Verona In 11/2006

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11 - GIUGNO 2006 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA



Primo piano

Tradizioni popolari Enpals e Siae: due proposte

In copertina foto di Cinzia Inguanta

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Ci diamo un gran da fare per promuovere manifestazioni a tutela delle tradizioni popolari. Addirittura si creano assessorati per non perdere la memoria di quando i bambini giocavano per le strade, le donne facevano la spesa nelle botteghe del quartiere, gli anziani trovavano nella briscola o nelle bocce il motivo per stare insieme. Per far fronte a questo vuoto di cultura della relazione nascono associazioni, si creano eventi, vengono destinati luoghi idonei ad ospitare manifestazioni, si spendono soldi. Anche quando si parla di recupero delle tradizioni c’è la tendenza a rendere molto visibili gli interventi messi in atto per raggiungere lo scopo. Lo scianco da semplice gioco di strada passa per gli uffici stampa, la carta stampata, la televisione, l’intervista al sindaco. A questo punto non staremo qui ad analizzare il rapporto che si crea tra ciò che è di interesse mediatico e la politica, anche se l’impressione è che l’unica realtà degna di attenzione sia quasi sempre quella che passa attraverso il filtro delle telecamere. Piuttosto preferiamo domandarci cosa ci proponiamo con tutto questo. Se la meta è riprodurre delle pagine di storia, allora rappresentare quel mondo con delle istantanee legate ad eventi occasionali va certamente bene. Se invece l’obiettivo è quello di recuperare, con i necessari aggiornamenti, quella cultura della relazione di cui si parlava, questo modo di procedere può ancora andar bene, ma non è sufficiente. E qui veniamo all’altra realtà, quella che non si impone alla cronaca, che non ha bisogno di essere recuperata ma che ancora esiste e andrebbe tutelata. A pagina 9 c’è la fotografia di tre signori e una signora seduti al tavolo di un’osteria del centro di Verona. Chi suona la chitarra, chi

il mandolino, chi il cembalo. Il signore a sinistra ha sicuramente più di ottant’anni. Suonano e cantano in cambio di un bicchiere di vino perché questo è il loro modo di stare insieme. Non sapevano che saremmo andati a fotografarli. La gente li ascolta, la musica aiuta a creare un clima sereno, ci sono anche dei giovani. Una spontaneità minacciata dalle normative ENPALS, l’Istituto di previdenza degli artisti, e SIAE, la Società Italiana Autori ed Editori che tutela i diritti d’autore. Infatti, se riferiti al caso di chi suona gratuitamente e per passatempo, c’è una serie di obblighi macchinosi e assurdi, anche per i gestori dei locali, che di fatto colpisce, mortifica e scoraggia qualsiasi iniziativa del genere (vedi a pagina 10). E qui avanziamo due proposte. La prima è che il Comune istituisca un registro con i nomi di suonatori, cantanti, ballerini, poeti, burattinai ecc. che senza scopo di lucro si esibiscono in ambienti pubblici e privati. Il Comune provveda poi ad espletare tutte le pratiche necessarie con ENPALS e SIAE, come un’agenzia di servizi, facendosi carico delle spese, come riconoscimento del valore di questo genere di manifestazioni. Una spesa importante per le tasche del singolo cittadino ma un piccolo onere per le casse dell’ente; un grande risultato per il tessuto relazionale dei veronesi. La seconda proposta è che i nostri parlamentari insistano per una revisione della legge sui diritti d’autore, per quella parte che riguarda le manifestazioni spontanee, a tutela delle tradizioni popolari. È iniziata la stagione lirica. Anche quest’anno, a fronte di una crisi strutturale che investe i teatri italiani, avremo un cartellone all’altezza della situazione, in grado di attirare melomani da ogni parte del mondo.

Anche in questo settore si parla tanto di dare spazio ai giovani, magari veronesi. Un modo per dimostrare l’interesse della città per i talenti di casa nostra sarebbe quello di investire nelle loro capacità, dando loro un’opportunità, uscendo da quel clima un po’ ingessato che ci impedisce di guardare avanti. Nel mondo del teatro non è così facile, perché oggi le amministrazioni si interfacciano con le agenzie per gli ingaggi e le logiche commerciali non sempre sono in linea con i criteri artistici. Però un tentativo andrebbe fatto ugualmente. Pensiamo ad esempio alla direzione dell’orchestra: perché non affidarla, anche solo per una sera, a un maestro giovane e capace? g.m.

Chi suona nei locali, anche se gratuitamente e per passare il tempo, deve sottostare a una serie di obblighi che di fatto scoraggia ogni iniziativa. Il Comune dovrebbe farsi carico dell’aspetto burocratico e delle spese, mentre i parlamentari dovrebbero insistere per una revisione della legge sul diritto d’autore, a tutela delle tradizioni popolari

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Osservatorio di Silvia Andreetto Quando abbiamo deciso di indagare sul mondo della musica giovanile a Verona, il primo punto di riferimento è stato Livepoint, il sito internet che fa da vetrina a tutti i gruppi musicali presenti sulla scena. Sapevamo esistessero vere e proprie confraternite in rete, ma non credevamo che una semplice inchiesta avrebbe destato tante polemiche, giudizi e pareri discordanti. Abbiamo aperto una nuova finestra sul forum del sito, in accordo con i responsabili di Livepoint, ponendo poche, semplici, e forse un po’ provocatorie domande sulla musica e sulla realtà veronese, sui musicisti che suonano dal vivo. In pochi giorni abbiamo raccolto oltre 80 commenti, un susseguirsi di pensieri passionali, dettati dall’impulso del momento (come spesso accade in rete), o frutto di considerazioni tratte dall’espe-

Un forum per andare a curiosare rienza personale. L’interrogativo che ha scatenato più risposte riguarda la scelta di molti gruppi di trattare solamente brani conosciuti, proponendo quel vasto genere chiamato cover. I musicisti sostengono che più la musica è nota, maggiore è l’affluenza di pubblico. Si ottiene successo se le esibizioni coinvolgono i ragazzi, vuoi in divertenti balli scatenati, vuoi in canti a squarciagola. Più difficile ottenere gli stessi risultati con delle produzioni proprie. Dal forum emerge in maniera molto forte che la difficoltà e le pretese dei gruppi si scontrano con le

pochissime opportunità di esprimersi, i pochi concerti fattibili, le poche date, i pochi locali che accettano musica dal vivo. «Un’inchiesta non può risolvere i problemi e non può cambiare le cose», sostengono diversi intervenuti al forum, ma forse può far venire a galla i problemi, nella speranza che qualcuno poi se ne interessi. Il problema che però tutti indicano come maggiore è la mancanza di informazione. Livepoint serve proprio a colmare questo vuoto, ad aiutare i locali e i gruppi a tenersi in vita. Per colmare questa lacuna, secondo molti, ci vorrebbero sponsor e maggiore disponibilità sia da parte dei gruppi, che da parte dei gestori dei locali. Secondo altri sarebbe necessaria una maggiore cultura musicale che permetta di apprezzare più la musica dal vivo che il ritrovo nei pub. Altri ancora replicano che sono i concerti raffazzonati e di bassa qualità a indurre le persone a snobbare i musicisti.

MUSICA GIOVANI

«La mia banda suona il rock» Un fitto sottobosco di artisti più o meno giovani che cercano spazi e notorietà. Ma si ritrovano anche solo per il gusto di suonare. A Verona 454 gruppi. Un fenomeno in crescita. Propongono brani noti ma anche produzioni proprie Un panorama sorprendente che fa capire come l’escalation iniziata negli anni Sessanta, quando in ogni cantina nasceva un complesso, non si sia mai esaurita

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di Francesca Paradiso Una chitarra, una voce e un progetto. Così nascono molti gruppi musicali e a Verona il loro numero è cresciuto a tal punto che si può parlare di un vero e proprio boom. Un fitto sottobosco di artisti più o meno giovani tenuto insieme da Livepoint.it, un sito internet dedicato principalmente ai gruppi scaligeri che informa su tutti gli eventi musicali e sulle band. Andrea Longobardi, creatore del portale, ci spiega: «In cinque anni abbiamo registrato 1454 gruppi, di questi 801 sono ancora attivi. C’è un grande fermento

a Verona che conta 454 gruppi, 216 in provincia e 238 in città». Un panorama sorprendente che fa capire come l’escalation iniziata negli anni Sessanta, quando in ogni cantina nasceva un complesso, non si sia mai esaurita. Sono tanti i giovani alle prese con la musica e che hanno il desiderio di esibirsi. Alcuni ce la fannoe vantano nel proprio curriculum parecchie uscite nei locali veronesi. Spesso accade proponendo cover (brani di successo). Come i Think Twice che suonano i Green Day, con ben 20 date dall’inizio del 2006. Willy, chitarra e voce del gruppo, racconta: «Per suonare nei

locali si può sfruttare il passaparola anche se di solito si porta al gestore un demo (provino). I prezzi per una serata variano a seconda del gestore e dalla grandezza del locale, aspetti che influenzano la retribuzione della performance». Ma perché un gruppo preferisce suonare cover piuttosto che comporre musica propria? Willy spiega: «Noi siamo agli inizi, ma ci stiamo lavorando». Stesse difficoltà per i Valori Bollati, gruppo veronese con 70 uscite nel 2005: «Proporre pezzi noti è più vantaggioso che offrire musica originale. Mancherebbe il sostegno dal pubblico e di conseguenza quello dei proprietari

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Osservatorio

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Osservatorio Claustrofunk

Livepoint cataloga artisti e locali, così Lucille è al primo posto per numero di concerti tenuto nel 2006, seguito da La Fontana di Avesa e da Il Blocco di San Giovanni Lupatoto. Importante palcoscenico sono anche il Gate52 e il Jack the Ripper di Roncà

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Bikini The Cat

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dei locali. Ci sono difficoltà nell’instaurare rapporti con i direttori perché il più delle volte ci chiedono quanto pubblico siamo in grado di coinvolgere senza guardare alla qualità dell’offerta. È chiaro che come musicisti vorremmo essere valutati diversamente». Matteo Muzzo, direttore artistico del Lucille, Rock’n’Roll House, è un manager controcorrente: «Arriviamo a proporre 600 artisti l’anno, circa 12 gruppi a settimana. Riusciamo a dare spazio anche a band straniere. Per presentarsi è necessario un demo che ci permetta una selezione in grado di garantire anzitutto musica di qualità, senza dimenticare le esigenze del pubblico». Livepoint cataloga artisti e locali, così Lucille è al primo posto per numero di concerti tenuto nel 2006, seguito da La Fontana di Avesa e da Il Blocco di San Giovan-

ni Lupatoto. Importante palcoscenico sono anche il Gate52 e il Jack the Ripper di Roncà. In tutti i gruppi c’è il sogno di farsi strada: Deadstars, rock band votata all’alternative, è uno di questi. Stefano, chitarrista, racconta la loro esperienza: «Sono i proprietari dei locali a scegliere i musicisti secondo la loro filosofia, la loro tendenza e il target. La sensazione è che a Verona manchi lo spazio: non ci sono gare musicali o grandi festival come in altre città italiane, mancano palcoscenici importanti per lanciare artisti emergenti». I Rosolina Mar si sentono di dare qualche consiglio. Negli ultimi cinque anni hanno prodotto dischi e girato per tutta Italia, esibendosi anche come gruppo spalla per grandi nomi. Si definiscono una band underground indipendente, consapevoli di fare musica che non sempre incontra i favori della critica e altrettanto consapevoli che non devono

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Osservatorio MUSICA GIOVANI

Livepoint, un’idea che ha fatto strada di Francesca Paradiso Livepoint.it nasce sul web il 16 ottobre 2000, giorno in cui il portale si propone ai tanti appassionati di musica in internet. Andrea Longobardi e Simone Mujelli, due giovani che amano ascoltare e fare musica, si accorgono che a Verona manca qualcosa nella comunicazione di settore e che le numerose date e concerti della provincia passano sotto silenzio perché nessuna testata è in grado di annunciarli tutti. Decidono quindi di mettersi in società con l’obiettivo di offrire al territorio veronese un servizio maggiore rispetto alla sola pagina di spettacoli pubblicata dal quotidiano L’Arena. Un’idea azzeccata, visto il successo che il sito ha riscontrato tra il popolo della musica a tutti i costi. Su Livepoint.it si trovano oggi tutte le proposte di Verona e provincia e di carattere nazionale. Un’informazione a 360 gradi con le notizie di sagre, spettacoli e concerti. Insomma, un occhio sempre puntato sulla musica dal vivo e sulle band emergenti, una realtà importante per tutti coloro che fanno musica ma anche per chi ne è semplicemente un consumatore. «La prima sfida è stata quella di far aderire i gruppi musicali al nostro servizio e dar loro la possibilità di inserire autonomamente sul web le date dei propri concerti», spiega Andrea. «Abbiamo creato, a detta di molti utenti, un servizio di grande fruibilità, con tante informazioni da reperire in maniera semplice». Il portale è anche un veicolo di promozione dei locali e di tutte quelle AmministraLavoirlinge

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Andrea Longobardi

«Abbiamo creato un servizio di grande fruibilità, con tante informazioni da reperire in maniera semplice». Il portale è anche un veicolo di promozione dei locali e di tutte quelle Amministrazioni comunali che organizzano spettacoli musicali, teatrali e cinematografici zioni comunali che organizzano spettacoli musicali, teatrali e cinematografici. Livepoint, che collabora con l’assessorato alle Politiche giovanili, è consultabile gratuitamente e la registrazione, anch’essa priva di costi, permette di essere aggiornati via email sugli avvenimenti in programma. Importante è anche il forum, nato nel 2001, in cui i giovani sono liberi di scambiarsi idee e pensieri. Andrea sottolinea: «è una piazza virtuale dove i pensieri si intrecciano liberamente e tutti si esprimono in maniera più limpida, per noi di Livepoint diventa uno strumento fondamentale per capire meglio i nostri utenti».

