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9 - DICEMBRE 2005 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
In copertina foto di Silvia Andreetto
Un racconto per il Natale Joan Suciu è morto a Verona nel maggio del 2004, stritolato dagli ingranaggi di un camion della nettezza urbana. Di lui non si sapeva quasi nulla ma era necessario recuperare la sua storia per ritrovare la sua dignità di uomo. Don Carlo Vinco ha ripercorso le tappe della vita del giovane rumeno e ne ha fatto un libro, distribuito in parrocchia, che noi vi riproponiamo in forma integrale in questo numero del giornale come racconto di Natale
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Pubblichiamo le pagine di un piccolo libro venuto alla luce a Verona nei primi mesi estivi e che ha catturato l’attenzione di molti, tanto da diventare un promettente caso letterario. Abbiamo da subito coltivato l’idea di proporlo integralmente proprio in dicembre, nel periodo del Natale, per dargli ancora maggiore diffusione, come ci pare meriti. Racconta una storia che potrebbe andar bene in ogni giorno dell’anno, ma che in questo tempo forse diventa più nitida, acquistando, in chi la legge, uno spessore diverso. Un nome, una data e un luogo di nascita e di morte per dare il titolo allo scritto: Joan Sociu (Lupeni 0203-1959, Verona 14-05-2004). L’autore è Carlo Vinco, parroco di San Tomaso Cantauriense, uomo sensibile alle voci del disagio e della sofferenza e per questo la sua canonica ospita persone senza casa e con problemi di salute. Carlo Vinco conosce di persona la realtà dell’immigrazione attraverso i volti di chi la vive, spesso al di sotto della dignità umana, in un paese come l’Italia (e in una regione come il Veneto) che ha la memoria assai corta sul suo non lontanissimo passato di massiccia emigrazione. La corta memoria la si misura poi con l’indifferenza, il disprezzo, l’intolleranza. Joan Sociu era un immigrato rumeno morto a 38 anni stritolato dagli ingranaggi di un camion per la raccolta dei rifiuti e trovato da un operaio nella discarica dell’AMIA. Joan per dormire aveva infatti cercato riparo in un cassonetto, come fanno altri esseri umani che a Verona non hanno
altro posto dove passare la notte. Uomini come rifiuti. Uomini ultimi. Joan, quando venne ritrovato, era senza nome e senza storia: la sua vicenda si era esaurita in una notizia di cronaca. Ma proprio il non detto, l’anonimato, il silenzio imbarazzato calato attorno alla vicenda, comunicata e archiviata, hanno creato il bisogno di parole, di colmare il vuoto con una storia che nel nome ritrovato restituisse anche una dignità. È scandaloso che un uomo muoia così, non si può far finta di niente. Così Carlo Vinco, dopo aver celebrato nella chiesa di San Tomaso il funerale di Joan, ripercorre le tappe della sua vita con ricerche appassionate che lo portano prima a Milano, al Consolato rumeno, quindi a cercare contatti anche in Romania. Questo assumersi la storia di un uomo viene raccontata in maniera chiara, diretta, non retorica ma umanissima. È una ricerca non facile, portata avanti con tenacia. Questo agire assume, nella narrazione della vicenda, una valenza educativa che coinvolge intensamente il lettore, il quale coglie nettamente ciò che le sole parole non riuscirebbero a dire. Si percepisce così un agire di giustizia che coinvolge molte altre persone, anche loro alla ricerca della storia di Joan, mentre si moltiplicano testimonianze concrete di solidarietà. Fino a ritrovare la figlia e la moglie del giovane rumeno. Oltre al valore umano il libro ha anche un valore letterario. Riesce a comunicare. Con nitidezza e
anche con intuizioni. Il libro, infatti, è suddiviso in nove parti che segnano le tappe della ricerca. Il capitolo Perché? sta nel mezzo. È scritto in corsivo. Segna una variazione. È lo stesso Joan che parla in prima persona e racconta il suo perché. Un perché immaginato dall’autore del libro, ma assolutamente plausibile e che tutti percepiamo come vero. All’anonimo, all’irregolare Joan viene restituito completamente il suo volto. È l’uomo, è il padre... siamo noi. E non si può più dimenticare l’immagine dell’altalena: «la mia bambina ha voluto salire sull’altalena». Forse, è stato allora che il camion ha agganciato il cassonetto. «Mi ha chiesto di farla dondolare... Poi ha insistito che salissi anch’io con lei... Ci siamo dondolati lentamente... È bella la mia bambina! È bellissima». Elisabetta Zampini
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Joan Suciu Lupeni 02/03/1959 Verona 14/05/2004 di Carlo Vinco
«Non so come sia possibile definire tutto con tanta velocità e sicurezza, ma la polizia non ha dubbi: Joan era in un cassonetto. In quel cassonetto ci dev’essere entrato sano e senza ferite. Dal cassonetto è stato gettato nel camion, che lo ha stritolato!»
14 MAGGIO 2004 14 maggio, ore 12.30. È un giorno freddo. È un maggio, per Verona, stranamente freddo e umido. Da giorni piove abbondantemente. Come sempre, sistemandoci a tavola per il pranzo, si accende il televisore per il notiziario di Telearena. Poche notizie, di solito, ma essenziali per conoscere la giornata della nostra città. È venerdì e il pranzo è preparato da Maria, una signora che, già da anni, si è messa a disposizione per far da mangiare, almeno due giorni la settimana, ai giovani, che ospitiamo nella nostra canonica. Accogliamo tre, quattro… fino a sei persone, per le quali abbiamo sistemato alcune stanze al piano superiore. Di fronte al gran numero di donne e uomini, che a Verona, dormono nei giardini o in case abbandonate, il nostro, è un piccolissimo servizio, ma è, per lo meno, un segno di aiuto, che ci ha permesso in questi anni di conoscere tante vicende nascoste o sconosciute. In genere, i nostri ospiti sono extra-comunitari. Negli ultimi anni, provenienti soprattutto dall’est europeo. Nell’ospitalità, la precedenza è data a chi ha problemi di salute ed è bene evitargli di dormire in case abbandonate o fatiscenti. Sono tutti “regolarmente clandestini”.
