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12 - OTTOBRE 2006 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
Primo piano
Mancano i soldi? Ci pensino i turisti
In copertina foto di Francesco Passarella
In Comune c’è chi propone di far pagare una tassa ai turisti che soggiornano a Verona. Con i proventi si potrebbero finanziare le spese culturali, in particolare quelle relative agli spettacoli in Arena e al Teatro Romano. L’idea di un ticket per visitare Verona lascia perplessi. E chi vive sul turismo che responsabilità ha nei confronti dell’offerta culturale cittadina?
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Noi faremmo diversamente. Anche ricordando che nell’antica Grecia il viandante era sacro e posto sotto la protezione di Zeus. Così, invece di far pagare al turista il ticket per il soggiorno in città, come qualcuno propone, preferiremmo spedirgli dei buoni spesa a casa, in Germania, Olanda o qualsivoglia Paese, da utilizzare a Verona durante l’auspicabile visita, con tanto di invito del sindaco per un soggiorno nella città di Giulietta e Romeo. Questione di punti di vista, ma chissà come mai rimane in noi la convinzione che far pagare il biglietto a chi fa centinaia, migliaia di chilometri per venirci a trovare non è il modo giusto per far breccia nei cuori e nelle menti dei potenziali visitatori, o per “fidelizzare” i clienti, come si dice oggi con questa orribile parola. Insomma, non è un bel seminare, neppure con l’attenuante dell’urgenza di reperire denaro dopo i tagli del Governo agli enti locali. Non è neppure elegante e dà piuttosto la misura di quanto poco ospitali si sia in un’epoca dove la buona accoglienza torna a essere un valore apprezzato. Fai pagare il ticket agli amici che vengono a trovarti? No, se vuoi rivederli. E perché mai una città, con i suoi cittadini padroni di casa, dovrebbe comportarsi diversamente? Basti pensare che a Venezia l’idea è nata per disincentivare le visite, dal momento che in certi periodi dell’anno i campi e le calli letteralmente scoppiano e i residenti non ne possono davvero più. Di quanto sia poco opportuno questo modo di procedere se ne rendono ben conto gli albergatori e tutti coloro che di turismo vivono, perché su di esso hanno costruito le loro fortune. Sono le impressioni di chi conosce bene la soglia di sopportabilità di spesa del turista, già messa a dura prova in una città che economica certo non è: il riferimento è alle spese
che deve sostenere chi a Verona vuole trovare vitto e alloggio. A parlare di tassa sul soggiorno dei forestieri torna alla mente la sequenza comica del dazio inserita nel film Non ci resta che piangere, con Benigni e Troisi, dove i protagonisti devono ripetutamente pagare un pedaggio per poter passare con il loro carro: «Alt! chi siete?... un fiorino!». E non sarebbero pochi “fiorini”, tenuto conto che il flusso dei turisti a Verona è di circa 1 milione di presenze l’anno. Si parla di una tassa da 1 a 5 euro, quindi, nell’ipotesi peggiore, 1 milione di euro l’anno che servirebbero per finanziare la Fondazione Arena e le rassegne estive al Teatro Romano, che per sopravvivere non sanno più a che santo votarsi. Un intento nobile, se non fosse che far pagare agli altri quello che non riusciamo a far funzionare noi di nobile non ha proprio niente. Tutti sono contrari a sborsare soldi per nuove tasse, ma se a sborsare sono gli altri – deve essere stato il ragionamento – non potrà che esserci il consenso generale. Ed ecco come è spuntato il coniglio, tutto nero per quanto ci riguarda, uscito dal classico cilindro. Tornando agli alberghi: sono davvero troppo cari? Forse, ma sarebbe niente se una piccola parte degli introiti (e si tratta ancora di denaro che proviene dai turisti) fosse poi utilizzata per potenziare l’offerta culturale della città. Un dovere di tutti i veronesi, ma in particolare di chi dalle bellezze di Verona, patrimonio comune, trae anche un vantaggio economico. Allora tassare chi vive grazie al turismo? Brutta parola. Piuttosto responsabilizzare gli operatori del settore convincendoli che si tratta di investimenti necessari a rendere appetibile l’offerta turistica, tutto a vantaggio della propria attività. g.m. g.mont@libero.it
