storiche e artistiche della montagna
in VERONA
corso e capirne gli obiettivi, bisogna rifarsi al 1995 e a quelle circostanze storiche che portarono al primo esperimento di una gara ad hoc nel salone dell’Albergo “Belvedere” di Bosco Chiesanuova. La paternità dell’iniziativa va allo scomparso regista tregnaghese Mario Pigozzi e al presidente del Curatorium Cimbricum Veronense di quegli anni. Lo scopo rimane quello di far conoscere, con film e documentari, la Lessinia, il suo ambiente naturale, la sua montagna, la sua gente, la sua storia, le sue tradizioni e, contemporaneamente, creare occasioni di scambi culturali. Gli organizzatori sperarono, visto il successo dell’iniziativa, di poter continuare con altre edizioni sempre a Bosco Chiesanuova, ma le vecchie strutture teatrali del luogo non erano conformi alle disposizioni di legge. Fu quindi inevitabile dirottare altrove la ricerca e la scelta cadde su Cerro Veronese. Da quel momento il Curatorium affidò l’organizzazione della manifestazione al regista Alessandro Anderloni, autore di spettacoli teatrali di successo, socio e amministratore del Curatorium, che ebbe l’incarico di dirigente artistico. Nello stesso tempo il “Film festival” fu sostenuto dal Comune di Cerro, trovò un supporto e una valida direzione nel Curatorium Cimbricum e non mancarono gli
Il teatro di Cerro durante l’edizione 2004 del Film festival della Lessinia
aiuti da parte della Comunità Montana della Lessinia, degli enti pubblici della Provincia, della Regione Veneto e di altre istituzioni. Per farsi un’idea della quantità e varietà di materiale filmato che la manifestazione ha accumulato in questo decennio basterebbe citare qualche passo dal promemoria di Anderloni: “Il bilancio è di 219 film arrivati all’organizzazione, tutti attentamente valutati e proiettati nella sala del teatro di Cerro, sempre affollatissima; 164 é il numero dei registi che hanno fatto conoscere i loro lavori”. Rivedendoli ritornano alla mente le storie, i volti, le voci, le transumanze, i canti, le danze, le tradizioni dell’acqua e del fuoco, l’architettura, i dialetti, le lingue dei popoli che abitano le montagne: dal provenzale al ladino, dal cimbro al bregagliotto fino ai mille dialetti di ogni valle, di ogni paese, di ogni contrada.
Piero Zanotto, uno dei membri della giuria, esperto di opere cinematografiche, riassume così la sua esperienza: “Si ha la percezione di come molti dei temi scelti sulle molteplici realtà della montagna obbediscano a un appassionato bisogno di rendere partecipi chi quella realtà conosce poco o addirittura la ignora del tutto”. Se ci sono dei protagonisti nella storia del “Premio Lessinia”, questi sono gli uomini e le donne, la loro vita in montagna, il convivere con gli animali e le piante, la filosofia propria di chi abita le terre alte, i gesti e le usanze antiche, la fatica e la testardaggine di rimanere lassù, il disincanto e la rassegnazione di fronte al tradimento della montagna, l’indignazione di fronte alla sua devastazione ambientale, la speranza, l’amore, la bellezza, la poesia. Questo ha voluto e vuole significare il “Film festival-Premio Lessinia”.
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Spettacoli MONTORIO
Evasioni... poetiche al carcere di Montorio L’iniziativa “Teatro tra le mura” è promossa dal Teatro dell’Angelo, con la collaborazione del Centro territoriale permanente “G. Carducci”
di Alice Castellani Per i detenuti la possibilità di fare teatro significa trasformare il luogo della stasi e del tempo sospeso attraverso l’arte dell’azione, del movimento, del gesto e della parola relazionata. Di questo si occupa il progetto “Teatro tra le mura” promosso da Viva Opera Circus/Teatro dell’Angelo, in collaborazione con il Centro Territoriale Permanente “G. Carducci”, con il patrocinio della Regione Veneto e del Comune di Verona (assessorato ai Servizi sociali). Con questa iniziativa si stanno sperimentando laboratori teatrali rivolti a detenuti e detenute della Casa Circondariale di Montorio, anche in vista di rappresentazioni pubbliche, come quella dello scorso 7 giugno dal titolo “Una giornata di poesia in carcere: Evasioni... poetiche”. Nel corso della storia l’istituto carcerario è mutato in parallelo alla società, passando dal carcere punitivo medievale, dove crudeltà e spettacolarità fungevano da deterrenti nei confronti di potenziali trasgressori delle regole imposte dal “signore”, al carcere fondato in prevalenza sulla categoria della “penitenza”, il cui scopo correzionale si lega alle finalità ideologiche. Per giungere alla “privazione della libertà” come sanzione penale e forma esclusiva di punizione, si è passati tra l’altro per case di correzione dove i carcerati erano obbligati a “riformarsi” attraverso lavo-
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La casa circondariale di Montorio
Le esperienze teatrali in carcere consentono ai detenuti di ridefinire la propria identità e autopercezione e, grazie all’uso a fini pedagogici del mezzo teatrale, anche di avvicinarsi a una diversa qualità dei rapporti tra le persone ro e disciplina, tramite l’utilizzo di pene corporali, di occupazioni che avevano l’unico scopo di creare afflizione, e dell’isolamento cellulare, dunque attraverso un carcere prioritariamente intimidatorio e di controllo totale. Fortunatamente oggi, dopo anni di lavoro teatrale nelle strutture di reclusione da parte di compagnie e registi, anche in Italia si è capita