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Osservatorio

Artisti a 360 gradi Amanti dell’heavy metal, ma senza dimenticare Mozart Nel vocabolario dei giovani la musica non manca mai. Che sia rock, heavy metal, jazz non è importante. Sono accontentati tutti i gusti e a Verona anche quello classico. “La città nel teatro”, per esempio, è un progetto che ha favorito la partecipazione dei giovanissimi, anche se sono gli adulti a restare i protagonisti delle platee scaligere. Il Conservatorio statale di Musica Dall’Abaco conta oltre 500 allievi, in gran parte giovani. Monica Margonari, clarinettista ventitreenne, ci spiega la sua passione: «Cosa si perde chi non

Il Conservatorio di musica “Felice Evaristo Dall’Abaco”

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ascolta la classica? Io ascolto tutto, dalla musica leggera al rock». E aggiunge: «mi sono iscritta quando frequentavo la terza media. Nella banda cercavano clarinettisti e così mi sono immersa in questa avventura». Clarinettista diplomata e fan di Mozart, Monica stupisce gli amici scatenandosi in discoteca e magari la sera successiva sedendo a qualche concerto di musica classica. Ha un sogno nel cassetto: «Vorrei insegnare musica e seguire la formazione dei ragazzi». Tommaso Rossato, Tommy, suona in un gruppo (gli Arena) da molti anni, insieme ai cinque amici che si sono esibiti, la prima volta nel 2003, con pezzi come Wasting Love e The Wicker Man degli Iron maiden. Studente al liceo Fracastoro, l’anno prossimo si iscriverà al Conservatorio e sostiene: «Ascolto heavy metal ma adoro la Cavalleria Rusticana e Pavarotti. Vado sempre ai concerti e alle opere». Ci racconta come è iniziata la sua passione: «Mio nonno ha insegnato a mio padre l’amore per la lirica, e mio padre a me, aggiungendo però le tendenze degli anni ’70, come il rock progressive». Capelli lunghi, aspetto “metallaro”, Tommy fa della musica la colonna sonora della sua vita, rock duro per ricaricarsi e opere liriche per i momenti riflessivi. «Spero di passare il test, è una sfida con me stesso», commenta, «vorrei diventare un cantante polivalente». C’è un sogno anche per Tommaso: comparire in Arena in qualche opera lirica. (F.P.)

piacere per forza. Enrico, il chitarrista, sottolinea: «Oggi tanti locali non propongono musica per valorizzare i talenti artistici. Sono diventati luoghi di puro divertimento, privi di quella tensione culturale necessaria per ospitare musica di qualità». E aggiunge: «Qui a Verona non si lavora male ma l’Amministrazione comunale è un po’ ingessata, e anche qui spesso il criterio primario è quello di raccogliere spettatori. Il Comune finanzia i progetti ma talvolta non conosce bene il settore, per cui si arriva a pagare cara una band italiana senza considerare un gruppo americano, magari più economico e che offre ottima musica». L’assessorato alle Politiche giovanili replica con un nuovo progetto. Si chiama VRBAN ed è il festival delle arti e delle produzioni giovanili, che ha come obiettivo quello di trasformare Verona nella capitale della cultura riferita ai giovani. «Dallo scorso gennaio oltre 30 gruppi hanno collaborato per costruire questo progetto che abbraccia tutte le realtà delle tecniche espressive: musica ma non solo» spiega l’assessore Giancarlo Montagnoli. «L’obiettivo è quello di mettere a disposizione spazi nuovi: oltre a Piazza Isolo e Piazza dei Signori, anche i Bastioni dello zoo. In questa amministrazione le politiche giovanili hanno cercato in primo luogo di sostenere e far crescere le occasioni di esibirsi “abbassando il palco” cioè sostenendo le idee dei ragazzi, dando loro un’occasione e un luogo dove farsi conoscere. Secondariamente si è voluto favorire l’incontro tra le diverse associazioni. Alcuni esempi sono “Sound Pancrazio” e le sale prova/registrazione nei centri di aggregazione giovanile». E in quanto ai luoghi, Montagnoli suggerisce ai ragazzi non tanto di trovare nuovi spazi, quanto di saper valorizzare quelli già esistenti e ripensarli secondo la nuova idea. Fermo restando comune l’impegno dell’Amministrazione a ricercare nuovi luoghi, l’assessore annuncia che in autunno sarà riaperta Interzona agli ex Magazzini Generali, spazio chiuso insieme all’Estravagario Teatro Tenda dopo 13 anni di attività per permettere i lavori di riqualificazione della zona.

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Enpals e Siae: così non va Per tutelare i diritti d’autore a volte si mortifica la tradizione. Ritrovarsi con chitarra e mandolino al bar per suonare e stare insieme davanti a un bicchiere di vino non si può fare. O meglio si può, ma costa soldi e ci si perde in una burocrazia eccessiva di Cinzia Inguanta Esistono due realtà diverse: quella dei locali in cui si suona facendo un’attività strutturata (bar, pizzerie…) e quella dove è possibile suonare per stare in compagnia. Una realtà molto apprezzata, che però sta via via scomparendo a causa della troppa burocrazia. La sede della SIAE di Verona

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Ecco cosa è accaduto in un bar di periferia dove ogni tanto il gestore suonava con qualche amico. Con il passaparola il giro si era allargato e così, una volta o due la settimana, si suonava gratis e per divertimento. La cosa è finita perché il proprietario, che desiderava rispettare le norme in vigore, si è trovato in una situazione per cui avrebbe dovuto pagare il contributo Enpals. «Abbiamo dovuto smettere. Non

potevo chiedere agli amici che venivano per divertirsi di pagare più di 39 euro ogni volta». Francesco suona il sitar: «Facciamo musica popolare indiana. Sapevo della Siae ma non credevo che si dovesse pagare suonando gratuitamente. Peccato, era divertente avere un pubblico». «Canto così, per gli amici quando me lo chiedono» dice Antonella che prosegue: «immaginavo che

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Osservatorio stessimo facendo qualcosa che non si poteva. Ho un amico musicista, insomma uno che vive con la musica e mi ha spiegato qualcosa… ma mi sembra tutto un po’ complicato e assurdo». C’è una vecchia osteria in centro città, in cui un giorno la settimana, nel tardo pomeriggio, si riunisce un gruppetto di persone anziane che suonano musica della tradizione popolare italiana. C’è qualche nonno, qualcun altro che è solo, vite diverse che s’incontrano davanti a un tavolo su cui sono appoggiati gli spartiti e i bicchieri di vino. Non sanno niente della Siae, non sanno nemmeno che stanno facendo qualcosa che non potrebbero fare. Qualcuno vive con la pensione minima, cosa direbbe se sapesse di dover pagare quasi 40 euro all’Enpals ogni volta che suona? «É la musica che ci mantiene giovani», afferma con sicurezza uno dei musicisti, gli altri ridono e confermano all’unanimità. La sera, dopo le dieci, per circa un’oretta si suona di nuovo. Questa volta sono ragazzi più giovani, che vengono per lo stesso motivo: stare insieme, di-

vertirsi, facendo un po’ di “casino”. Non c’è pubblico, non ci sono artisti che si esibiscono, solo un gruppo allargato di amici che si diverte facendo musica. La situazione è diversa per i locali in cui l’attività musicale è una proposta che il gestore fa ai suoi clienti, come avviene per esempio a L’Hostaria Agli Angeli di Castelrotto. Marcella, il direttore artistico del locale, ci spiega che all’inizio lei si occupava esclusivamente dei rapporti con la Siae, perché per il titolare era molto oneroso e complicato interessarsi anche di questo aspetto. Si tratta di un lavoro vero e proprio. «Vado regolarmente alla Siae, almeno una volta al mese, spesso di più, con tutti i moduli e permessi. Di solito ho tutto in ordine, ma se c’è qualche sbaglio, sono sempre molto gentili e disponibili ad aiutarmi. Le norme sono complicate e ogni tanto sembrano confusi anche loro. A giugno vorremmo provare a proporre delle serate di prosa, in collaborazione con il Monocolo, un giornale letterario. Ma dobbiamo ancora capire cosa serve per la Siae». I musicisti che suo-

nano in locali di questo tipo, sono professionisti, persone che vivono di musica, per cui anche loro hanno generalmente buoni rapporti con la Siae. Il leader di un gruppo che suona jazz confessa: «Non siamo completamente in regola con il discorso della Siae, speriamo di arrivarci. I rapporti, comunque sono buoni, abbiamo sempre trovato la massima disponibilità». Non mancano gli scontenti che principalmente si riferiscono alla compilazione del famoso borderò, l’elenco con tutti i brani eseguiti. Simone, portavoce

di un gruppo che suona blues, dice: «Il meccanismo in teoria è buono, però devi tener conto di una cosa: il borderò è compilato a mano, di solito in tarda serata e se sbagli e scrivi “Black magik woman” invece di “Black magic woman”, tutto il borderò viene invalidato. Sai cosa succede quando accade? Che tutti i soldi che la Siae ha incassato per quella serata vanno a finire nel fondo cassa della società e a fine anno viene ripartito in base a un criterio che li destina a chi è ai vertici delle classifiche. Ti sembra giusto?».

Ecco in sintesi cosa dice la legge di Giorgia Cozzolino La legge, si sa, non ammette eccezioni. E la burocrazia molto spesso è un vero killer delle iniziative spontanee e personali. Molti tra i locali dove siamo andati a curiosare hanno rinunciato a ospitare anche le più piccole esibizioni canore perché, sebbene a titolo gratuito e senza obbligo di consumazione, queste manifestazioni andrebbero regolarizzate secondo le normative Siae ed Enpals. Ma c’è molta confusione su questa materia, una congerie dovuta alla complessità dell’argomento ma anche a un atteggiamento di rassegnazione da parte dei gestori che, piuttosto che affrontare scartoffie e contributi, decidono di lasciar perdere l’intrattenimento musicale o di proseguire da fuorilegge rischiando magari qualche ammenda. Le norme che regolano le attività musicali all’interno di locali pubblici, come bar, pub e ristoranti, sono però piuttosto esigenti. Lo spirito che le anima è la legittima tutela dei diritti d’autore, ma tiene in conto poco o per nulla tutte quelle manifestazioni della tradizione popolare che niente hanno a che vedere con il copyright. Per orientarci in questo dedalo di

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obblighi legislativi ci siamo fatti aiutare da Giovanni Dellino, titolare della filiale Siae di Verona, che funziona anche da sportello Enpals. Emerge subito che i più penalizzati da queste normative sono i gestori dei locali. Infatti, se un’osteria decide di ospitare, a titolo gratuito, un gruppo di arzilli vecchietti che ogni settimana si ritrova a cantare le canzoni della tradizione popolare veronese, dovrà in primo luogo comunicare alla Siae la manifestazione e pubblicizzare, per quanto possibile, all’esterno del locale i brani musicali e gli autori perché, spiega Dellino, «anche se il diritto d’autore si estingue dopo 70 anni dalla morte del titolare del diritto, permane comunque un diritto morale che non si prescrive». Fatto ciò, la Siae chiede un deposito cauzionale che dipende dal tipo di manifestazione, dalla sua durata e dalla capienza del locale. Nel caso, per esempio, di un complesso di cinque elementi (se sono di più si cambia tabella di riferimento) che suona per un massimo di tre ore, il gestore dovrà versare 28.33 euro (più Iva) che gli saranno rimborsati qualora l’elenco dei brani eseguiti non contenesse nemmeno una canzone tutelata dal

diritto d’autore. Finisse tutto qui, molti locali non ci penserebbero due volte a invitare musicisti e poeti, invece ciò che frena è l’obbligo di iscrivere ciascun musicista e la stessa impresa all’Enpals, l’istituto di previdenza degli artisti. Il costo di tale operazione corrisponde al 32,70 per cento del compenso ricevuto e, anche se a titolo gratuito, è obbligatorio versare un minimo di circa 39 euro. Una spesa che compete al gestore, quale titolare d’impresa, per ciascuno dei suoi lavoratori-artisti i quali non verrebbero comunque ritenuti responsabili in caso di evasione contributiva. Sgradevoli conseguenze invece spetterebbero ai gestori, considerati alla stregua di un qualunque titolare d’azienda, che fossero “pescati” in flagrante. Per fortuna, i controlli al momento sono ancora sporadici ma, avverte Dellino, prossimamente saranno rafforzati. L’alternativa più semplice per i locali, suggerisce il responsabile Siae, è quella di affidarsi a cooperative che si occupano di tutte queste faccende e che presentano al titolare una semplice fattura che lo esonera da ogni obbligo fiscale. Il tutto, comunque, con buona pace dell’improvvisazione e della spontaneità.

