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8 - OTTOBRE 2005 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
Primo piano
Su questo numero
In copertina: biglietti d’amore alla Casa di Giulietta
Magdi Allam, dalle pagine del Corriere della Sera, da mesi stigmatizza gran parte del mondo musulmano presente nella penisola. E accusa anche gli italiani di essere un popolo ingenuo per il credito dato ad alcune organizzazioni islamiche, come l’Ucoii. Un po’ allarmati siamo andati a vedere che aria tira nella moschea qui a Verona. Lo abbiamo fatto con un’intervista all’Imam Mohamed Guerfi. La condanna al terrorismo è arrivata puntuale, così come l’appello a lavorare insieme per l’integrazione. Un po’ di perplessità ha invece suscitato il sostegno al predicatore Wagdy Ghoneim, nella nostra città ad agosto, espulso dagli Stati Uniti perché ritenuto un’apologeta del terrorismo islamico. Secondo Guerfi una brava persona. Un albanese e un marocchino raccontano la loro storia aiutandoci così a capire cosa vuol dire essere musulmani e integrarsi in una città come Verona. Infine la testimonianza di una conversione dal cattolicesimo all’islam di una veronese (pagine 5/7). Dopo aver letto il suo libro “Dietro lo specchio” abbiamo cercato lo psichiatra Vittorino Andreoli per rivolgergli qualche domanda. Il volume, da aprile nelle librerie, è un’accusa molto forte nei confronti della società occidentale, per la disumanizzazione degli individui concentrati sulla ricerca della ricchezza e del successo a tutti i costi. Denunciando bisogni indotti e false illusioni, Andreoli non risparmia alcune categorie di persone, come preti, medici, avvocati che avrebbero abdicato alle loro funzioni in cambio di denaro, potere ecc. Il libro ci è parso una fotografia abbastanza fedele di quanto si respira nella vita di tutti i giorni. Non la pensano così, o fanno dei distinguo, alcuni rappresentanti
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delle categorie professionali tirate in ballo, che siamo andati a sentire (pagine 9/11). Abbiamo recentemente assistito al 58° ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico di Vicenza. Come ogni anno siamo rimasti entusiasti delle tragedie messe in scena (Le Troiane di Euripide e Sette contro Tebe di Eschilo). Ci siamo fatti l’idea che in tempi di decadenza rappresentare in modo fedele i classici sia uno dei modi per per ritrovare una certa forma di armonia, anzitutto con se stessi. La cosa straordinaria è che quei testi, per la loro genuina semplicità, sono alla portata di tutti e toccano direttamente le corde più sensibili della nostra umanità e società. Per questo, forse, c’è sempre il tutto esaurito ed è pieno di giovani. Un po’ spinti dall’entusiasmo abbiamo raccontato questa esperienza a gente che di teatro se ne intende, ma non siamo riusciti a capire perché la nostra città non sarebbe adatta ad ospitare questo genere di spettacoli. Ci siamo allora concentrati su un’iniziativa analoga, come il Festival Shakespeariano, giunto alla 57ª edizione, che si svolge all’interno dell’Estate Teatrale veronese. Quest’anno sono state due le opere del drammaturgo inglese messe in scena: Romeo e Giulietta e La Bisbetica domata. Nel nostro forse ossessivo tentativo di scavare nel passato per trovare quello che oggi non c’è più, ci siamo imbattuti in testi rivisitati “per avvicinare i giovani” o per “contribuire alla ricerca e alla sperimentazione” o per “far quadrare i conti”. Ma perché privarsi del piacere di ascoltare il grande Shakespeare, far parlare, magari con un po’ di umiltà, lui solo? E’ una domanda buttata lì, nella convinzione che gli organizzatori della rassegna veronese non si sono certi risparmiati nel cercare di proporci il
meglio, come fanno ogni anno, anche tenendo conto delle scarse risorse finanziarie a loro disposizione (pagine 12/15). Il prossimo anno, a gennaio, ricorrono i 250 anni della nascita di Wolfang Amadeus Mozart. Il celebre musicista visitò Verona tre volte, la prima nel 1769, all’età di 13 anni, con il padre Leopold. Si resta quasi increduli nel leggere nelle cronache del tempo come fu accolto il bambino prodigio, nominato Maestro di Cappella dall’Accademia Filarmonica cittadina. Leggendo i documenti del tempo ci si rende anche conto di come Verona fosse un punto di riferimento culturale per gli artisti provenienti dall’Europa e desiderosi di visitare l’Italia per poi tornare in patria con qualche diploma che favorisse una maggiore considerazione o fama (pagine 16/18).
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Società Sono circa 23.790 i musulmani presenti nella provincia di Verona, corrispondenti al 31,8% dei 74.663 cittadini immigrati regolari (dati aggiornati al 2003). Senza contare i convertiti e i cittadini che già stabilmente vivono a Verona. Grazie all’aiuto di Michele Bertani del Cestim (Centro Studi Immigrazione), i dati sono stati rilevati calcolando il numero degli immigrati e la percentuale di popolazione islamica del loro Paese natale. In Italia “musulmano” e “Islam” sono stati termini poco utilizzati fino all’arrivo dei primi studenti arabi da Palestina, Siria e Giordania, negli anni Sessanta; questi giovani crearono l’Unione degli Studenti Musulmani in Italia, Usmi, con lo scopo di organizzare le attività di culto e di assistere re-
Il mondo islamico a Verona ligiosamente e culturalmente i ragazzi musulmani. Questa fase immigratoria iniziale era per lo più elitaria: veniva in Italia chi aveva i mezzi economici per farlo, ma sempre per la ricerca di una maggiore libertà. Dalla metà degli anni ’80 giunsero i primi cittadini nordafricani (si trattaava soprattutto di egiziani, tunisini e marocchini) a causa del basso tenore di vita dei loro paesi natali. Nel 1990 viene costituita l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia, Ucoii, che riunisce comunità ora composte in maggioranza da lavoratori. Secondo i dati della Caritas, al 31 dicembre 2003 gli immigrati regolari in Italia sono 2.193.999,
dei quali 1.085.222 sono cristiani (49,5%), 723.188 musulmani (33%) e 385.589 (17.5%) appartengono ad altri gruppi o non sono credenti. Anche Verona nei primi anni Ottanta ha accolto studenti musulmani e cittadini provenienti da paesi arabo-musulmani. I dati numerici sono difficili da stabilire con esattezza. Ad esempio non tutti coloro che provengono da Paesi musulmani vivono la fede da praticanti e così la partecipazione nella Moschea il venerdì non è indicativa perchè non include tutta la comunità dei fedeli. Il musulmano valorizza molto la religiosità interiore basata sui Cinque pilastri: la professione di
fede nell’unico Dio, la preghiera quotidiana nelle forme rituali previste, il digiuno nel mese del Ramadan, il pellegrinaggio almeno una volta nella vita alla città santa, La Mecca, il versamento di denaro a beneficio dei poveri e della comunità. La religione islamica non si presenta come un blocco unico, ma vi sono al suo interno diverse interpretazioni di pensiero che creano più gruppi di credenti (sunniti, sciiti, confraternite sufi). Per la comunità islamica veronese luogo di culto e di socializzazione è la moschea, o sala di preghiera (poiché manca di alcuni elementi architettonici), di Via Bencivenga Biondani n. 18. L’Imam si chiama Mohamed Guerfi. Francesca Paradiso
INTERVISTA
«Fidatevi di noi» Intervista con l’Imam di Verona Mohamed Guerfi di Cinzia Inguanta
Mohamed Abdeslem Guerfi
«Con i veronesi è il momento di lavorare in progetti comuni. Lo stesso Profeta dice che la fede è quella che c’è nel cuore e che viene dimostrata con la pratica»
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– Ci parli di sé. Da dove viene, da quanto tempo è in Italia e come è diventato Imam… «Sono natoin Algeria, ad Annaba, la città di Sant’Agostino. Vivo in Italia dal 1994 e a Verona dal 1995. Si diventa Imam per elezione. Ogni due anni ci sono le votazioni per rinnovare l’organico della Moschea, che non è solo un centro religioso, ma anche culturale e sociale. Ci sono il direttivo, il consiglio e la comunità. La comunità vota il consiglio, il consiglio elegge l’Imam e questo forma il direttivo. Ma non è così in tutti i centri; quelli piccoli, ad esempio, sfuggono a questa regola». – Quanti sono i musulmani che risiedono a Verona e provincia? «Sono circa 23 mila, di maggio-
ranza marocchina, 15-16mila circa, il resto è un’amalgama del mondo arabo-islamico». – In quanti frequentano la Moschea? «A Verona e provincia ci sono sei centri islamici. In città è stato costituito il Consiglio Islamico, che raduna i centri e le moschee di città e provincia e di cui io sono il portavoce. La comunità è suddivisa nei vari centri, il più grande è il nostro di Via Biondani Bencivegna. La misura della frequenza la possiamo avere durante la preghiera del venerdì, che è il momento più sentito: ci sono circa 700/800 fedeli. Negli altri Centri si parla di circa 100-200 persone. Durante il Ramadan, alla preghiera della sera sono presenti circa 600 persone tutti i giorni. Credo che quasi tutti i musulmani siano praticanti, il
fatto di frequentare o meno il Centro è in relazione agli impegni di lavoro». – Il ministro Castelli ha affermato che le moschee sono l’humus dove affondano le radici del fondamentalismo e del terrorismo. Cosa ne pensa? «Non è vero. Noi non abbiamo questa percezione. É un’affermazione sbagliata quella del ministro, non suffragata da prove. La comunità islamica è presente in Italia da circa quarant’anni. I nostri dirigenti sono arrivati per studiare a Perugia, Padova e ora hanno i capelli bianchi: se la loro intenzione fosse stata quella di organizzare dei luoghi d’indottrinamento per kamikaze l’avrebbero fatto fin dal principio e non solo dopo l’11 settembre. Quanti arresti ingiusti, effettuati senza prove!».
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Ahamad e Naim: due esempi di integrazione
«l padre della mia ragazza ci ostacolava: le diceva che sono musulmano, che sono albanese, che faccio un lavoro umile. Ora sta cambiando idea...»
Ahamad (Marocco)
Naim (Albania)
Mi chiamo Ahamad Ibn Sefrioui sono arrivato in Italia 15 anni fa dal Marocco. Sono nato a Taza, una piccola città del nord. La mia famiglia non era ricca, ma nemmeno povera, non vivevo male, però cercavo qualcosa di più. Sono partito insieme a mio cugino e dopo un paio d’anni in cui siamo rimasti in Sicilia siamo arrivati a Verona verso la fine del 1992. Siamo ancora qui entrambi. All’inizio non è stato facilissimo ambientarsi, ma la diffidenza era data dal fatto che venissi da fuori, e non perché ero musulmano. Se fossi stato di Reggio Calabria sarei stato trattato allo stesso modo. Abito in provincia a San Martino Buonalbergo. Ho avviato un piccolo commercio di scarpe con mio cugino, siamo ambulanti, giriamo i mercati dei paesi e della città. Ormai abbiamo molti clienti affezionati. Ho conosciuto mia moglie a Verona, anche lei è marocchina, i nostri figli sono nati qui. Credo che il lavoro che faccio e anche l’aver messo su famiglia abbia agevolato il processo d’integrazione. L’asilo, la scuola ci hanno fatto conoscere altre famiglie, altri genitori. Parlando ci si scopre uguali, con gli stessi problemi, le stesse preoccupazioni, le stesse difficoltà quotidiane. No, non posso dire di essere mai stato discriminato per motivi religiosi. Forse chi arriva adesso è guardato con maggior sospetto, ma credo sia una situazione legata al momento di tensione internazionale, che tutti, in un modo o nell’altro, stiamo scontando.
Vengo da Saranda, in Albania. Ho 25 anni mi chiamo Naim, sono manovale in un’impresa edile. Abito in Borgo Roma. Mi trovo bene anche se non è come avevo sperato. Da noi si vede la televisione italiana e le cose sembrano diverse… Sono qui da 4 anni. Non è sempre facile, ci sono molti pregiudizi nei confronti degli albanesi. Il fatto d’essere musulmano passa in secondo piano. Il padre della mia ragazza non era contento che mi frequentasse e faceva di tutto per ostacolarci: le metteva sempre davanti il fatto che sono musulmano, che sono albanese, che faccio un lavoro umile. Adesso, dopo un anno che ci frequentiamo, si è un po’ ammorbidito. Non posso dire che sia felice, ma ha accettato il fatto, ha visto che sono serio. Lei è giovane, va ancora a scuola. Quando il fine settimana vado a prendere Anna per uscire, il padre vuole sempre che salga in casa, mi offre il caffè e domanda come va. Problemi al lavoro non ne ho mai avuti anche se mi fermo per la preghiera. Ci siamo messi d’accordo con il capo squadra. Io lavoro sodo non hanno motivo di lamentarsi, anzi! Prima lavoravo sempre per loro, ma tramite una cooperativa, mi pagavano solo le ore di lavoro effettive, se stavo male erano fatti miei, ovviamente niente ferie, ebbene dopo due anni sono stato assunto direttamente dall’impresa. Per me è stato un bel traguardo… quando lavoriamo in appalti grossi, e arrivano i manovali dalla cooperativa, mi affidano due o tre ragazzi, sono tranquilli, sanno che possono fidarsi.(C.I.)