l’importanza del sostegno di tali attività. Produzione e animazione teatrale nelle realtà dei penitenziari e delle case circondariali, sono strumenti di socializzazione della popolazione detenuta nell’ambito dell’educazione alla “cura di sé” e a una consapevole interrelazione. Attraverso la conoscenza e la pratica dei linguaggi teatrali, culture, lingue ed etnie diverse si incrociano; grazie al terreno di incontro, conoscenza, ricostruzione della propria storia personale che il fare teatrale crea, si realizza quella condivisione che aiuta il confronto, lo scambio, l’analisi. Proponendo il teatro all’interno del carcere si cerca poi di ridurne l’isolamento dal resto delle istituzioni sociali, che in passato lo ha reso strumento di controllo fondato sulla sostituzione della rappresentazione pubblica della punizione con il buio della prigionia, non
osservabile dall’esterno ma sorvegliata costantemente all’interno. Il teatro da sempre svela ciò che è dietro le quinte, chiama ad assistere e a fare da cartina di tornasole rispetto a ciò che accade. L’esperienza del teatro in carcere è unica, costituisce un particolare genere teatrale ma soprattutto una pratica che nel “fare” ha la sua forza. Questo “fare teatro” poco etichettabile supera barriere e confini, culturali ma anche linguistici e sociali, diffondendosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta nelle carceri europee con i primi laboratori, poi approfondito e studiato in convegni e pubblicazioni, con la nascita di associazioni impegnate trasversalmente a fare teatro “altro”. Le esperienze teatrali in carcere consentono ai detenuti di ridefinire la propria identità e autopercezione e, grazie all’uso a fini pedagogici del mezzo teatrale, anche di avvicinarsi a una diversa qualità dei rapporti tra le persone. Inoltre il teatro stesso ritrova in condizione “reclusa” l’urgenza e l’originalità delle sue ragioni: il suo farsi metafora del mondo muta i suoi stessi linguaggi della libertà espressiva e della costrizione fisica – perché costretto a un vedere “altro” perché altra è la visibilità consentita - con i giochi del dentro e del fuori. Idiomi che attraversano il contesto rompendo la quotidianità rituale del carcere, proprio con il gioco del teatro e tramite il rinnovarsi della comunicazione teatrale.
Giugno 2005
Mostre XX.9.12 GALLERY STUDIO
Le “Riscritture” di Campedelli di Elisabetta Zampini “Riscritture” è la mostra personale di Marco Campedelli ospite, dal 10 al 25 settembre, nello spazio espositivo XX.9.12 Gallery Studio di via XX Settembre, 12. Si tratta di un interessante percorso artistico dove la calligrafia e la sensibilità grafica si incontrano in ri-scritture di frasi e pensieri di grandi filosofi e poeti del nostro tempo. Le parole, per l’artista, talvolta sono degli incontri casuali illuminanti, altre volte sono isolate all’interno di testi più ampi nella lettura degli autori amati. Diventano poi segni grafici dove il contenuto è solo una parte dell’operazione artistica che con talento, fantasia e tecnica rielabora le singole lettere e le fonde in più livelli di colori e inchiostri: “Mi occupo di calligrafia dal 1997 – spiega Marco Campedelli, grafico creativo e calligrafo –. Frequento i corsi dell’Associazione Calligrafica Italiana dove ho appreso dapprima la tecnica delle scritture formali per arrivare poi alle texture calligrafiche, tessiture di lettere in cui la leggibilità della scrittura viene de-strutturata per lasciare spazio alla composizione”. Le parole e le frasi vengono ripetute, sovrapposte e quindi fuse tra loro per essere ritrovate e riscoperte. I vocaboli aprono scorci sulla vita, sulle relazioni, sul mondo interiore. Frasi significative, interiorizzate dall’artista e poi restituite attraverso queste opere d’arte. «In uno dei due testi a lui dedicati Ionesco dice: “Ho l’impressione che la gente sia stanca del linguaggio corrente che banalizza a tal punto quello che pensa, che non c’è più
in VERONA
Nella mostra, aperta dal 9 al 25 settembre, saranno esposte opere di calligrafia espressiva e grafica. L’originale percorso di un artista da seguire pensiero”. Ecco, con il segno grafico e il sentimento del gesto – spiega Campedelli – voglio rincontrare i contenuti. Mi piace destrutturare le parole e la leggibilità. Mi piace che lo spettatore sia spinto a interpretare, approfondire, a cercare il testo originale». Mentre si mettono insieme questi frammenti testuali, ci si rende conto che è un genuino sentimento a muovere la competenza tecnica dell’artista. «Anche le parole uniche sono stupende – aggiunge Campedelli –. Penso alla parola
“infinito”: un termine che sprigiona fuoco interiore. Mi affascinano i segni liberi delle lettere, che si allungano all’esterno per creare ritmi espressivi». Nello spazio espositivo saranno presenti opere su carta, allestimenti in stampa digitale di grande formato, opere in bianco e nero, frammenti di studio e una video installazione. Ma come nascono le opere? «Uso perlopiù inchiostri su