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Cultura ANNIVERSARIO

Per gli ebrei di Verona sono 600 anni di storia Nel 1406 un documento della Serenissima autorizza la popolazione ebraica a risiedere nella città scaligera, in contrada San Sebastiano, vicino a piazza Erbe

di Irene Lucchese Il 2006 è l’anniversario dei 600 anni della presenza degli ebrei a Verona; secondo un documento ufficiale della Serenissima, infatti, risale al 31 dicembre 1406 l’autorizzazione che permise alla popolazione ebraica di risiedere nella

città veronese, a patto che si occupasse solo di prestito. In tale occasione venne destinato agli ebrei un quartiere in contrada San Sebastiano, vicino a piazza Erbe. In realtà, la presenza ebraica nella città veneta è riscontrabile ben prima di questa data ufficiale. Se ne hanno tracce già nel 965, quan-

do il vescovo Raterio fece scacciare gli ebrei dalla città; altre notizie riguardano gli anni tra il 1169 e il 1215, durante i quali sembra certo il soggiorno del poeta Abrahàm Ibn Ezra e del rabbino Eliezer Ben Shemuel. Con molta probabilità un altro poeta, Immanuel Ben Shelomoh Romano (detto Manoello Giudeo), trascorse un periodo alla corte di Cangrande della Scala e alcuni documenti citano la presenza in città di judaei, ma non è certo che si tratti effettivamente di ebrei. La consistenza della presenza ebraica a Verona non è ben definibile, sia a causa delle continue espulsioni, sia per il fatto che nessun censimento venne effettuato sino al 1539. La comunità stessa prese vita solo nella seconda metà del XVI secolo. Nel 1539, comun-

que, una conta dei cittadini effettuata per il calcolo delle tasse, stimava la presenza ebraica in circa 400 persone. Nel 1505 papa Paolo IV, con la bolla Cum nimis absurdum, stabilì la segregazione degli ebrei nei ghetti, ma per vederne uno nella città scaligera bisogna attendere fino al 1599, quando iniziarono i lavori, dopo le forti pressioni del vescovo Valier. Il ghetto fu realizzato in via Crocioni, tra le odierne via Mazzini e via Pellicciai e inaugurato nel 1600; a differenza di quanto avvenne in altre località della penisola, questa sembrò agli stessi ebrei la soluzione al problema della convivenza con i cristiani. Solo nel 1797, quando i francesi di Napoleone occuparono Verona e aprirono il ghetto, si stabilì la parificazione degli ebrei agli altri cittadini. L’Editto napoleonico permise loro di abitare in qualunque parte della città e così le famiglie benestanti abbandonarono le malsane abitazioni del ghetto, il quale diventò quartiere dei poveri. La completa emancipazione avvenne, però, nel 1866 con l’annessione di Verona al neonato Regno d’Italia: iniziò un periodo d’oro per gli ebrei veronesi, che raggiunsero in quegli anni il numero di 1.400. Subito dopo, però, la comunità iniziò a ridursi e nel 1931 contava poco più di 400 persone. La Parte di ciò che rimane del primo Ghetto in piazza Erbe

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Cultura

situazione peggiorò con la seconda guerra mondiale e l’avvento del fascismo: la condizione degli ebrei veronesi non fu dissimile da quella vissuta nel resto d’Italia; anche Verona pagò il dazio al regime nazifascista e alle deportazioni che allontanarono per sempre dalla città 31 persone. Attualmente ci sono circa 100 ebrei iscritti alla Comunità ebraica di Verona; nonostante l’esiguo numero, la comunità è abbastanza attiva e presente nella realtà culturale veronese. Infatti il presidente, il dottor Carlo Rimini, definisce positivo il rapporto degli ebrei con la città: le autorità cittadine invitano spesso la comunità a partecipare a eventi ufficiali, in particolar modo nelle ricorrenze del 25 aprile e del 27 gennaio. Inoltre, il presidente sottolinea i buoni rapporti che intercorrono tra i cittadini ebrei e quelli veronesi: gli unici casi di scontro nascono in relazione a fatti politici nazionali o internazionali, quando scatta la risposta dei gruppi politici giovanili più estremi, ma senza gravi conseguenze.

La grande volta della Sinagoga di Verona creata dall’architetto Fagiuoli

Le leggi razziali È del 17 novembre 1943 il manifesto di Verona che prevede una forte emarginazione per gli ebrei. Privati della cittadinanza italiana diventano stranieri senza tutela giuridica con il destino consegnato nelle mani dei tedeschi di Elisabetta Zampini «Il silenzio dei vivi» e «L’eco del silenzio. La Shoa raccontata ai giovani» sono due libri memoria che, solo a molta distanza di tempo dai fatti raccontati, l’autrice è riuscita a scrivere. Elisa Springer, nata a Vienna più di ottanta anni fa, è una delle voci dei salvati che si è sentita

in dovere di dire e di tramandare il proprio vissuto. Il suo destino si incrocia con Verona perché da qui partì il treno che la portò ad Auschwitz. Verona, ieri come oggi, si trovava in una posizione geografica e di collegamenti ferroviari importanti. Dopo che il primo treno della morte partì dalla stazione Triburtina di Roma il 18 ottobre 1943, mol-

Paolo Ligozzi, veduta di Verona: la zona attorno alla attuale Piazza delle Erbe dov’era sorto il Ghetto.

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ti altri ne partirono da Firenze, Bologna, Milano e, appunto, Verona. Quasi tutti diretti ad AuschwitzBirkenau. É del 17 novembre 1943 il manifesto di Verona, in pratica la carta costituzionale della Repubblica di Salò, che per quanto riguarda gli ebrei prevede la più estrema emarginazione. Privati della cittadinanza italiana, diventano stranieri e nemici senza tutela giuridica e con il destino consegnato nelle mani dei tedeschi. Questo l’epilogo storico estremo delle scelte politiche e ideologiche del fascismo che si instaura in seguito all’8 settembre del 1943, in un’Italia davvero divisa in due: la parte meridionale controllata dagli alleati e quella settentrionale nelle mani dei tedeschi con Mussolini al capo del governo. Ma la persecuzione degli ebrei italiani trova il suo inizio nel 1938 quando i loro diritti civili furono abbondantemente limitati: si tratta delle leggi razziali, tema ancora oggi controverso. Sempre più accantonata l’idea di uno sbaglio di percorso o di un semplice gesto di imi-

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Cultura La città ha vissuto questo periodo con atteggiamenti contradditori, tra chi metteva in pratica la segregazione suggerita dalle leggi e chi cercava degli escamotage per aggirarle tazione dei deliri sulla razza della Germania nazista, molti storici fanno rientrare le leggi razziali in un preciso progetto politico e sociale più ampio che mirava, ad esempio, a legittimare l’espansionismo italiano in Africa in nome di una superiorità della civiltà e della razza italiana con relativa psicosi collettiva contro “l’altro”, identificato come “il nemico”. Ma l’opinione pubblica italiana non era un terreno fertile per l’antisemitismo o per qualsivoglia teoria razziale, per quanto abbondantemente veicolata dalla carta stampata a partire dall’estate del ’38. Non c’era in Italia il problema dell’integrazione delle comunità ebraiche, perché mancava il presupposto: gli ebrei non erano sentiti diversi dagli altri italiani. Le co-

Il Ghetto risale al 1599 di Francesca Paradiso Il ghetto di Verona fu realizzato nel 1599 e successivamente demolito per la mancanza di condizioni igieniche. Una prima modifica avvenne dall’Editto napoleonico, che permetteva agli ebrei di abitare in ogni parte della città; gli ebrei si spostarono lasciando il quartiere sempre più povero e malfamato. Proprio perché privo di decoro, fu in seguito chiuso con l’annessione al Regno d’Italia che voleva risanare le città italiane. Dopo l’Unità gli amministratori si concentrarono sulla sua posizione prestigiosa, zona però insalubre, già definita tale da alcuni rapporti sanitari del 1887. Il ghetto venne abbattuto nel 1924, si salvarono alcune case-torri sul lato di Piazza Erbe, grazie all’intervento del pittore veronese (non ebreo) Angelo Dall’Oca Bianca e da altri uomini di cultura come il poeta Berto Barbarani. Dall’Oca Bianca si batté strenuamente perché luoghi tipici, come questo, fossero preservati da ristrutturazioni che avvenivano a volte senza criterio, radendo al suolo angoli storici della città. A schierarsi invece a favore i futuristi Boccioni e Carrà portatori dell’avanguardia, che esaltavano la modernità, il culto del tempo veloce con idee innovative da attualizzare anche a Verona. Fu Giovanni Giachi di Milano che concretizzò l’abbattimento, progettando una nuova costruzione. L’intervento riecheggiò a livello internazionale dalla Germania alla Russia, dall’Inghilterra alla Francia. I giornali riportavano gli scontri tra conservatori e in-

terventisti, su L’Arena del 1924 si leggeva «…ha obbligato Verona a sopportare più oltre quella piaga indecorosa e vergognosa contro cui l’igiene e la civiltà e lo stesso buon senso gridano la loro ribellione…». Il 5 giugno 1913 la Cassa di Risparmio di Verona bandì un concorso internazionale per l’erezione della propria sede sull’area del ghetto. La gara, a cui aderirono architetti e ingegneri, si concluse però con un nulla di fatto dato che il progetto del vincitore, Giovan Battista Milani, fu bloccato dalla Commissione Superiore di Belle Arti. Il concorso fu comunque significativo per modernizzare il linguaggio tradizionale dell’architettura veronese. Nel 1924 l’Amministrazione comunale ripresentò il progetto di sventramento del ghetto e predispose un piano generale approvato dal Consiglio stesso. Nel ripristino fu mantenuto lo schema planimetrico preesistente pur con l’aggiunta di moderni elementi; fra tutti il Supercinema dell’architetto Francesco Banterle. La comunità israelitica per completare il tempio nominò l’architetto Ettore Fagiuoli, dopo che nel 1926, il conservatore Gerola e l’architetto modernista Aldo Goldschmiedt non trovarono accordi. Fagiuoli lasciò integre le preesistenti composte dal porticato trecentesco di via Portici e il fronte dell’architetto Franco sulla via Sella. Nel nuovo tempio, di gusto eclettico, si fusero elementi barocchi e romanici grazie ad un monumentale fronte, mentre sotto i portici vennero ricavate tre botteghe. In accordo con la Soprintendenza, Fagiuoli non alterò il porticato, anzi ne ordinò il restauro.

Ricorda Umberto Basevi: «Dopo le leggi razziali la gente che ci conosceva da sempre ci tolse il saluto. Non tutti però. La mia famiglia non li ha mai biasimati perché si respirava un clima di paura e perciò i più obbedivano»

Il rabbino di Verona Crescenzo Efraim Piattelli con il vescovo Padre Flavio Roberto Carraro

in VERONA

munità ebraiche erano infatti parte naturale della società italiana e l’antisemitismo era limitato a frange minoritarie. Esponenti delle comunità ebraiche avevano ricoperto e ricoprivano cariche importanti nell’esercito e nella politica. Lo stesso avvento del fascismo ricevette sia plausi che opposizioni all’interno delle comunità ebraiche. Perciò le leggi razziali piovvero dall’alto provocando reazioni di-

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Cultura verse: dall’incredulità al disorientamento alla disperazione. Quelli che avevano la possibilità emigrarono verso le Americhe, la Palestina o fuggirono in Svizzera, altri si adattarono a vivere nella nuova limitante situazione. Ma c’è anche un dato inquietante: l’uno per mille dei perseguitati si suicidò. A riguardo, Gian Paolo Marchi pubblica nel 1989 “La scala” dove ripercorre la tragica sorte di un ebreo maestro di violino che muore a Verona il 4 marzo 1939 precipitando dalla scala interna del Palazzo Maffei. La causa della morte rimane in bilico tra disgrazia o suicidio, ma il fatto viene inserito nel momento in cui a Verona si respirava l’atmosfera delle leggi razziali, con il loro risvolto di martellamento mediatico attraverso la stampa locale. Come il titolo che compare su L’Arena il 3 settembre del ’38 e che immortala il provvedimento d’avvio di tutta la legislazione razziale: «Altri provvedimenti in difesa della razza. Gli israeliti esclusi dall’insegnamento nelle scuole. I docenti sono sospesi a far data dal 18 ottobre. Agli alunni di razza ebraica sono precluse le scuole di qualsiasi grado». Il regime attribuiva un ruolo determinante alla scuola, luogo dove mettere in atto la trasformazione politico-culturale in favore degli ideali fascisti e perciò dovevano essere isolati gli elementi scomodi, fossero semplici studenti o illustri rappresentanti della comunità scientifica, che in molti settori rimase orfana di menti brillanti. Il veronese Umberto Basevi, all’epoca, era studente al Lornia. Poco più che un ragazzino. Ma arrivò una lettera a casa e non andò più a scuola. Anzi, dovette andare a lavorare, come le sorelle. Lui spazzino e le sorelle operaie in una fabbrica di matite e di scatole di cartone. La città stava a guardare con atteggiamenti fortunatamente contradditori, tra chi metteva in pratica la segregazione suggerita dalle leggi e chi cercava degli escamotage per aggirarle. «Non ho mai avuto problemi particolari con i miei compagni», ricorda Basevi. «Qualche volta mi prendevano in giro stringendo un angolo della giacca per dargli la forma di un orecchio di maiale, questo perché noi ebrei non mangiamo carne di maiale.

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L’Aron ha-qodesh e la balaustra settecentesca. Sotto, particolare esterno della Sinagoga ebraica

Gian Paolo Marchi pubblica nel 1989 “La scala” dove ripercorre la tragica sorte di un ebreo maestro di violino che muore a Verona il 4 marzo 1939 precipitando dalla scala interna del Palazzo Maffei. La causa della morte rimane in bilico tra disgrazia o suicidio Non è una gran cosa, ma mi faceva star male. Dopo le leggi razziali la gente che ci conosceva da sempre ci tolse il saluto. Non tutti però. La mia famiglia non li ha mai biasimati perché si respirava un clima di paura e perciò i più obbedivano». Le testimonianze controcorrente non mancano e suggeriscono che una omogeneità di pensiero era ben lontana da essere realizzata: «Un giorno, mentre lavoravo, dei bambini hanno cominciato a

gridare “Ebreo! Ebreo! Ebreo!”. Si è avvicinato un adulto e ha mollato a uno di loro uno schiaffo». Un ufficiale vedendolo pulire in piazza Cittadella lo esonera dal lavoro. È questo un episodio di umanità che più di altri provoca commozione: «Non ho mai saputo come si chiamasse quell’ufficiale. Del resto era meglio non conoscere o dimenticare i nomi per una questione di sicurezza». La secolare presenza della comunità ebraica nella vita della città ha impedito gesti di antisemitismo eclatanti e la sorpresa delle leggi razziali portò talvolta a una loro sottovalutazione. «Mio zio Tullio», ricorda Basevi, «era un musicista, non si occupava di politica perciò ci diceva che si sentiva sicuro, che non gli sarebbe capitato nulla di male. Venne preso e deportato. Non tornò più. Piano piano la consapevolezza aumentava. Di nascosto si ascoltava Radio Londra dove si parlava di campi di concentramento e di camere a gas». Non erano più i diritti civili in pericolo ma la stessa vita ed era importante farsi notare il meno possibile».