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Chi ha il permesso di soggiorno ha meno problemi di lavoro e casa. Chi è senza permesso, ha più bisogno di aiuto. Se poi ha avuto qualche problema di salute (operazioni, fratture, necessità di convalescenza postospedaliera…) ha ancora più bisogno di aiuto. È, questa, la regola semplice, che ci ha guidati in questi anni a incontrarci con tante storie e tante necessità. 14 maggio, ore 12.30, a pranzo siamo in pochi. Viorel, Lucian, Ciprian sono al lavoro. A pranzo, con noi preti, c’è Alan. Poi, c’è Joe, un cingalese che ci lascerà dopo pochi giorni e dopo tre settimane, morirà sotto il Ponte di Castelvecchio, per una grave cirrosi epatica. E c’è Luci, un rumeno che ha abitato a lungo con noi, ora ha il permesso di soggiorno e ha l’appartamento e il lavoro, e torna spesso a pranzare con noi. Il telegiornale si apre con una notizia di cronaca. Nella discarica dell’AMIA, l’azienda per la raccolta dei rifiuti, là dove una macchina separa i diversi tipi di rifiuti, un operaio ha scoperto il cadavere di un uomo. L’uomo dev’essere stato scaricato in quel luogo da un camion della nettezza urbana e, dunque, doveva trovarsi in un cassonetto delle immondizie. Non si sa ancora chi sia. Se sia stato gettato nel cassonetto da altri, se ancora vivo o già morto. Le indagini, tuttavia, sono veloci.
Già nel telegiornale della sera la vicenda sembra delinearsi. Il cadavere appartiene ad un uomo, già identificato grazie alle impronte digitali. Si chiama Joan, è di nazionalità rumena, ha 38 anni. Il giorno dopo si accerterà che è morto per le ferite procurate dagli ingranaggi del camion che stritolano le immondizie. Non so come sia possibile definire tutto con tanta velocità e sicurezza, ma la polizia non ha dubbi: Joan era in un cassonetto. In quel cassonetto ci dev’essere entrato sano e senza ferite. Dal cassonetto è stato gettato nel camion, che lo ha stritolato! Probabilmente, nel cassonetto era entrato per trovare riparo o per dormire. Impossibile sapere da quale delle centinaia di cassonetti della città sia stato scaricato. Nessuno ha visto. Nessuno può averne colpa. Due giorni di inchiesta. Qualche commento triste. Il caso è chiuso. Ogni sera vengono alla nostra chiesa molti rumeni per chiedere elemosina o per ricaricare i telefonini alle prese elettriche degli altari. Quando chiedo informazioni dello sventurato, nessuno sembra saperne nulla. Del resto, i giornali non hanno pubblicato la foto e il nome è indicazione troppo generica. E poi, è troppo presto per fidarsi a parlare. Mi stupisce, comunque, il silenzio che cala attorno alla vicenda.
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«Com’è possibile a Verona, morire in un cassonetto delle immondizie? Com’è possibile che nessuna istituzione cittadina colga la necessità di una riflessione da un episodio così sconcertante?»
Com’è possibile a Verona, morire in un cassonetto delle immondizie?… Com’è possibile che nessuna istituzione cittadina colga la necessità di una riflessione da un episodio così sconcertante?… Imbarazzo?… forse. Quanta gente, del resto, dorme per la strada a Verona… E, per la legge, se uno non è in regola con i documenti, non può essere accolto in nessun dormitorio pubblico. E, però, le centinaia di persone che vivono nelle case abbandonate, nei giardini pubblici, davanti alla stazione o lungo l’argine dell’Adige, ci sono. E ci imbarazzano e un po’ ci spaventano. Dopo dieci giorni da quel venerdì, concordando la data di un funerale, con l’impiegata dell’ufficio pubblico delle onoranze funebri, mi permetto di chiedere qualche notizia di Joan. Chiedo se è stato celebrato il funerale, se è stato riportato in Romania, se qualche parente si sia fatto vivo… Nessuno! Nessun parente. Nessun amico. Nessuna associazione, istituzione o ente. “Ancora pochi giorni - mi spiega l’impiegata - e poi, come succede in questi casi, ci sarà una sepoltura d’ufficio…” Morto in un cassonetto. Sepolto di nascosto. No! Non è giusto! Non servirà a nulla e nulla cambierà della sua sorte, ma penso che un funerale vada celebrato. Se non altro, per noi. Per dire la nostra tristezza, per esprimere in una preghiera la nostra impotenza.
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IL FUNERALE Siamo pochi al funerale. Davvero pochi. Quaranta persone, forse. Con don Mario e me, concelebra don Sergio Pighi, della “Comunità dei giovani”. Sapevo che non sarebbe mancato. Negli ultimi trent’anni, fra detenuti, tossicodipendenti, senza-casa, ne ha incontrate di miserie. Non poteva restare insensibile a questo appuntamento. Siamo in pochi. Un po’ di parrocchiani, presenti per pietà cristiana. Qualche rappresentante del Cestim, il centro studi per l’immigrazione. Maria Rita una volontaria del gruppo di Paolo Favale, quelli che ai giardini della Giarina, tutte le mattine distribuiscono la colazione ad un centinaio di extracomunitari. Ci sono alcuni giornalisti. Mai viste tante telecamere nella nostra chiesa… Nessun rappresentante di istituzioni pubbliche o associazioni. C’è un membro del Consiglio di amministrazione dell’Amia, ma prima della messa viene a spiegarmi che è presente a titolo personale. C’è l’editore Giorgio Bertani. In prima fila. Ma non a nome del Comune, di cui pure è consigliere. Ma a titolo personale, per l’attenzione che sempre lo ha mosso a partecipare a tutti i fatti cittadini che portano la tristezza della marginalità. Siamo in pochi. Ed è inevitabile riandare con la memoria ad un altro funerale. Quello di Caesar Karaboskj, il polacco dagli occhi azzurri e dalla pelle bianchissima, morto bruciato nel rogo, che ha
distrutto gli scantinati della vecchia stazione degli autobus di Piazza Isolo la notte del 15 settembre 2000. In quegli anni, Piazza Isolo era divenuta il simbolo del degrado di vita di tanti extracomunitari. Negli scantinati vivevano decine di persone, in maggioranza magrebini, in condizioni igieniche terribili. I progetti di ristrutturazione della piazza si erano trascinati per anni, con continui rimandi. C’è voluta quella morte, la morte di Caesar, per chiudere quei locali e avviare i lavori. A quel funerale ha partecipato molta gente. Il fatto aveva scosso la coscienza di molti cittadini. Per molti era l’epilogo annunciato del degrado di quell’ambiente. Al funerale di Caesar, la piazza antistante la chiesa era blindata. Decine di poliziotti presidiavano, temendo proteste da parte di gruppi di giovani dei centri sociali, che nella morte del polacco avevano visto il simbolo della non volontà politica di affrontare i problemi dei clandestini a Verona. A quel funerale, in chiesa, la gente era stata la più diversa… Erano presenti persone di piazza Isolo, che per anni avevano conosciuto il mite Caesar mentre chiedeva l’elemosina al semaforo di via Carducci... E, poi, persone impegnate in politica o nel volontariato. Anche allora c’era Giorgio Bertani, che con il suo magazzino di libri era a fianco dello scantinato del rogo.