– Dopo l’11 settembre e dopo le bombe di Madrid e Londra si è instaurato un clima di tensione e diffidenza. Sente che si è intensificato il controllo dell’autorità giudiziaria sulla comunità musulmana di Verona? «Il clima di tensione è iniziato con l’11 settembre. Noi, grazie a Dio, avevamo buoni rapporti con le istituzioni locali già prima. Abbiamo sempre collaborato non solo con le forze dell’ordine, ma anche con il Comune, la Provincia, la Chiesa tentando di abbattere la diffidenza con la conoscenza reciproca. Il terrorista compie un atto criminale, contro Dio e contro l’umanità, questo va detto chiaramente. E comunque noi musulmani viviamo qui e non dall’altra parte della monta-
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Da cattolica a musulmana La conversione di Faridah Emanuela Peruzzi La religione islamica non incute agli occidentali solo timore o scetticismo. Cè una fetta di popolazione che invece ne è affascinata e, in alcuni casi, la curiosità si spinge oltre, fino alla conversione. Ne abbiamo parlato con Emanuela Peruzzi, che ha vissuto quest’esperienza. «Di solito non mi piace parlare della mia conversione all’Islam», spiega Emanuela «perché temo sempre che appaia come una scelta emotiva, basata su un “sentire”, tanto capriccioso quanto sbagliato, oppure su motivi psicologici. Questo mi preoccupa, non tanto per salvaguardare la mia immagine, ma per fedeltà verso la verità». Emanuela racconta di aver ricevuto un’educazione religiosa cattolica e pur avendo sempre creduto in Dio, per molto tempo non ha ritenuto di praticare la fede, pensando, come molti, che fosse sufficiente orientare la vita secondo principi d’onestà e buon comportamento. UN EPISODIO SIGNIFICATIVO
«Ghoneim è stato espulso ingiustamente dall’America. Si tratta di una persona colta ed equilibrata, per questo non abbiamo avuto problemi ad ospitarlo» «Il giornalista Magdi Allam è un uomo colto ma non sa niente dell’Islam. Dice quello che la gente vuole sentirsi dire, non la verità»
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gna. I nostri figli frequentano la scuola qui, saliamo sugli autobus delle città in cui viviamo e una bomba ucciderebbe anche noi. Va anche detto che a causa del clima che si è creato la nostra comunità a volte si sente oppressa». – Il giornalista Magdi Allam ha scritto sul Corriere della Sera che le moschee italiane affiliate all’Ucoii sono luoghi in cui si predica la guerra santa. Cosa replica? «Allam afferma cose che non esistono, si fa passare per un islamologo. È un uomo colto, ma non sa niente dell’Islam e per le sue affermazioni il nostro segretario nazionale gli ha intentato una causa per diffamazione. Mi dispiace dirlo, l’ integralista in questo caso è lui. Dice quello che
«Ricordo un episodio che forse ha costituito un’anticipazione di qualcosa che sarebbe avvenuto molto più tardi», spiega Emanuela. «Prima dei quattordici anni andai a Istanbul con i miei genitori. Allora il paese non era ancora troppo occidentalizzato e la religione islamica ancora sentita. Mentre passeggiavo per la metropoli udii la chiamata alla preghiera che il muezzin cantava dal minareto della vicina moschea. Sul palazzo antistante dei muratori lavoravano sul tetto e sentita la chiamata si fermarono, stesero i tappeti sulla sommità dell’alto edificio e cominciarono a pregare. Rimasi molto colpita dalla devozione di quegli uomini che non dimenticavano Dio nemmeno durante le fatiche del lavoro». E prosegue: «Più tardi, senza che nessuna esigenza particolare lo motivasse, a seguito di letture e frequentazioni, capii che l’uomo ha una funzione e una possibilità che gli impongono scelte precise. La natura dell’uomo, infatti, non si realizza che attraverso l’elevazione del sé, quella parte divina che è insita in lui e che tale elevazione non può che avvenire attraverso gli strumenti rituali che Dio stesso ha dato agli uomini sin dai primordi dell’umanità, attraverso le religioni. Questa consapevolezza, che non posso più ignorare, ha fatto sì che dapprima mi conformassi integralmente alla dottrina cattolica e in seguito, senza nulla rinunciare, visto che Gesù è ben presente nella tradizione islamica, che riconoscessi anche l’autenticità di un altro Profeta inviato da Dio dopo la Rivelazione cristiana. Questa adesione all’Islam costituisce semplicemente la continuazione di un cammino di fede, tramite una rivelazione più recente, e quindi meno deformata dall’uomo, che permette un rapporto diretto con Dio, senza l’intermediazione di un clero». Oggi, Faridah Emanuela Peruzzi fa parte del comitato direttivo della Coreis Italiana, l’organizzazione composta da musulmani italiani, con sede nazionale a Milano, che da oltre quindici anni promuove il dialogo e la testimonianza spirituale «per fornire gli strumenti per un discernimento che eviti che la strumentalizzazione della religione costituisca il pretesto per alimentare l’odio, l’esclusivismo e la violenza».
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Società la gente vuole sentirsi dire, non la verità. Basti pensare chesecondo lui la moschea di Verona sarebbe a rischio. Questo è pazzesco, abbiamo sempre lavorato per la conoscenza e l’integrazione». – Wagdy Ghoneim il 26 agosto ha tenuto una conferenza a Verona. «Una persona brillante» come dice Abdallah Bach, rappresentante della comunità islamica veneta o «un apologeta del terrorismo suicida islamico» come afferma Magdi Allam? «Ho detto prima cosa penso delle affermazioni di Allam. Ghoneim è stato espulso ingiustamente dall’America. Si tratta di una persona colta ed equilibrata, per questo non abbiamo avuto problemi ad ospitarlo: le conferenze sono sempre state pubbliche, aperte a tutti». – È mai entrato in contatto qui a Verona con persone o gruppi fondamentalisti? Come si è comportato o come si comporterebbe se ciò accadesse? «Se fossi venuto a contatto con persone del genere le avrei denunciate subito, non avrei avuto alcun dubbio a farlo. Devo ammettere che la paura di attentati c’è. Purtroppo quello che è accaduto a Madrid e a Londra potrebbe succedere anche qui. Per questo bisogna tenere gli occhi ben aperti, tutti quanti, e collaborare con le forze dell’ordine».
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– Il 6 settembre l’Imam di Torino Bouchta Bouriki è stato espulso dall’Italia, sulla base delle nuove norme antiterrorismo introdotte con il decreto Pisanu. Personalmente si sente tutelato o oppresso dalle nostre leggi? «Siamo soffocati dalle leggi sull’immigrazione: sono leggi razziali e alcuni articoli sono da buttar via; invece, ritengo che le norme sulla sicurezza siano giuste».
– Qual è la sua percezione per quanto riguarda l’integrazione dei musulmani nel nostro territorio? «Le comunità straniere in generale, non solo quella islamica, si stanno integrando con la comunità autoctona. È un processo lento, a volte si trovano dei blocchi che creano una cattiva integrazione, cioè i ghetti, la chiusura, ecc… Questa è la cosa che più mi fa paura ed è su questo che dobbiamo lavorare. Chi arriva si deve adeguare e gli autoctoni de-
vono imparare a convivere. Non c’è integrazione senza il contributo delle due parti. È il momento di lavorare in progetti comuni. Lo stesso profeta dice che la fede è quella che c’è nel cuore e viene dimostrata con la pratica. Se io credo in questa convivenza, devo praticarla, altrimenti rimarrà astratta. Per esempio, con i Consigli Islamici di Vicenza e Treviso, abbiamo intenzione di aprire le porte della moschea, verso la fine del Ramadan. Vogliamo condividere la rottura del digiuno con i fratelli non musulmani, con una visita al Centro e spiegazioni sulla sua storia: pensiamo di fare questo in un’unica giornata in tutte le moschee del Veneto».
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Società INTERVISTA
«Dietro lo specchio» di un mondo malato Il libro dello psichiatra veronese Vittorino Andreoli descrive con durezza una società alla deriva, vittima del consumismo, dove l’uomo insegue solo potere e ricchezza. Siamo infelici perchè vediamo gli altri come potenziali nemici
L’anatomia esistenziale dell’uomo del terzo millennio non appare positiva nel libro dello psichiatra Andreoli. Viviamo immersi in contraddizioni laceranti, corse sfrenate, bisogni indotti, false illusioni e soprattutto nella perdita di una prospettiva umanistica che possa salvaguardare la dignità dell’individuo
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di Elisabetta Zampini «Dietro lo specchio» è il titolo del libro di Vittorino Andreoli uscito nell’aprile 2005 (Edizioni Bur, Euro 8.50). Il sottotitolo ne traccia sinteticamente il contenuto: «Realtà e sogni dell’uomo di oggi». É infatti un lungo e partecipato sguardo sulla società attuale con l’atteggiamento, dichiarato fin dalla prima pagina, del «pessimista attivo» cioè di colui che contemporaneamente vede nero dappertutto e si affanna a illuminare ovunque. L’anatomia esistenziale dell’uomo del terzo millennio non appare infatti positiva tra contraddizioni laceranti, corse sfrenate, bisogni indotti, false illusioni e soprattutto la perdita di una prospettiva umanistica che possa salvaguardare la dignità dell’individuo. D’altra parte l’uomo è comunque capace di immaginare «oltre le apparenze», di progettare un’esistenza inedita perché di lui non si è detto tutto e il margine del mistero e dell’ignoto diventa possibilità di cambiamento. Di fronte alla forte tensione etica che accompagna le pagine del libro, nasce spontaneo chiedere all’autore il «movente» della scrittura, le motivazioni cioè più profonde e personali. «Io mi occupo sempre di casi singoli», spiega Vittorino Andreoli, «la mia vita passa attraverso la storia di uomo, di un ra-
gazzo, di una donna, in una relazione che è sempre di me con un altro singolo. Qualche volta sento il bisogno di raccogliere le considerazioni che nascono dalle diverse esperienze particolari per arrivare a individuare denominatori comuni, che mi pare non appartengano più al singolo ma proprio all’uomo di questo tempo. Quindi cercare di delinearne le caratteristiche principali». – Nel libro si descrive una società occidentale in crisi di cui vengono messi in evidenza i diversi aspetti: la condanna è generale e coinvolge i singoli, come le istituzioni. Perché questa scelta? «Per capire l’uomo contemporaneo bisogna parlare anche della società in cui è inserito. Si arriva così a “questo” uomo, che è l’uomo della società occidentale, che cerca il successo, che corre alla ricerca di una affermazione economica. Certo, io non ho molta simpatia per questa società, perché crea dei bisogni assolutamente artificiosi che condizionano la vita e persino la dignità delle persone». – Il linguaggio del libro, diretto e forte, è un aspetto che colpisce. Sicuramente trasmette l’idea e la sensazione di questo disappunto. É una scelta di stile o una necessità? «Non è certo un libro distaccato, è un libro sofferto. Il linguaggio e i termini sono sostenuti da una forte passione e si legano all’at-
teggiamento dell’indignarsi. Io sono indignato. Mi piace molto questo termine perché significa una reazione al venire meno del rispetto della dignità. La dignità dell’uomo, delle famiglie, dei giovani. L’indignazione non è violenza né rabbia né rancore verso qualcuno, ma nasce dalla constatazione della perdita di dignità e porta alla voglia di mettere in evidenza quali sono gli elementi di una forte crisi e di cambiare». – La notorietà di chi la esprime può dare a questa indignazione maggiore possibilità di essere accolta? «Bisogna fare una distinzione tra notorietà e fama. Per fare un esempio, Donato Bilancia è noto per aver ammazzato in sei mesi diciassette persone. La notorietà è spesso passeggera. La fama è qualche cosa di diverso. Può anche essere nota ma si fonda sulla esperienza, sulla credibilità, su una autorevolezza in un certo campo della propria azione. Io non so se sono famoso, non spetta a me dirlo, però credo che la fama aiuti e faciliti la possibilità di essere ascoltati. Insomma quando quarant’anni fa andavo a parlare alle persone ne trovavo poche, adesso spesso le sale sono gremite e quindi un po’ di fama serve». – In questo senso qual è il suo rapporto con la televisione? Non c’è il rischio di rimanere intrap-
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Medici e avvocati? Brutta gente... E gli interessati rispondono «Non è facile stabilire un ordine gerarchico sulle professioni più depravate» scrive Andreoli nel suo libro. «Sono preso dal dubbio se mettere al primo posto l’avvocatura o la medicina» di Matteo Ferrari MEDICI
Pietro Marcello Fazzini
«Non confondiamo le patologie di un sistema con il sistema stesso» «Credo che non si sia mai verificato nella storia dell’Occidente un degrado delle professioni quale quello oggi raggiunto (…) non è facile stabilire un ordine gerarchico sulle professioni più depravate: sono preso dal dubbio se mettere al primo posto l’avvocatura o la medicina. Si tratta delle due professioni più classiche del mondo occidentale e vi è uno storico conflitto per l’occupazione del ruolo dominante nelle città». Con queste parole Vittorino Andreoli nel suo libro “Dietro lo specchio” introduce il suo durissimo j’accuse al mondo delle professioni prendendosela soprattutto con la categoria alla quale lui stesso appartiene. Secondo lo psichiatra veronese, infatti, il medico, è ancora peggio dell’avvocato, perché lucra sul corpo e sulla psiche del proprio cliente e possiede come fine non la salute della persona, ma il denaro che riesce ad ottenere dal suo corpo. Ma non finisce qui… «Di fronte allo stesso problema medico», prosegue Andreoli, «l’azione sanitaria
cambia a seconda che il fegato appartenga a un corpo ricco o a uno povero. Se uno è povero deve pregare il Padre Eterno di non ammalarsi, se uno è ricco sappia che migliorerà sempre ma non guarirà mai: nel migliore dei casi dovrà ricorrere a controlli periodici». Abbiamo chiesto di commentare queste affermazioni a Pietro Marcello Fazzini presidente dell’Ordine dei medici di Verona. «Un po’ mi stupiscono e un po’ mi fanno sorridere queste frasi», commenta dopo un breve silenzio il medico. «Andreoli stesso, infatti, è un medico conosciuto per la sua competenza e preparazione. Mi sembra che il tono con cui si esprime sia eccessivamente categorico. Io credo che l’uomo porti con sé dei limiti, dei difetti, delle tare che emergono in tutti gli ambiti in cui egli opera. Ci sono dei cattivi medici, come ci sono dei cattivi avvocati, dei cattivi giornalisti o dei cattivi sacerdoti..., ma non possiamo confondere quelle che sono le patologie del sistema con il sistema stesso. Oltre ad essere presidente dell’Ordine dei medici veronesi, sono vicepresidente della Federazione regionale dell’Ordine, nonché uno dei rappresentanti nazionali della categoria e mi sento di poter affermare che la classe medica è una classe sana. Se il quadro fosse così fosco, come lo dipinge il professor Andreoli, dovrei essere sommerso dalle denunce di pazienti che si lamentano e vogliono essere risarciti. Ma non è così. Come tutti i professionisti, anche i medici hanno un codice di deontologia professionale al quale devono attenersi, pena la sospensione o addirittura la radiazione dall’Ordine».