Contemporaneamente continuano le azioni sotterranee di sentire opposto: «Mi ammalai di tifo e non potevo andare in ospedale perché altrimenti sarei comparso sul registro. Un primario dell’ospedale di Borgo Trento, il dottor Cevolotto, veniva a casa mia per curarmi. E protesse tutta la mia famiglia perché fece mettere sul nostro cancello una targa dell’Istituto Ospedaliero con scritto “Tifus”. I tedeschi avevano infatti l’ordine di non portare via persone con malattie infettive». Quando la città divenne troppo pericolosa, si cominciò a cercare rifugio sui monti Lessini: «Mio papà intuì il pericolo e così fuggimmo in montagna. Andammo da don Bepo Pasquotto, parroco di Valdiporro. Era sempre di buonumore. Il primo rifugio fu la sua canonica ma poi la voce si diffuse in paese e perciò ci spostammo in una frazione presso la famiglia Gaspari. E lì rimanemmo fino alla fine della guerra. Così ci salvammo». Una salvezza dal risvolto amaro: «Per molto tempo», conclude Basevi, «ho avuto il complesso del salvato. Quando ho saputo, a guerra finita, che i miei amici e i miei parenti erano morti, ho avuto una crisi profonda. Non mi sono sentito fortunato. Non ero contento. Quei morti mi sono sempre pesati: che meriti avevo io?» È la stessa dolorosa contraddizione tra «i sommersi e i salvati» su cui tanto ha detto, scritto e patito Primo Levi e che da molti è stata ed è condivisa.

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STUDIO

e

DITORIALE Giorgio Montoll i

LA DIFFERENZA NEL FARE LE COSE.

Redazione e impaginazione di libri e giornali Comunicati stampa Progetti editoriali

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Cultura STORIA

Come è nato a Verona il teatro dell’opera Nel 1651due musicisti, un ballerino e un falegname trasformano in teatro un locale affittato nella contrada dell’Isolo di Sopra. Nel 1665 inizia l’attività il Teatro dei Temperati. Nel 1732 apre il Filarmonico...

di Nicola Guerini Il grande impulso dato da Venezia alla diffusione del teatro dell’opera, con la nascita nel 1637 del Teatro San Cassiano, primo teatro pubblico a pagamento, favorì il fiorire di iniziative analoghe in tutta l’area veneta. Questo fenomeno coinvolse anche Verona contribuendo così a risollevare in parte il nostro ambiente musicale dalla

Nel 1822 Verona fu la sede del Congresso della Santa Alleanza. Per celebrare l’evento furono commissionate a Rossini quattro cantate: Il vero omaggio, L’augurio felice, Il bardo, La Santa Alleanza, da eseguirsi in Arena e al Filarmonico alla presenza degli imperatori e regnanti di tutta Europa Teatro seicentesco Scipione Maffei in una caricatura

stasi che lo aveva colpito in seguito alla pestilenza scoppiata nel 1630. I motivi della crisi non sono da cercare solo nel grave episodio della peste, con tutte le ripercussioni economico-sociali, ma soprattutto nella difficoltà delle istituzioni musicali della città di adeguarsi ai mutati indirizzi stilistici e di gusto che il Seicento portava con sé. La Cappella della Cattedrale è la prima ad allinearsi alle nuove tendenze nonostante i numerosi problemi organizzativi. Per l’Accademia Filarmonica, al contrario, il processo di adattamento fu molto più lento e faticoso. Nata e cresciuto nel clima culturale del Rinascimento, l’Accademia denunciava una decadenza dello spirito originario fin dall’inizi del secolo XVII. Il culto delle lettere e delle discipli-

ne filosofiche e scientifiche tolse progressivamente spazio alla “pratica” musicale, come confermato da un documento dell’Accademia datato il 14 giugno 1613 in cui si scriveva: «...il solo esercizio musicale non è sufficiente ad aggrandire et illustrare il prestigio dell’istituzione se bene è tratenimento virtuoso». Così, mentre la Filarmonica maturava una lenta trasformazione, iniziava a Verona un’attività operistica, dapprima in sordina, poi sempre più regolare e stabile. Nel 1651 si costituì la prima società impresariale veronese formata da due musicisti, un ballerino e un falegname. I due musicisti erano il cantore del Duomo e della Filarmonica, don Gerolamo Zaninelli, e il romano Paolo Cornetti, già maestro di cappella a Ferrara. Anasta-

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sio Anastasi era il ballerino, mentre “marangon da pezzo” (falegname specializzato nella lavorazione del legno d’abete) era Francesco Nobili, “ingegnere” del teatro e curatore delle strutture sceniche. La novella società trasformò in teatro un locale affittato nella contrada dell’Isolo di Sopra che da esso prese il nome di “teatro dell’Isolo”. L’opera d’esordio, l’Endimione, fu anche l’ultima per il teatro che dovette dichiarare fallimento per la fuga di uno dei soci (lo Zaninelli) con tutto l’incasso delle recite. Sorte ben più felice ebbe il teatro fondato dagli Accademici Temperati e attivo fino al 1656, stando a quanto si deduce dalla data del primo libretto conosciuto di un’opera rappresentata in questa sede. Dal 1665 il Teatro dei Temperati, certamente ospitato in più sale nel corso della sua esistenza, registrava una serie di rappresentazioni che portarono a Verona opere di autori importanti come Francesco Cavalli, Antonio Cesti, Antonio Lotti. L’attività del teatro cessò nel 1715 quando l’Accademia Filarmonica, stimolata dai risultati ottenuti dall’intraprendente Accademia dei Temperati, decise di avviare i lavori di un proprio grande teatro e restituire alla musica il ruolo di primo piano, in origine ad essa riservato all’interno dell’Accademia. Il più grande sostenitore dell’iniziativa fu il celebre letterato Scipione Maffei, membro della Filarmonica dal 1701, e suo Governatore fino al 1712. L’azione del nobile veronese incominciò con le pressioni esercitate sul Capitano di Verona, Marc’Antonio Quercini, affinché inducesse le autorità veneziane alla soppressione del Teatro dei Temperati «…per il sito pericoloso in cui si trova e per le opere poco modeste cantate da persone non molto oneste». Queste pressioni hanno tutta l’aria di pretesti per eliminare fin dal primo momento una pericolosa concorrenza. In ogni caso, nel 1715 arrivò l’ordine di chiusura per il vecchio teatro, del quale Maffei e soci avevano chiesto la demolizione. L’anno successivo si diede principio al teatro accanto all’accademia de’ Filarmonici sopra un disegno di Francesco Bibiena, celebre architetto bolognese, già costruttore del teatro imperiale di Vienna per Leopoldo I, nel 1704.

in VERONA

Tra vari rallentamenti e sospensione dei lavori il progetto fu portato a termine soltanto nel 1730. Per l’inaugurazione, Maffei riprese un suo libretto giovanile,“La fida ninfa”, per farlo musicare a proprie spese dal compositore bolognese Giuseppe Maria Orlandini. Sembrava tutto pronto quando, un nuovo imprevisto (difficoltà non chiarite di ordine politico, con conseguente divieto ufficiale dello spettacolo da parte di Venezia), impose una proroga all’inizio dell’attività nel Teatro Filarmonico. Trascorsero, infatti, altri due anni prima che il tormentato progetto potesse andare in porto. Finalmente, il 6 gennaio 1732, il Filarmonico aprì i battenti: nel frattempo Maffei, insoddisfatto del lavoro di Orlandini, affidò il proprio libretto ad Antonio Vivaldi, noto anche per la rapidità con la quale era solito portare a termine le opere commissionategli. Le scenografie furono curate dallo stesso Bibiena e l’accoppiata Vivaldi-Bibiena risultò vincente all’inaugurazione. Si rivelò infatti un trionfo come riportato sulla “Gazzetta” di Mantova che scrisse:«L’opera riesce a maraviglia, si per la Composizione, ed isquisitezza della Musica, e sceltezza dei cantanti, come per la nobiltà, e bellezza delle Scene, e altre decorazioni corrispondenti alla perfezione di quel nuovo Teatro, che è uno dei più vaghi, e ben intesi di tutta italia». Iniziò così per il maggior teatro della città un’intensa attività: Antonio Vivaldi tornò al Filarmonico nel 1735 con “Tarlano” e “L’Adelaide”, e nel 1737 con “Cato-

Il Teatro Ristori come si presenta oggi

In una stampa del Settecento l’edificio d’angolo di Piazza Bra, a fianco dei portoni, che dal 1606 divenne sede definitiva dell’Accademia Filarmonica

ne in Utica”(seguita nell’occasione dal celebre intermezzo comico di Pergolesi “La serva padrona”). Altri illustri compositori, come Baldassarre Galuppi e Adolf Hasse, insieme a celebri cantanti passarono al Filarmonico fino al 1749, quando un incendio lo distrusse riportandolo allo splendore solo dopo quattro anni. Dal 1754 le rappresentazioni si susseguirono ininterrottamente mentre altri nomi prestigiosi si affacciavano alla ribalta del teatro veronese: da Paisiello e Cimarosa (dell’area napoletana) ai nostri Salieri e Gazzaniga, fino all’avvento di Rossini, che dal 1813 al 1830 impose anche a Verona la sua egemonia in campo teatrale. Si giunse così nell’Ottocento, altro secolo di musica operistica per eccellenza, almeno in Italia. Nella nostra città nuovi teatri, accanto al Filarmonico, si preparavano ad accogliere i grandi e meno grandi protagonisti del melodramma. A tal

proposito, un altro teatro sorse nel luogo della chiesa di San Tommaso apostolo, detta S. Tomio, soppressa come parrocchia nel 1805, ridotta ad oratorio nel 1808 e chiusa definitivamente nel 1810. L’ex chiesa fu poi acquistata dal conte Francesco Morando che sul disegno di Luigi Trezza la fece trasformare in teatro, molto elegante, con trentadue palchetti, inaugurato nel 1814. Al Teatro Morando furono rappresentate numerose opere di Rossini, Donizetti, Guglielmi, e ospitò cantanti illustri come il celebre soprano Teresina Brambilla e il castrato Luigi Bassi. Al nome di Gioacchino Rossini è collegato un importante momento della storia politica della nostra città: nel 1822 Verona fu scelta quale sede del Congresso della Santa Alleanza dal principe di Metternich, potente cancelliere dell’impero austriaco. Per celebrare l’evento furono commissionate a Rossini quattro cantate: Il vero omaggio, L’augurio felice, Il bardo, La Santa Alleanza, da eseguirsi in Arena il 24 novembre, mentre le prime tre al Filarmonico, il mese successivo, sotto la direzione dello stesso autore e alla presenza degli imperatori e regnanti di tutta Europa come lo zar Alessandro di Russia, Francesco I d’Austria, Federico Guglielmo di Prussica, il re di Sardegna Carlo Felice, il duca di Wellington, il principe di Metternich, e il visconte di Chateaubriand. Il “bel canto” continuò a dominare fino alle soglie del XX secolo la vita musicale a Verona, per la quasi totalità concentrata nei teatri d’opera. Al Teatro Filarmonico si affiancarono i più recenti palcoscenici del Teatro Ristori (in

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Cultura origine Teatro Sardi, poi Valle) e del Teatro Nuovo (inaugurato nel 1846 con l’Attila di Giuseppe Verdi). Accanto ai capolavori di Bellini, Donizetti, Rossini e Verdi trovarono successo anche opere di Mercadante, Auber e Meyerbeer. Per avere un’idea, vediamo che cosa accadde, in un anno, per esempio nel 1853, in tema di melodramma a Verona. Al Filarmonico: “Ernani” di Verdi, “I Puritani” di Bellini, “Medea” di Pacini, “Mosè” di Rossini” e “Lucia di Lammermoor” di Donizetti. Al Teatro Valle (Ristori): “I lombardi” di Verdi, “I due foscari” di Verdi, “Rigoletto” di Verdi, “Lucrezia Borgia” di Donizetti, “Il barbiere di Siviglia” di Rossini e “Il feudatario” di Vincenzo Mela (compositore di Isola della Scala, nato nel 1820, che inaugurò la sua carriera proprio con questa “prima”. Al Teatro Nuovo, “Il mantello” di Romani, “I due Figaro” di Speranza e il “Don Pasquale” di Donizetti. Riassumendo, cinque opere al Filarmonico, sei al Valle, tre al Nuovo: in totale quattordici opere in un anno. Negli anni cruciali delle lotte per l’indipendenza italiana, i nostri teatri rimasero chiusi o rallentarono di molto l’attività. Infatti, dal 1858, il Filarmonico si fermò fino al 1866 mentre il Nuovo, dopo la chiusura fino al

1862, riaprì le recite nel 1865. Il Ristori rimase chiuso solo nel 1857 e nel 1860 mantenendo poi la sua tradizione lirica. Nel 1872 al Teatro nuovo si ascoltò per la prima volta Wagner: non un’intera opera ma una selezione ridotta per complesso bandistico di Lohengrin. Alla diffusione del repertorio wagneriano in Italia contribuirono notevolmente i veronesi Carlo Pedrotti e Franco Faccio, dirigendo in vari teatri numerose prime di Wagner, il quale nel 1876 venne a Verona per concordare con Pedrotti l’imminente allestimento di Lohengrin al Regio di Torino. Occorse attendere ben otto anni prima che questo dramma andasse in scena a Verona: il 26 dicembre 1884. Da ricordare il grande successo del 1887 che ottenne al Filarmonico una Carmen di Bizet, sotto la guida dell’allora ventenne Arturo Toscanini, prossimo a divenire un direttore di fama internazionale. Anche la generazione post-verdiana fu presente nei teatri veronesi: nel 1890 al Ristori arrivò la Cavalleria rusticana di Mascagni e la Manon Lescaut di Puccini, nel 1895 i Pagliacci di Leoncavallo e nel 1898 Andrea Chénier di Umberto Giordano. Ma eccoci allo “storico”1913: mentre nei teatri di Verona proseguiva