carta – spiega Campedelli –. Inchiostri liquidi che, lavorati freschi, si possono fondere fra loro. Vedere un colore che si contamina all’altro è sempre una magia. Mi piace molto lavorare con l’acqua. Mi è capitato di lavare i fogli scritti sotto l’acqua corrente facendo scorrere il colore in superficie. La pressione della scrittura invece rimane, indelebile impronta lasciata di sé». La scrittura assume quindi un forte valore intimo e meditativo, armonia di tempi e materiali naturali: un calamaio di bambù, penne metalliche autoprodotte, la carta, l’inchiostro e il gioco è fatto. Quasi un’esperienza spirituale: «Quando faccio calligrafia – spiega l’artista – sento dentro un profondo senso di pace. Mi piace pensare che se uomini e donne di popoli e culture diverse si mettessero insieme in una stanza e scrivessero ognuno nella propria scrittura ci sarebbe un silenzio e una comunanza di sentimenti che supererebbe qualsiasi differenza». Alla mostra saranno affiancati anche due eventi all’insegna della musica: giovedì 15 settembre è in programma un cocktail musicale con una selezione ambient dell’etichetta veronese Silent Groove, mentre giovedì 22 settembre il Wood Duo (Enrico Breanza, Marco Pasetto) accompagnerà Massimo Totola e voci nella lettura dei testi. L’inizio è alle 21. L’inugurazione sarà il 9 settembre, alle 18.30. La mostra rimarrà aperta dal 10 al 25 settembre tutti i giorni, tranne il lunedì, dalle 16 alle 20. Per informazioni: www.XX.9.12.it www.marcocampedelli.it
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Mostre Il mondo arabo in una mostra in esclusiva al Mart di Rovereto fino all’11 settembre: oggetti di vita domestica e modelli abitativi ricostruiti su scala reale ripercorrono l’affascinante storia di spazi accoglienti e ospitali concepiti per l’uomo La casa riflette il nostro essere e l’intimità domestica ci svela mondi e culture. “Vivere sotto la luna crescente” è il titolo della mostra allestita in esclusiva in Italia al Mart di Rovereto fino all’11 settembre e dedicata alla vita domestica del mondo arabo. Una grande esposizione proveniente dal Vitra Design Museum di Weil am Rhein,in Germania, racconta la quotidianità dei popoli arabi e i loro antichi valori religiosi e sociali, attraverso oggetti quali ceramiche, tessuti e utensili e ricostruzioni di ambienti domestici che i visitatori hanno l’opportunità di sperimentare personalmente. Una serie di fotografie e video documentano aspetti poco conosciuti della
Rovereto - Mart, fino all’11 settembre
Una casa a misura d’uomo vita familiare araba e rivelano una sorprendente modernità, basta osservare l’uso multifunzionale degli ambienti e ancora il sistema per regolare la temperatura delle stan-
ze o l’uso delle risorse idriche. La luna crescente è, presso le culture orientali, il momento ideale e propiziatorio per edificare e costruire, per concepire e realizzare progetti,
riflessi di quella mappa celeste che aiuta i Beduini ad orientarsi nel deserto. La mostra presenta la ricchezza degli stili in un’area che va dal Marocco alla Penisola Araba, passando per l’Egitto, la Siria, la Tunisia, l’Algeria, la Giordania, la Mauritania, il Libano e lo Yemen. Si potranno ammirare, da un lato, esempi di architettura rurale come le tende dei nomadi Tuareg e Beduini, le casbah del Marocco, e molti altri; dall’altro, le grandi soluzioni abitative in città come Il Cairo e gli splendidi palazzi di Marrakech e Damasco. Il percorso si snoda attraverso la visione delle opere degli architetti arabi che hanno lasciato un importante segno anche nella cultura occidentale fino a progetti di architettura internazionale come la realizzazione dell’Institut du Monde Arabe di Parigi. L’architettura araba, con la sua estetica funzionale, è concepita, in particolare, per le esigenze e i desideri di chi la abita come un rifugio sacro e luogo di convivenza e dialogo. Per informazioni: tel. 0464 438887. www.mart.trento.it
Venezia - Ca’ Pesaro, fino al 31 luglio
Mimmo Paladino: segni da decifrare Dall’immagine monumentale all’essenzialità della forma, l’artista campano resta a Venezia fino al 31 luglio con le sue complesse iconografie. Venti opere in terracotta e carta, organizzate per l’occasione, documentano gli ultimi esiti della sua ricerca artistica «Lo spazio è una circostanza non determinante. Le dimensioni di un tavolino possono essere sufficienti a provocare tensioni e strategie degne del più vasto affresco». Si può riassumere così l’idea artistica di Domenico Paladino, pittore e scultore di Paduli, in mostra a Venezia fino al 31 luglio, alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna,
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Ca’ Pesaro. Esponente della Transavanguardia, movimento postmoderno che trae ispirazione dal Neo-espressionismo tedesco ma con una visione della realtà meno drammatica e più solare, Mimmo Paladino ne è un interprete originale. La sua ricerca si incentra sulla “memoria profonda” dove le forme, ridotte ad archetipi, si congelano in istanti senza tempo ma permanenti nella loro concretezza. La mostra, allestita al piano terreno del Museo, prevede in cortile l’esposizione di sei grandi sculture in terracotta, realizzate per l’occasione, che documentano gli ultimi esiti della produzione dell’artista campano. Dopo le mostre degli anni Ottanta di Londra, Basilea e Hannover che lo lanciano a livello internazionale, mentre in Italia la Biennale di Venezia gli dedica una