AVVOCATI
Paolo Maruzzo
«Se non precisa le accuse sono solo sparate occasionali» Definiti come i maggiori profanatori di ogni regola, e in primis di quelle scritte sul Codice civile e penale, gli avvocati avrebbero come unico imperativo quello di conoscere tutte le norme, ma non seguirne nessuna. «Sotto i roboanti imperativi della giustizia» scrive lo psichiatra «del diritto alla difesa, del diritto ai tre gradi di giudizio, del giuramento di dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, si compiono, con la regia dell’avvocato, le più nefaste operazioni di spregio dei diritti. E se non basta giocare sugli articoli di legge – rincara Andreoli – allora si stringono legami con i giudici che in qualche modo, nella follia dell’interpretazione, ricreano ad arte i manuali della giustizia». Parole pesanti quelle che ritroviamo in “Dietro lo specchio”. Anche per l’avvocato la molla della professione sarebbe, come per i medici, la quantità di denaro. «Penso che vada tutto bene quello che pensa Andreoli…» replica l’avvocato Paolo Maruzzo, noto professionista veronese ed ex presidente della Camera Penale «ci deve però dire di quale avvocato sta parlando! Deve sostanziare queste affermazioni. Se non spiega su che notizie fonda le accuse, le sue frasi rimangono delle “sparate occasionali”. Alla stessa sua maniera io potrei dire che tutti i giornalisti sono corrotti, che fanno male il loro mestiere, o che lo fanno con il solo scopo di screditare gli altri. Per dare sostanza alle mie dichiarazioni, però, devo portare una certa messe di esempi, altrimenti le mie risulterebbero solo lamentele indiscriminate».
«Non ho simpatia per questa società, perché crea dei bisogni artificiosi che condizionano la vita e la dignità delle persone. Io sono indignato. Mi piace questo termine perché significa una reazione al venire meno del rispetto della dignità»
polati nei suoi meccanismi, nella logica dell’immagine che è una grande nemica della verità? «La televisione è uno degli strumenti più pericolosi che conosca. La prima volta che andai in tv è stato nel 1971 o ‘72. Andai a parlare di schizofrenia. Mi chiamano ancora e io moltissime volte dico di no. Ho il criterio di otto volte no e una sì. Perciò vado in televisione poco, in relazione al numero di possibilità che potrei avere. Devo dire che ogni volta che ci vado sono sempre molto preoccupato perché è uno strumento che può essere utile ma anche dannosissimo». – Nel capitolo «L’uomo televisivo» si parla proprio della cultura dello zapping che esula i confini del televisore da cui è nata per diventare modo di vivere e di conoscere: «La vita come serie più o meno lunga di attimi, ognuno dei quali non ha un rapporto di causa ed effetto ma è puramente casuale». Tuttavia qualcosa si può fare per ridare senso. Rimane infatti un atteggiamento di speranza nell’uomo e nel cambiamento verso la serenità e la felicità… Si sottolinea, tra l’altro, il ruolo dell’educazione in questo passaggio. Quale può essere allora un sano percorso educativo accessibile a tutti? «Il mio libro non è una pura indignazione. Dopo una prima e una seconda parte che analizzano l’uomo di oggi e il perché della crisi, c’è una terza parte intitolata “Cosa fare”. Da pessimista attivo credo che non siano necessarie le rivoluzioni, almeno nel nostro caso, per
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Società «I ragazzi non imparano se c’è qualcosa da fare sempre e qualcosa da fare mai: tutto è possibile, secondo i criteri dell’etica della circostanza»
Vittorino Andreoli
cambiare la società. La mia esperienza quotidiana mi ha insegnato che basta poco per risollevare la tragedia verso un clima di serenità. É necessario tornare a fermarsi un po’ per chiedersi quale sia il senso dell’uomo oggi. Credo che questo interrogativo ormai non se lo faccia quasi più nessuno. Ci si chiede piuttosto quanto successo
si ha, quanto denaro si prende, quanta capacità di affermazione si possiede o come superare le frustrazioni... C’è poi un altro problema veramente etico: i ragazzi non imparano se c’è qualcosa da fare sempre e qualcosa da fare mai: tutto è possibile, secondo i criteri dell’etica della circostanza. Quindi il primo passo è che l’uomo rico-
«La televisione ha le sue responsabilità» Secondo il giornalista Lucio Bussi la tv è lo specchio della società del consumo, della precarietà e dell’instabilità. Modelli che Influenzano anche il mondo degli affetti e della famiglia. Per questo occorre recuperare tempo da spendere nel rapporto con il prossimo
minci a pensare, e io credo molto nei giovani. Penso sia tempo di cambiare l’importanza che si dà al lavoro, per cui un giovane che non lavora, o con un lavoro precario, dovrebbe essere da buttare via». – Il nodo dell’infelicità attuale sta nel venire meno dei rapporti tra gli uomini. Nell’aver perso la dimensione del volto, dell’incontro, a favore di un individualismo autoprotettivo (un’immagine emblematica è l’automobile, quasi una nuova corazza di difesa-attacco). Quale potrebbe essere l’impegno, sia individuale sia politico-sociale, per recuperare la dimensione dell’alterità? «Per prima cosa occorre vincere e superare la cultura del nemico. Ciascuno di noi, incontrando un’altra persona, ha come prima percezione che si tratti di un ne-
di Francesca Paradiso Lucio Bussi, giornalista del quotidiano L’Arena di Verona, da due anni è tesoriere dell’Ordine dei giornalisti del Veneto. – Qual è la sua valutazione generale sul libro “Dietro lo specchio”di Vittorino Andreoli? «Il libro è scritto con frasi molto forti e dirette. La prima parte del testo è costituita da una diagnosi della società, l’autore sottolinea la mancanza di solidarietà tra gli individui e la prevalenza di un Io individualistico. Pur utilizzando toni molto intensi il libro lascia spazio, nella seconda parte, alla terapia necessaria per recuperre una dimensione umana della vita, superando la crisi attuale. Credo che proprio il giornale possa essere uno strumento in grado di fare cultura, recuperando i caratteri di una cultura condivisa». – Nel libro si descrive come sia cambiata la vita degli italiani dal 1954 con l’arrivo della televisione, quindi il passaggio dalla tv della razionalità a quella dell’emotività. Cosa ne pensa di queste osservazioni? «Condivido in parte le critiche verso una televisione che ingoia tutto, che crea una sottocultura fino a farla diventare primaria. La tv spesso propone qualità dei programmi di basso spessore culturale ed educativo, mentre viene dato più spazio al-
mico. Questa cultura non porta da nessuna parte perché allontana le persone e si finisce per sentire il nemico persino in casa: il padre, la moglie, il marito diventano nemici. Questa percezione nasce dalla paura. La società oggi è talmente insicura e frustrata che vive la paura di tutto: si ha addirittura paura della paura. Nella paura ci si difende, ci si chiude. Abbandonata la cultura del nemico, si fa strada invece la cultura della solidarietà che non è fiducia gratuita e ingenua ma è dare importanza alle esperienze. Bisogna fare esperienze per poter dire con questa persona mi posso alleare, posso fare delle cose insieme, per individuare insomma realistici punti di incontro. La paura impedisce l’esperienza, la solidarietà la permette».
l’intrattenimento; i programmi sono omologati e le reti televisive sono concorrenti per la conquista del migliore share. Resistono ancora dei buoni programmi di attualità e cultura proposti però solo in seconda serata. La tv è lo specchio della società del consumo, della precarietà e dell’instabilità, modelli che arrivano ad influenzare anche il mondo degli affetti e della famiglia». – Nel testo viene rilevato l’odierno degrado di alcune professioni; ritiene che anche i professionisti dell’informazione possano “piegarsi”al denaro e al potere? «Condivido la critica fatta ad alcune professioni che tendono ad anteporre il guadagno alle regole. L’uomo cade in secondo piano, medici e avvocati guardano al portafoglio, si assiste a una sorta di scivolamento della società con la ricerca del piacere, del potere e del denaro e a un crollo dei valori. In questo senso qualche difetto c’è anche nel mondo dei media». – Che soluzioni vede? «Si potrebbe pensare di recuperare il tempo per usarlo nel migliore dei modi, riconquistando spazio per il rapporti con gli altri e nel silenzio con se stessi. Spesso siamo travolti dagli eventi e anche dalla tecnologia, il valore del tempo sembra dilatarsi ma non viene sfruttato veramente».
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Cultura SPETTACOLI
Quale teatro? Comici resi famosi dal piccolo schermo che recitano da protagonisti in ruoli classici; opere rivisitate in nome della sperimentazione e attualizzate per avvicinare i giovani al palcoscenico. E i testi originali, i grandi interpreti dove sono finiti? Un po’ dipende dalle nuove sensibilità, un po’ dai soldi che non ci sono di Giorgia Cozzolino
Tullio Solenghi in “La bisbetica domata”
«Suscitando pietà e paura, essa porta alla catarsi di tali sentimenti». È con queste parole che Aristotele definiva la tragedia, e più in generale il teatro. Per i greci tutte le forme di teatro, ma prevalentemente la tragedia, avevano una funzione catartica in quanto servivano a rappresentare l’inconscio umano liberandolo così dall’egemonia delle passioni. Se è vero quanto affermava ancora Aristotele, e cioè che «gli uomini, per natura, aspirano alla conoscenza», allora dovremmo pensare che il teatro, anche ai giorni nostri, dovrebbe stimolare la riflessione attorno ai grandi temi della vita, comunicare valori e creare, per questi motivi, una diffusa partecipazione. Ma è davvero così?