Il Teatro Nuovo in una stampa ottocentesca

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la consueta attività operistica, un gruppo di amici ( il tenore Giovanni Zenatello, il direttore di coro Ferruccio Cusinati, il critico Gino Bertolaso e l’impresario Ottone Rovato) decisero di dar vita a un’iniziativa ambiziosa: allestire una rappresentazione operistica in Arena. L’Anfiteatro romano aveva già ospitato nei secoli precedenti manifestazioni musicali e teatrali (come il famoso evento già citato del 1822), ma l’allestimento di un’opera all’aperto presentava incognite per i cantanti, direttori d’orchestra e scenografi. I quattro amici, sostenuti anche dal direttore

d’orchestra Tullio Serafin, superarono ogni perplessità e scelsero l’Arena quale cornice delle celebrazioni veronesi per il centenario della nascita di Giuseppe Verdi. Il 10 agosto 1913, l’Aida inaugurò la prima stagione lirica all’aperto in Arena. Diresse il maestro Serafin, il coro fu affidato a Cusinati, cantarono nei ruoli principali il tenore Zenatello, il soprano Ester Mazzoleni, il mezzosoprano Maria Gay e le scene furono curate dall’architetto Fagiuoli. In quella sera memorabile furono presenti tutte le personalità più autorevoli del momento: Giacomo Puccini, Arrigo Boito, Pietro Mascagni, Luigi Illica, Ildebrando Pizzetti, Riccardo Zandonai, Italo Montemezzi, gli editori Ricordi e Sonzogno, Massimo Gorki, Roberto Bracco e Franz Kafka. La grande avventura areniana era iniziata e l’anno dopo fu rappresentata Carmen (dieci repliche dal 1 agosto 1914), poi il lungo silenzio nel periodo della Grande Guerra fino al luglio 1919 e dal 1940 al 1945. Negli anni della seconda guerra mondiale i teatri cittadini continuarono la loro attività, ma in tono minore e discontinuo. Per il Teatro Ristori e il Nuovo si trattava di uno spegnersi naturale mentre il Filarmonico, dopo la chiusura nel 1938 con il Tristano e Isotta di Wagner, diretto da Sergio Failoni, fu bombardato e raso al suolo nel febbraio del 1945. Soltanto nel 1969 il maggior teatro della città riaprì i battenti interamente ricostruito ma dovette attendere il 1975, con il “Falstaff ” di Antonio Salieri, per poter riavere l’originaria destinazione operistica.

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Cultura I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA

Gilberto Altichieri di Giuseppe Brugnoli Questa è la storia, anzi no: è soltanto un piccolo ritratto a memoria di un grande giornalista veronese, che pochi ricordano e forse altrettanto pochi conobbero come tale, perché in sostanza fu un grande giornalista mancato. Si chiamava Gilberto Altichieri, e a Verona fu per molti anni direttore responsabile de “Il Nuovo Adige”, testata settimanale di proprietà del Partito liberale, ma che fungeva da edizione del lunedì de “L’Arena”, secondo le norme di una vecchia e mai cassata legge fascista che prescriveva che tutti i quotidiani uscissero con soli sei numeri settimanali, e che tipografi e redattori riposassero la domenica. Poi, come sempre, fatta la legge, trovato l’inganno, tutti i quotidiani uscirono anche con il numero del lunedì, che portava fresche le notizie di tutte le partite di calcio e degli altri sport che privilegiavano la domenica: alcuni facevano cominciare il lavoro alle tipografie alla mezzanotte tra la domenica e il lunedì, altri trovarono più comodo aggiungere “del lunedì” alla testata di tutti gli altri giorni, altri ancora cambiarono testata lasciando intatte redazioni e tipografie. Quest’ultimo fu il caso de “Il Nuovo Adige”, e il suo direttore Gilberto Altichieri si qualificò quindi, nell’immaginario collettivo di un lungo periodo, sia come giornalista sportivo che come esponente di spicco del partito liberale. Nulla fu più lontano in lui dall’interesse per qualsiasi attività sportiva, e in particolare per il calcio, che riempiva le pagine del suo giornale. Era sempre con il tono di una signorile e distaccata affettazione che, quando ogni domenica sera arrivava al giornale, si informava dagli addetti alle pagine sportive come era andata la partita del Verona, e dopo un commento educato e volutamente generico si accingeva ad impaginare la prima pagina. Anche la sua militanza politica era piuttosto blanda: più che un liberale dei suoi tempi, con un partito impegnato in una accesa battaglia politica, egli avrebbe potuto essere definito, se l’accezione oggi di moda si fosse usata anche allora, un “liberal” di stampo anglosassone. Una definizione che certo gli sarebbe piaciuta, perché in effetti Altichieri, partito dalla natia Oppeano, dove i suoi avevano campi e villa, molti anni prima, per arrivare

in VERONA

Veronese di Oppeano, giornalista e scrittore, fu corrispondente da Londra per il Corriere della Sera. Per molti anni ricoprì la carica di direttore de “Il Nuovo Adige”, che fungeva da edizione del lunedì de “L’Arena”. a Verona aveva fatto il giro da Londra. Prima della guerra, la seconda mondiale, era stato assunto al “Corriere” dal direttore Borelli, fascista, come allora era d’obbligo, ma gran scopritore di talenti giornalistici. Gilberto Altichieri non era fascista, e quindi non poteva firmare, per cui fu coniato per lui uno pseudonimo, “Oliviero”, e con quel nome firmò molti pezzi di critica letteraria, soprattutto sugli scrittori inglesi e americani, in cui si era specializzato dopo la laurea, e diverse corrispondenze e interviste dall’Italia e dai paesi europei più vicini. Poi fu mandato a Londra, che era allora il centro mondiale delle agenzie di stampa, e le sue corrispondenze comparvero su quasi ogni numero del quotidiano milanese. Prima dello scoppio della guerra dovette rientrare in sede, perché per lui, sprovvisto della tessera del fascio, l’esposizione in una capitale estera che stava per diventare nemica era troppo pericolosa, e prese posto in quel famoso “stanzone” del Corriere dove gomito a gomito si affiancavano ai lati di una grande tavola tutti gli inviati e i principali collaboratori del giornale. Ancora negli ultimi tempi della sua vita Altichieri, se sollecitato con qualche insistenza, raccontava dei personaggi della temperie artistica e culturale italiana con cui divise il “tavolone”, ma i suoi erano ricordi brevi e scarni, quasi dei “flash”, come se gli dispiacesse rammentare quei tempi che per lui furono i più attivi e i più animati da speranze di future aperture. La qualità della sua scrittura, il nitore e la modernità della sua prosa, anche negli articoli di più breve momento, insieme con la necessità di ripararlo ulteriormente dalle attenzioni del regime, lo imposero all’attenzione del direttore e lo fecero trasferire al settore della cronaca, dove fu a fianco di

Buzzati, con il quale ebbe una lunga amicizia, e con il quale seppe sollevare all’altezza di prose memorabili anche i racconti dei piccoli avvenimenti quotidiani. Poi venne il 25 luglio, con la caduta del fascismo, e quindi l’8 settembre con la sua temporanea ripresa, e Altichieri fu costretto a trovarsi un rifugio per sfuggire alle retate che colpivano gli antifascisti. Ma il 25 aprile 1945, giorno della liberazione, fu tra i primi a tornare, con Emilio Radius, al suo posto di lavoro al Corriere. Ma subito lo colpì tragicamente la sorte: i suoi due fratelli Marcello e Plinio, ad Oppeano, catturati con le armi in mano insieme ad altri otto partigiani, il 26 aprile furono uccisi dai tedeschi in fuga. Il 26 aprile era stato deciso dal Comitato di liberazione nazionale come il giorno dell’insurrezione generale contro i nazisti e i fascisti. Poi l’ordine fu cancellato, perché le armate tedesche stavano già sciogliendosi, ma il controordine non giunse mai ad Oppeano, o se vi giunse non arrivò ai fratelli Altichieri che scesero in strada con le armi. Gilberto Altichieri resistette a Milano fino al 1946, poi tornò ad Oppeano, dove c’erano altre due famiglie alle quali provvedere, e cominciò la sua vita di agricoltore. «La campagna non era il mio mestiere», mi disse una volta, durante una di quelle lunghe chiacchierate notturne in cui, alla fine del lavoro, quando già gli spazzini si muovevano per corso Cavour, dove abitava, alle prime luce dell’alba, ci intrattenevamo dopo che l’avevo accompagnato a casa. Era un uomo colto, di grande e non ostentata cultura, ricco di aneddoti e di citazioni. Era anche una persona di grande sensibilità e di estrema gentilezza, un vero gentleman, arguto e spesso anche pungente, ma sempre con un sorriso. Di quel grande scrittore e giornalista che era mi rimangono due libri, uno “Il passato raggira”, una sorta di romanzo autobiografico scritto con la freschezza e la felicità espressiva, con la ricchezza di una tavolozza in cui sono stati appena stesi, intatti, i colori, che documenta la sua stagione umana e letteraria più bella, l’altro, “L’urbe ilare e pensosa”, dedicato a Verona e ai suoi personaggi dell’arte, in cui al termine della sua vita intensa e laboriosa raccoglie le ultime perle di una scrittura e di una intuizione egualmente favolose.

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Anniversario di Giorgia Cozzolino Il protettore della polizia municipale è San Sebastiano. Un santo che i vigili urbani considerano molto vicino e, ironicamente, ritengono corrispondere pienamente al loro destino in quanto fu martirizzato non una, ma ben due volte. Comandante dei pretoriani nel 300 dopo Cristo, venne prima trafitto da frecce su ordine dell’imperatore Diocleziano e poi, avendo scampato la morte quasi miracolosamente, fu ucciso a bastonate come l’ultimo degli schiavi. Una dedizione tale al martirio che fa emergere l’aspetto masochistico dell’essere vigile urbano, chiuso tra due fuochi: il governo della città e la cittadinanza stessa, due padroni con esigenze talvolta diverse. Ironia a parte, la polizia municipale di Verona ha una lunga e gloriosa storia alle spalle che trae le proprie origini dal Corpo delle Guardie Municipali istituito nel 1866. Proprio il prossimo 6 ottobre, quindi, i vigili urbani compiranno 140 anni, quasi un secolo e mezzo passato al servizio e a protezione della gente… Ztl compresa! Ma come nacque l’esigenza di creare un corpo di polizia comunale? Nella seconda metà dell’Ottocento la città di Verona faceva parte del Regno Asburgico ed era sede di una consistente guarnigione militare. Poteva contare su accampamenti, fortificazioni e su una importante linea ferroviaria nelle cui realizzazioni i cittadini trovarono opportunità di lavoro e fonti di guadagno. Ma gli archivi di via del Pontiere raccontano anche che i fermenti nazionalistici, che allora attraversavano la penisola, si fecero talmente pressanti anche in città, che dal 23 maggio 1863 non vi furono più notabili disposti a collaborare con il governo austriaco. Fecero così cessare la loro la rappresentanza municipale e all’ufficio venne destinato un commissario governativo. Due anni più tardi le tensioni sociali resero chiaro alle autorità scaligere che era giunta l’ora di riprendere le redini del governo cittadino per gestire al meglio l’auspicata unione al Regno sabaudo. Così il 1965 segnò l’ascesa alla carica di Podestà del cavalier Edoardo De Betta, scienziato e spirito illuminato, che l’an-

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140 ANNI DI SERVIZIO

La storia della Polizia municipale

no seguente istituì un corpo di polizia indipendente dalla Imperial Regia Gendarmeria austriaca, chiamandolo appunto delle Guardie Municipali. La nuova polizia cittadina era concepita con finalità moderne per l’epoca, non come strumento per opprimere i cittadini, ma, al contrario una polizia più vicina ai cittadini, prendendo quale esempio la Metropolitan Police istituita a Londra nel 1829 da Sir Robert Peel, i cui agenti furono soprannominati “Bobbies” o “Peelers” in onore del fondatore. Le uniformi e l’equipaggiamento dei “vigili” veronesi rispecchiarono quello dei colleghi di Londra, componendosi di: «una tunica di panno bleu oscuro, pantaloni bleu oscuri, cappello tondo di feltro nero, mantello impermeabile, soprabito lungo, guanti di pelle, cravatta nera, revolver a 6 colpi e canna di sambuco con pomo in metallo bianco ed inciso sopra l’impugnatura lo stemma municipale». E proprio a causa di questa canna di sambuco i vigili furono soprannominati “cana”. Fin da subito, il Corpo fu intensamente impegnato nel soccorso dei cittadini durante le disastrose inondazioni che colpirono la città, fino alla costruzione dei “muraglioni” (1887 -1894) e l’apporto degli agenti fu determinante anche nelle fasi della prima e seconda guerra mondiale e nelle rispettive ricostruzioni. Nel 1929 persino il poeta Gabriele D’Annunzio ebbe occasione di lodare l’efficienza dei vigili veronesi ai quali riservò una curiosa dedica: «Agli occhiutissimi vigili veronesi, l’orbo vigile del quartiere San Zeno». Gli “occhiutissimi” di oggi devono confrontarsi con problematiche diverse e talvolta anche con richieste buffe. È il caso di una telefonata giunta al comando che suonava così: «Siamo 550 turisti olandesi e quest’estate passeremo per Verona, dove staremo un giorno. La sera ceneremo lì. Poiché vorremmo rendere il nostro breve soggiorno più suggestivo, nell’andare dal ristorante ai pullman, possiamo accendere delle candele per fare una fiaccolata? Contiamo di accenderne una ogni 10 componenti del gruppo: dobbiamo chiedere l’autorizzazione?». Ha collaborato Irene Lucchese