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«Nessun fiore, invece, per Joan. Nessun fiore... Per la liturgia, mi viene naturale scegliere il Vangelo del povero Lazzaro e del ricco che non ascolta i suoi lamenti. Il Vangelo, di quel povero, ricorda il nome: Lazzaro. Quasi a dire che, davanti a Dio, quell’uomo ha una precisa identità e una dignità».
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E c’era Paolo Favale. Una presenza molto originale in questi anni. Per motivi di impegno religioso e sociale, Favale, imprenditore molto noto in città, aveva iniziato nell’agosto del “98 a portare la colazione a quanti dormivano sotto i portici di Piazza Isolo. Qualche panino, del thè, del caffè per sei, otto, dieci persone. La scelta di Favale era stata da subito radicale: tutti i giorni; colazione e qualche indumento; a chiunque chiedesse, senza alcuna distinzione. La sua presenza e attività, dapprima ha suscitato stupore, qualche perplessità. In qualcuno, all’inizio, anche ilarità. Via, via è diventato nel quartiere di Veronetta, un segno di grande provocazione. Quando sono iniziati i lavori di ristrutturazione della piazza, Favale ha trasferito il punto di aggregazione ai giardini della Giarina. Aiutato da altri volontari e benefattori non ha mai mancato l’appuntamento, 365 giorni l’anno, e i “clienti” sono ogni mattina quasi un centinaio. Da maggio, Paolo non c’è più. Una malattia crudele se l’è portato via. I suoi amici, comunque, continuano l’appuntamento, tutti i giorni alle ore otto, sotto gli alberi della Giarina…
Nessun fiore, invece, per Joan. Nessun fiore… Per la liturgia, mi viene naturale scegliere il Vangelo del povero Lazzaro e del ricco che non ascolta i suoi lamenti. Il Vangelo, di quel povero, ricorda il nome: Lazzaro. Quasi a dire che, davanti a Dio, quell’uomo ha una precisa identità e una dignità. Del ricco, invece, non c’è nome: chi non usa la carità, davanti a Dio, diventa sconosciuto! Mi sembra giusto, e conseguente, pregare per la nostra città. Che non perda il nome davanti a Dio. Il nome della sua storia, il nome dei suoi valori, il nome della sua cristianità per non aver saputo riconoscere i lamenti di chi sta alla porta… Alla Messa sono presenti alcuni rumeni. Due di loro, al rientro dal cimitero, chiedono di parlarmi. Purtroppo il loro italiano è molto stentato. Conoscevano Joan e mi raccontano...
Al funerale di Caesar c’erano soprattutto gli amici. Tanti. Quelli che in piazza ci dormivano o c’erano passati.
...veniva da Arad, una città ad ovest della Romania. Era arrivato in Italia da più di un anno. A casa aveva lasciato una figlia di circa 10 anni. Da tempo era separato dalla moglie e la bambina a lui affidata, era accudita dalla nonna, la madre di Joan.
Al funerale di Caesar c’era anche un grande mazzo di fiori, inviato dall’Assessore ai Servizi Sociali del Comune.
Era stato fortunato Joan. Appena giunto in Verona, aveva trovato da lavorare presso un anziano meccanico, in una piccola offici-
na. In nero, naturalmente. A ore, a seconda del lavoro esistente, naturalmente. Ma, con questo lavoro, era riuscito a pagarsi un letto nell’appartamento di un altro rumeno. Era riuscito a mantenersi e anche a mandare dei soldi alla sua bambina. La fortuna è durata fino a febbraio di quest’anno. A febbraio, l’anziano meccanico si è ammalato e ha dovuto chiudere l’officina per alcuni mesi. A marzo, la madre di Joan è stata ricoverata in ospedale per un attacco cardiaco… e, come in altri periodi passati, le tenebre sono tornate nel cuore di Joan. È rientrato d’urgenza in Romania. E vi è rimasto alcune settimane. Appena la madre si è ripresa, è tornato a Verona. Ma la fortuna non si è ripetuta. Per qualche settimana, Joan ha cercato inutilmente il lavoro. Senza soldi non poteva più usufruire di quel letto nella casa del connazionale. Come tanti altri, ha cominciato a trascorrere le notti in situazioni di fortuna. Per qualche notte, ha dormito nella casa abbandonata dove stanno vivendo i due rumeni che mi raccontano la storia di Joan. Ma non c’è stato per molto. Uno dei due me lo confida con tristezza e quasi con vergogna “...non si trovava bene nella nostra casa... perché lui non beveva e diceva che non voleva stare con gente che si ubriaca, che aveva paura di cominciare a bere anche lui. Non voleva bere perché lui
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«Quella sera avrebbe potuto accettare l’invito a dormire in quella casa abbandonata, con gli altri rumeni. Loro, almeno, erano insieme, sotto un tetto. Forse, per un momento, anche lui ha pensato che si sta meglio a bere, a ubriacarsi e a non pensare, piuttosto che finire, soli, in un cassonetto delle immondizie»
aveva una bambina a cui pensare ed era in Italia per lei… Don Carlo, noi alla sera, nelle nostre condizioni, non riusciamo a non bere... Da un po’ di giorni se n’era andato dalla nostra casa. Stava sempre più solo. Era sempre triste…”
FORSE È impossibile ricostruire con esattezza da quale camion Joan sia stato raccolto e scaricato. È impossibile sapere quale cassonetto sia stata la sua ultima dimora. Parlando con altri che vivono sulla strada, ho saputo che non è raro che qualcuno cerchi rifugio nei cassonetti. Normalmente, però, il rifugio è cercato nei cassonetti della carta. Sono più puliti e più caldi. Però, sono più alti e più difficili da aprire rispetto a quelli della immondizie. Talvolta, qualcuno dorme vicino a questi cassonetti perché è facile trovarvi accanto dei cartoni grandi, più morbidi e in quantità sufficiente da poter creare dei giacigli più accoglienti. Forse, Joan, quella sera, accanto a un cassonetto della carta, aveva trovato qualche cartone buono e grande. Quella notte, però, come i giorni precedenti, ha piovuto molto. Forse, quando ha cominciato a piovere, Joan ha tentato di entrare nel cassonetto della carta senza riuscirci e, allora, ha messo i cartoni del suo giaciglio dentro il cassonetto delle immondizie. Ha