L’Estate Teatrale Veronese 2005 ha registrato un bilancio positivo, con 50 mila spettatori e un milione di euro di incassi, nonostante i tagli dei finanziamenti e il maltempo. Alla prosa sono andate oltre 14 mila presenze divise in 15 serate. Meno di un terzo dell’intera stagione teatrale
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Non cerchiamo troppo lontano, proviamo a esplorare la situazione veronese per capire se c’è traccia di quell’antico spirito con cui i nostri antenati calcavano i palchi e affollavano le platee. Senza fare un’indagine sulle culture, i dogmi e le tribolazioni che hanno nei secoli cambiato la percezione artistica delle genti, ci siamo chiesti se il teatro abbia oggi un posto di rilievo nella vita dei veronesi e se siano sfruttate tutte le sue potenzialità. Prima di girare la domanda agli esperti, abbiamo raccolto una constatazione: i pochi mezzi a disposizione incidono pesantemente sul capitolo spettacoli. Un esempio fra tutti è quello del Festival Shakespeariano, che ha deluso per il numero delle rappresentazioni in cartellone. Se quantità difficilmente va a braccetto con qualità è anche vero che un festival, l’unico in Italia che si definisce “shakespiriano”, non può ridursi a tre sole opere di prosa, di cui una goldoniana, per un totale di 15 serate. C’è poi da dire che le due rappresentazioni, “Romeo e Giulietta” e “La bisbetica domata”, erano rivisitazioni dell’originale. Un tipo di proposta che, come afferma la stessa direzione del Festival, ha il merito di avvicinare un pubblico giovane; ma non affiancare anche delle produzioni fedeli al testo di Shakespeare lascia un po’ perplessi per una Verona che vorrebbe utilizzare l’immagine dell’artista di Stratford per rilanciare la propria. Che la città ami l’intrattenimento lo dimostrano i numeri. L’E-
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state Teatrale Veronese 2005 ha infatti registrato un bilancio positivo, con 50 mila spettatori e un milione di euro di incassi, nonostante i tagli dei finanziamenti e il maltempo. Numeri importanti che hanno sicuramente portato ossigeno nella casse comunali ma che, a guardar bene, poco hanno a che fare con il teatro di prosa vero e proprio. Quasi metà delle presenze, 16 serate, è stata infatti registrata dalla danza con i Momix, i Nederlands Dans Theater e George Momboye (che hanno contato oltre 22 mila paganti), mentre il restante se lo sono divisi Paolo Conte (quasi nove mila presenze in arena), la Carmen di Antonio Gades (con cinquemila spettatori) e il jazz con quasi quattromila posti occupati. Alla prosa sono andate oltre 14 mila presenze divise in 15 serate. Meno di un terzo, quindi, dell’intera stagione teatrale. I veronesi preferiscono dunque la danza alla prosa? Oppure scelgono in base al grado di notorietà dell’offerta? Mentre un tempo assistere a uno spettacolo teatrale era un rito con una forte significato culturale, oggigiorno sembra prevalere il puro intrattenimento per un pubblico meno preparato i cui gusti risentono dei cliché proposti dalla televisione. «Se devo spendere 20, 30 euro, voglio essere sicuro di godere uno spettacolo che ne sia all’altezza» dicono i veronesi. Il problema è però capire cosa si intenda per «essere all’altezza». Cercano di capirlo anche gli organizzatori delle varie rassegne che fanno miracoli per cercare di far quadrare i conti puntando su «cavalli vincenti», o bilanciando all’interno di un festival i vari elementi. Gian Paolo Savorelli, direttore artistico dell’Estate Teatrale, nonostante avesse a disposizione un terzo del bilancio dell’anno precedente è riuscito ad «attraversare il fiume in tempesta, giungendo in porto con successo nonostante il maltempo», come ci ha spiegato. «Il vero problema è quello dei finanziamenti ridotti; speriamo che l’emergenza sia superata» afferma il direttore artistico che, insieme all’assessore
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Da sinistra: Gian Paolo Savorelli, Roberto Terribile, Roberto Puliero
Savorelli: «Il futuro del teatro è la ricerca, non troppo cervellotica, ma in grado di attualizzare testi importanti. Per questo un’altra nostra ambizione è quella di portare maggiore attività al Teatro Camploy, usare quello spazio per la sperimentazione, che forse avvicinerà di più il pubblico giovane»
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alla Cultura del comune di Verona, Luciano Guerrini, sostiene la volontà di continuare a portare a Verona opere di qualità. «Il teatro è lo specchio della società», sostiene il direttore. Poi una dichiarazione che va nel senso che fa da leit motiv a questa piccola inchiesta: «Il teatro non può essere solo intrattenimento, deve avere qualcosa in più, deve far riflettere, e il drammaturgo inglese in questo è senza tempo, si può dire sia un contemporaneo». E alle critiche al Shakespeare portato in scena quest’estate, Savorelli replica: «Il futuro del teatro è la ricerca, non troppo cervellotica, ma in grado di attualizzare testi importanti. Per questo un’altra nostra ambizione è quella di portare maggiore attività al Camploy, usare quello spazio per la sperimentazione, che forse avvicinerà di più il pubblico giovane». Secondo alcuni, scegliere attori diventati celebri per le loro performance comiche, come Solenghi e Goggi, affidando loro dei ruoli classici, sarebbe un indicatore di inaffidabilità della rappresentazione, una sorta di specchietto per le allodole destinato a deludere gli spettatori più attenti, una formula addirittura controproducente a lungo andare. Per altri invece si tratterebbe di un legittimo escamotage per far conoscere il teatro a quelle persone che altrimenti lo snobberebbero. Quale la ricetta giusta? «Si possono tentare molte strade per richiamare il pubblico», spiega ancora Savorelli, «e spesso i nomi
Terribile: «Sono migliaia le rappresentazioni tradizionali shakespeariane, quindi credo sia positivo diversificare il festival veronese. Il problema semmai è quello di far crescere il pubblico in modo da renderlo disponibile e desideroso di conoscere i nuovi linguaggi teatrali» noti del piccolo schermo hanno grande fascino. Nel nostro caso bisogna però specificare che tutti questi attori famosi per apparizioni “leggere”, vengono in realtà dal teatro classico e quindi possono garantire anche una grande professionalità». A Verona, precisa poi il direttore, «sono arrivati ormai tutti i grandi nomi del teatro. La difficoltà, semmai, è riuscire a riunire più d’un grande attore nello stesso spettacolo o nello stesso cartellone». Insomma, sempre di pecunia si tratta. E a favore di una attualizzazione e sperimentazione delle opere c’è anche Roberto Terribile, direttore artistico della Fondazione Aida. Terribile sostiene di preferire le rivisitazioni ai testi tradizionali perché «permettono di rendere un autore come Shakespeare sempre più contemporaneo, come direbbe lo studioso Jan Kott». E aggiunge: «Sono migliaia le rappresentazioni fedeli al testo del drammaturgo inglese, quindi credo sia positivo diversificare il festival veronese rispetto alle consuete manifestazioni. Sono anche convinto che il ruolo dei festival in giro per il mondo sia quello di rilanciare nuove versio-
ni basate su quel pilastro drammaturgico che è l’opera di William Shakespeare». Il problema essenziale, secondo il direttore, «è quello di far crescere il pubblico in modo da renderlo disponibile e desideroso di conoscere i nuovi linguaggi teatrali». Ritiene inoltre che chi dirige l’Estate teatrale veronese abbia «giustamente dimostrato un’apertura in questo senso valorizzando le diverse realtà locali». Terribile concorda quindi con Savorelli su tutta la linea, a partire dalla «mancanza di investimenti seri, sia per chi lavora sia per chi si propone di lavorare con i festival». Secondo i dati di Aida, negli ultimi due anni tutto il settore culturale ha subito una notevole diminuzione di pubblico. ll cinema ha avuto un calo del 18% di spettatori, il teatro del 15%. «A mio avviso ciò è dovuto alla crisi economica che stiamo attraversando, per cui le scelte di spesa dei cittadini si concentrano verso settori ritenuti più essenziali», spiega Terribile. «Sia il cinema che il teatro hanno fatto un notevole sforzo per attirare il pubblico, ma con la mancanza dei dovuti finanziamenti è difficile fare meglio».
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Cultura L’unione fa la forza, per cui se la coperta è troppo corta è inutile litigare per accaparrarsela. Sarebbe più proficuo trovare il modo di stringersi e avvicinarsi, così da non lasciare scoperto nessuno. Sulla situazione scaligera, infatti, Terribile afferma di avere la sensazione che «si stia portando in scena la celebre opera goldoniana “Le Baruffe Chiozzotte”. Ognuno pensa al proprio interesse senza cercare una fruttuosa collaborazione con chi gli sta vicino. Questo purtroppo porta al non utilizzo delle grandi potenzialità che Verona e il Veneto offrono». E aggiunge: «In questo senso, il compito della politica, oltre all’educazione del cittadino, è anche quello di stabilire criteri di scelta, coordinare gli interventi e dare un’identità unitaria alla miriade di risorse». Una voce fuori dal coro è quella di Roberto Puliero, regista, attore e responsabile della Barcaccia, compagnia teatrale che opera a Verona da più di trent’anni riscuotendo un successo di pubblico straordinario, anche in tempi bui come questi. Secondo Puliero un record l’Estate Teatrale è riuscita a ottenerlo, «fare un flop con Goldoni a Verona». E l’attore non risparmia le frecciate definendo la Commissione artistica della rassegna «un mucchio di gente che scalda sedie e non va mai a teatro». Ma oltre le schermaglie di rito, il regista fa un’analisi complessiva ben diversa: sostiene che gli attori di fama in grado di attirare il pubblico sono quasi scomparsi e che ci sono invece molti attori bravissimi, praticamente sconosciuti. Tutta colpa della televisione, che non darebbe spazio al teatro e ai veri talenti che ci lavorano. «In un epoca in cui tutto è virtuale, la comunicazione teatrale è assolutamente unica e diretta» dice Puliero «tanto che le nuove generazioni ne sono affascinate. Ma il teatro rischia di non essere all’altezza nel soddisfare questa domanda». E aggiunge: «Ci vorrebbe una direzione artistica cittadina capace di scegliere a chi concedere gli spazi, senza fare valutazioni per provincialismo o ignoranza».
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Rita Di Giuseppe, docente all’Università di Verona
Ma perché sui giornali se ne parla sempre bene? All’Università di Verona, nella facoltà di Lingue e Letterature Straniere, la professoressa Rita Di Giuseppe è docente ricercatore del Dipartimento di anglistica. Nell’ambito della letteratura inglese ha pubblicato saggi su Conrad, Joyce, Defoe mentre la sua sfera di ricerca attuale riguarda il romanzo del Settecento e Shakespeare, con una recente pubblicazione su Othello e un volume, in allestimento, su King Lear. Verona In ha quindi pensato di chiedere a lei alcune impressioni sulle trasposizioni sceniche di Shakespeare nella nostra città. – Vista la sua esperienza e conoscenza del teatro britannico, cosa ne pensa del Festival veronese dedicato a Shakespeare? «Gli attori italiani sono bravissimi, specialmente quando recitano per il piccolo o grande schermo, ma quando salgono sul palcoscenico, per qualche perversa regola che mi sfugge, tendono tutti (con rara eccezione) a recitare con quello stile detto “declamatorio” tipico della fine dell’Ottocento, che ha l’effetto di annullare tutte le sfumature che un testo teatrale richiede. Ricordo di aver visto, lo scorso anno, l’allestimento di King Lear al Teatro Romano e sono rimasta molto delusa dalla recita monotona, nel senso proprio di mono-tono in generale e dopo due ore di declamazioni sono uscita un po’ frastornata».
– Quali sono, secondo lei, le linee guida per rafforzare e promuovere il teatro come luogo di scambio e riflessione culturale, in una città come Verona? «Anni fa, con l’assessorato alla Cultura del Comune di Verona, sono stata invitata a presentare opere di Shakespeare presso le circoscrizioni. Lo scopo era quello di promuovere le rappresentazioni al Teatro Romano. Quando iniziò la stagione il teatro era sempre pieno, ma sono convinta che non fosse per merito delle mini conferenze. Ogni volta che vado al teatro, anche se ormai raramente, faccio fatica a trovare biglietti, c’è il tutto esaurito. Una linea guida potrebbe essere forse un senso critico più spiccato da parte dei giornalisti che scrivono le recensioni. Spesso negli articoli ci sono soltanto encomi, complimenti ed entusiasmo per spettacoli che invece sono mediocri». – Dall’epoca di Shakespeare a oggi come sono cambiate le esigenze dello spettatore rispetto alle rappresentazioni teatrali e quali significati ha perso il teatro odierno? «Il teatro ha sempre avuto e avrà un significato diverso per ogni secolo, generazione, paese o singolo lettore/spettatore. Le esigenze dello spettatore, al contrario, sono sempre le stesse: vuole essere intrattenuto».
Puliero: «Tutta colpa della televisione che non da spazio al teatro e ai veri talenti che ci lavorano. In un epoca in cui tutto è virtuale, la comunicazione teatrale è assolutamente unica e diretta, tanto che le nuove generazioni ne sono affascinate. Ma il teatro rischia di non essere all’altezza nel soddisfare questa domanda. Ci vorrebbe una direzione artistica cittadina capace di scegliere a chi concedere gli spazi, senza fare valutazioni per provincialismo o ignoranza»
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Cultura A 250 ANNI DALLA NASCITA
Il viaggio di Mozart nella città di Verona Durante i tre viaggi in Italia il celebre musicista fece tappa in riva all’Adige dove fu accolto con tutti gli onori e con grande interesse per le sue virtù
di Nicola Guerini
Saverio Dalla Rosa. Ritratto di Mozart dipinto a Verona nel 1770 (Collezione privata)
Verona era, per i viaggiatori del Settecento, una città importante nel periodo in cui Leopold Mozart e il figlio Wolfang intrapresero il primo viaggio italiano nel 1769-1770. L’Italia era considerato un paese nel quale gli studi dell’arte dovevano essere completati, approfonditi, riportando l’artista ai luoghi d’origine con una sorta di diploma, una laurea, un’attestazione che poteva favorire una maggior considerazione e fama
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Il 27 gennaio 2006 ricorre il 250° anniversario della nascita di Wolfang Amadeus Mozart. Il musicista è fortemente legato a Verona dove, ancora adolescente, si guadagnò i primi applausi e le prime lodi. Infatti, durante i tre viaggi in Italia, il compositore salisburghese e il padre Leopold fecero sosta nella nostra città, dove furono accolti con i migliori onori ed estremo interesse per le virtù del giovanissimo Wolfang. Verona era, per i viaggiatori del Settecento, una città importante per la sosta nell’Italia settentrionale nel periodo in cui Leopold Mozart e il figlio Wolfang intrapresero il primo viaggio italiano nel 1769-1770. Nella consuetudine del tempo era, infatti, una prassi quella che portava gli artisti dall’Europa centrale verso l’Italia, un paese nel quale gli studi dell’arte (e non solo la musica) dovevano essere completati, approfonditi, riportando l’artista ai luoghi d’origine con una sorta di diploma, una laurea, un’attestazione che poteva favorire una maggior considerazione e fama. Partiti da Salisburgo il 13 dicembre 1769, passando per Innsbruck, Bolzano e Rovereto, essi giunsero, a Verona il 27 dicembre, dove presero alloggio alla taverna «Due Torri» in Piazza Sant’Anastasia. In seguito si spostarono nella spaziosa abitazione del signor Pietro Lu-
giati che si trovava di fronte all’orto botanico, vicino Santa Maria Antica, in quella che ora è la piazza delle Viviani. Fu proprio in quella casa che Leopold Mozart e il figlio Wolfang conobbero i personaggi illustri della città per censo e cultura come i nobili Carlotti, Emilei, Giusti e Michelangelo Locatelli, che fece da guida a Wolfang nella visita della città, compreso il grande anfiteatro romano, l’Arena. Al teatro dell’Accademia Filarmonica si stava rappresentando, come opera della stagione di carnevale, «Il Ruggiero» con musica attribuita a Pietro Guglielmi su libretto di Caterino Mazzolà. Durante il soggiorno veronese, il giovane Mozart seguì con attenzione critica gli spettacoli e in una lettera alla sorella, scrisse: «…Fra un atto e l’altro c’è un balletto: c’è un bravo ballerino che si chiama Monsieur Ruesler. É un tedesco, e danza molto bene; quando fummo l’utima volta (ma non proprio all’ultima cena) all’opera, abbiamo fatto salire M.r Ruesler nel nostro palco (poiché abbiamo a disposizione il palco del Marquis Carlotti, avendone la chiave) e parlato con lui: apropos: tutti ora con la Mascara, e ciò che è comote, quando si ha la larva sul cappello, e si ha il privilegio di non levarsi il cappello se uno mi saluta, e mai chiamarsi per nome, ma sempre servitore umilissimo, siora Mascara. Cospeto di Baco, che allegria…».