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Spettacoli CONVEGNO

Shakespeare incontra Verdi Il 10 luglio al Conservatorio Dall’Abaco una tavola rotonda organizzata nell’ambito del Festival Shakespeariano che evidenzierà il legame tra i due artisti

“Shakespeare e Verdi, l’incontro tra due geni”. È questo il titolo di un originale convegno organizzato, nell’ambito del Festival Shakespeariano, il prossimo 10 luglio, alle 17, nell’auditorium del conservatorio Dall’Abaco di Verona. Una tavola rotonda che vuole indagare il legame tra i due compositori, l’uno di opere musicali e l’altro di opere letterarie, grazie agli studi e alle conoscenze di veri esperti in materia. Interverranno al dibattito, patrocinato dall’Istituto nazionale studi verdiani, il direttore scientifico Luigi Petrobelli, il musicologo e consulente artistico della Accademia Filarmonica di Verona, Carlo Mezzadri, il preside della facoltà di lingue dell’ateneo veronese, Luigi Righetti e Carlo Mayer, regista e già direttore artistico di alcuni Enti lirici. Un “pool” di tecnici che metterà in luce gli incontri drammaturgici tra Verdi e Shakespeare come in Otello, Falstaff e Machbeth. «Preferisco Shakespeare a tutti i drammatici, senza eccettuare i Greci», scriveva Giuseppe Verdi, il 22 aprile del 1853, in una lettera all’amico Antonino Somma, al quale confessa-

Giuseppe Verdi

in VERONA

Fu per merito del librettista Arrigo Boito, principale esponente della Scapigliatura milanese, che Verdi venne attratto in modo teatralmente completo dal grande drammaturgo va anche la sua ammirazione per alcuni personaggi del poeta di Stratford. «Questo Jago è Shakespeare e l’umanità, cioè una parte dell’umanità, il brutto», sottolineava Verdi che si era accostato alla drammaturgia inglese grazie all’incontro e agli stretti rapporti d’amicizia che teneva con Carcano, uno dei più noti traduttori dell’Ottocento. Ma fu per merito del librettista Arrigo Boito, principale esponente della Scapigliatura milanese, che Verdi venne attratto in modo teatralmente completo dal grande drammaturgo. Così nel 1887, con l’Otello, dove la poetica di Boito sposa il credo di Verdi di «inventare il vero», e con il Falstaff del 1893, la sua ultima grande opera, la musica del compositore parmense ritorna miracolosa e stilizzata. Dagli scambi epistolari con Boito è facile comprendere che Verdi aveva per Shakespeare un’ammirazione e una considerazione piene di timidezza artistica. Percepiva la grande creatività del genio inglese alla quale la sua musica, per raggiungere un tale traguardo, avrebbe dovuto stravolgere alcuni canoni del mondo romantico che avevano

William Shakespeare

quasi sempre condizionato la sua ispirazione. Infatti, tranne che per il Machbeth, diretto nel 1847 su libretto del Piave, sia Otello che Falstaff offrono un nuovo Verdi, con una struttura musicale del tutto innovativa e concepita su un parametro di creatività quasi rivoluzionaria: una musica nuova inventata per il linguaggio dei testi di Shakespeare. Se di Verdi conosciamo gran parte della vita e delle sue creazioni, per Shakespeare dobbiamo spesso affidarci alla leggenda che ci dona un uomo difficilmente catalogabile. E se, infine, gli eroi e le eroine di Verdi sono scolpiti con una sentimentalità che non riesce sempre a nascondere la propria origine dura e complessa e il carattere toccato da aspre delusioni, i paladini di Shakespeare trascendono spesso l’umanità terrena per elevarsi in un infinito che domina gli avvenimenti di cui sono protagonisti. Un incontro di grandi, quindi, che il Festival Shakespeariano offre a cornice del cartellone di appuntamenti teatrali e musicali e che ci ricorda, come disse lo stesso poeta inglese, di non temere la grandezza, poiché «alcuni sono nati grandi, alcuni raggiungono la grandezza e altri hanno fede nella grandezza».

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Spettacoli

ARENA

Tosca: da Sardou a Puccini In scena dal 15 luglio al 25 agosto. Con quest’opera inizia per il musicista un periodo duro della sua vita quotidiana e creativa che coincide con l’inizio del nuovo secolo Giacomo Puccini in un ritratto.

Sotto l’influenza teatrale della grande diva Sarah Bernard, soggiogato dalla personalità di Sardou, Puccini mise Illica e Giacosa alla preparazione del libretto. Fu una gestazione sofferta

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di Oreste Mario dall’Argine Tosca, una delle più popolari ma discusse opere di Puccini per le sue invenzioni musicali, vibra le sue melodie su tre momenti principali, anzi quattro. La romanza di Cavaradossi del primo atto “Recondita Armonia”, il grande squarcio musicale del “Vissi d’arte...” di Tosca e il pezzo finale, tradizionale per il tenore protagonista “E lucean le stelle”. Il quarto momento è il monumentale “Te Deum” che chiude il primo atto dell’opera, nel quale Puccini riesce a costruire sulla melodia ambrosiana, una possente sonorità corale e orchestrale che ci riporta al Requiem di Verdi. Quest’opera di Puccini, in scena nell’anfiteatro dell’Arena il 15, 22 e 29 luglio (poi il 12, 18 e 25 agosto) fu giudicata verista. In realtà, questo “fumettone” di Sardou, nella sua truculenza invasiva, nella sua mistura di sentimentalità non corrisposta e di crudeltà umana, pare uscire dagli schemi romantici di Puccini. L’autore inseguì questo dramma

con un’insistenza e una pervicacia quasi sconosciute in lui. Aveva visto Sarah Bernard interpretare Tosca, aveva parlato a lungo con Sardou, rimanendo affascinato dalla vitalità e dalla vivacità creativa di quest’uomo. Infatti Puccini scrive a Fraccaroli: «Quell’uomo era portentoso, aveva più di settant’anni e c’erano in lui l’energia e la spigliatezza di un giovanotto… qualche nostra seduta

Sopra: il regista Hugo De Ana. In alto: rappresentazioni di Tosca in Arena

si ridusse a dei semplici monologhi di Sardou squisitamente piacevoli, non v’è dubbio, ma che non facevano progredire la nostra Tosca… Era meraviglioso». Sotto l’influenza teatrale della grande diva Sarah Bernard, soggiogato dalla personalità di Sardou, Puccini mise Illica e Giacosa alla preparazione del libretto. Fu una gestazione sofferta, furiosa, tanto da indurre Illica ad abbandonare, lasciando solo Giacosa a terminare l’impresa. Che in Tosca il nostro autore si allontani dalle romantiche melodie di Mimì e Manon non lo si può negare, così come non si può negare una certa ricerca di verismo e di effetti teatrali; certo non fini a se stessi, ma senz’altro contorni poco veritieri di una melodia caparbiamente ricercata che trova il suo apice nella romanza “Vissi d’arte...” del secondo atto. Atto anche truculento, perché l’assassinio del suo ossessivo spasimante, più che un’uccisione è una maledizione che conduce la mano di Tosca a colpire Scarpia. Non bisogna dimenticare che Tosca è la

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Spettacoli creatura pucciniana che in questo atto gioca tutta la sua passione. Il “Vissi d’arte...” è la rivelazione di un illusione perduta, un testamento d’amore affidato al suo persecutore e che per questo ella ucciderà. Tosca è il vertice di un triangolo di un amore sconfinato per Cavaradossi e di un odio tutto femminile per l’ignobile Scarpia, la cui figura forse introduce quegli elementi di verismo che sviò molti critici. Ma da questo verismo, se verismo è, Puccini si riscatterà subito con la creazione di una delle sue figure più romantiche, Butterfly. Tutto si può dire di Tosca tranne che essa non sia stata un traguardo creativo inseguito con un desiderio quasi onirico e difeso non solo dai suggerimenti dei suoi librettisti travolti da un’irruenza incredibile del compositore, ma anche da critiche altrettanto precise. A Ricordi, che gli rimproverava di essere musicalmente mancato nei momenti cruciali dell’opera creando una melodia frammentaria e spezzata, Puccini rispondeva: «Non è orgoglio il mio è solo una difesa per un lavoro che ho pensato e che mi è costato tanto pensiero». Tosca segna quindi l’inizio di un distacco dal suo grande editore cui toccherà la sofferenza più grande. Ma con Tosca comincia anche per Puccini un periodo duro della sua vita quotidiana e creativa che coincide con l’inizio del nuovo secolo. Certo, anche se Puccini si rifiuta di accettare una nuova epoca che sta per iniziare, non può non partecipare, anche inconsciamente, ad un cambiamento irreversibile. Egli è talmente conscio di quello che sta facendo, stregato dall’irruenza creativa di Sardou e dal fascino teatrale di Sarah Bernard, che sembra sfiorare la speculazione di un grottesco melodramma per il grande pubblico. Il finale di “Vissi d’arte...” è il grido disperato di chi sente l’inutilità di una preghiera che non potrà essere ascoltata. Se questo è verismo, cos’è allora il vero?

in VERONA

TEATRO ROMANO

«Giulio Cesare» e l’esercizio del potere di Alice Castellani Dal 20 al 23 luglio andrà in scena al Teatro Romano, all’interno dell’Estate Teatrale Veronese 2006, un Giulio Cesare di Shakespeare con protagonista Franco Branciaroli e la regia dell’inglese Tim Stark. Quest’anno il cartellone della rassegna ha il suo punto di forza nel Festival Shakespeariano, con messe in scena internazionali e, finalmente, un gemellaggio con il primo Festival Shakespeariano al mondo, quello della città natale del bardo di Stratford-On-Avon, da cui nel solstizio d’estate arriva a Verona il Sogno di una notte di mezza estate per la regia di Tim Supple, un sogno indiano ed etnico, ma ancora fedele al testo. Tim Stark è un giovane regista, proviene dal Royal National Theatre di Londra e ha già diretto Romeo&Juliet e, recentemente, un Re Lear che sottolineava la quasi endemica violenza di una società sempre più autodistruttiva. Il suo Giulio Cesare porterà in scena attori italiani, sarà molto fedele al testo e attualizzato secondo le abitu-

Luca Giordana

Franco Branciaroli

dini inglesi, giocando sull’ambiguità di tutti i personaggi e sulla difficoltà a circoscriverli nelle comode categorie del “buono” o del “cattivo”. Lo spettacolo, in programma in prima assoluta a Verona, sarà il culmine di un work-shop che, senza Franco Branciaroli, sarà presentato a Parma in maggio. La scelta del Giulio Cesare – dice Stark – si lega al suo essere un testo politico dove non è affatto chiara la contrapposizione tra bene e male. L’idea del nemico che è tra noi e della paura guidano il talento britannico nell’allestimento, così come la paranoia del potere, altro tema fondamentale: con le azioni di Cesare dettate dalla paura e dalla debolezza, con la violenza e l’uso delle armi sintomi non di forza o di potere ma di pavidità. Il nome di Cesare governa l’intero dramma, il cesarismo è al suo culmine fino all’imminente ratificazione monarchica e imperiale, con il parallelo costituirsi della congiura repubblicana che lo attacca. Assassinato Cesare, irrompe il nuovo cesarismo incarnato da Antonio, che con la sua orazione al popolo

sul corpo di Cesare morto cambia la storia. Il conflitto tra i due schieramenti politici, che esprimono anche due diverse concezioni del mondo, si consuma sempre in uno spazio pubblico: ruoli e destini dei personaggi si legano a opzioni ideologiche e a conseguenti fazioni, da sottoporre alla prova del popolo. Aa AA azioni A linguistiche volte alla persuasione della folla risultano centrali e il popolo, apparente protagonista della storia, è di fatto ciò su cui si compie la trasformazione in potere dei contrapposti orientamenti ideologici. A dominare è il paradigma della persuasione, la sua retorica di parte, la recitazione e la simulazione. Il regista induce a riflettere su quanto la storia non sia il risultato di programmi razionali, bensì di persuasioni. Tutti i personaggi parlano gli uni agli altri, o al popolo che deve convalidare il loro potere, sempre cercando di imporsi o di imporre un certo “contratto”, ricorrendo a simulazione e dissimulazione. Come a dire che non si dà azione politica se non all’interno di una qualche finzione.