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Attualità Alcuni lettori ci hanno chiesto di trattare argomenti non solo veronesi, di allargare gli orizzonti e i temi di riflessione. La vocazione di Verona In, come del resto dice il nome della testata, è quella di un giornale ancorato al territorio. Questo però non significa escludere tutto ciò che veronese non è. Ne abbiamo discusso in redazione e la sintesi l’abbiamo trovata nella scelta di affrontare localmente alcuni temi di attualità nazionale per vedere come la città li metabolizza, li elabora e cosa ne esce come contributo veronese al dibattito generale. Però l’idea di dire la nostra sul resto del mondo in un tempo che offre strumenti di comunicazione planetari ci
«Italia-in» Per dire la vostra su quanto accade in Italia e nel mondo ha solleticato non poco. Ed ecco quindi un’altra idea: non sarà il giornale cartaceo, questo che distribuiamo nelle librerie, a ospitare commenti e opinioni che poco hanno a che fare con la città, ma una sua appendice su internet, più adatta allo scopo per il fatto che i potenziali lettori qui non hanno
davvero confini. Oltre al sito www.veronain.it, dove puntualmente trovate inseriti gli articoli del giornale, da questo indirizzo è ora possibile accedere a Italia-in. Si tratta di uno spazio da noi gestito dove la redazione di Verona In periodicamente inserisce dei messaggi che possono essere commentati da tutti, anche in forma anonima. Si può facilmente accedere al blog da ogni parte del mondo e non serve alcuna registrazione. In queste pagine pubblichiamo alcuni dei nostri interventi inseriti recentemente sul blog di Verona In, per spiegare bene di cosa si tratta anche ai meno esperti. Vi aspettiamo in internet.
INTERNET
Il «blog» di Verona In Vi si accede digitando l’indirizzo del nostro sito www.verona-in.it. Tutti possono intervenire, anche in forma anonima, per commentare i messaggi lasciati dalla redazione. Ne riportiamo alcuni tra quelli inseriti in rete fino a oggi
Molti messaggi riguardano l’attualità. Così scorrendo le pagine del blog è possibile avere una panoramica su quanto è accaduto nel tempo e come i fatti sono stati commentati. Tra gli argomenti inseriti finora il Papa e l’Islam, l’11 settembre, le tasse, il prezzo dei carburanti...
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09-10-2006 Beppe Grillo contro l'alcol Beppe Grillo parlando al TG1 è riuscito a fare una cosa molto bella. Ha utilizzato la propria notorietà per dire ai giovani di andarci piano con l’alcol. Secondo i dati Istat nel periodo 1998-2001 c’è stato un forte aumento dei consumatori di bevande alcoliche tra gli adolescenti di età compresa tra i 14 e i 16 anni, con incrementi dell'11,7% tra i maschi e del 16,5% tra le femmine. Alcuni di loro sono già diventati alcolisti e nel corso della vita potrebbero sviluppare gravi malattie correlate all’abuso di alcol. Ma Grillo ha fatto di più. Ha pubblicamente denunciato i produttori di quelle bibite destinate con abili campagne pubblicitarie ai giovanissimi e contenenti piccole dosi di alcol, quanto basta per creare nel tempo una dipendenza. Una subdola strategia di mercato per garantire i clienti negli anni a venire.