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Cultura La sosta veronese, con un freddissimo clima invernale, fu intensa e durò due settimane. Durante questo soggiorno i Mozart instaurarono un solido rapporto con la famiglia Lugiati, della quale furono sempre ospiti, che si rinnovò nel corso dei tre viaggi in Italia ogni volta che essi passarono da Verona. Il 5 gennaio 1770 fu sicuramente il giorno più importante del soggiorno veronese di Wolfang. Il giovane talento, infatti, fu invitato dall’Accademia Filarmonica ad esibirsi nella Sala della Conversazione, oggi Sala Maffeiana, dove si faceva anche musica e lettura di drammi. Furono presenti le personalità più illustri della città come il conte Giuseppe Carlo di Serego, il conte Gianfranco Murari Brà, il conte Lodovico Moscardo, il marchese Alessandro Carlotti (che offrì ai Mozart la chiave del proprio palco al Teatro Filarmonico), il conte Pietro Emilei e il conte Giacomo Verità. Quel 5 gennaio è rimasto testimoniato da un resoconto giornalistico, pubblicato sulla Gazzetta di Mantova qualche giorno più tardi. In esso si leggeva: “Questa città non può non annunziare il valore portentoso, che in età di non ancora 13 anni, ha nella musica il giovanetto Tedesco Sig. Amadeo Wolfango Motzzart, nativo di Salisburgo e figlio dell’attuale Maestro di Cappella di Sua Altezza
Wolfang e il padre Leopold presero alloggio alla taverna Due Torri in Piazza Sant’Anastasia. Si spostarono poi nella spaziosa abitazione del signor Pietro Lugiati che si trovava di fronte all’orto botanico, vicino Santa Maria Antica Organo di San Tomaso Cantuariense (costruito da Giuseppe Bonatti nel 1716) su cui suonò Mozart il 7 gennaio 1770
Rma Monsig. Arcivescovo Principe di Salisburgo suddetto. Esso giovane nello scorso Venerdi 5, dell’andante, in una sala della Nobile Accademia Filarmonica, in faccia alla pubblica Rappresentanza ed a copiosissimo concorso di Nobiltà dell’uno, e dell’altro sesso, ha date tali prove di sua perizia nell’arte predetta, che ha fatto stordire. Egli, fra una scelta adunanza di valenti Professori ha saputo, prima d’ogni altra cosa, esporre una bellissima sinfonia d’introduzione di composizion sua, che ha meritato tutto l’applauso. Indi ha egregiamente sonato a pri-
ma vista un concerto di cembalo, e successivamente altre sonate a lui novissime. Poi sopra quattro versi esibitigli, ha composta sul fatto un’aria d’ottimo gusto nell’atto stesso di cantarla. Un Soggetto ed un Finale progettatogli, egli mirabilmente concertò sulle migliori leg-
gi dell’arte. Suonò all’improvviso assai bene un Trio del Boccherini. Compose benissimo in partitura un Sentimento datogli sul violino da un Professore. Insomma si in questa, che in altre occasioni, esposto a’ più ardui cimenti, gli ha tutti superati con indicibil valore, e quindi
Il 5 gennaio 1770 fu il giorno più importante del soggiorno veronese di Wolfang, che ancora non aveva compiuto i 13 anni di età. Il giovane talento fu invitato dall’Accademia Filarmonica ad esibirsi nella Sala della Conversazione, oggi Sala Maffeiana Itinerario preparato dai Mozart per la prima parte del viaggio in Italia del 1770
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Cultura A un anno dal successo del giovane talento, il 5 gennaio 1771, l’Accademia Filarmonica si riunì a ricordo del grande evento, nominando a titolo d’onore, Wolfang Amadeus Mozart, suo Maestro di Cappella con universale ammirazione, specialmente de’ Dilettanti; tra’ quali i Signori Lugiati, che dopo aver goduti, e fatti ad altri godere più saggi meravigliosi dell’abilità di tal giovane, hanno voluto infine ritrarre in tela al naturale, per serbarne eterna memoria”. Del successo di Wolfang, il padre Leopold scrisse alla moglie: «...In fede mia non avevo mai visto nulla di così bello…Non è un teatro, ma una sala con delle logge come all’opera. Al posto della scena si trova una pedana per la musica e dietro la musica, ancora una galleria costruita come le logge. La gente, gli applausi, le grida, il rumore, i bravo incessante, in breve tutta questa ammirazione dimostrata dagli ascoltatori non saprei come descriverla». È importante ricordare che dopo esattamente un anno dal successo del giovane talento, il 5 gennaio 1771, l’Accademia Filarmonica si riunì a ricordo del grande evento, nominando a titolo d’onore, Wolfang Amadeus Mozart, suo Maestro di Cappella. Nella lettera inviata, durante il soggiorno a Verona da Leopold Mozart alla moglie, viene documentato anche un concerto eseguito il 7 gennaio nella chiesa di San Tommaso Canturiense, sull’organo costruito nel 1716 da Giuseppe Bonatti da Desenzano. E’ molto probabile che i Mozart avessero scelto la chiesa dei frati carmelitani per la chiara fama dell’organaro Bonatti anche se Leopold parla di un secondo strumento del quale non rimane però nessuna testimonianza, tranne che in un verbale napoleonico del 1806. Ecco la testimonianza di quel pomeriggio in una lettera di Leopold alla moglie: «…Dopo il
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pranzo andammo alla chiesa di San Tommaso per suonare su due organi di questa chiesa, si era già raccolta una tale folla di popolo che noi avevamo appena posto per scendere dalla carrozza. La calca era così grande che fummo costretti a passare attraverso il chiostro, dove poi in un momento ci si aggiunse tanta gente che non avremmo trovato posto se i Padri, che ci aspettavano alle porte del convento, non ci avessero preso in mezzo. Quando tutto fu finito, la confusione fu ancora più grande, chè ognuno voleva vedere il piccolo organista». Non conosciamo il programma del concerto, ma probabilmente Wolfang avrà improvvisato come era sua abitudine; esistono delle supposizioni, non ancora chiare, sulla possibile esecuzione di un frammento immortalato sul dipinto, che ritrae il giovane prodigio, eseguito in casa Lugiati da Saverio Dalla Rosa (allievo di Gian Bettino Cignaroli). A proposito del dipinto, va ricordato che fu proprio Pietro Lugiati ad insistere per la realizzazione del ritratto combinando gli appuntamenti e le sedute di posa tra il 6 e l’8 gennaio. In seguito venne scritto che la tela passò da casa Lugiati all’Accademia Filarmonica, ma non è stato provato da nessun documento di sodalizio o d’inventario. Il quadro ebbe invece diverse vicissitudini e dalla casa Lugiati passò per varie mani: viaggiò per Sopra: nomina di W.A. Mozart a Maestro di Cappella dell’Accademia Filarmonica di Verona (Archivio dell’Accademia Filarmonica)
Vienna e nel 1940 andò ad arricchire a Losanna la collezione di ritratti di musicisti del grande pianista francese Alfred Cortot. Il primo soggiorno dei Mozart a Verona terminò il 10 gennaio 1770, anche se ritornarono il 4 febbraio e nuovamente dal 16 al 20 marzo dello stesso anno. Nei viaggi successivi in Italia, Verona rimase una tappa obbligatoria; il 18 e 19 agosto, il 7 dicembre 1771, l’1e il 2 novembre 1772 ed infine il 6 marzo 1773, furono ospitati sempre da Pietro Lugiati che aveva ormai instaurato con i Mozart un ottimo rapporto d’affetto e stima.
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Cultura di Giorgia Cozzolino Con 80 mila presenze il Festival dei giochi di strada “Tòca-Tì” ha rappresentato un vero fenomeno non solo per Verona, ma anche nazionale. La terza edizione di questa manifestazione ha infatti superato ogni aspettativa registrando il doppio dei visitatori e occupando 200 mila metri quadrati di superficie tra le mura cittadine. 35 giochi provenienti da tutto il mondo hanno coinvolto oltre ventimila turisti giunti da varie parti d’Italia per assistere e prendere parte alla manifestazione. Numeri grandi che hanno sorpreso persino gli organizzatori dell’Associazione Giochi Antichi (Aga). Un indotto economico di cui si sono accorti, in tempi di magra, anche gli albergatori e ristoratori veronesi. E tutto è accaduto per gioco. Ma non un gioco qualsiasi, una vera fede per la propensione ludica. Già, perché di questo si tratta: una sfrenata dedizione per tutte quelle manifestazioni giocose che un tempo occupavano le strade e le corti e che, con l’avvento delle auto, della tecnologia e del benessere, sono andate scomparendo. Piccole “tribù” di giocatori sparsi qua e là hanno non solo ricostruito gli strumenti di gioco antichi, ma li hanno utilizzati per far rivivere passioni sepolte. Niente guerra alla Play-station, come qualcuno ipotizzava con speranza, ma piuttosto uno “sdoganamento” del gioco in quanto elemento infantile. Ma che senso ha riesumare vecchi giochi, alcuni addirittura considerati illegali, come ad esempio la morra, e riproporli nelle piazze? Abbiamo chiesto lumi a uno degli organizzatori, Giuseppe Giaccon, responsabile dell’Aga. Giaccon ci tiene subito a precisare che il numero più importante del Festival è quello degli oltre duecento volontari che hanno lavorato senza tregua per garantire il funzionamento della manifestazione. Quindi spiega: «Credo che “Tòca-tì” sia riuscito sotto tanti punti di vista, a partire dalle persone che si sono cimentate nei vari giochi senza quella frenesia che spesso ci accompagna». E aggiunge: «Con il numero incredibile di presenze, di cui il 30% da fuori Verona, si è capito che il Festival ha
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EVENTI
«Toca-tì» Perché un Festival dei giochi di strada? Intervista con Giuseppe Giaccon, dell’Associazione Giochi Antichi
delle forti potenzialità, anche dal punto di vista dell’indotto economico». – Che senso ha un festival di giochi di strada, quando la strada non è più dei bambini? «Lo scopo della manifestazione era proprio quello di riprendere possesso degli spazi urbani. Non c’è rivisitazione folcloristica nei nostri intenti, anche se una parte dell’associazione si preoccupa di studiare lo sviluppo storico dei diversi giochi. Ciò che manca nelle nostre società sono spazi
pubblici sociali, non destinati a parcheggio o ad attività commerciali, ma veri e propri luoghi d’incontro e di socializzazione. E
noi crediamo che attraverso i giochi di strada si possa trovare la voglia di riappropriarsi di questi spazi». – Qualcuno ha pensato che fosse un Festival per i bambini, ma alla fine i grandi erano i più interessati… «Huizinga disse che prima dell’homo sapiens nacque l’homo ludens. Per questo abbiamo creato un festival del gioco, non un festival per grandi o piccoli. Noi dell’Aga amiamo giocare ed è questo lo spirito che ci anima. Non crediamo che ci siano giochi cattivi e giochi buoni, non siamo contro quelli tecnologici e non pensiamo che solo quelli antichi siano i migliori. Infatti stiamo già pensando di inserire in una prossima edizione anche nuove comunità ludiche, come ad esempio quella degli skaters. Pensiamo che il gioco aiuti a socializzare, a far crescere i bambini, a mantenere giovani i grandi: una condizione che il mondo dello sport fatica a ricreare perché è diventato uno spazio commerciale che ha perso la propria veste ludica». – È per questo che “Tòca-tì” ha avuto tanto successo? «Stiamo vivendo un momento storico in cui siamo sopraffatti da immagini stereotipate e vuote e quando torniamo a casa fatichiamo a trovare la nostra identità. Il tempo non basta mai e quello per giocare non c’è perché nel gioco non c’è quella logica produttiva che governa la nostra società. Il gioco, se vogliamo analizzarlo da un punto di vista sociologico, è anche un esercizio di democrazia: ci sono delle regole concordate a priori che tutti i giocatori rispettano. Ma nel caso il terreno di gioco non sia regolare, come accade se ci si trova in luoghi di fortuna, si può stabilire in modo comunitario quali aggiustamenti apporre alle regole. La manifestazione ha mostrato che il gioco supera non solo le barriere anagrafiche, ma anche quelle della lingua e dei confini».