sala personale nel 1988, Paladino ha esposto al Castello di Praga, alla Biennale di Sidney, nei cinque maggiori musei brasiliani e a NewYork. È stato il primo artista contemporaneo italiano a tenere una mostra in Cina, alla Galleria Nazionale delle Belle Arti di Pechino. Grande sperimentatore, ha sempre utilizzato l’incisione e molte altre tecniche, mescolandole tra loro e introducendo spesso, nelle sue tele, elementi scolpiti, in una mirabile coesione di modernità e arte povera. Per informazioni: mkt.musei@comune.venezia.it
A lato: Senza titolo. Figura seduta 1999. In alto: casa nomade della Mauritania
Giugno 2005
Ambiente WWF
La tutela della natura La sezione locale del Fondo Mondiale per la Natura, guidata da Manuela Formenti, conta tremila tesserati in città, cinquemila nella provincia
di Chiara Cappellina Sostenere la formazione di nuovi parchi, proporre sistemi alternativi di mobilità, stimolare il risparmio energetico e diffondere la mentalità di un verde diffuso a livello cittadino per cercare di affermare un livello di vita eco-sostenibile. Questo è il riflesso veronese della missione mondiale del WWF, che da anni combatte per fermare il degrado dell’ambiente naturale del pianeta e per costruire un futuro in cui gli uomini vivano in armonia con la natura. Il WWF Verona (Via del Risorgimento 10 - Telefono e fax: 045.91 75 14, email verona@wwf.it) ha tutte le caratteristiche per un’azione concreta a favore di una valida gestione ambientale del nostro territorio. Con cinquemila tessere nella provincia veronese e tremila in città, la sezione locale del Fondo Mondiale per la Natura fa capo a quella di Mestre, e sul territorio scaligero coordina a sua volta sei gruppi locali attivi in provincia: a Povegliano, Castel D’Azzano, Villafranca, Lessinia,Veronese orientale, Arcole. «Si tratta di un’attività locale che fa parte di una missione globale – spiega Manuela Formenti, responsabile della sezione scaligera – noi portiamo i progetti internazionali a Verona e allo stesso tempo portiamo Verona in ambito internazionale». Questo significa «Collaborare a livello internazionale, nazionale e locale con governi, istituzioni finanziarie e organizzazioni non governative». Con i progetti, l’educazione e i campi estivi, gli appelli e le petizio-
in VERONA
ni, la sezione di Verona è attiva, anche nell’ambito dei tavoli di Agenda 21 del Comune, con i programmi di sostenibilità a numerose attività: dalla pulizia dei fossi, alla piantumazione di nuovi alberi, dalla promozione dell’attività di raccolta differenziata, all’istituzione di nuove piste ciclabili, per «Creare una mentalità di uso consapevole dell’ambiente, assicurando che l’utilizzo di risorse rinnovabili sia possibile, favorendo la riduzione dell’inquinamento e dello spreco di risorse» dichiara la Formenti. Il territorio su cui agisce la sezione veronese del WWF è caratterizzato da numerosi Siti di Importanza Comunitaria (SIC), tra cui l’Oasi naturalistica del Vajo Galina, il Progno Borago, la Palude del Busatello, la Palude del Feniletto e la Palude di Pellegrina. Tutte aree particolarmente pregevoli dal punto di vista naturalistico che necessitano di importanti forme di tutela, così come indicato da direttive specifiche dell’Unione Europea. Ma non è abbastanza. «La situazione delle aree protette nel veronese è ancora sofferente – annuncia Formenti – e la nostra regione
Sono numerosi i siti gestiti a Verona dall’associazione ambientalista, tra cui l’oasi del Vajo Galina, il Progno Borago, la Palude del Busatello, la Palude del Feniletto e la Palude di Pellegrina. Tutte aree pregevoli dal punto di vista naturalistico che necessitano di tutela non è da meno: basti pensare che solo oggi, dopo anni, il WWF ha ottenuto l’istituzione del Parco dell’Adige inserito nel Piano di assetto territoriale (Pat), e da alcune settimane il riconoscimento dell’alveo del fiume Adige come Sito di Importanza Comunitaria». Il Parco Adige, che si estende in territorio comunale per una superficie di 820 mila metri quadrati, è un polmone verde vicino al centro della città. Con esso si vuole conservare l’ambiente naturale che ac-
compagna lo scorrere dell’Adige, e favorire la già nutrita presenza di uccelli stanziali e migratori che popolano le sponde e l’isolotto del Pestrino», afferma Formenti. Nei prossimi mesi la sezione veronese del WWF promuoverà una raccolta di firme a favore del Vajo Galina e dell’alta Val Borago, per l’allargamento a tutto il territorio dello stato di area protetta. Ad oggi, sostiene la responsabile della sezione scaligera «Solo nella parte sud del Vajo e nella zona Progno della Val Brago è vietata la caccia. È doveroso estendere questa tutela per via dell’alto grado di biodiversità presente in queste aree». Da qui l’importanza degli itinerari guidati da esperti naturalisti, promossi negli scorsi mesi dal WWF di Verona, in collaborazione con l’assessorato alle Politiche ambientali, per conoscere e ammirare queste oasi vicine alla città. «Ci siamo allontanati troppo dalla natura e non sappiamo più cosa gli succede» afferma Formenti . «Invece, nel momento in cui ci troviamo immersi nell’ambiente, quest’ultimo diventa qualcosa che ci appartiene e che per questo vogliamo tutelare». È grazie al volontariato nelle Oasi e nei Rifugi creati e gestiti dal WWF che l’attività dell’associazione vive e prosegue. A questo proposito la sezione di Verona invita tutti gli amanti della natura e degli animali a dare la propria disponibilità per aiutare la loro missione e propone un’alleanza speciale con i giovani «per stimolare in loro la cultura e il rispetto dell’ambiente, perché il suo futuro è nelle loro mani».