02-10-2006 Teatro, reality e scelte intelligenti Siamo stati al Teatro Olimpico di Vicenza per vedere Medea di Euripide, per la regia di Piero Maccarinelli, con la bravissima Lina Sastri (nella foto) nel ruolo della protagonista, nell’ambito del 59° Ciclo di Spettacoli Classici diretto da Luca De Fusco, promosso dal Comune di Vicenza e dal Teatro Stabile del Veneto. È sempre un’emozione forte assistere a queste recite. La tragedia greca ha il pregio, in un’epoca di rumori, di riportarci con i suoi contenuti all’essenzialità dell’animo umano, grazie a forme di comunicazione semplici, alla portata di tutti. Gli attori sono sempre straordinari, anche per la scelta che hanno fatto di calcare le scene dei teatri piuttosto che i set televisivi. Viene spontaneo il confronto con quanto propone il piccolo schermo in questo periodo. Il riferimento è a quel concentrato di banalità sen-
za senso che sono i reality. Per non assorbire tanta stupidità e diventare noi stessi banali a volte sarebbe davvero meglio spegnere il televisore e trovare delle alternative. 29-09-2006 Benigni: caro Roberto, cambia Produzione «Lo sai che i papaveri son alti alti alti e tu sei piccolina che cosa ci vuoi far!». Ehi Roberto, cosa ci combini? Volevamo venirti a sentire in Arena mentre recitavi Dante… E invece no. La tua “Produzione” non ha ritenuto degno il nostro giornale di due accrediti per la stampa (2000 copie distribuite nelle librerie di Verona e www.verona-in.it). E ce lo hanno detto il giorno stesso dello spettacolo, cioè oggi. O meglio ci hanno spedito una mail quelli di “Eventi”, gli organizzatori veronesi, che però dicono di non essere loro i responsabili della nostra bocciatura, che sarebbe da attri-
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Attualità buire ad “Arcobaleno Tre”, la tua Produzione appunto. Con questi nei giorni scorsi è stato impossibile parlare: alle mail non rispondono, ai fax non rispondono, su internet non ci sono, il numero di telefono è patrimonio di pochi eletti. Peggio della peggiore compagnia telefonica. Ti mandiamo il nostro giornale Roberto. E cambia Produzione: questi sono proprio degli sfigati. Non perché non ci hanno dato i biglietti, ma perché sono dei maleducati. Con affetto 25-09-2006 Confrontig the evidence. Allucinante. Abbiamo visto su Rai 3 Confrontig the evidence, il filmato prodotto dal miliardario americano Jimmi Walter che mette in forte discussione la verità ufficiale attorno agli attentati terroristici dell’11 settembre. Bene ha fatto Report a trasmetterlo perché si tratta di un lavoro giornalistico ben fatto. C’è da rimanere allibiti per alcune ipotesi formulate che troverebbero sostegno dalle analisi di esperti. Ad esempio quella sul crollo delle torri, che secondo il filmato sarebbe avvenuto facendo detonare cariche predisposte prima dell’attentato. Oppure la mancanza di una qualsiasi immagine, in una zona zeppa di telecamere, che documenti l’impatto del Boing con il terzo obiettivo, il Pentagono. Sono sconcertanti anche alcune ipotesi circa il complotto che vedrebbe invischiati gli USA, le ombre gettate su chi probabilmente era stato informato e avrebbe taciuto, lo sfondo degli enormi interessi economici che il film vede come chiave per far luce sull’attentato. Chiediamo siano riaperti i lavori della Commmissione di inchiesta, siano ascoltati tutti i testimoni e verificate tutte le testimonianze. Di fronte a una denuncia del genere se non saranno smentite queste tesi allucinanti non potremo certo continuare a parlare degli USA come della più grande democrazia del mondo. 21-09-2006 Il Papa e l’Islam. E adesso? Le parole di Benedetto XVI e le reazioni che il suo discorso al-
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l’Università di Ratisbona ha provocato tra i musulmani hanno suscitato una verifica nel pensiero occidentale più tollerante nei riguardi dell’Islam. Fornire elementi di confronto tra le due religioni, Islam e il Cristianesimo, forse non è stata una scelta opportuna, ma ci ha dato modo di percepire che, seppure occasionalmente, tra i musulmani è comunque possibile una compattezza tra estremisti e moderati. Con i successivi distinguo, ma la percezione in questo senso è stata forte. Registriamo che anche ambienti ostili al Papa hanno iniziato una verifica per capire che senso dare alla parola tolleranza. Registriamo che nessuno, cristiani e musulmani, ha ancora pensato ad un incontro di alto livello per discutere in modo ecumenico e costruttivo sul problema teologico sollevato da Papa Ratzinger.