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Storia La rassegna all’inizio occupò Piazza Bra, la Cittadella, i Palazzi della Gran Guardia e del Pallone
Fieracavalli, la storia Verona, Fieracavalli 1937
di Francesca Paradiso
Durante la prima fiera, che prese il nome di Fiera di Marzo, perché si svolse nei giorni 14, 15 e 16 marzo del 1898, gli 800 box predisposti risultarono insufficienti a contenere i cavalli provenienti da ogni parte d’Italia e da molti paesi europei
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Ernst Heindl ha passato la vita nell’alta Val di Mazia, in un maso sulle montagne che circondano la Val Venosta. Quasi centenario, conserva due sole immagini dell’Italia: il mare immenso e piatto visto per la prima e l’ultima volta durante il servizio di leva in Calabria e la Fiera dei Cavalli di Verona «che visitai all’inizio del ’900 con mio padre». Ernst non è più sceso dalle sue montagne, ma quel viaggio, a distanza di 80 anni, gli è rimasto ben impresso nella memoria. Racconta che andare a Verona in occasione della Fiera, visti i disagi del tempo, era per i malgari di lassù un’avventura che almeno una volta nella vita valeva la pena di vivere per poterla poi raccontare. Ma cosa vide questo malgaro quasi cento anni fa e come si è poi trasformata questa manifestazione divenuta oggi pun-
to di riferimento mondiale per il settore? La storia inizia con una delibera datata 28 dicembre 1897 con cui la Civica Amministrazione di Verona istituisce le Fiere Semestrali di Cavalli, dando così inizio all’attività fieristica della città scaligera. Il mondo rurale è al centro della Fiera: si espongono merci, si possono vedere e acquistare cavalli, bovini e animali da cortile. La rassegna occupa Piazza Bra, la Cittadella, i Palazzi della Gran Guardia e del Pallone. In quegli anni il cavallo era un vero e proprio mezzo di trasporto, veniva impiegato nelle campagne per la sua forza e per la sua docilità. Da esso dipendeva buona parte degli introiti di una famiglia e la sua possibilità di spostarsi da un luogo a un altro. Durante la prima fiera, che prese il nome di Fiera di Marzo, perché si svolse nei giorni 14, 15 e 16 marzo
del 1898, gli 800 box predisposti risultarono insufficienti a contenere i cavalli provenienti da ogni parte d’Italia e da molti paesi europei. Il successo della Fiera dei Cavalli si rafforza negli anni, tanto che nel 1906 il re Vittorio Emanuele III, e nel 1924 il principe Umberto di Savoia, la visitano. La manifestazione non pone limiti ai suoi interessi e nel 1899 accoglie il primo congresso automobilistico indetto dall’Automobile Club Italia: tra i partecipanti il Cavaliere Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, con un quadriciclo a due posti. Nel 1921, dopo aver vinto la Coppa Verona, anche il pilota Tazio Nuvolari prende parte alla rassegna veronese. Tecnologia e innovazione con il fascismo subiscono un’accelerazione, così il 1922 risulta l’anno del boom della meccanizzazione agricola. Contemporaneamente la Fie-
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Storia
Verona, Fieracavalli 1937
ra allarga lo spazio dedicato ai cavalli che continua a crescere nel corso degli anni Trenta. Nel 1930 si costituisce l’Ente Autonomo per le Fiere di Verona e la Fiera di Marzo si trasforma in Fiera Internazionale dell’Agricoltura e dei Cavalli: un vero contenitore di eventi, informazioni, novità; al suo interno si svolge il commercio dei cavalli e si trova tutto ciò che riguarda l’agricoltura e le varie specializzazioni di settore, con l’obiettivo di migliorare la manifestazione che entra così a far parte delle grandi manifestazioni internazionali con l’ammissione all’Union des Foires Internationales (UFI). Verona diventa il punto di riferimento per la crescita mercantile e tecnica del settore primario in Italia. Nemmeno le guerre sembrano distrarre l’attenzione dalla Fiera scaligera, tanto che nel 1940 si registrò un successo tale che si dovette chiudere con un giorno d’anticipo poichè furono venduti tutti i 6000 cavalli presenti con un giro d’affari di 22 milioni di lire dell’epoca. Nel 1948, a cinquanta anni dalla nascita, la manifestazione prende il nome di Fieragricola, Fiera Internazionale dell’Agricoltura e della Zootecnica, e si trasferisce in Borgo Roma, dove si organizza in un moderno spazio di 300 mila metri quadrati. In questa occasione viene anche allestito il primo Salone della Macchina Agricola, che rende sempre più prestigiosa la Fiera di
in VERONA
primavera e che diventa lo specchio del rinnovamento agricolo italiano e d’Europa. L’agricoltura assorbe le innovazioni degli anni Cinquanta specializzandosi velocemente e con il tempo Fieragricola produce i suoi “frutti”, nuovi saloni che trovano posto in questo straordinario contenitore. Nel 1964 Samoter, prima biennale e dal 1993 triennale, arricchisce i padiglioni della Fiera con il Salone Internazionale delle Macchine Movimento Terra, da Cantiere e per l’edilizia. Successivamente nel 1967 nascono le Giornate del Vino Italiano, poi nel 1969 Vinitaly, Salone delle Attività Vitinicole, una rassegna che dedica tutto il suo interesse al vino, con numerosi dibattiti di natura tecnica ed economica, convegni per la Legge istitutiva della Denominazione dell’Origine Controllata (DOC) arrivando fino al Salone del Brandy e dei distillati. Dal cilindro magico di Fieragricola escono nuove sorprese. Nel 1969 nasce Eurocarne, salone delle Tecnologie per la Lavorazione, Conservazione e Distribuzione delle Carni, che è l’ampliamento del Salone delle Attrezzature Zootecniche. Gli anni Settanta, con le immagini di Battisti e Mogol a cavallo, sono di rilancio per la manifestazione. Cresce l’interesse per il prezioso quadrupede mentre si fa spazio a temi nuovi legati alla natura, all’e-
Durante gli anni Settanta cresce l’interesse per il prezioso quadrupede mentre si fa spazio a temi nuovi legati alla natura, all’ecologia, al mondo rurale, al trekking cologia, al mondo rurale, al trekking: il cavallo diventa per molti una grande passione, magari da vivere nei fine settimana, a passeggio lungo le ippovie, percorsi utilizzati nel passato e oggi riportati alla memoria. «In quegli anni la Fiera si trova nuovamente ad anticipare le esigenze del pubblico, propone e valorizza il turismo equestre, diventando un volano per gli scambi internazionali», ricorda Lucia Galli, consulente di Fieracavalli. «I ragazzi trascorrevano notti intere in macchina pur di partecipare all’evento. Nei giorni dell’attività fieristica si potevano incontrare amici, scambiare opinioni e riflessioni su tutto il mondo equestre» aggiunge l’esperta. E sottolinea che all’epoca vi erano solo
10 mila iscritti alla Federazione Italiana Sport Equestri, mentre oggi si contano circa 80 mila iscrizioni. Oggi c’è piena coscienza che il cavallo è un compagno, un animale d’affezione, una sorta di mediatore tra l’uomo e la natura, che ci immerge in ambienti incontaminati: lo attesta il numero di persone che mediamente montano a cavallo, che in Italia è di circa un milione. Nel 1976 Fiera Cavalli si reinventa nel mese di novembre con Fiera dei Cavalli e Salone delle Attrezzature e Attività Ippiche. Il cavallo, pur restando al vertice della manifestazione, cede spazio a tutto ciò che ad esso si collega: dall’abbigliamento per l’equitazione al mangime per l’animale, dai mezzi necessari al trasporto ai consigli dei veterinari, dal trekking all’ippoterapia. Fieracavalli ha anche il merito di aver tenuto in vita alcune tradizioni destinate altrimenti a scomparire nelle pieghe della storia, soprattutto negli anni del boom economico, quando l’interesse tendeva a diminuire. Un esempio è il Concorso Internazionale di mascalcia che si svolge ogni anno e che premia i migliori maestri nell’arte di ferrare il cavallo. Una Fiera unica perché coinvolge non solo persone specializzate, ma anche migliaia di visitatori affascinati dall’atmosfera che l’evento crea, dove si possono scoprire altri territori, i loro usi e costumi attraverso percorsi turistici, ambientali e enogastronomici promossi dal Villaggio delle Tradizioni. Una Fiera, quella di Verona, che dal 2001 ospita l’unica tappa italiana FEI World Cup (Coppa del Mondo di Salto ad Ostacoli), ma che attrae anche i bambini nel padiglione “Bambini e Cavalli” dove possono partecipare al Battesimo del Pony.
Mostre di Cinzia Inguanta Il veronese Davide Tonato, una tra le figure più interessanti del surrealismo metafisico contemporaneo, si è imposto da anni sulla scena artistica internazionale. Ha esposto, oltre che nella nativa Verona, in moltissime città italiane in ambiti prestigiosi: dal Castello Estense di Ferrara, al Palazzo Ateneo San Basso a Venezia, fino a Castel Sant’Angelo di Roma e al Museo civico archeologico di Bologna. Le sue opere sono conosciute e apprezzate anche all’estero. L’artista, infatti, ha esposto all’Open Center di New York, alla Galleria Majestic di Cannes e persino in alcune gallerie australiane di Melbourne. La sua ricerca stilistica nasce da un rigoroso percorso di formazione classica: dopo essersi diplomato al liceo artistico, consegue anche il diploma in grafica industriale per terminare i suoi studi all’Accademia di Belle Arti Cignaroli di Verona, sotto la guida di maestri come Aldo Tavella (pittura e affresco), Luigi Scapini (costume), Alberto Colliva (scenografia). La sua è una pittura raffinata, meticolosa, ricca di sfumature complesse che deriva dallo studio dei grandi pittori rinascimentali e neoclassici e dall’acquisizione di antiche tecniche che vanno dalla preparazione delle tele, alla doratura, all’uso di pigmenti da lui prodotti con materiali poveri. L’opera di Tonato spazia dalla miniatura dei mazzi di carte di tarocchi (dello scorso anno la pubblica-
Utopia. Olio su tela
L’ARTISTA
Davide Tonato Una tra le figure più interessanti del surrealismo metafisico contemporaneo zione da parte della Orbi-Fabbri Rcs del mazzo «L’albero della vita» frutto di lunghi e approfonditi studi sulla kabbala moderna) all’espansione virtuale dello spazio attraverso l’inganno ottico del trompe l’œil, alle tele, prevalentemente di grandi dimensioni, in cui la speculazione prospettica dà vita a mondi che non hanno coordinate di riferimento spazio temporali, sono paesaggi visionari, miraggi architettonici, labirinti. In sostanza quello che l’artista raffigura sono paesaggi dell’anima, architetture mentali: i luoghi dell’io. La continua ricerca interiore dell’artista, accompagnata dallo studio delle tradizioni esoteriche e al-
GALLERIA D’ARTE MODERNA
Alik l’affabulatore Una figurina esile, triste e ironica che fa capolino tra gli scenari alienanti della grande città. É Gustavo B, il protagonista del primo ciclo di opere plastiche di Alik Cavaliere, una delle personalità più originali e intuitive del panorama artistico del secondo dopoguerra, a cui la Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti sta dedicando una grande rassegna antologica. Alik, un uomo che ha saputo fondere e confondere l’arte con la vita e la vita con l’arte, aveva anticipato la televisione di questi ultimi anni dove sempre più frequentemente capita di vedere persone comuni diventare famose anche solo per 15 minuti, per citare il
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Davide Tonato
chemiche, l’interesse per la kabbala ebraica ed il taoismo, si rende concreta nell’uso d’inquietanti icone simboliche. Nei suoi quadri il senso dell’arcano, del trascendente, il fascino astrale traducono il reale in disegni che assorbono dall’architettura la concretezza prospettica, ma solo per frammentarla, scom-
grande Andy Warhol. In fondo, però, chi non si riconosce o si è rivisto anche solo per un breve periodo della propria vita in Gustavo B, un mix tra l’uomo senza qualità di Musil e l’italiano medio? Il piccolo personaggio filiforme, un po’ tragico e un po’ comico tenta di affrontare le difficoltà tipiche dell’uomo comune nel suo rapporto con il mondo con un’ironia che ha lo stesso sapore della satira delle opere teatrali di Dario Fo con cui Alik ha stretto un profondo legame di amicizia durante gli anni Sessanta e Settanta. Entrambi sono stati maestri nel restituire dignità a coloro che sono sempre stati definiti semplici, a quella amara realtà che viene spesso derisa o addirittura occultata. Alik, infatti, ha saputo raccontare delle storie, ha messo in scena la vita, miscelando le giuste dosi di verità e fantasia. Come un «trovarobe
porla, scioglierla in creature cromatiche che s’avvolgono di sogno e di magia. La sua pittura appare ritmica, armonica e soprattutto luminosa, proprio come è lui. Tonato, infatti, è una persona assolutamente solare, in armonia con se stesso e con la natura, con lo spazio nel quale si muove. Un uomo consapevole del proprio valore, coerente con i propri principi che fa e dipinge solo quello in cui crede, quello che gli dà piacere, senza cadere nelle lusinghe del denaro e delle mode. Contattato da un grande mercante d’arte che gli proponeva un accordo molto allettante per la produzione in serie di un numero considerevole di tele, ha rifiutato senza battere ciglio. «Che senso avrebbe avuto?», dice sorridendo con semplicità. I suoi allievi trovano in lui un vero maestro, non solo artisticamente parlando, ma anche un maestro di vita proprio per la sua integrità morale, per la fedeltà a se stesso. In questo momento sta lavorando per una prossima mostra che avrà come oggetto una serie di quadri dedicati all’India che non c’è più. L’artista torna a proporre l’architettura in chiave simbolica, surreale. Oltre a questo, in previsione per il prossimo futuro, del quale scaramanticamente non ama molto parlare, c’è in progetto la pubblicazione, da parte della «Dal Negro», di un altro mazzo di tarocchi, incentrato sullo studio delle virtù alle quali faranno da sfondo Venezia con le sue architetture.
teatrali» ha recuperato i materiali, la carta, il legno, la stoffa e come un regista ha saputo dare loro un senso, trasmettendo il pensiero di un uomo che ha combattuto senza armi contro persone armate, che ha scelto la via della libertà. Ed è proprio sulle orme del pensiero libero e vitale dell’artista che il curatore della mostra, Giorgio Cortenova, si è mosso per allestire questa grande antologica carica di fascino. Lo spettatore viene trasportato dallo stato di desolazione ad un effetto di suggestione teatrale. Di fronte alle figure plastiche affiorano l’artificiosità e l’ironia di matrice surrealista che creano un forte impatto visivo, un effetto di stupore nel visitatore che da semplice voyeur si ritrova ad essere parte integrante dell’opera d’arte, protagonista con le sue emozioni di un mondo dove racconto, mito e magia si fondono panicamente. (m.m.)