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sistemato un po’ i sacchi delle immondizie. Ha cercato di coprirli con il cartone e ci si è disteso. Forse era la prima volta che lo faceva. Forse, mai avrebbe pensato di farlo. Ma pioveva maledettamente quella notte. Era stanco Joan. Aveva camminato tutto il giorno per cercare lavoro. Alle 11 del mattino era andato dai Frati Cappuccini del Barana per pranzare, poi era andato dall’altra parte della città per parlare con qualche cooperativa di lavoro, poi era passato in stazione e, ancora in piazza Bra per sentire altri connazionali se avevano notizie di qualche lavoro, anche in campagna, anche fuori Verona. Era stanco e il giorno dopo aveva intenzione di fare altra strada in cerca di lavoro. Ormai il tempo passava velocemente. Da settimane era rientrato in Italia. Da settimane non lavorava e non mandava soldi alla sua bambina e alla madre malata. Entrare per la prima volta nel cassonetto dev’essere stato terribile. La puzza, per un momento, lo ha nauseato. Si è accorto che la sua vita si mescolava con l’immondizia. Certamente non era mai sceso così in basso. Ma, del resto, ogni passo di quella giornata era stata un’esperienza di avvilimento, di rifiuto. Pioveva maledettamente e, la pioggia lo ha aiutato a fare in fretta quel passo. Dentro il cassonetto, si è sistemato a fatica. Ha cercato subito di chiudere gli
occhi, ma, il rumore martellante dell’acqua non lo lasciava dormire. Ha cominciato a pensare... ha ripensato alle difficoltà di quella giornata... alle fatiche che stava affrontando... Ha sentito un senso di angoscia nello stomaco e quelle fatiche gli sono sembrate insormontabili. Ha ripensato ad alcuni amici da cui aveva sperato un qualche aiuto. Gli sono ricomparsi i volti di chi, anche in quel giorno, gli ha detto “no, non c’è lavoro...” oppure “si, certo, c’è lavoro.... hai il permesso di soggiorno?...” Forse, ha ripensato con amarezza, che quella sera avrebbe potuto accettare l’invito a dormire in quella casa abbandonata, con gli altri rumeni. È vero, forse stavano bevendo. Magari, a quest’ora, erano già ubriachi. Ma loro, almeno, erano insieme, sotto un tetto. Forse, per un momento, anche lui ha pensato che si sta meglio a bere, a ubriacarsi e a non pensare, piuttosto che finire, soli, in un cassonetto delle immondizie... Certamente ha pensato alla sua bambina. L’ha pensata a letto, accanto alla nonna, l’ha pensata che dormiva serenamente. Forse, ha maledetto il giorno in cui ha deciso di partire dalla Romania: era meglio vivere poveri, ma facendo addormentare la tua bambina fra le tue braccia, sul tuo letto. Forse, su quel cartone ha pianto! Forse, ha tentato di consolarsi: “domani andrà meglio… la co-
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«Quando ho preso sonno, sono crollato e ho cominciato a sognare… Ho sognato di essere tornato a casa per il compleanno di mia figlia. Lei era contentissima. Siamo usciti nel parco. La mia bambina è salita sulla giostra e ha voluto che anch’io salissi. Poi un colpo. L’ho abbracciata ancora più forte. L’ho stretta a me...».
operativa mi risponde, magari si apre un nuovo cantiere e c’è bisogno di operai e cercano proprio operai che lavorino in nero…” Forse... ha pregato! Ha pregato Dio di aiutarlo, di dargli un piccolo segno di speranza. Di regalargli un appiglio per poter offrire un sostegno a quella bambina, che non ha altro che lui. Per poterle far capire che si stava sacrificando per lei, per riuscire a dirle che il suo papà non la stava dimenticando. Forse, ha pregato la Vergine Maria. Quella Vergine con il Bambino in braccio, di cui tanti rumeni portano l’immagine nel portafoglio… L’ha pregata e le ha raccontato la sua angoscia e il suo dolore. A Lei, che ha partorito in una stalla, rifiutata, a Lei, Madre della tenerezza, ha detto di quella bambina, della sua bambina. Forse, a Lei ha confidato che non ce la faceva più a vivere in quel modo. Che non era giusto. Che non era umano. Forse, alla Vergine Maria… alla Vergine Maria ha chiesto di prenderlo con Sè…
PERCHÉ? Joan, com’è possibile che tu non abbia sentito il camion?… quando il camion ha agganciato e sollevato il cassonetto?... Gli scossoni... il trambusto... il cigolio della macchina…
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Perché non hai sollevato quel coperchio? Perché non hai chiamato aiuto? Perché non hai urlato!?… “Perché… stavo sognando... Per ore non ero riuscito a prender sonno. Ha piovuto tutta la notte. Un’acqua pesante, continua. Entrava anche da alcune fessure del cassonetto. Mi sono girato, piegato, coperto con un cartone. Sentivo quell’umidità. Avevo freddo. Continuavo a pensare. Quando ho preso sonno, sono crollato e ho cominciato a sognare… Ho sognato di essere tornato a casa per il compleanno di mia figlia. Le ho portato due vestiti bellissimi e una borsetta piccola, colorata, fatta di tante perline. Lei era contentissima. Abbiamo fatto festa, in casa, con la nonna e alcuni bambini del nostro grande condominio. Poi siamo usciti nel parco, in mezzo ai grandi e tristi condomini della periferia di Arad. Un piccolo prato con qualche albero, una vecchia giostra e un’altalena. La mia bambina è salita sulla giostra e ha voluto che anch’io salissi. Faticavo a far girare quella giostra, un po’ per il mio peso, ma soprattutto perché le sue ruote sono arrugginite. Cigolavano quelle ruote, e lei rideva “… dai papà, che sei forte... fammi correre...”. Poi ha voluto salire sull’altalena. Forse, è stato allora che il camion ha agganciato il cassonetto. Mi ha chiesto di farla dondolare. Per un po’ l’ho spinta. Poi ha insistito che salissi anch’io con lei. Mi son seduto a fatica su quel legno con le catene anch’esse cigolanti.