crisi, ma che non sono mai state tolte: 1,90 lire per la guerra in Abissinia (1935); 14 lire per la crisi di Suez (1956); 10 lire per il disastro del Vajont (1963); 10 lire per l’alluvione di Firenze (1966); 10 lire per il terremoto del Belice (1968); 99 lire per il terremoto del Friuli (1976); 75 lire per il terremoto dell’Irpinia (1980); 205 lire per la missione di pace in Libano (1983); 22 lire per la missione di pace in Bosnia (1996); 0,02 euro per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri (2004). Il totale di queste imposte è di 0,251 euro, il 20% circa del costo totale della benzina alla pompa. (Fonte Focus). Chissà se questi soldi lo Stato continua a versarli ai diretti interessati. 14-09-2006 Abbasso i fricchettoni Questo messaggio lo vogliamo dedicare ai fricchettoni e alle fricchettone. Gente che vota a sinistra
11-09-2006 11 settembre: cosa facevate? Cosa facevate quel giorno mentre radio e televisioni di tutto il mondo davano la notizia dell’attentato alle torri gemelle? La tragica notizia ha cristallizzato quei ricordi che sono rimasti come una cicatrice nello svolgersi della nostra esistenza. Ricordiamo l’11 settembre allora, non solo per l’attentato che ha sconvolto il
16-09-2006 Benzina: Governo ladro! Il costo della benzina verde in Italia oggi è di 1,282 euro (prezzo medio del 15 settembre 2006). La componente fiscale (accise) di tale prezzo è di circa il 65%. Quello che pochi sanno è che nelle tasse che paghiamo sul carburante ce ne sono alcune che dovevano essere una tantum, per fronteggiare momenti di
con un bel conto in banca o papà che finanzia. Casa propria lontana dalle periferie, lavoro saltuario (tanto non ce ne sarebbe bisogno), feste, concerti, spinelli, meditazioni trascendentali, discreta o buona cultura... Alternativi a parole e nell’immagine ma sempre ben al riparo da ogni fatica: non sanno nulla dei problemi della vita e perciò sono inaffida-
mondo, ma per ciò che stavamo vivendo in quel momento, in opposizione all’enormità del male che si stava producendo. Anche questo è un modo per affermare il diritto alla pace: raccontare i gesti semplici di tanta gente che quel giorno a quell’ora costruiva l’altra storia, quella quotidiana di miliardi di persone e non quella di pochi fanatici assassini.
bili. Prediligono le frequentazioni proletarie, per il fascino che emanano le zone disagiate, per il brivido che provocano. Facile, quando in ogni istante è possibile sottrarsi e trovare sollievo in salotti buoni e raffinati. Attenti anche negli affetti: sono bambini-e viziati che vivono della bontà e degli ideali altrui ma al momento opportuno, quando il giocattolo si rompe, sanno bene da che parte stare.
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Attualità MEDICINA
«Aiutiamo le coppie a concepire dei figli» Procreazione medicalmente assistita. Così risponde Verona nonostante i limiti di una legge dalle tante implicazioni etiche. Liste di attesa molto lunghe
L’età delle coppie che si rivolge ai centri di procreazione medicalmente assistita è sempre più avanzata, 35-38 anni la media attuale. Ma cosa accade quando in una famiglia il desiderio di un figlio si scontra con l’impossibilità fisica a generarlo?
di Cinzia Inguanta La legge sulla fecondazione assistita ha dovuto affrontare i problemi legati alla tutela della salute riproduttiva, un aspetto molto delicato per i risvolti etici connessi. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite “La salute riproduttiva è uno stato di completo benessere fisico, mentale e relazionale e non semplicemente l’assenza di condizioni patologiche o infermità che riguardino il sistema riproduttivo”. Che cosa accade quando in una famiglia il desiderio di un figlio si scontra con l’impossibilità fisica a generarlo? Per cercare di capire cosa vuol dire per una coppia avvicinarsi alla procreazione medicalmente assistita (PMA)abbiamo parlato con la dottoressa Gabriella Torregrossa, responsabile del Centro privato Athena di Verona, con il
dott. Stefano Zaffagnini, operatore del Centro per la diagnosi e la terapia della sterilità e dell’infertilità di coppia del Policlinico di Borgo Roma, nonché direttore scientifico del Centro privato Tethys. L’età delle coppie che si rivolge ai centri di procreazione medicalmente assistita è sempre
più avanzata, 35-38 anni la media attuale. Infatti oggi esiste un divario tra il periodo di massima fertilità biologica e l’età socialmente idonea per avere un figlio: prima ci sono lo studio, il lavoro e solo in seguito il matrimonio e i figli. Un altro fattore che influisce sull’età delle coppie deriva dai problemi connessi alle separazioni e alla formazione di nuove famiglie, dove i potenziali genitori non sono più giovanissimi. Zaffagnini spiega che la domanda di una fecondazione assistita è in aumento anche tra la popolazione extracomunitaria e che in questi casi è facile che ci siano anche problemi di carat-
Attualità
Ecco cosa dice la legge di Giorgia Cozzolino
L’ospedale di Borgo Roma
tere culturale. Ad esempio, in molte società la procreazione è un mezzo di riconoscimento sociale per la donna, che senza figli viene ripudiata, anche se magari il problema è maschile. Per questo, quando si tratta di coppie extracomunitarie, per essere certi che ogni informazione sia recepita in modo corretto è indispensabile la presenza di alcuni mediatori culturali. Informazione e capacità di elaborazione non sono infatti la stessa cosa, e questo vale per tutti. Uno dei primi problemi che tutte le coppie si trovano ad affrontare è proprio quello di riuscire a sviluppare l’elaborazione delle informazioni, per raggiungere una piena consapevolezza delle scelte che vengono fatte. Questo è uno dei motivi per i quali si ritiene necessario affiancare uno psicologo a chi ricorre alla PMA. Inoltre, le conseguenze psicologiche dell’infertilità in termini di ansia, stress