Il regista Tim Stark

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Mostre di Maria GraziaTornisiello «L’acustica ci ha insegnato ben poco, poiché applicata allo studio dei suoni puri, ha quasi completamente trascurato, finora, lo studio dei rumori». Queste le parole di Luigi Russolo nel Manifesto dei rumori da lui redatto nel 1913. Pittore, compositore, incisore, esoterista, studioso di filosofia orientale, Russolo è una delle personalità più originali del Futurismo, di cui è stato uno dei teorici e fondatori. Per rendere omaggio a questo eclettico artista, il Mart, il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, fino al 17 settembre gli dedica una grande mostra antologica dal titolo “Luigi Russolo. Vita e opere di un futurista” a cura di Anna Gasparotto e Franco Tagliapietra. L’esposizione, prodotta dal Mart insieme alla Estorick Collection of Italian Art di Londra, è un’occasione per ripercorrere la vicenda artistica di Luigi Russolo, ed è stata costruita grazie ai numerosi documenti appartenenti all’archivio dell’artista. Il percorso della mostra è suddiviso in sei sezioni: i rapporti con i pittori lombardi simbolisti e divisionisti, l’attività incisoria e pittorica dal pre-futurismo al futurismo, l’attività musicale, la produzione pittorica post-futurista e, infine, il periodo parigino e spagnolo, il ritorno in Lombardia. Dalle idee espresse nel Manifesto dei rumori nacquero le sperimentazioni di spettacolari macchine sonore, chiamate gli “intonarumori”, con cui Russolo realizzò concerti e performance. Di questi apparecchi sono esposte delle ricostruzioni, create appositamente per l’occasione da Pietro Verardo, sulla base di nuovo materiale documentario, che ne migliora sensibilmente l’ac-

Luigi Russolo in una foto del 1930

ROVERETO-MART

Luigi Russolo vita e opere di un futurista Una grande mostra antologica aperta fino al 17 settembre e prodotta insieme alla Estorick Collection of Italian Art di Londra

sita un prezioso elemento di interattività. Presente inoltre anche il complesso della sua produzione incisoria, ed un nucleo di suoi dipinti futuristi e prefuturisti, accanto alle opere degli artisti a lui più vicini: Gaetano Previati, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Gino Seve-

curatezza filologica rispetto ad altre ricostruzioni del secolo scorso. I visitatori possono suonare gli apparecchi, aggiungendo così alla vi-

Qui sopra: “La Musica” A sinistra: “Impressioni di bombardamento, 1926”

rini, Romolo Romani e Ugo Piatti. La proiezione di tre film di Eugene Deslaw,“La marche des machines”, “Les nuits electriques” e “Montparnasse”, montati per l’occasione da Carlo Montanaro, con un accompagnamento musicale a cura di Daniele Lombardi, fanno da sottofondo al pubblico nel corso della visita. Russolo fu attratto dal movimento futurista fondato dal poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti, diffusosi in Italia agli inizi del ’900 e rapidamente la sua notorietà giunse anche all’estero. Il 1912 infatti, rappresentò per l’artista l’avvio di un “Grand Tour” europeo attraverso le maggiori capitali: Londra, Bruxelles, L’Aja, Amsterdam, Monaco e Budapest. I futuristi esplorarono ogni forma artistica, dalla pittura alla scultura, dalla letteratura alla poesia e al teatro, ma non trascurarono neppure la musica, l’architettura, la danza, la fotografia, il nascente cinema e persino la gastronomia. I principi fondamentali del Futurismo, che Marinetti riassunse nel “Manifesto del futurismo” del 1909, comprendevano un appassionato disgusto per le idee del passato, con un netto rifiuto della tradizione, specialmente di quella politica ed artistica, ed un’esaltazione della vita moderna e dei suoi aspetti più caratteristici: la velocità, le macchine, le nuove metropoli ed i complessi industriali. Ben presto però, con l’avvento della Grande Guerra, il movimento subì una scissione a causa dell’adesione di Marinetti al Partito fascista e della sua celebrazione della guerra come la migliore poesia futurista mai scritta. Le posizioni del futurismo giunsero fino alla seconda guerra mondiale, quando ormai il movimento sopravviveva a se stesso e fu proprio nell’intervallo tra le due guerre che le invenzioni rumoristiche di Russolo si spinsero persino alla cinematografia d’avanguardia, cui si interessò nel corso del suo soggiorno parigino dal 1928 al 1930. In quegli anni l’artista frequentò gli ambienti del cinema sperimentale e suonò i suoi strumenti, gli intonarumori e il “Russolophone”, durante le proiezioni allo “Studio 28”. Informazioni: tel. 800.397760; sito web: www.mart.trento.it

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Mostre PITTURA

La materia soggettiva Lo sguardo indagatore di Alice Castellani di Marta Frediani Quello che colpisce nella pittura di Alice Castellani, giovane artista veronese alla sua seconda personale, è la costante rivisitazione dei concetti di esterno e interno. Già presente nella serie dei “corpi”, il rapporto dialettico tra queste due istanze si esprime in una ricerca delle ragioni e delle manifestazioni dell’interiorità attraverso la rappresentazione dell’esteriorità. Il corpo, percepito dapprima come pura esteriorità e come forma volumetrica, spaziale e sensuale, si rivela essere la chiave d’accesso che porta dall’esteriorità all’interiorità. In questo senso la pittura di Alice Castellani si avvicina all’espressionismo, per l’uso di colori acidi e stridenti, di segni agitati attraverso cui si spiegano le sollecitazioni dell’interiorità. Allo stesso modo è rappresentata la città, non più vista nella sua natura oggettiva e naturalistica, ma trasfigurata dall’occhio interiore dell’artista. Diverse le opere dedicate alla città di Verona, ma non mancano soggetti differenti (Bruxelles, Palermo e altre città più oniriche che reali). I punti di vista sono differenti, insoliti, spesso non-verosimili. In “Coloured Amburgo”, la facciata di una palazzo diventa motivo per una struttura obliqua bidimensionale in cui i colori, piatti e semplificati, stravolgono il senso della posizione e dell’orientamento prospettico, riuscendo a trasmettere una percezione quasi materica e sensuale del costruito. L’opera si fa essenziale e concreta fino a diventare “materia”, come

in VERONA

Sopra: “Donne al fiume”. In basso: “Via Mazzini”

in “Città materica con sole giallo”. Il tratto è sempre nervoso, eccessivo, anche in questo senso espressionista. La rappresentazione recupera quindi il reale rivisitandolo in chiave irreale. La “irrealizzazione” è evidente, a partire dall’esecuzione stessa in “Piazza Bra” e “Verso via Mazzini”: queste fotografie, attraverso la loro rielaborazione, riflettono i luoghi cittadini in tutto il loro straniamento, con una nota di nostalgia dovuta all’impossibile ritorno al passato e forse alla

realtà stessa. In altre opere, il senso di irrealtà è dato dall’uso di colori non naturalistici: non più rappresentativi di alcunché, i colori si estendono al di là della loro significazione, diventano puri pretesti, sottolineano forme, agitano sensazioni. Proprio come in “Ragazza che legge arancio”, dove il corpo sembra emanare e trasmettere materia e luce, contribuendo a evidenziare l’assoluta concentrazione sull’interiorità che il corpo manifesta e al tempo stesso nasconde. Altre volte, come si è

detto, sono le prospettive anomale a creare un effetto onirico e di straniamento, una dilatazione dello sguardo soggettivo, quasi allucinato, come in “Le calze a righe”, dove la prospettiva frontale viene quasi compromessa dall’effetto ottico delle righe bianco nere delle calze. O come in “Primo lui blu”, dove il busto di un uomo supino potrebbe sembrare un acido paesaggio collinare, illusione ottica aiutata dall’assenza del volto dell’uomo, e dalla rappresentazione spessa e marcata delle linee del corpo. Nel suo passaggio dal corpo alla città Alice Castellani conferma la priorità data all’interiorità e alla soggettività. Il corpo, ancora collegato fisicamente all’idea di un soggetto, lascia il posto alla rappresentazione “esterna” per eccellenza, l’ambiente urbano. Una fuga che non fa che ribadire la sostanziale impossibilità dell’artista di rappresentare alcunché oggettivamente. Alice Castellani ha partecipato, nel marzo 2004, presso lo spazio espositivo dell’ex Macello in Corte Filippini a Verona, alla collettiva Colori di donna. Nel settembre 2004 ha preso parte alla collettiva Arte Presente - Arte Futura organizzata dal Comune di Verona in collaborazione con ARS Associazione Culturale, presso l’ex Arsenale Austriaco di Verona. La prima personale, Alchimie di corpi emotivi e sensazioni variabili, si è tenuta nel 2005 presso Art Gallery di Verona. Dal 14 maggio 2006 è al Cecchi bar di Verona con la seconda personale, Suggestioni urbane, visioni miste di città.

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Scienze di Angelo Brugnoli Il Museo Civico di Storia Naturale di Verona ha accumulato negli anni diverse migliaia di fotografie, dedicate principalmente alla descrizione delle collezioni, ma anche frutto di campagne di ricerca e scavo sul territorio o nella documentazione di eventi pubblici quali mostre o convegni. A questo ampio nucleo di fotografie, tipicamente su lastra e pellicola o stampato su carta, si è aggiunto negli anni recenti la travolgente valanga delle fotografie digitali. Nata per facilitarci la vita, la fotografia digitale si sta rivelando molto complessa nella gestione e nella conservazione dei files. Nel tentativo, iniziato ormai da alcuni anni, di riordinare e riunire insieme tutto il materiale fotografico, il museo ha iniziato una schedatura ricognitiva, riscoprendo così alcuni fondi fotografici di grande interesse. Le scoperte più interessanti sono avvenute “scavando” negli archivi delle sezioni del museo. Ecco allora comparire lastre fotografiche, scatolini di stampe “old fashion” con quelle belle cornicette dentellate che si usavano una volta, fotografie montate con passpartout d’annata, il tutto riproducente preparati animali, sale del museo anteguerra, siti naturalistici, personaggi e momenti di vita del museo. Questi soggetti fotografici risultano il più delle volte assolutamente inediti e l’immagine o il materiale fotografico manca di annotazioni riguardanti luoghi, nomi, vicende. Da una parte la fotografica scientifica e catalografica, minuziosamente e precisamente annotata e sistemata, dall’altra quelle immagini di vita ordinaria in cui compaiono celebri ricercatori naturalisti nelle classiche foto di gruppo oppure in momenti di attività sul campo. Si tratta di documenti curiosi, affollati di volti che spesso non sono riconoscibili. Ecco allora nascere la necessità di scansionare tutto il materiale al fine sì di conservare meglio l’informazione fotografica, ma anche per facilitare la distribuzione e così la visione da parte di chi ancora ricorda vicende e volti rappresentati. Il museo di Storia naturale può dirsi fortunato, potendo ancora oggi recuperare dalla

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MUSEO DI STORIA NATURALE

Le immagini come memoria Accumuli, anno dopo anno, di ricordi e testimonianze del passato

Il Museo Civico di Storia Naturale di Verona ha raccolto diverse migliaia di fotografie, dedicate alla descrizione delle collezioni, ma anche frutto di campagne di ricerca e scavo sul territorio memoria sempre vivida del professor Sandro Ruffo, profondo conoscitore delle vicende del museo per tutto il secolo passato, i nomi, le date e le circostanze di molto materiale fotografico, altrimenti muto. Aspetti certamente curiosi rivelano vecchie fotografie di oggetti naturali; non infrequentemente si tratta di materiali che non risultano più presenti nelle collezioni, per cause belliche o naturali, oppure di oggetti dei quali non si conosceva neppure l’esistenza. E in questo gioco di “scatole cinesi” si arrivano a scoprire aspetti veramente curiosi dell’attività del museo e delle persone che lo hanno frequentato negli ultimi cento anni. A questo genere appartiene la foto che riproduce una scheda fotografica nella quale è possibile distinguere una giraffa, mentre la segnatura sul cartellino recita: «Esemplari che vivono in schiavitù nel giardino del Nobil conte Dottor Enrico Cartolari di Verona». Il conte Cartolari aveva

domicilio a Isola della Scala e forse proprio là deve collocarsi questo “serraglio” che sembra aver ospitato diversi animali. La grafia è quella di Vittorio Dal Nero, prima preparatore e poi direttore del museo, ed è anche del medesimo autore il raro ibrido naturale di germano e mestolone (nella foto), fotografato da Sartori in un’altra stampa montata. L’immagine mostra l’animale naturalizzato, cioè imbalsamato; oggi non sembra essere presente nei depositi del museo. Forse la fotografia ritrae l’animale preparato da Dal Nero per qualche privato, cacciatore o appassionato collezionista dell’epoca. Non di meno resta una preziosa testimonianza di rapporti, interessi, studi del personale scientifico del museo agli inizi del secolo scorso. Di tutt’altra natura è invece il fondo fotografico digitale denominato Archivio Storico Virtuale. Esso raccoglie in un apposito database fotografico le scansioni di documenti, fotografie, manoscritti, let-

tere e quant’altro riguardi la storia del Museo o delle sue collezioni. Nato due anni fa sull’esigenza di reperire materiale iconografico per una pubblicazione storiografica, grazie alla disponibilità di enti diversi che hanno messo a disposizione i propri fondi documentali, oggi raccoglie una documentazione ricca e variegata che abbraccia gli anni che vanno dalla cessione di Palazzo Pompei al Comune (1833) alla seconda metà del 900. Raccoglie quindi l’attività dei protagonisti della storia del Museo Civico, quali Cesare Bernasconi, Pietro Sgulmero, Giuseppe Gerola, Achille Forti, Filippo Nereo Vignola, Abramo Massalongo e figli, Edoardo De Betta, Vittorio Dal Nero, Antonio Avena e molti altri. Questo vero e proprio “scavo documentale” ha permesso di individuare materiali molto interessanti, sui quali andranno effettuati approfonditi studi. Per esempio, un nucleo rilevante di documenti riguarda l’accorpamento al Palazzo Pompei di una nuova ala di edificio di proprietà della famiglia Carlotti ed il successivo adattamento a sede museale: mappe e richieste di interventi architettonici alla Congregazione Municipale e alla Delegazione Provinciale, entrambe di Verona, oppure di semplice manutenzione, la sistemazione e l’allestimento delle sale, l’acquisto di mobili e vetrine per ospitare le collezioni, l’assegnazione degli incarichi e la nomina di commissioni. Un ambito di straordinario interesse è quello relativo alla gestione del Museo, con documenti che testimoniano le azioni finalizzate all’aumento progressivo delle collezioni, alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio con particolare attenzione alle collezioni naturalistiche. L’opera di ricerca e divulgazione del museo è testimoniata dalla fitta corrispondenza con istituzioni italiane ed europee per pubblicazioni, ricerca e, non ultimo, scambi. Tutto questo materiale documentale, che ammonta ad oggi a più di 1000 schede inventariali e a più di 40 Gigabyte di immagini digitalizzate, è in costante ed esponenziale aumento, grazie anche alla continua individuazione di nuovi fondi e raccolte documentali di interesse per il Museo e la sua storia.