Ci siamo dondolati lentamente. Era seduta sulle mie ginocchia e la stringevo, quasi timoroso e un po’ imbarazzato di stare su quell’altalena dei bambini. Da quanto tempo non abbracciavo la mia bambina!… Le accarezzavo i capelli... La baciavo... Con una mano stringevo la sua sulla catena dell’altalena. È bella la mia bambina! È bellissima!… Poi un colpo. Un sobbalzo. Come la catena si fosse rotta. L’ho abbracciata ancora più forte. L’ho stretta a me, mentre gridava “...papàaa...” Ci siamo trovati per terra. Io l’ho protetta. Lei non si è fatta male. Lei rideva. Rideva... Era felice!…
LA SOLIDARIETÀ La mattina dopo, mentre sto leggendo i giornali con la cronaca del funerale, un collaboratore del presidente di una nota fondazione cittadina, mi telefona per esprimermi l’apprezzamento del presidente. Con tipica concretezza, mi chiede chi ha pagato il funerale, se c’è bisogno di un aiuto e mi domanda se ho contattato la famiglia di Joan. Insiste “...cerchi di contattare la famiglia. Può contare senz’altro su una nostra partecipazione”. Resto colpito e soddisfatto. Poche ore dopo, altra telefonata. Una signora che non conosco, molto colpita dalla vicenda, mi annuncia che ha già avviato fra le amiche una piccola raccolta di fondi, per poter farci vicini alla famiglia di Joan.
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«Purtroppo, il numero di telefono, probabilmente per un errore di trascrizione, risulta inesatto e, dunque, inesistente. E da quell’indirizzo non ci è tornata alcuna risposta».
La domenica mattina, al termine della Messa, una signora che da anni lavora per una associazione di bambini con problemi familiari, viene a consegnarmi un assegno di 500 euro “...per la figlia del rumeno…”. Nei giorni successivi, altri si aggiungeranno a questi segni. Sono davvero stupito da questi gesti di solidarietà immediata, non richiesta, silenziosa e molto concreta e sento via, via sempre più pressante il “dovere” di contattare quella mamma e quella figlia. Contattarle per dire loro che accanto ad una Verona che sembra non aver capito come far posto al loro Joan, c’è una Verona silenziosa ma profondamente umana.
L’INDIRIZZO Credevo fosse semplice reperire l’indirizzo di una persona rumena. Inizio la mia ricerca partendo da uno dei rumeni che, dopo il funerale, mi avevano dato notizie di Joan. Lui non conosce esattamente l’indirizzo, ma conosce una donna che è della città di Joan. Dopo alcuni giorni, Simon, questo è il nome del rumeno, mi porta, da parte di quella donna, una busta. Dentro c’è un foglio con l’indirizzo e un numero di telefono; un altro foglio con poche parole “...grazie per quello che avete fatto…”; e un libricino rumeno di preghiere alla Madonna.
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Simon mi spiega che la donna si scusava di non essere venuta personalmente, ma stava ripartendo per la Romania. Dice che l’indirizzo è quello dell’ultima casa dove ha abitato Joan in Arad. Ma il numero di telefono è di una famiglia di vicini. Purtroppo, il numero di telefono, probabilmente per un errore di trascrizione, risulta inesatto e, dunque, inesistente. E da quell’indirizzo non ci è tornata alcuna risposta. Provo, quindi, in Questura, all’ufficio stranieri, ma non conoscono i dati di provenienza. L’avviso di morte, com’è prassi, è stato inviato all’Ambasciata di Roma. Con l’Ambasciata Rumena è impossibile interloquire: i telefoni o sono occupati o non rispondono. Provo in Procura della Repubblica, presso l’ufficio del giudice che ha seguito l’indagine sulle cause della morte di Joan. Dopo alcuni giorni dalla richiesta, mi viene concesso il permesso di prendere visione della cartella degli atti riguardanti l’indagine. Ci sono i verbali delle testimonianze del ritrovamento del cadavere, le prime analisi, i rapporti medici. Nessun dato personale. Nessuna possibilità di risalire all’indirizzo della famiglia. Insieme a Padre Marcel, un prete rumeno, che da alcuni anni vive a Verona, contattiamo la polizia di Arad e alcuni preti di quella città. Niente! L’unica notizia è che all’indirizzo
indicato non abita nessuno, da più di un mese. Dopo alcune settimane di inutili tentativi, decido di provare a rivolgermi alla segreteria del consolato rumeno a Milano.