psicosociale, frustrazione e disadattamento coniugale sono molto pesanti. Un altro aspetto molto importante da affrontare è quello della genitorialità. Bisogna aiutare le coppie a riflettere sulla propria motivazione ad avere un figlio. L’alterazione dell’atto del concepimento, infatti, implica anche un’alterazione profonda dei confini personali, del nostro modo di pensarci e di pensare le relazioni. Secondo Torregrossa è utile che ci sia uno psicologo, ma non lo si può imporre: «Ritengo che un buon ginecologo debba essere anche un po’ psicologo, non può limitarsi ad essere un tecnico. Dedico molto tempo ai miei pazienti. Arrivano persone molto stressate. È importante stabilire un buon rapporto, basato sulla chiarezza, sull’informazione, sulla comprensione dei bisogni reali e delle aspettative. Il ginecologo deve essere in grado di cogliere la
Centri di Procreazione Medicalmente Assistita a Verona • Centro per la diagnosi e la terapia della sterilità e dell’infertilità di coppia, Ginecologia e Ostetricia, Ospedale Policlinico Giambattista Rossi, Borgo Roma, via delle Menegone, 10 - 37134 Verona, tel. 045.8124407/4408. • Centro Privato Athena, via Camozzini, 10 - 37126 Verona, tel. 045.8301724. • Studio Medico Tethys srl, via Golosine, 2a - 37136 Verona, tel. 045.8230260.
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É la discussa legge 40 del 2004 a sancire in Italia i limiti della procreazione assistita. Limiti che secondo una parte dell’opinione pubblica dovevano essere aboliti con il referendum del 2005. La norma è sopravvissuta ai quesiti referendari ma, ora che l’orientamento politico del governo è cambiato, si parla già di rimettere il testo in discussione. Giudicata da gran parte del mondo scientifico limitativa non solo per le libertà personali ma soprattutto dannosa per la ricerca scientifica, la legge è invece supportata da chi ritiene che impedisca un uso indiscriminato degli ebrioni e il disgregamento di una società improntata sulla famiglia tradizionale. Possono infatti avere accesso alla procreazione medica solo «le coppie formate da persone maggiorenni di sesso diverso, sposate o conviventi, in età potenzialmente fertile ed entrambe viventi». Divieto quindi per i single, gli omosessuali, le cosiddette “mamme-nonne” e, in ogni caso, entrambi i soggetti che compongono la coppia devono essere viventi. Niente quindi fecondazione post mortem. La legge specifica che si può ricorrere alla procreazione assistita solamente «qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» e impegna due milioni di euro a favore della ricerca per contrastare tali patologie. Un altro punto molto dibattuto è quello sul divieto alla fecondazione eterologa, ovvero quell’operazione che fa ricorso ad un donatore esterno alla coppia. É possibile cioè creare un embrione solo se seme e ovulo provengono dalla coppia che si rivolge alle tecniche di fecondazione assistita. E sono severe le sanzioni per chi opera in contrasto con la legge: il medico che pratica la fecondazione eterologa viene punito con una multa da 300mila a 600mila euro e con una sospensione dall’albo professionale da uno a tre anni, mentre non è prevista nessuna punizione per la coppia che vi ha fatto ricorso. Perseguiti anche i medici che compiono fecondazione assistita su single o coppie gay con multe da 200 a 400mila euro. Le legge vieta anche il cosiddetto “utero in affitto” che viene punito con la reclusione da 2 a 24 mesi e con multe da 600mila euro. L’articolo 13 considera «vietata qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano e la loro produzione a fini di ricerca. Anche ogni forma di «selezione a scopo eugenetico», ovvero interventi di manipolazione genetica o scelta degli embrioni e dei gameti con procedimenti artificiali è esclusa, e così pure la clonazione e la fecondazione di un gamete umano con quello di una specie diversa. Ciò comporta che non si possono produrre più embrioni di quelli strettamente necessari a un unico e contemporaneo impianto e comunque non più di tre e il loro congelamento è consentito solo se, per ragioni di salute della futura madre, non possono essere trasferiti subito nell’utero. Le pene previste per chi viola la norma vanno dai dieci ai venti anni di reclusione e multe fino a un milione di euro oltre all’interdizione perpetua dalla professione medica. La legge non fa alcun riferimento all’adottabilità degli embrioni non impiantati che oggi sono circa 30mila conservati nelle strutture riconosciute dalla legge. Ai figli nati, infine, la norma dichiara lo status di “legittimi” se i genitori sono sposati tra loro o “riconosciuti” se conviventi. La legge 40 modifica anche la norma 405 del 29 luglio 1975 sul servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità. Tra gli altri punti, viene inserita anche «l’informazione e l’assistenza riguardo ai problemi della sterilità e della infertilità umana, nonché alle tecniche di procreazione medicalmente assistita» e «l’informazione sulle procedure per l’adozione e l’affidamento familiare».