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Territorio A SPASSO NEL TEMPO
Sulle tracce lasciate dai cacciatori preistorici I primi uomini abitarono il veronese già nel Paleolitico medio-superiore. Dopo centinaia di migliaia di anni i manufatti di selce parlano delle loro abitudini
di Guido Gonzato A chi ha la sana abitudine di fare passeggiate sulle nostre colline può capitare di imbattersi in un bossolo di fucile. Qualche cacciatore, infatti, talvolta “dimentica” di raccogliere gli scarti della sua attività venatoria. Curiosamente, il comportamento dei cacciatori dei nostri giorni è esattamente lo stesso dei loro colleghi vissuti migliaia di anni fa, in piena preistoria. I loro scarti erano diversi e assolutamente naturali: le loro armi erano infatti costruite in legno e pietra. Facciamo però un passo indietro
e raccontiamo la storia dal principio. La provincia di Verona, e in particolare la zona collinare e montana, è abitata dall’uomo da centinaia di migliaia di anni, cioè dal Paleolitico medio-superiore. L’ambiente montano era molto favorevole all’instaurarsi di insediamenti umani. Non mancava la possibilità di procurarsi il cibo, visto che i nostri antenati paleolitici vivevano di caccia e raccolta. I monti fornivano infatti tutto il necessario: mandrie di animali di grossa taglia, come i cervi, e fauna di piccola taglia. Inoltre, era presente in grande quantità una risorsa preziosa: la selce. Ovvero
Diversi tipi di selce lavorata utilizzata per costruire utensili o armi per la caccia
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Se un uomo finiva le punte di freccia o aveva bisogno di un certo strumento, poteva costruirlo sul posto utilizzando un piccolo blocco di selce che si portava appresso l’acciaio della preistoria. Nei calcari della media e alta Lessinia si trovano strati di una forma microcristallina di silice, la selce. Questa pietra è una specie di vetro naturale. La sua caratteristica principale è che quando si frattura dà origine a schegge molto taglienti. I nostri antenati avevano sviluppato una vera e propria tecnologia basata sulla selce, con cui costruivano buona parte dei loro utensili. Era una ricchezza, e veniva addirittura esportata dalla Lessinia verso aree che ne erano sprovviste. Sembra che anche la lama in selce grigia del magnifico coltello dell’Uomo del Similaun sia stata realizzata con la selce dei nostri monti. Durante le loro battute di caccia, i cacciatori portavano con sé molti strumenti pronti all’uso e il materiale per costruirne in caso di bisogno. Se un cacciatore finiva le punte di freccia o aveva bisogno di un certo strumento, poteva costruirlo sul posto uti-
lizzando un piccolo blocco di selce che si portava appresso: il cosiddetto “nucleo di lavorazione”. Pochi colpi bastavano per estrarre una scheggia della forma adatta, che poi veniva ritoccata fino a trasformarla nello strumento finito. Quando il nucleo era diventato troppo piccolo per potervi estrarre altre schegge utili, il cacciatore lo gettava; allo stesso modo, venivano scartati punte o lame rotte o non ben riuscite. Questi “rifiuti” sono rimasti sul terreno per migliaia di anni. Nelle nostre passeggiate ci può capitare di ripercorrere il sentiero battuto da un antico cacciatore. Sulle colline di Avesa e Quinzano e sulle Torricelle, non è raro trovare piccole schegge di selce, resti di lavorazione, nuclei o addirittura strumenti più o meno completi (come possiamo osservare nel piccolo campionario della foto). Sono quasi sempre di colore bianco, poiché l’ossidazione nasconde l’originale colore grigio o blu della selce. Più raramente possiamo rinvenire schegge rettangolari di selce scura: queste sono pietre da acciarino, fabbricate dai contadini fino a circa un secolo fa. La prossima volta che andrete a spasso sulle Torricelle, provate a seguire il crinale e guardate con attenzione per terra: se trovate delle piccole schegge bianche e lisce, quella è selce.
Giugno 2005
Viaggiare
La grande capitale del regno Khmer edificata tra il nono e il quindicesimo secolo dopo Cristo, è oggi un patrimonio storico e artistico dell’umanità, tutelata dall’Unesco
La foresta cambogiana e i templi di Angkor Le 54 torri del tempio di Bayon terminano ciascuna con quattro enormi volti in pietra del Buddha. È praticamente impossibile trovare un punto nel quale non si avverta la presenza maestosa e inquietante di questi occhi che ti guardano
di Michele Domaschio Ovunque tu possa volgere lo sguardo, incrocerai quello del dio; ovunque, il viso del re ti segue. Salendo le terrazze del tempio del Bayon ad Angkor, nel cuore della foresta cambogiana, queste parole acquistano un significato tangibile e magico: le 54 torri di pietra che ne danno forma terminano ciascuna con quattro enormi bassorilievi che riproducono il volto del Buddha, personificato nel sovrano Jayavarman VII, ed è praticamente impossibile trovare un punto nel quale non si avverta – maestosa e inquietante – la presenza di questi occhi su di sé. Angkor, la grande capitale del regno Khmer edificata tra il nono e il quindicesimo secolo dopo Cristo, è
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oggi un patrimonio storico e artistico dell’umanità, tutelata a tal fine dall’Unesco, ma è soprattutto un’esperienza che – per noi occidentali – apre uno spiraglio unico sulla cultura e la tradizione di questo lembo d’Oriente. L’infinita serie di templi e palazzi, che la foresta ha quasi completamente fagocitato dopo 500 anni di oblio, suscita ancora l’emozione che i sudditi provavano accostandosi alle sue mura nel periodo del massimo fulgore, quando ogni centimetro delle facciate degli edifici era coperto di legni intarsiati, pietre preziose, tessuti di rara magnificenza. Le uniche concessioni alla nuda pietra erano rappresentate dai bassorilievi che, ancor oggi, illustrano brani dei poemi epici del culto hindù, come il Ramayana o il Ma-