MILANO, 21 LUGLIO A Milano, quando arrivo davanti alla palazzina di via Gignesi 2, sede del Consolato Generale di Romania, la scena che si presenta è disarmante. Almeno 150 persone sono accalcate davanti al cancello. Lo stesso taxista, che mi accompagna, resta colpito “...vuole che la riporti in centro?” mi chiede, quasi partecipe della mia delusione. Naturalmente non desisto, mi avvicino, vedo che la gente che si accalca al cancello parla con un impiegato, che dall’interno delle sbarre, con dei fogli in mano, risponde ad ogni persona indicando, evidentemente, se sono pronti i documenti che quella persona aspetta, e dunque se vale la pena attendere. Si vede che quell’uomo sta rispondendo da ore. Ha il volto sudato, gli occhi stanchi. Con qualcuno la risposta è affermativa e, quindi, veloce. Con altri, sembra una spiegazione estenuante. Le persone, soprattutto donne con bambini e neonati, talvolta insistono, esigono spiegazioni, ribattono, sembrano pretendere… L’uomo risponde con intransigenza e determinazione, anche se
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«Non si dà pace il Console; secondo le sue informazioni quest’uomo è stato sposato e dovrebbe avere una figlia accudita dalla nonna, la mamma di Joan»
con fare paziente e mai sgarbato. Le sbarre del cancello, forse, lo rendono tranquillo. Quando riesco ad avvicinarmi al cancello, lo avverto “… mi serve solo un’informazione: come posso parlare con un funzionario riguardo ad un rumeno che è morto a Verona?” “si avvicini al cancello più piccolo e chieda al citofono”, mi risponde. Mentre mi faccio largo per avvicinarmi al cancelletto di entrata, ci ripensa, si avvicina lui stesso e mi apre e mi dice “l’accompagno io”. All’interno della palazzina, all’ingresso e su per le scale, ancora gente, ...ancora donne con bambini. Al terzo piano, nell’anticamera su cui si affacciano vari uffici, ancora gente, ancora donne, ancora neonati. Il mio accompagnatore mi indica un funzionario, che sta parlando con questa gente. Mi presento “sono un prete di Verona…”. Non mi lascia finire la frase… “allora, mi dice, è meglio che parli con il Console” e mi indica un signore che sulla porta di un ufficio sta salutando una giovanissima mamma col bimbo in braccio. È un uomo oltre i sessant’anni. Un po’ tarchiato. Con una camicia dalle maniche corte, bianca e con sopra due larghe tiracche. Anche lui sudato. Anche lui con un’aria stanca e molto indaffarata. Mi fa accomodare gentilmente ad un tavolo di vetro. Lo studio è ampio, dignitoso e ordinato, anche se i mobili sono poveri e semplici.
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Noto che alle spalle della scrivania c’è un’icona della Vergine Maria. Lo studio comunica con un altro ufficio, da cui provengono voci di impiegati, suoni di telefono, la musica piuttosto alta di una radio. Spiego subito il motivo della visita: “Spero di non disturbarla. Veramente non pensavo di parlare con il Console in persona, a me serve solo un’informazione. Vorrei sapere come poter trovare la famiglia di un uomo che è morto a Verona, alcune settimane fa, tragicamente. Alcuni amici ci hanno parlato di una famiglia in difficoltà e vorremmo interessarcene…”. “Volete trasportare la salma in patria?”. “No, signor Console. Quest’uomo è già stato sepolto a Verona, abbiamo celebrato i funerali perché nessun parente si è fatto vivo. La sua è stata una morte tragica e un po’ particolare… è morto in un cassonetto delle immondizie...”. Il Console ha cominciato a guardarmi con sempre più attenzione, quasi con dolcezza. Socchiude gli occhi di un azzurro impressionante e mi interrompe “… ricordo perfettamente il fatto. È stato a maggio. È stata una vicenda che mi ha colpito. Una morte molto triste, si, molto triste… Mi fa piacere sapere che qualcuno si è occupato del suo funerale, vi ringrazio...” mi dice alzandosi e andando verso l’altro ufficio. Torna dopo pochi minuti. Ha in mano delle carte, le controlla, le
rilegge e un po’ disarmato mi dice “noi non abbiamo nessun indirizzo. A suo tempo ho inviato la notifica della morte al ministero perché avvisassero la famiglia, ma non ne so niente di più.” Riflette, riguarda le carte “… mi lasci pensare... lei che dati ha?” Tiro fuori i miei fogli. Spiego i tentativi fatti, le poche notizie, i possibili errori. Prende le carte, si annota qualche appunto, poi va al telefono. Immagino chiami in Romania. Distinguo che si presenta: console in Milano. Parla. Dà i dati. Aspetta. Suggerisce. Niente, dove Joan è abitato prima di venire a Verona, in Arad, non c’è traccia di alcun parente. “Mi lasci pensare, - non si dà pace il Console - ...secondo le sue informazioni quest’uomo è stato sposato e dovrebbe avere una figlia e questa dovrebbe essere accudita dalla nonna, la mamma di Joan. Se riusciamo a sapere se realmente esiste un figlio, ricostruiremo tutto - mi dice con certezza -. Mi lasci qualche giorno, le assicuro che curerò io stesso la ricerca. Questa vicenda mi ha colpito molto e sono commosso del fatto che qualcuno fra voi si sia interessato di questo pover’uomo”. Gli confido che alcune persone si sono coinvolte nella vicenda e mi hanno fatto avere dei soldi per aiutare la famiglia di Joan. E racconto anche lo sforzo fatto con padre Marcel per trovare l’indirizzo.
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«Quante storie, quante sofferenze, quante illusioni, ma, anche, quanto coraggio. L’incontro con il Console mi ha colpito. Sento che è stato prezioso»
Ha voglia di dialogare, il Console, forse per alleggerire un po’ una mattinata pesante e afosa. “dove si trova la sua chiesa, a Verona?”, mi chiede. “in centro, vicino a Ponte Nuovo”, “so, press’a poco dov’è… conosco un po’ il centro di Verona…” e mi racconta, il Console, di una amicizia che lo ha legato a Verona. L’amicizia con la famiglia di un colonnello dell’Esercito che ha vissuto per un periodo in Romania, molti anni fa, “… abitano a Verona, nel quartiere navigatori…”. In Romania il Console era stato insegnante del figlio del colonnello “… io sono insegnante, il mio lavoro sarebbe professore di fisica…” mi confida, guardandosi attorno, quasi a dire …guarda un po’ dove può portarci la vita… Con quella famiglia, aveva intrattenuto rapporti epistolari anche durante il regime comunista, pur in maniera clandestina. E con la caduta del regime, è stato ospite di questi amici a Verona. Parla volentieri il Console “… noi siamo ortodossi, ma non abbiamo mai vissuto contrasti con Roma. La nostra storia religiosa è dipesa dalla vicinanza con Istanbul. Noi ci sentiamo legati a Roma. Il Papa ha visitato la Romania…la Romania è stato il primo paese ortodosso ad accogliere Giovanni Paolo...” Il viso del Console sembra illuminarsi e i suoi occhi farsi più chiari. Mi fissa, mentre racconta,
in VERONA
ma vedo che sta inseguendo immagini, le immagini di ricordi importanti… “Io ho vissuto vari miracoli, nella mia vita - mi confida -. Il primo è stato la caduta del regime di Ceausescu. E il secondo miracolo grande è stata la visita del Papa in Romania. Per sei anni io ho lavorato alla riorganizzazione della “Securitate”, i servizi di controllo e sicurezza del nostro paese. Un lavoro enorme e difficile perché era l’ente di controllo del regime comunista.
sto molta gente ai cancelli, pensa che si equilibrerà questo flusso di persone?”. “Si, – mi risponde – qualche segnale di cambiamento lo stiamo già vedendo. Spero che nel giro di un anno un po’ di cose si sistemino. Ma, ha visto quante donne con bambini… Sono bambini nati in Italia, da donne arrivate, spesso, in maniera irregolare… questo attualmente è il problema più grave. Lei, a Verona, conosce molti rumeni?”