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Territorio ESCURSIONE IN LESSINIA

Sulle tracce dei contrabbandieri Un interessante percorso nella natura che parte da Campofontana e raggiunge il Gruppo del Carega passando per Cima Lobbia

di Guido Gonzato A causa della sua maggiore lontananza dalla città, la Lessinia orientale viene spesso trascurata dai veronesi, che per le loro gite montane preferiscono destinazioni più tradizionali come San Giorgio o altre località dei Lessini centrali. Ma l’ultimo bastione orientale dei Lessini veronesi vale sicuramente una mezz’ora in più di viaggio. Il paesaggio della Lessinia orientale è più selvaggio, quasi sempre più boscoso, e dominato dalla vicinanza delle imponenti cime delle Piccole Dolomiti. Uno dei percorsi più belli dell’intera Lessinia è quello che parte da Campofontana e raggiunge il Gruppo del Carega passando per Cima Lobbia e seguendo poi il confine di provincia. L’intero tragitto è troppo lungo per essere percorso in un solo giorno, ma è sempre possibile scegliere quanta strada si vuole fare. Anche il solo tratto iniziale permette di organizzare una bella escursione che può durare una mattinata o una giornata. La strada che conduce a Campofontana è già tutto un programma. È difficile non farsi distrarre nella guida guardando il magnifico panorama, così diverso rispetto a quello che si gode sull’altopiano dei Lessini centrali. Come sempre, è la geologia della zona a condizionare il paesaggio: stiamo avvicinandoci alla zona vulcanica vicenti-

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Il massiccio del Carega

na, e il substrato roccioso è sconvolto da pieghe, fratture e alterazioni. Andiamo con ordine. Giunti a Campofontana, lasciamo la macchina al parcheggio di fronte al cimitero e prendiamo il sentierino che lo oltrepassa sulla sinistra. Ci aspetta una salita non molto impegnativa sul fianco del Monte Telegrafo che dischiude, man mano che si sale, il magnifico panorama verso i Lessini. In prossimità delle prime malghe, la salita aumenta e il sentiero si avvicina al margine della Val d’Illasi. Ci dà il benvenuto un imponente faggio secolare. Se la giornata è limpida, il panorama sulle pareti rocciose sul lato opposto della valle è spettacolare e vale la pena fermarsi, anche per tirare il fiato. Riprendendo il cammino, dopo pochi minuti si arriva a malga Porto di Sopra, ricavata dalla vecchia caserma della Finanza. Fino

al 1915, infatti, qui correva il vecchio confine tra Italia e Austria, e la povera gente della Lessinia arrotondava il bilancio familiare ricorrendo al contrabbando. Dietro alle caserme, sulla destra, si apre una valletta laterale. A costo di allungare un po’ il percorso, è meglio seguirne il crinale. Verso la parte alta della valletta si nota una tipica “città di roccia” incisa nel rosso ammonitico, sul cui orlo – con attenzione, c’è il precipizio! – potrete affacciarvi per ammirare il magnifico panorama su Campodalbero; si nota in particolare l’impressionante cono vulcanico della Purga di Durlo. Nella valletta ci sono numerose tane di marmotte, specialmente vicino alle pozze. Durante la buona stagione, se fate piano potrete osservare le marmotte al pascolo; di sicuro sentirete il caratteristico fischio di allarme lanciato dalle sentinelle. Purtroppo è difficile Orbettino

avvicinarle, tranne che in autunno: prima del letargo sono molto occupate a ingrassare e perdono un po’ della loro timidezza. Riprendendo il sentiero, si sale fino a giungere al successivo punto panoramico, cima Lobbia. Qui l’escursione potrebbe concludersi se avete poco tempo, ma si consiglia di proseguire verso nord, superare un saltino un po’ disagevole e inoltrarsi nella splendida faggeta. Da qui in avanti il paesaggio diventa tipicamente montano, sembra proprio di trovarsi in Trentino. Scegliete voi quanto proseguire, tenendo presente che più andate avanti, più spettacolare diventa il percorso. Vi aspettano il Passo della Scagina, la testata della Val Fraselle e, se avete una buona andatura, il passo Zevola. In una sola giornata non è consigliabile andare oltre. Ma è certo che quanto visto fino a questo punto vi invoglierà ad organizzare un’escursione di due giorni che vi consentirà di raggiungere il Carega a Passo Scalorbi.



IMPARARE A VIVERE MEGLIO

Il valore dei soldi Qual è il valore del denaro per la psicoanalisi? Presi da troppe cose effimere ci sta un po’ sfuggendo la situazione di mano. Ecco come migliorare la nostra posizione di Alessandro Norsa «I ghe vol schei», «i ghe vol sempre piassé schei», «massa schei», «quanto éto dito che custa? ...gnanca schei». Quante volte ogni giorno sentiamo parlare di “schei”, di soldi, e quanta importanza ne diamo? Certo, questo è un periodo di grossa incertezza economica ed è normale che, rappresentando una preoccupazione, se ne parli di più. Credo però che nella nostra città l’aspetto economico abbia avuto una certa importanza. Sarebbe un’ipocrisia attribuire al denaro nessuna importanza. Sono stato testimone, nella mia pratica professionale di psicoterapeuta, di situazioni paradossali come ad esempio una madre che istruiva la figlia su come scegliere il fidanzato: «stai attenta sai, perché l’amore passa, ma i soldi restano». Ma vediamo qual è il valore del denaro per la psicoanalisi che, nella sua teorizzazione originale freudiana, assimila le dinamiche del bambino nelle sue prime fasi di vita a quelle che si possono osservare anche negli adulti, in relazione ai momenti infantili dove hanno trovato maggiori difficoltà. In questa chiave di lettura dall’associazione simbolica feci-denaro nasce la primitiva acquisizione del significato di “proprietà”: il rilascio delle

Il meccanismo dell’invidia è piuttosto subdolo, anche perché è uno dei sentimenti più difficili da ammettere, in quanto non è socialmente approvato. Esso nasce da una sofferenza: la mancanza. La persona che prova questo sentimento quando si trova con un’altra che soffre della stessa mancanza non prova invidia, anzi, si sente molto partecipe...

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Quante volte ogni giorno sentiamo parlare di soldi? Questo è un periodo di grossa incertezza economica ed è normale che se ne parli di più. Sarebbe un’ipocrisia attribuire al denaro nessuna importanza L’invidia

feci da parte del bambino nei momenti opportuni è spesso rinforzato dagli adulti, tanto che si innesca un’idea di possesso di qualche cosa di prezioso per poter ottenere approvazione-affetto. Le feci, quindi, hanno per il bambino la stessa funzione di merce di scambio che verrà svolta più tardi dal denaro per l’adulto. Nel nostro quotidiano trovo particolarmente evidenti due dinamiche, la “sterilizzazione” dei rapporti, e l’invidia. Per quanto riguarda la prima, questa consiste nel far scomparire l’umanità dalla scena sociale. La brama di arricchirsi a ogni costo, il gusto degli affari, l’amore del guadagno, la ricerca del benessere e dei piaceri materiali, sostituisce rapporti personali con relazioni “sterilizzate”, limitate alla possibilità di profitto. La seconda dinamica è quella dell’invidia in quanto il denaro può essere il tramite simbolico anche di “approvazione e riconoscimento”. Il meccanismo dell’invidia è piuttosto subdolo, anche perché è tra i sentimenti uno dei più difficili da ammettere ed accettare, in quanto non è socialmente approvato. Esso nasce da una sofferenza: la mancanza. La persona che prova questo sentimento quando si trova con un’altra che soffre della stessa mancanza non prova invidia, anzi si

sente emotivamente molto partecipe. A questo punto può mettere in atto comportamenti solidali, oppure sentire una particolare ansietà perché sta riconoscendo attraverso l’altro la propria mancanza. Il problema aumenta quando il sofferente si trova di fronte a chi effettivamente ha: in questo caso il comportamento che metterà in atto sarà di tipo distruttivo. Eppure è possibile trovare atteggiamenti più positivi. Due recenti viaggi in India e Romania mi hanno insegnato che la vera ricchezza è la “relazione” con le persone. L’uomo ricco e solo non è felice, anzi tenderà sempre di più a cercare di “accaparrarsi” maggiori ricchezze e potere per compensare alla propria solitudine. È vero che dalla relazione può nascere anche un aspetto economico, ma è necessario che questo non sia il fine, altrimenti si cadrà in uno stato di solitudine per l’inconsistenza delle relazioni. Come mi diceva una persona in un villaggio del Maramurefl (nord della Romania), «bani nu duc ferocia»,“i soldi non portano la felicità”. Mi sono ricordato allora che questo era un detto anche della nostra terra, «i schei no i è tuto», che non sentivo da tanto tempo. Un’indicazione a recuperare qualcosa di originario e che ci appartiene, e che, presi da tante cose effimere, forse ci sta un po’ sfuggendo. Per quanto riguarda la dinamica dell’invidia, varrebbe la pena, se ci fossimo identificati in questa dimensione, di concentrarci sulla nostra situazione, cercando di migliorare la nostra posizione. In questo modo eviteremmo quel pericoloso tranello dell’invidia che porterebbe alla distruttività nostra prima ancora che del prossimo. Anche qui, se volessimo recuperare un detto popolare, potremmo dire: «chi semina grano miete frumento, chi semina grandine raccoglie tempesta».

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Libri LA CASA EDITRICE

Perosini editore Filosofia di una piccola casa editrice con la passione per la cultura e per le avventure, in viaggio tra orizzonti lontani e autori locali

di Francesca Paradiso È iniziata quasi per caso l’avventura di Pierluigi Perosini, fondatore nel 1984 dell’omonima casa editrice a Zevio di Verona. «Insieme a quattro amici volevamo creare un giornale locale, ma mancava l’editore che lo pubblicasse. E così mi sono proposto e dal bimestrale Prima Pagina è nata la mia attività». Dal novembre di 22 anni fa, la passione dell’editore non si è mai arrestata dando vita a numerose pubblicazioni. «Il libro ha una capacità coinvolgente», commenta Perosini, «con esso e con le persone che vi lavorano intorno si instaura una relazione unica. Nasce con la casa editrice una scommessa, una sfida quotidiana, nel sostenere le idee che la contraddistinguono». La città di Verona è stato il primo interesse dell’azienda, con autori locali, poeti e letterati zeviani come Dino Coltro, ora nella collana Veronesitudine. Altre due raccolte, Avventure e Salgarina, sono state dedicate a scrittori scaligeri che grazie ai loro racconti hanno mostrato nuovi orizzonti, accompagnando i lettori in avventure e luoghi lontani, fuori delle mura della città. «Era necessario riportare alla luce questo patrimonio letterario recuperato dagli scaffali della Biblioteca Civica». E così Perosini si è concentrato sul romanziere Salgari e sul missionario Comboni che tra ’800 e ’900 hanno viaggiato e raccontato moltissimo. Un selezionato catalogo di saggistica, poesia e narrativa fa di questa piccola casa editrice un importante riferimento per Verona. Perosini distribuisce nel Triveneto e man-

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letto di Roberto Puliero e Ampelio Buriana Noantri, vincitore del concorso “Non gh’è verso”. La casa zeviana ha pubblicato anche Tutto cominciò con Bilbolbul, storia del fumetto italiano, di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomo. Perosini nell’editoria si descrive come un “giardiniere”. Con cura coltiva cose belle, sui libri di notte, nel tempo libero e nei fine settimana, e contro gli imprevisti della natura continua a lavorare il suo piccolo orto.

Pierluigi Perosini

tiene contatti diretti con il territorio nazionale. «Il ruolo di “piccola”, – dice l’imprenditore –, ha certo una fragilità nell’aspetto economico, stare ai margini permette però di scegliere cosa pubblicare. Non fagocito tutto come le grandi aziende, ma faccio della mia debolezza un pregio, concentrandomi più sulla cultura che sull’aspetto commerciale». E da questa filosofia nascono le collane Alfabeti e Ghiribizzi. La prima propone letterature del Sud del mondo, ristabilendo con i paesi dominati un rapporto più equo. Rumba Palace, Come raccogliere l’ombra dei fiori, La sordida ragnatela della mansuetudine sono opere di autori di Santo Domingo e dell’Avana a cui è riconosciuta una propria identità culturale. «Questa collana – dice Perosini – sostiene progetti nei paesi poveri, in collaborazione con organizzazioni non governative che operano per il loro autosviluppo». Ghiribizzi è dedicata ad esordienti e giovani scrittori. La casa editrice investe molte energie in questo, anche se l’editore spiega che «non si può pubblicare indiscriminata-

mente: nella nostra sede di Zevio arrivano molti manoscritti, ma essere scrittori non è così semplice come sembra». L’ultima pubblicazione appartiene alla collana Fiordalisi, dedicata alla narrativa allargata, Darina Laracy Silone è il racconto di una donna straordinaria che avviene mediante colloqui. Passato e futuro sul tavolo di Pierlugi Perosini. «I libri a cui sono più legato sono quelli che mi ricordano le persone, anche quelle scomparse. Due maestri su tutti, due persone cristalline che ha torto sono state trascurate dalla grande editoria, Eugenio Tomiolo e Umberto Bellintani». Autori presenti in Paradigmi, collana di poesia in lingua e in dialetto, con linguaggi che spaziano dal classico al nuovo. Tra i libri più venduti Il lampo di Hiroshima, giunto in Italia solo grazie alla casa editrice scaligera. Già pubblicato nel mondo in 13 lingue, quasi rischiava di passare inosservato nel nostro paese. Hanno poi conquistato il pubblico veronese le poesie in dia-

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Giornale di attualità e cultura Direttore

Giorgio Montolli g.mont@libero.it Redazione

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Croma - Verona Registrazione al Tribunale di Verona n° 1557 del 29 settembre 2003

N° 11/giugno 2006 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.

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Giugno 2006




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