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I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA
La “lezione” di Silvio Girelli di Giuseppe Brugnoli Non tocca molto spesso, anzi succede piuttosto raramente, di trovare tra la tanta gente che gli accadimenti della vita e della professione fanno incontrare, qualche persona il cui gradito ricordo rimane intatto anche a distanza di anni, e che ogni tanto, o anche più spesso, si affaccia alla memoria quasi imperiosamente, a rinnovare sensazioni, impressioni, episodi che fanno parte del patrimonio memoriale di ciascuno. Molto spesso si tratta di persone per qualche verso eccezionali, protagoniste di eventi fuor del comune, e che per questo si sono incise più profondamente nel labile archivio di fogli sparsi e spesso volatili in cui accumuliamo alla rinfusa le esperienze del nostro passato; qualche volta, invece, ricordiamo non un singolo episodio, staccato dal contesto esistenziale della persona che ne fu protagonista, ma ci viene in mente una figura a tutto tondo, che si stacca con decisione e personalità da uno sfondo che diviene fatalmente sempre più grigio e indistinto. È il caso di Silvio Girelli, che fu giornalista prima a Radio Adige e quindi all’Arena di Verona, dove concluse la sua vita breve, anche professionale, con l’incarico di redattore capo e l’ufficio di sovrintendere al settore della cronaca cittadina, che come si sa, specialmente nei giornali provinciali, forse non è il più importante ma certamente il più delicato e difficile. Era un uomo di raro equilibrio, di una innata maturità che si potrebbe definire sapienziale e di una profonda umanità che nascondeva dietro un viso intenso e un aspetto severo, con qualche traccia di scontrosità talvolta rotta da un sorriso illuminante. Nella professione, aveva una singolare capacità lavorativa, che lo portava ad essere esigente con se stesso più ancora che con i colleghi, per cui solitamente era il primo ad entrare in redazione e l’ultimo ad uscirne, se non dopo aver concluso tutte le svariate incombenze, anche non peculiari al suo ruolo, che si addossava volentieri purchè il lavoro fosse fatto bene. I suoi giudizi erano acuti, le sue osservazioni pertinenti, ma il modo di esporle era sempre rispettoso della personalità dell’interlocutore o anche delle persone estranee e sconosciute diventate
in VERONA
Giornalista di talento. Era il primo ad entrare in redazione e l’ultimo ad andarsene. Durante tangentopoli seppe informare i suoi lettori senza rinunciare a mettere in evidenza il risvolto profondamente umano che stava dietro ad alcune vicende giudiziarie protagoniste di fatti belli o brutti della cronaca quotidiana. Quando scriveva, e i compiti direzionali ai quali era addetto gli lasciavano poco tempo per esprimersi in quello che in fondo dovrebbe essere il principale impegno di un giornalista, la sua prosa era sempre tersa e limpida, del tutto priva di divagazioni e allettamenti per il lettore, così che il racconto procedeva lineare e compatto, attento soltanto a rendere compiutamente i fatti narrati senza surrettizie intrusioni di commenti o giudizi, per cui i suoi pezzi giornalistici, resoconti di eventi di normale amministrazione o di episodi eclatanti, erano esemplari per correttezza formale, per rispetto della verità sostanziale dei fatti e anche delle persone in qualsiasi modo coinvolte. Quando fu assunto nella redazione de “L’Arena” dall’allora direttore Gilberto Formenti, qualcuno del comitato di redazione gli chiese se Radio Adige, da cui Silvio Girelli veniva con un altro paio di giornalisti rivelatisi bravi, doveva intendersi come una specie di nursery, un incubatoio da cui prelevare rincalzi, quasi che altrove non si riuscissero a trovare persone adatte ad intraprendere la professione nel quotidiano cittadino, e Formenti, con uno di quegli estri improvvisi che gli facevano superare situazioni difficili, rispose seraficamente che, se tutti i nuovi assunti fossero stati come Girelli, egli non avrebbe avuto nessuna difficoltà, anche successivamente, a pescare nel laboratorio della radio privata. In tempi successivi, quando più acutamente la stagione che poi fu detta di tangentopoli
falciava abbondantemente l’establishment politico-amministrativo veronese, e uno dei tanti esponenti colpiti da provvedimenti della magistratura chiese al giornale di poter dire anche la sua, in una sorta di autodifesa, si discusse lungamente, in una riunione ristretta di redazione, se fosse il caso o meno di accondiscendere alla sua richiesta, e sul come eventualmente farlo. Finchè Girelli troncò il dibattito assumendosi personalmente il difficile incarico dell’intervista all’indagato. Ne ricavò un ampio e articolato saggio, in cui con il consueto acume e con un rigore ancora più attento del consueto riportava compiutamente sia le imputazioni che le difese, ma nel quale emergeva soprattutto il ritratto di un personaggio che come tanti altri, forse come tutti gli altri, si riteneva immune da ogni e qualsiasi rilievo, e che quindi, di fronte a delle gravi accuse, dalle quali fu in tempi diversi e molto successivi interamente prosciolto, rivelava interamente lo sconvolgimento di una intera esistenza, non solo dell’attività politica ma anche della vita personale, familiare e professionale. Un resoconto che avrebbe potuto definirsi freddo e impersonale, con domande pertinenti e spesso rudemente dirette, ma dal quale alla fine emergeva un’antica e nobile “pietas” che non giustificava e non scusava, ma evidenziava il risvolto profondamente umano di una vicenda giudiziaria che altri avrebbero trattato, come spesso a quei tempi succedeva, con la sufficienza e il distacco al quale l’esercizio del mestiere spesso abitua, ottundendo sensibilità e talvolta anche rispetto. Quella intervista fu anche una specie di lezione di giornalismo, che pochi capirono, e che Silvio Girelli non ebbe occasione di ripetere. Poco dopo, infatti, alla conclusione di un breve periodo di ferie, fu colto dai primi sintomi di un male del quale si usa dire che non perdona. Per lui fu proprio così: entro pochi mesi non ci fu più. E a chi andò a salutarlo a nome della redazione nell’ultimo giorno della sua vita, in una cameretta senza finestre dell’ospedale, non ci fu bisogno di parole: egli sapeva e ne era cosciente. Così che disse soltanto, con un sorriso che si apriva appena nel viso contratto dal male: «Mi saluti tutti, e gli dica che gli ho voluto sempre bene».
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Territorio ERBEZZO
Una malga come scuola Nel Centro di Recupero della Fauna Selvatica dell’antica Malga Derocon si impara il rispetto per la natura. Visite guidate tutto l’anno
di Chiara Cappellina Immaginate di entrare in un parco tutto da scoprire, per conoscere, nell’intrico dei rami, sui sentieri e tra i cespugli, gli animali che lo abitano: i nidi dei picchi, il giaciglio dei caprioli, il rifugio dei cervi, il nascondiglio dei camosci, le tane del tasso e della volpe. Benvenuti nel Centro di Recupero della Fauna Selvatica dell’antica Malga Derocon, nella zona centrale degli Alti Lessini, nel comune di Erbezzo. Un’area ricca di boschi che offre l’habitat ideale anche a marmotte, scoiattoli, lepri, picchi e galli cedroni. Qui, il Parco Naturale Regionale della Lessinia, da sempre impegnato nella tutela e divulgazione delle peculiarità faunistiche, botaniche e geologiche che lo caratterizzano, offre un nuovo motivo per visitarlo. Grazie a un progetto finanziato dalla Comunità Europea (Leader II) e fortemente voluto dal vicepresidente della Comunità Montana della Lessinia, Giacinto Albanese, Malga Derocon è stata integralmente recuperata. Nei 54 ettari del territorio circo-
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Malga Derocon e sotto un camoscio
stante è stata realizzata un’area floro-faunistica che comprende un recinto faunistico, dal perimetro di 2,8 chilometri, un percorso botanico e un centro visitatori. L’obiettivo del progetto è «intervenire per la salvaguardia, il recupero e la liberazione della fauna selvatica, la realizzazione di un centro di educazione ambientale e naturalistica, con particolare riferimento al tema delle piante officinali e della protezione degli animali» spiega il direttore del Parco Naturale Regionale della Lessinia, Giacomo De Franceschi. All’interno dell’area si organizzano, durante tutto l’anno, diverse iniziative per illustrare ai visitatori
le varie attività. Particolare attenzione viene riservata ai ragazzi delle scuole. Vengono organizzate visite guidate, che consentono l’avvicinamento a un ambiente incontaminato di grande pregio vicino alla città. Con l’aiuto delle Guide-parco, percorrendo sentieri opportunamente segnalati è possibile avvistare gli animali senza recare loro disturbo e osservarne i comportamenti. «La struttura a recinto» spiega De Franceschi «viene utilizzata per il ricovero degli animali e servirà a creare una zona che faccia da filtro prima del loro reiserimento nell’habitat naturale». Il contatto con gli animali favorisce la riflessione sul significato delle forme di protezione dell’ambiente naturale e costituisce una fondamentale esperienza educativa perché, come afferma l’assessore alla Promozione e sviluppo del parco, Filiberto Semenzin, «nessuna descrizione o fotografia, arricchisce l’osservatore quanto l’esperienza di un incontro diretto, con tutte le sensazioni, le emozioni che tale occasione è capace di offrire». Nei pressi del Centro visitatori è stato realizzato un piccolo giardino botanico costituito da 60 nic-
chie naturali che raccolgono altrettante specie di alberi, arbusti, erbe e felci, diffuse nei boschi e nei pascoli circostanti. Immersi nella macchia, è possibile scoprire quali piante la compongono grazie ai pannelli descrittivi che ne illustrano le caratteristiche. Tra queste sono comprese alcune piante catalogate nell’elenco della flora protetta della Regione del Veneto. «Il territorio offre un sacco di opportunità» dice Semenzin. «Percorsi ciclabili, naturalistici e di collegamento con le malghe come le greenways, i tre corridoi verdi del Monte Baldo, del Parco della Lessinia e del Tartaro-Tione». Le Guide-parco sono anche guide apine e durante le escursioni insegnano ai ragazzi non solo il rispetto dell’ambiente, ma anche gli accorgimenti per frequentare la montagna in sicurezza, sia in estate che in inverno, per una fruizione che possa regalare, oltre a liete passeggiate, anche un arricchimento culturale. «Questo di Malga Derocon» conclude l’assessore ai Lavori pubblici di Erbezzo, Guido Pigozzi, «è il primo passo verso un turismo di qualità, in grado di far comprendere l’originalità del luogo e le sue risorse. Sono convinto che il nostro futuro si giochi su questo tipo di offerta». Le navette per l’area floro-faunistica di Malga Derocon a Erbezzo hanno partenza il sabato e la domenica, ogni ora, dalle 10 alle 16. Dal Lunedì al venerdì, solo su prenotazione al Centro di educazione ambientale e di tutela della fauna e flora prealpina di Erbezzo. Tel. 045.7075013-3489242902.