E, quando il Papa è venuto in visita in Romania, io ero fra i responsabili del servizio di sicurezza alla Messa del Pontefice. A quella Messa all’aperto, hanno partecipato più di 800 mila persone, senz’altro in maggioranza ortodossi. Ebbene, non c’è stato il più piccolo incidente. Niente. Le assicuro, neanche uno spintone. Alla fine, per terra, non è rimasta neanche una lattina. Tutto pulito... tutto in ordine... senza incidenti: ...un miracolo! La gente era commossa. Capiva che stava vivendo una giornata, memorabile, storica. Un miracolo… davvero un miracolo…”. Si interrompe per un istante, il Console. Sembra tradire un momento di emozione. È un volto stanco, ma sereno. Il volto di chi sa di aver vissuto la storia, di chi si sente responsabile di un compito, di chi è felice di lavorare per un cambiamento.
Spiego un po’ la nostra attività in parrocchia di aiuto e accoglienza. Mi ringrazia. Mi ringrazia ripetutamente e mi assicura che nel giro di qualche giorno mi farà sapere qualcosa.
“Vedo che state vivendo una situazione molto difficile… ho vi-
Esco dall’ufficio, passo in mezzo a gente nell’anticamera, sulle scale, nell’ingresso, ai cancelli... Quante storie, quante sofferenze, quante illusioni, ma, anche,... Quanto coraggio. L’incontro con il Console mi ha colpito. Sento che è stato prezioso. Alle 16.30, quando rientro in canonica a Verona, trovo un fax... Egregio Don Carlo, la sola cosa che abbiamo trovato è l’indirizzo della madre di Suciu Joan, nato il 02.03.1959 nel municipio di Lupeni, judetul (provincia) Hunedoara. Madre: Viorica Suciu. Strada Viitorului n. 46, BL M 1 B, Sc. 5 Ap. 50. Municipio Lupeni. Judet (provincia) Hunedoara.
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«A Lupeni, contattiamo l’unico prete cattolico della regione. È arrivato da pochi mesi, è di origini ungheresi, con un nome un po’ strano, padre Attila. Gli comunichiamo le nostre informazioni. La risposta ci arriva in pochi giorni. All’indirizzo indicato dal Consolato, Maria e la nipote non rispondono più».
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Il padre Doroftei Sever Suciu sembra che sia deceduto e la nonna cresce la figlia Loredana Suciu. La nonna non ha telefono. Distinti saluti. Console generale Mircea Gheordunescu
La ricerca non è finita, ma abbiamo almeno un punto di partenza certo!
LUPENI Lupeni è una cittadina di montagna. Sui monti Carpazi, a circa mille metri di altitudine. Non lontano dal confine con l’Ungheria. È una città mineraria. Negli anni del dopo-guerra, l’estrazione del ferro è stata intensa e la città si è allargata accogliendo i montanari delle vicine vallate nella sua periferia fatta di grandi condomini per gli operai delle miniere. Con la fine del regime comunista e con il crollo dell’economia di dipendenza da Mosca, la crisi economica è stata veloce e, per la cittadina, pesantissima. Nei grandi condomini, tutti uguali, con i tipici appartamenti popolari delle città dell’est, dove la cucina e i bagni sono in comune per varie famiglie e dove ogni famiglia occupa un’unica stanza, sono rimasti solo vecchi e bambini. Centinaia e centinaia di uomini hanno dovuto lasciare la città in cerca di lavoro. Prima verso la ca-
pitale o le città più grandi e poi verso i paesi stranieri. Chi ha visitato recentemente Lupeni, racconta di una città povera, vuota, dal clima severo e triste. A Lupeni, contattiamo l’unico prete cattolico della regione. È arrivato da pochi mesi, è di origini ungheresi, con un nome un po’ strano, padre Attila. Gli comunichiamo le nostre informazioni. La risposta ci arriva in pochi giorni. All’indirizzo indicato dal Consolato, Maria e la nipote non rispondono più. I vicini riferiscono che la donna è stata in quella stanza dell’appartamento comunale solo due mesi, poi se n’è andata con la sua bambina, perché non riusciva a pagare l’affitto e le bollette. Probabilmente si è trasferita appena fuori della città, in una periferia molto povera, che va crescendo di casette di fortuna, abitate da gente che non ha più nulla per far fronte alla crisi di povertà. Su nostra insistenza, padre Attila chiede ulteriori informazioni e ricerche alla polizia. Non è semplice ottenere risposte. La burocrazia e la lentezza e il sospetto restano un retaggio degli anni del regime ancora alquanto radicato.
Padre Attila, con fatica, le cerca in quella triste baraccopoli. La prima vive sola, non ha nipoti con sé. La seconda non c’è più!... Viveva sì con una nipotina di nome Loredana, come dicono i vicini. Stava male, era molto affaticata, sempre a letto. Pare che sia morta già da alcune settimane, in ospedale. Quando è stata ricoverata, la bambina da pochi giorni era stata portata da una parente in un’altra regione, probabilmente per essere inserita in un orfanotrofio. Questo, almeno, è quello che riferiscono i vicini. Nessuno ha notizie più precise. Anche questa volta siamo arrivati tardi. Chissà se Loredana sa che il papà è morto. Chissà se ha saputo che è morto anche per lei e a lei pensando. Chissà… Forse, saprà, un giorno, che suo padre riposa a Verona. Per sempre. Quasi certamente, non saprà mai che qualcuno avrebbe voluto darle un aiuto e quella carezza che il papà non è riuscito a lasciarle. Purtroppo.
POST SCRIPTUM Giugno 2005
Solo dopo quasi un mese arriva la risposta. Ancora amara, purtroppo. In Lupeni, con quel nome esistono tre donne, e, di loro, due hanno un figlio con il nome di Joan, emigrato in Italia.