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Viaggiare habarata. Di quando in quando, questi capolavori sono privi di qualche tassello, ritenuto magico e quindi asportato per proteggere la casa degli abitanti del luogo. Chiamare case le catapecchie che fiancheggiano la strada per Angkor è un timido eufemismo. Molto spesso, si tratta di semplici chioschi per la vendita di bibite e qualche souvenir, che con molta buona volontà e altrettanta fantasia sono stati poi adibiti a dimora dai loro proprietari. I bambini, che sciamano a frotte attorno ai templi, si prodigano per portare bevande fresche ai turisti, i quali si ritrovano poi circondati da una selva di manine tese a chiedere qualche spicciolo e un sorriso. In effetti, si tratta di un conforto molto gradito, in particolare per quei temerari – quasi sempre arzilli vecchietti americani, bardati di tutto punto con al collo almeno due o tre videocamere – che si lasciano condurre per i sentieri polverosi della zona a dorso di elefante, come facevano gli antichi sovrani del luogo (almeno così affermano le guide del posto, non appena avvistano qualche comitiva di arzilli vecchietti americani…). Oggi, la visita del sito archeologico – che si estende su un’area di 400 chilometri quadrati – può essere più comodamente compiuta facendosi scarrozzare da un remorque-moto, curioso aggeggio composto da un comunissimo ciclomotore, cui è stato agganciato un rimorchio coperto: con poco più di dieci dollari al giorno, si può così godere dello spettacolo di Angkor senza rischiare un’insolazione, inconveniente abbastanza frequente tenuto conto dell’umidità e
Pol Pot e i Khmer Rossi Il 17 aprile 1975 le formazioni paramilitari dei Khmer Rossi, capitanati dal loro leader Pol Pot, prendevano il controllo di Phnom Penh, abbattendo il corrotto governo filo-americano. Quello stesso giorno la popolazione della capitale fu fatta evacuare, sotto la minaccia di un imminente attacco aereo statunitense. In realtà, era l’inizio dell’inferno per i quattrocentomila abitanti della città e per altri 2 milioni di cambogiani (su una popolazione totale di 12 milioni circa), condotti a forza nei campi di “rieducazione” e poi morti per le esecuzioni di massa, la prigionia e gli stenti inflitti da un regime tanto breve (poco più di tre anni) quanto crudele. L’abisso della disperazione nel quale sprofondò la Cambogia del regime Khmer risulta ancora più sconvolgente rispetto ad altri stermini di massa del secolo scorso (l’olocausto degli ebrei o degli armeni, ad esempio) perché perpetrato ai danni del proprio stesso popolo. L’accettazione di tale condizione disumana può essere, forse, racchiusa nelle parole di una donna – riportate dall’ambasciatore cambogiano all’ONU in un recente articolo apparso su International Herald Tribune – che parlando da devota buddista, come la maggior parte dei suoi compatrioti, affermò in quei giorni: «Dobbiamo aver fatto qualcosa di molto cattivo nella nostra vita precedente, se oggi ci troviamo a patire tutte queste sofferenze». La dittatura di Pol Pot tentò di soppiantare queste nobili tradizioni religiose, introducendo nel paese una “purezza maoista” che comportava la scomparsa delle classi sociali, la confisca di tutti i beni da parte dello Stato, l’abolizione della moneta, l’isolamento dal mondo (rimaneva aperto solo un corridoio aereo con la Cina comunista). I più ferventi seguaci di tale ideologia si rivelarono i giovani, a volte poco più che bambini, che con inusitata crudeltà non esitavano a torturare e uccidere parenti e amici sospettati di essere “borghesi anti-rivoluzionari”. La prigione di Tuol Sleng, sita in un quartiere periferico della capitale e oggi trasformata in museo, è ancora pregna di questa atmosfera di terrore, e una lapide ricorda gli ultimi dieci prigionieri, uccisi a bastonate poche ore prima dell’arrivo dei vietnamiti e della disfatta dei Khmer Rossi. Autori dell’eccidio, soldati ragazzini dai dodici ai quindici anni.
della temperatura, che nelle ore centrali della giornata (durante la bella stagione) arriva a sfiorare i 40 gradi. La varietà del paesaggio cambogiano si comprende proprio ripensando a quanti diversi mezzi di trasporto si possano utilizzare per attraversarlo: nel caotico traffico del centro di Phnom Penh sono comodissimi i motorini che i giovani del luogo utilizzano quasi esclusivamente per dare passaggi ai turisti, mentre – se non si ha troppa fretta – ci si può accomodare su un cyclo, o noleggiare una bici; le polverose strade attorno ai villaggi sono riservate a fuoristrada o eroici minibus, sempre sul punto di collassare per la fatica e l’eccessivo carico; i fiumi, come il Tonle Sap che collega la capitale a Siem Reap (la località più vicina ai templi di Angkor), sono invece solcati da motonavi la cui velocità è direttamente proporzionale all’audacia (o all’incoscienza) dei giovanissimi capitani, che umiliano con la forza delle turbine la quiete meditabonda delle numerose giunche fluviali. Le onde sollevate dalle potenti imbarcazioni simboleggiano un progresso che sta rapidamente scalzando, anche qui, la tradizione, con tutte le contraddizioni che ne conseguono. Così, ad esempio, può capitare – a me è successo - che la vostra guida sia abituata a parlare in inglese con i visitatori stranieri, ma che rimanga quasi terrorizzata all’atto di salire su una comune scala mobile. Forse, proverebbe meno imbarazzo ad avventurarsi sul dorso di un elefante.