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Viaggiare
Un veronese ci racconta la sua camminata di mille chilometri lungo un’antica strada romana che inizia in Spagna, a Sevilla, corre lungo il confine con il Portogallo e termina ad Astorga
A piedi sulla Via della Plata di Diego Marani Ci vuole un po’ di tempo per percorrere mille chilometri a piedi. E ci vuole anche un po’ di tempo per provare a descrivere una Via che da duemila anni viene percorsa a piedi: prima dai romani, poi dai visigoti, dagli arabi, dagli ebrei, dai cristiani mozarabi, dai conquistadores. Fino a ieri dai pastori di pecore in transumanza. Oggi dai viandanti-pellegrini diretti a Santiago. La Via della Plata, in Spagna, inizia a Sevilla, prosegue verso nord, grosso modo parallela al confine tra Spagna e Portogallo, e termina ad Astorga, non molto distante da León. Congiunge le città di Mérida, Cáceres, Salamanca, Zamora. In molti tratti segue il tracciato di un’antica strada romana, voluta dall’imperatore Augusto, che congiungeva l’attuale Mérida (l’antica Emerita Augusta) con Astorga (Asturica Augusta). A Italica, poco distante da Sevilla, erano nati gli imperatori Traiano e Adriano. Mérida, con il suo museo nazionale di
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arte romana, con i suoi acquedotti, i templi, il teatro e i ponti, è in un certo qual modo la capitale della Spagna romana. Oggi la Via della Plata è diventata anche e forse soprattutto un modo per arrivare a piedi a Santiago di Compostela, un cammino alternativo al più tradizionale e classico «cammino francese», quello che parte da Saint Jean Pied de Port in Francia, scavalca i Pirenei, attraversa la Spagna da est a ovest passando per Pamplona, Logroño, Burgos, León. Questo cammino ormai rischia di essere vittima della propria notorietà, soprattutto nei mesi estivi – che si prolungano fino a settembre – è quasi intasato da una folla di pellegrini che arrivano da tutta Europa per camminare sui sentieri spagnoli. La Via della Plata invece presenta ancora tratti completamente rurali, si può camminare per trenta (o anche quaranta) chilometri al giorno incontrando solo qualche paesino qua e là, tante querce, spesso vento e sole. Parto per la Spagna a fine prima-
La guida “A Santiago per la Via della Plata”. L’autore è Diego Marani, l’Editore “Terre di Mezzo”
vera dell’anno scorso, meno di due settimane dopo gli attentati alla stazione di Atocha, a Madrid, che causarono 190 morti e quasi duemila feriti. In treno passo a salutare amici a Barcelona, Zaragoza, Madrid; i più li ho conosciuti l’anno prima, camminando da Roncisvalle a León. Stupefacente l’intensità con cui si intrecciano relazioni quando si cammina insieme. Arrivo a Sevilla poco prima della
settimana santa, grandi preparativi in corso, si provano le processioni e le fieste. Camminare nell’Andalusia e nell’Extremadura della campagna e delle colline, degli olivi e delle querce, del prosciutto serrano e del licor de bellota (un liquore ottenuto dalle ghiande) significa arrendersi alla lentezza, seguire le frecce gialle dipinte dagli straordinari amici del Cammino di Santiago e della Via della Plata. Perché La Via della Plata è anche una via di pellegrinaggio, la via utilizzata dai cristiani mozarabi che nel Medioevo vivevano nella Spagna meridionale governata dai musulmani per andare a Santiago di Compostela (poco più di un mese di cammino e circa mille chilometri da Sevilla), in quella cattedrale dove la leggenda vuole essere sepolto l’apostolo Giacomo. Nel sud della Spagna i musulmani hanno governato fino al 1492: tracce dei mozarabi, della loro fede e della loro arte si possono trovare ancor oggi lungo la Via, a partire da Sevilla. Camminando verso Nord, mi ren-
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do sempre più conto che la Via della Plata è anche un continuo salto avanti e indietro nella storia: Mérida è l’antica Roma imperiale di Spagna; Caceres è Medioevo pietrificato; Zamora è un concentrato di chiese e costruzioni romaniche; Salamanca è l’orgoglio intellettuale della sua Università e la perfezione geometrica della sua Plaza Mayor. Eppure sembra che solo camminando a piedi si possa gustare pienamente il fascino dei centri minori: gli archi sbilenchi di Zafra, la casa natale del pittore Zurbarán a Fuente di Cantos, le mura circolari di Galisteo... Nonostante oggi siano sempre più numerosi coloro che parlano di scontri di civiltà e di radici cristiane dell’Europa da difendere dall’assalto di meticciati considerati pericolosi, la Spagna è uno di quei luoghi in Europa dove ci si rende conto che tutto – o quasi – è frutto di continue contaminazioni, connessioni e meticciati culturali: romani, visigoti, africani musulmani, arabi, ebrei, i re spagnoli cristiani del Nord alla riconquista dei territori spagnoli musulmani del Sud, i conquistadores che lasciavano le terre dell’Extremadura con l’illusione di arrivare in India e si ritrovavano in America... Tutto è meticcio e connesso, in Spagna come in Europa: basta solo permettersi il lusso di ascoltare la memoria. Eppure la Via della Plata non è solo cultura e storia, è anche un abituarsi a un rapporto diverso con la natura: che inizia con lo scrutare il cielo e odorare il vento ogni mattina (chi ha già camminato per lun-
in VERONA
Spesso questi spagnoli ti guardano con un misto di soddisfazione e orgoglio perché stai camminando a piedi per le loro terre; spesso non si fanno pregare per raccontarti storielle e leggende di quei luoghi e di quelle genti ghi percorsi sa cosa voglia dire prendersi la pioggia per ore e ore, oppure rimanere senza acqua da bere sotto un sole così caldo da sciogliere perfino i ricordi); si sviluppa negli incontri con pecore, vacche, tori, cavalli lungo il cammino, trovando di volta in volta un accordo su chi abbia la precedenza; si affina nella solitudine di chilometri di campi e valli, ruscelli e altipiani. I bicchieri di vino bevuti (e spesso offerti) nei paesini, le mille disquisizioni su formaggi e insaccati, assaggiando e confrontando le “specialità” locali con quelle di venti o cento chilometri prima, le olive onnipresenti sui banconi del bar: anche questo abitua a relazionarsi in modo diverso con il territorio, anche così si impara a distinguere le colline andaluse dagli altipiani dell’Extremadura, la meseta castigliana dalle valli galiziane, così verdi e piovose da sembrare quasi Irlanda. Infine c’è un ultimo aspetto che rende così particolare camminare per più di un mese e più di mille
chilometri lungo la Via: gli incontri. Con i contadini nei campi, i guardiparco nelle foreste, tanti anziani e bambini nei paesi, quando la gente è a lavorare. Spesso questi spagnoli ti guardano con un misto di soddisfazione e orgoglio perché stai camminando a piedi per le loro terre; spesso non si fanno pregare per raccontarti storielle e leggende di quei luoghi e di quelle genti. Il tutto a volte viene innaffiato da un bicchiere di vino e una tapa. Poi ci sono gli incontri con gli altri pellegrini viandanti, che arrivano da tutta Europa ma che sulla Via della Plata sono ancora pochi, e forse è meglio così. Si ha la possibilità di continuare a camminare soli se si ha bisogno di silenzio e solitudine, oppure di lasciarsi andare a tranquille e profonde chiacchierate, non sono rari i pellegrini che molto hanno da raccontare. Sono arrivato a Santiago il primo maggio 2004 (ero partito da Sevilla il 27 marzo), il giorno in cui l’Europa si allarga a 25 paesi, molti dei quali dell’Est. Al mio fianco
una pellegrina uruguaiana, di origine lituana, che vive in Germania sposata a un tedesco. È qui a cercare un po’ di radici europee. Il giorno prima avevo superato un gruppo misto di studenti cechi e slovacchi, anche loro in cammino per Santiago. Durante oltre un mese di cammino ho incontrato tedeschi, svizzeri, olandesi, francesi... Al mio ritorno, l’editore Terre di mezzo mi ha dato la possibilità di scrivere una guida alla Via della Plata che contiene non pochi racconti tratti dal mio diario di viaggio: ci vuole un po’ di tempo anche per scrivere un libro. Nel frattempo diventa sempre più difficile distinguere quanto le parole scritte sulle pagine siano debitrici ai passi compiuti e quanto la voglia di camminare nasca dalla letture di altre pagine e di altre parole. La Via della Plata è anche questo: una traversata di parola, una marcia nella biblioteca che ogni pellegrino si costruisce, con i ricordi di pagine lette e le intuizioni di letture da compiere, passo dopo passo.
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Libri
Gli Alighieri a Verona I Serego Alighieri consolidarono la loro presenza nel veronese facendo costruire splendide dimore e incentivando la produzione agricola dei loro numerosi poderi. Un libro di Pier Paolo Brugnoli
di Mariapia Cottini Chissà quanti cittadini veronesi, di fronte alla statua dedicata a Dante in Piazza dei Signori, oppure leggendo qualche passo della Divina Commedia in cui Dante parla del suo soggiorno nella città scaligera, si sono chiesti dove l’illustre poeta abbia abitato, chi abbia frequentato, come trascorresse le sue giornate… piccole curiosità riguardanti la vita quotidiana di un grande personaggio della quale, però, non abbiamo molte notizie. Chi comunque volesse sapere qualcosa di più su Dante a Verona e soprattutto conoscere la storia della famiglia Alighieri nel nostro territorio potrà leggere il libro “I Serego Alighieri a Gargagnago di Valpolicella”, pagg. 191, La Grafica Editrice. Un’opera di Pierpaolo Brugnoli, uscita in occasione dei 650 anni dalla presenza degli Alighieri a Gargagnago, che attraverso numerosissimi documenti (atti notarili, testamenti, manoscritti, mappe, foto e alberi genealogici) racconta la presenza del «ghibellin fuggiasco» e dei suoi successori nel veronese. Il volume apre con un capitolo accattivante che documenta la presenza di una colonia di toscani a Verona; tra questi numerosi prestatori di denaro ma anche famiglie di esuli politici quando, dopo la battaglia di Benevento del 1266, vinta dalla parte guelfa, molti ghibellini dovettero abbandonare abitazioni e beni; insieme a loro, come ben sappiamo, anche alcuni guelfi bianchi. É ormai certo che Dante sia giunto a Verona la prima volta nel 1304 e
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qui, insieme ai suoi concittadini, abbia frequentato la dimora di Bartolomeo, di Cangrande e poi di Mastino della Scala. L’ospitalità della famiglia scaligera era infatti grande, come testimoniano vari scritti che raccontano di una vita di corte animata dall’affluenza continua di ospiti a palazzo, intrattenuti da giocolieri, buffoni, musici, cantori ma anche da uomini di cultura, come Petrarca e Boccaccio. Quando Dante lasciò Verona per Ravenna la sua discendenza rimase nella città degli scaligeri. Il figlio Pietro, podestà a Treviso, visse a lungo in centro a Verona prima a San Tomio, quindi a San Giovanni in Foro e infine in contrada Chiavica. Sposo a un’esule pistoiese dalla quale ebbe otto figli, Pietro acquistò nel 1353 il primo terreno nella zona di Gargagnago, dove ancora oggi si trova la villa dei Serego Alighieri. Da questa data fino al 1561 gli Alighieri allargarono i loro possedimenti in Valpolicella, acquistando terreni destinati a vari tipi di colture, alcune tipiche della zona come la vite (già allora molto pregiata) e l’olivo, altre innovative come il gelso. Il libro a questo punto ci ricorda la passione per le lettere che non abbandonò mai gli Alighieri. A partire da quel Pietro giudice, citato poco sopra, che fu tra i primi commentatori dell’opera paterna e amico di Guglielmo da Pastrengo; il fratello Jacopo, compositore di rime; e giù, lungo l’albero genealo-
gico, a citare nipoti e pronipoti che si coprirono di meriti letterari, fino all’ultimo Alighieri, il canonico Francesco, umanista erudito che tradusse e illustrò Vitruvio. Intorno alla metà del XVI secolo la dinastia degli Alighieri non aveva più eredi maschi; per questo monsignor Francesco, nel testamento del 1558, lasciò i numerosi beni della sua famiglia a Pieralvise Serego, figlio della nipote Ginevra, a patto che sia lui, sia i suoi discendenti aggiungessero al loro cognome quello degli Alighieri. Si unirono in questo modo, oltre alle cospicue ricchezze delle famiglie, i nomi di due casati nobili e illustri. I Serego Alighieri consolidarono la loro presenza nel veronese facendo costruire splendide dimore, incentivando la produzione agricola dei loro numerosi poderi sia in Valpolicella sia nella bassa veronese. Secondo la tradizione di famiglia, coltivarono in pubblico e in privato gli studi umanistici e frequentarono gli ambienti letterari del loro
tempo. Il salotto di Gargagnago ospitò scrittori insigni come Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte e Bartolomeo Lorenzi. Brugnoli nel suo libro ricorda la Scuola Pratica di Agricoltura, istituita dai conti Serego Alighieri per rilanciare la coltura della vite con tecniche moderne e uomini più preparati; gli anni della ripresa dopo la grande guerra, quando quella famiglia, che vantava antenati illustri tra i condottieri (da parte Serego) e i letterati, investì le sue energie nell’impresa della viticoltura e della vinificazione. Recente il ritorno in Toscana con l’acquisto dei «Poderi del Bello Ovile», a rendere giustizia all’antico torto subito dal Divino Poeta.
Libri di Paola Quattrucci Una colomba che dispiega le sue ali come pagine di un libro: immagine di idee che si liberano dalla loro griglia inchiostrata per diffondersi a pacificare la curiosità del sapere. Questo è il logo della Cem, Casa Editrice Mazziana, nata nel 1965, per iniziativa di don Domenico Romani che la concepì nell’ambito di un progetto più vasto, quello della Pia Società, fondata da don Nicola Mazza, per celebrarne appunto il primo centenario dalla sua morte. E così lo scarno bollettino informativo, risalente al 1833, si consolidò in una solida struttura, con le sue ramificazioni tematiche. La vocazione missionaria è stata la motivazione principale che ha portato don Romani alla creazione di un’appendice letteraria e informativa che si occupasse della gestione di una comunicazione mirata e dell’approfondimento di precisi temi. Il suo sogno era quello di andare in Africa. I libri sono progetti da lanciare, messaggi da far arrivare secondo un’idea del volo che nasce dallo spirito del viaggio. E don Romani è proprio un viaggiatore anche se in Africa non ci è più andato. In compenso, la casa editrice ha una collana africana, dedicata a quell’idea portante di don Mazza per cui l’Africa è una terra ricca e piena di risorse e che gli africani sono chiamati a gestire la loro storia. «Ma la missione si accompagna alla pedagogia», tiene a precisare il professor Pino Agostini, direttore della Casa Editrice Mazziana dal 1991. Tra le collane editoriali, a questo proposito, si affaccia con la sua facies fresca e giovane Paideia Duemila che tratta argomenti di forte attualità e impatto, rivolti a educatori, studenti, insegnanti, genitori, intellettuali e raccoglie conferenze a ciclo tematico. La collana è curata dal Collegio Universitario Don Nicola Mazza. Con la medesima funzione e logica è nato nel 1966 Note Mazziane, il trimestrale di cultura e di informazione, con due redazioni a Verona e a Padova e un
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Libri come cibo per la mente La Casa Editrice Mazziana fu fondata nel 1965 da don Domenico Romani supplemento annuale Pianeta Università, dagli speciali ricchi e colorati. La collana Percorsi si snoda sul racconto dell’iter formativo di personalità e di gruppi, riportandone in appendice le testimonianze scritte. Varia è una collana eterogenea che raccoglie tematiche differenti mentre Studi filologici veronesi è una proposta specialistica, incentrata sulle discipline classiche ancora attuali e da riscoprire. In linea con la tradizionale passione
mazziana per la cultura dello spettacolo, guide di cinema sono delle vere e proprie sintesi enciclopediche sui film prodotti dalle cinematografie internazionali, suddivisi per monografie dal cinema americano a quello francese fino al cinema inglese. Il solco è una collana dedicata alla ricerca dei sensi più profondi della vita, una collezione di saggi e frammenti di cronaca e storia dove si dipanano filosofie e pensieri, dall’osservazione della realtà e dei fenomeni sociali. Il direttore Pino Agostini, dagli occhi acuti e curiosi, ci spiega che gli scritti della Casa Editrice
Mazziana sono tutti incentrati su un umanesimo costruttivo e una proposta educativa moderna che si evolve con lo spirito dei tempi e segue i percorsi generazionali, portando avanti la sua concezione meritocratica. Crescere significa interrogarsi e sviluppare capacità recettive, attivando provocazioni e stimoli a migliorare, coltivando lo studio e l’apprendimento continuo e tenace. Una perseveranza che premia con la gioia della scoperta e della conoscenza, evitando ogni approccio superficiale e acquisendo un’apertura mentale per affrontare la vita. La Cem, allora, si propone con la sua idea parallela di informazione e formazione edificante e a passo con i tempi che dà spazio alle voci di esperti e alle esigenze di giovani. Nelle pagine dei suoi scritti emerge una visione vivificante della realtà che il direttore ama ritrarre, ogni volta, con occhio profondo da esteta in nitide fotografie, ora chiassose e frizzanti, ora di un silenzio meditativo, ora ritratti perfettamente incorniciati che ci ricordano che l’armonia fa parte della vita e che la bellezza sta nella semplicità, basta solo saperla vedere.
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Giornale di attualità e cultura Direttore
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N° 8/ottobre 2005 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.
www.verona-in.it Alcuni titoli dell’editrice Mazziana. In alto il direttore prof. Agostini
Ottobre 2005