Quando già questi appunti erano stati stampati, padre Marcel ha ricevuto una telefonata da una donna, che ha chiesto di incontrarlo per avere notizie sulla morte e sulla sepoltura di Joan.
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Racconto di Natale Ha detto di chiamarsi Angelica e di essere la moglie di Joan. La moglie di Joan?! In tutto questo tempo mai avevamo avuto notizie della presenza di sua moglie. Ci siamo incontrati con lei il 9 giugno. Era proveniente da un paesino del centro Italia. Il suo viso era stanco e provato. Ci ha mostrato subito alcuni documenti: il certificato di nascita di Joan, il certificato del loro matrimonio, il certificato di nascita della figlia. Più veri ancora di quei documenti, mi son sembrati il dolore e la tensione dei suoi occhi.
Piange. China la testa sul tavolo e piange ad ogni particolare che le viene raccontato. È un pianto contenuto, ma sconsolato.
La signora ci racconta di aver abitato a lungo ad Arad con Joan e la figlia. Sono tornati a Lupeni, loro paese natale, nel 2003, presso la mamma di Joan, perché ad Arad non c’era da vivere. E subito, lui è partito per l’Italia in cerca di lavoro. L’ultima volta che ha sentito Joan è stato il 29 dicembre del 2003. Una telefonata come le altre... poche notizie, un saluto... Niente che le abbia fatto pensare che quella telefonata sarebbe stata l’ultima!
Mi chiede solo il piacere di procurarle il certificato di morte di Joan. Con questo spera di poter ottenere un piccolo sussidio di aiuto per la bambina.
Da allora, le uniche notizie sono state date da amici rientranti in Romania, che dicevano di aver visto Joan a Verona. Nei periodi in cui lei ha cercato lavoro fuori da Lupeni, la bambina è stata ospitata per un po’ dalla mamma di Joan, negli ultimi mesi vive con la mamma di lei, una nonna di 83 anni. Dopo vari mesi di assenza di notizie, anche Angelica ha deciso di lasciare la Romania per cercare lavoro e poter far crescere quella bambina. È stata, prima, da una sorella che lavora in Spagna. Da alcuni mesi, vive in un paesino dell’Italia centrale con alcuni parenti. Solo da tre settimane ha saputo della morte di Joan. È stato padre Attila a darne la notizia a sua madre. Chiede informazioni sugli ultimi tempi di vita del marito, sulla sua morte, sul funerale.
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Le consegno i pochi oggetti che la polizia aveva consegnato a me: un portamonete con pochi spiccioli e una agendina piena di numeri di telefono. La sfoglia e riconosce numeri di amici e di parenti e si domanda ripetutamente perché nelle ultime settimane Joan non abbia telefonato a nessuno di quei numeri. Sembra sempre più evidente che gli ultimi tempi di Joan devono essere stati giorni di tristezza, di desolazione, di solitudine...
Angelica dice che la piccola Loredana non sa ancora nulla del papà. La bambina adorava, anzi, adora il papà e Joan era a lei attaccatissimo. Vuole essere lei, la mamma, a dire a sua figlia quel che è successo e a spiegarle che il papà riposa per sempre a Verona. Glielo dirà, però, solo fra due mesi, quando tornerà in Romania alla scadenza del permesso di soggiorno stagionale. Per due mesi ancora, Loredana aspetterà la mamma. Per altri due mesi, Loredana tutte le sere immaginerà di poter riabbracciare il papà. Del resto, si sa, nelle tragedie, anche il tempo perde il suo significato. Don Carlo, 12 giugno 2005
LA TERRA DEI MORTI Luglio 2005 È tornata, Angelica. È tornata a Verona, circa un mese dopo, un sabato di luglio. È tornata per prendere i documenti che mi aveva chiesto e per visitare la tomba di Joan. In macchina, mentre andiamo al cimitero assieme a padre Marcel e altri due amici, ci dice che due
giorni prima ha detto alla figlia che il papà è morto. Non riusciva più a nascondere, Loredana sentiva la mamma triste e continuava a porre domande. Le ha detto che il papà è morto in un incidente stradale e che questo sabato mattina lei avrebbe visitato la sua tomba a Verona. Davanti a quella piccola croce nera, Angelica si inginocchia. Piangendo tira fuori da un sacchetto di plastica un piccolo mazzo di fiori e due ceri e li sistema accanto alla croce. Poi si accovaccia sulle caviglie e comincia a ripulire quella terra dalle erbacce. Lo fa lentamente. Passando e ripassando con le mani su quella terra quasi accarezzandola. Sembra una madre seduta ai piedi del letto di un figlio malato, mentre riassetta le lenzuola. Continua a parlare, Angelica, mentre toglie quell’erba. Parla a Joan. Forse gli sta dicendo il suo amore. Forse gli sta ponendo le domande che l’hanno turbata. E forse Joan le sta rispondendo. In fondo, si sa, i morti parlano al cuore. E talvolta fanno capire cose che non è bastata una vita a dirsi. Diciamo insieme un Padre Nostro. Io in italiano, naturalmente, loro in rumeno, e mi accorgo che si assomigliano molto. Usciamo mentre scende una pioggia leggera. Usciamo in silenzio. Quel silenzio con cui sempre si esce da un cimitero. Un silenzio insoddisfatto, sempre triste, un po’ sospeso. Al cancello suona il telefonino di Angelica. È Loredana, chiama dalla casa dei vicini. Vuole sapere. Quando chiude la telefonata, Angelica ci chiede di tornare alla tomba: Loredana le ha chiesto di raccogliere un po’ di terra della tomba del papà e di portargliela come ricordo. Alla tomba, Angelica toglie la terra indurita e scava con la mano. Forse cerca la terra più bella, più morbida. Forse cerca la terra più vicina a Joan. O, più semplicemente, senza saperlo, cerca la terra sotto la superficie... la “terra dei morti”, quella terra che non conosce né frontiere né confini...
Hanno reso possibile la realizzazione di questo numero del giornale: Giorgia Cozzolino, Piero Piazzola, Wilma Quartarolo, Elisabetta Zampini. Le foto dei Banchetti di Santa Lucia sono dell’Archivio di Verona In. I disegni sono di Antonella Scolari.
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N° 9/dicembre 2005 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.
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