Giugno 2005
Libri EDITORIA
Bonaccorso editore La scelta decisiva è maturata dopo l’incontro con Montale
Antonio Seracini
«Essere comprensibile ai lettori, per un autore, significa saper comunicare con la forma espressiva a lui più congeniale e riuscire a trasmettere idee ed emozioni attraverso il suo stile unico»
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«Entrai timido in una stanza tutta bianca, completamente spoglia, al centro solo una scrivania e un uomo curvo su una Olivetti nera e lucida. Intimorito porsi la mia raccolta di poesie a Montale. Mi chiese se avessi pubblicato a mie spese il libro e io gli risposi di sì; allora mi rassicurò dicendomi che si inizia sempre così. Avevo ventisei anni». È da quel memorabile incontro nella casa del poeta a Milano, in via Bigli 15, che il titolare della Bonaccorso Editore, Antonio Seracini, decise il proprio destino di autore-editore. Scrittore dall’età di diciassette anni, Seracini è editore dal 1975, quando fondò la casa editrice Bonaccorso & C., oggi diventata Bonaccorso Editore, con sede in via Nicola Mazza, 30. Insegnante con una lunga esperienza didattica, dedica il suo tempo a educare altri ingegni, adottando qualsiasi proposta di opera letteraria che ritenga valida, al di là delle mode e del marketing editoriale. Seracini ricorda il suo passato di studente e giovane autore, la sua partenza dalla terra di Locri e i primi contatti letterari nella città di Verona, in particolare l’incontro con il Cenacolo della poesia dialettale “Berto Barbarani” e il rapporto di amicizia con Franco Montaldo Jeròcades, suo professore universitario di cui ha pubblicato la raccolta di poesie Pagine aperte. «L’idea originaria – spiega Bonaccorso – era quella di fondare una società di editori che fossero anche autori e pubblicassero le loro opere condividendo passio-
ne e costi». Anche se da solo, oggi Seracini ha realizzato il suo sogno e porta avanti un progetto editoriale suddiviso in collane dove c’é spazio per la saggistica, la poesia (anche in dialetto), il teatro, la narrativa, lo sport. Altra proposta sono i Taschinabili, pratici libricini dal prezzo economico. «Quando un autore sente che è tempo di far conoscere la sua opera, ma non sa bene come divulgarla, l’incontro con l’editore giusto è determinante – spiega Seracini -. Spesso si trova a bussare di porta in porta con il suo manoscritto e a dover investire tutti i risparmi per vedere pubblicato il suo lavoro. Ma quando un editore è anche un autore, che quindi conosce bene le difficoltà degli inizi, sviluppa quella predisposizione alla collaborazione e all’assistenza di cui lo scrittore ha bisogno». Diversi per età ed esperienze letterarie sono gli autori che hanno pubblicato con Bonaccorso, anche ragazzi molto giovani, o persone che coltivano da anni il sogno di essere in libreria o magari di concorrere a qualche prestigioso premio letterario, come il caso recente del poeta Arnaldo Ederle, finalista quest’anno al premio Camaiore con la sua raccolta di poesie Sostanze. «Se un progetto mi piace e mi convince cerco di realizzarlo. È interessante pubblicare anche opere di altri tempi e sarebbe bello se un autore, qualche volta, prendesse in mano un libro del passato e lo rivisitasse con una sensibilità moderna».
Ma quali sono le qualità principali che uno scrittore deve avere per l’editore Bonaccorso? «Semplicità e verità. Perché essere comprensibile ai lettori, per un autore, significa saper comunicare con la forma espressiva a lui più congeniale e riuscire a trasmettere idee ed emozioni attraverso il suo stile unico. Lo scrittore è, in questo senso, “impegnato”, e la vocazione alla scrittura si accompagna alla sua intenzione comunicativa». «Un buon autore» continua Seracini «deve essere prima di tutto un accanito lettore. Le sue esperienze letterarie si depositano in un contenitore da cui attinge continuamente per il suo lavoro». Cosa l’editore si sentirebbe di dire a un autore? Forse alcuni suoi versi non potrebbero esprimerlo meglio: «Se leggendomi vi sembrerà di trovarvi di fronte a uno specchio, dove vedrete qualcosa di voi stessi, che pareva dimenticata, allora io avrò il dubbio se ho fatto un passo avanti o indietro». L’editore é un po’ l’alter ego dell’autore, l’altra coscienza che si lascia leggere leggendo e, comunque, sempre il suo lettore più critico.
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Libri e cd di Cinzia Inguanta
The Wandering Spirit Euro 15 Il cd di Ariella Uliano è stato realizzato in due studi di registrazione: l’Ocean Studios di Mark Bhalla di Londra e il Music Change Studio di Fumane, in provincia di Verona. Per registrare in Italia l’artista si è avvalsa della collaborazione de I Musici di San Giorgio di Valpolicella, specialisti in musica antica europea e tradizionale veronese, sotto la direzione artistica del Prof. Ernesto Clemente De Martino. Il repertorio contenuto nell’album The Wandering Spirit è composto di poesie e musiche del Rinascimento inglese, interpretate dall’artista e dai musicisti che l’hanno accompagnata in chiave a volte antica o tradizionale, a volte etnica o moderna. In questo Cd, la musica e la poesia rinascimentale inglese, che spazia da William Shakespeare a Robert Devereux e John Dowland, e agli autori anonimi dei brani tradizionali del Cinquecento, rivivono in Italia e, in particolare, nella provincia di Verona.
Venendo giù dai monti sento una voce cantare Euro 15 Si tratta del secondo CD che raccoglie il terzo ed il quarto volume della serie Le tradizioni musicali del Veronese, realizzato dall’assessorato alla Valorizzazione delle tradizioni popolari veronesi del Comune di Verona, con il contributo della Regione Veneto. I curatori dell’opera sono stati Grazia De Marchi, Livio Masarà e Alfredo Nicolettiò. Questo ultimo lavoro, oltre ad essere un omaggio al ricordo del musicista Arturo Cardini, raccoglie anche una testimonianza sonora delle Donne di Fane. Le registrazioni provengono dall’ar-
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chivio di Grazia De Marchi e sono state realizzate a Fumane e a Fane tra il 1979 e il 1980. I cd sono accompagnati da un libretto con i testi e le notazioni musicali dei brani più significativi con alcune note. Il cd è disponibile alla Società Letteraria. Per informazioni: musicacustica@tiscali.it
dia italiana dove si sorride con malinconia sulla follia della realtà.
Il lampo di Hiroshima Maruki Toshi (traduzione di Makiko Yamada Magonara) Perosini Editore pp. 52, Euro 11,36
In questo libro, com’è facile intuire dal titolo, la storia di Roma, dalle origini alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, è rivisitata in chiave federalista. L’intento primario dell’autore è quello di dimostrare che “la concessione della cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero, l’unificazione della lingua, delle leggi, dei costumi, della cultura, la possibilità di accesso a tutte le cariche pubbliche per tutti gli abitanti dell’impero, ivi compresa la carica imperiale, fanno di Roma l’anticipatrice della concezione federalista”. L’impero viene così letto come modello antesignano delle attuali teorie politiche.
Ad agosto ricorrono i 60 anni dallo scoppio della bomba atomica. Questa potrebbe essere l’occasione per leggere o proporre ai più piccoli il racconto di Miichan, una bimba di sette anni, colpita dalla bomba atomica di Hiroshima. Il libro narra la storia del suo percorso verso la salvezza. “Il lampo di Hiroshima”, tradotto in tredici lingue, è diventato un testo guida per tanti insegnanti ed educatori che desiderano far conoscere la storia da una prospettiva diversa e insolita, attraverso, appunto, lo sguardo dei bambini. Sono disponibili a richiesta le schede di lavoro per insegnanti, elaborate dal Movimento di Cooperazione Educativa di Verona.
Salvo precipitazioni locali Ritratti tra cronaca e letteratura di una città e dei suoi abitanti Silvino Gonzato Giorgio Ghelfi Editore 2005 pp. 239, Euro 13,42 Salvo precipitazioni locali commenta l’autore del libro «è un viaggio tra storie urbane che possono essere raccolte in qualsiasi città, non solo a Verona, perché è l’uomo che fa la città e non viceversa». Un libro, quindi, costruito sulle persone più che sui fatti. Frammenti tutti giocati sull’antifrasi. Soggetti perfetti per una comme-
I Romani La storia di Roma antica rivisitata da un federalista Lino Marinello Piero Lacaita Editore 1998 pp. 286
cristalli” e della Shoah. L’intento del libro è principalmente quello di trattare questi argomenti in modo non banale e offrire un’esperienza coinvolgente e stimolante di lettura. Giocosport Trimestrale di cultura ludica Marco Fittà Associazione culturale Hermes Giocosport è il nuovo trimestrale di cultura ludica pubblicato da Marco Fittà, presidente dell’Associazione culturale Hermes (Onlus), che si interessa di ricerca storica sui giochi e sui giocattoli. Il giornale propone in ogni numero un particolare gioco da realizzare. La tiratura della rivista è di 2000 copie e la distribuzione avviene tramite abbonamento. L’Associazione, in collaborazione con la Fondazione Pianura Bresciana, distribuisce il trimestrale da giugno 2005 in tutte le scuole di ogni ordine e grado di Verona e Brescia. Hermes propone anche corsi e laboratori di diverso genere. Per informazioni tel. e fax: 045.7514124; cell. 348.4933067. www.associazionehermes.com
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Il tempo della danza Storie per chi vuole sperare Paolo Bertezzolo Gabrielli Editori 2005 pp. 414, Euro 24,00 Tante storie, intrecciate tra loro, per definire un’unica incalzante ricerca sui temi che da sempre ricorrono nelle vicende umane: la fede, l’amore, l’impegno per migliorarsai, le condizioni della felicità. Nella storia principale di Guido Biancardi e di Laura se ne innestano altre: quella della guerra italiana in Africa settentrionale nel ’40-’41; quella di Ipazia, di suo padre Teone, dei monaci della Nitria, di Atanasio e di tanti altri personaggi che vissero con loro ad Alessandria alla fine del IV sec. d.C.; le storie di Sinesio, di Teofilo e Cirillo; quella dell’Italia del dopoguerra, del centro-sinistra, di Tangentopoli e quelle, ancora, di Mariano, della “notte dei
Giornale di attualità e cultura Direttore
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Lungadige Re Teodorico, 10 37129 -Verona. Tel. 045.592695
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Novastampa di Verona Registrazione al Tribunale di Verona n° 1557 del 29 settembre 2003
N° 7/giugno 2005 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona
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Giugno 2005