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Attualità I significati dei termini della Procreazione Medicalmente Assistita • Metodiche di 1° livello Sono eseguibili ambulatorialmente, comprendono le procedure di: inseminazione in ciclo naturale e l’induzione dell’ovulazione multipla associata ad inseminazione intrauterina. • Metodiche di 2° livello Devono prevedere la disponibilità della sala operatoria ed oltre alle metodiche previste per il primo livello, comprendono l’espleta-
Non è possibile che i limiti imposti dalle leggi di un Paese generino disparità e discriminazioni. Eppure in certi casi solo chi possiede molto denaro ha la possibilità di ricorrere alla procreazione assistita all’estero, dove le leggi possono essere diverse
Stefano Zaffagnini
mento di una o più delle seguenti procedure: Fertilizzazione in Vitro ed Embryo Transfer (FIVET), Gamete Intrafalloppian Transfer (GIFT), Zygote Intrafalloppian Transfer (ZLFT), Tubal Embryo Transfer (TET). Le metodiche di 2° livello comprendono anche altre tecniche derivate dalle precedenti le quali tutte si articolano nelle seguenti fasi operative: fase di stimolazione della crescita follicolare multipla, con monitoraggio ecografico ed ormonale; fase di prelievo ecoguidato (pick up) degli ovociti;
Gabriella Torregrossa
storia della coppia. Nella mia esperienza sono state poche le coppie che hanno richiesto specificatamente l’assistenza di uno psicologo, in alcuni casi sono stata io a forzare per questo affiancamento, perché ritenevo ce ne fosse proprio bisogno». Il Centro del Policlinico si avvale della collaborazione dell’Istituto di psicologia medica e Zaffagnini spiega che «tale collaborazione è indispensabile, perché l’impegno richiesto per queste terapie mediche è molto grande, sia dal punto di vista fisico che mentale. Soprattutto, bisogna essere preparati agli insuccessi». «La sterilità è una “malattia” che spesso, viene vissuta come una colpa o una condanna» dice Torregrossa. «Le armi per combattere alcuni problemi sono state spuntate dalla legge e quelle che risultano maggiormente penalizzate sono proprio le persone “più ammalate”, come nel caso di co-
fase di laboratorio; fase di trasferimento di gameti o embrioni. • Metodiche di 3° livello Questo livello prevede le metodiche previste per il primo e secondo livello e una o più delle seguenti procedure: differenti tecniche di microfertilizzazione, comprese quelle sull’ovocita fecondato atte a favorirne l’attecchimento; altre tecniche derivate dalle precedenti; tecniche di diagnostica preimpianto.
loro che sono portatori di malattie genetiche o di giovani donne che hanno le ovaie rovinate dai trattamenti chemio o radioterapici in seguito a un tumore». Il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa per queste persone vuol dire trovasi nell’impossibilità totale di avere figli e questo incentiva il turismo riproduttivo. L’Europa è il nuovo scenario entro cui si muovono le varie legislazioni. Per questo non è possibile che i limiti imposti da un Paese generino disparità e discriminazioni, riservando solo a chi possiede molto denaro la possibilità di aggirare gli ostacoli, trovando la soluzione all’estero, dove ci sono leggi diverse. Altri problemi non risolti dalla legge derivano dalla limitazione nella produzione e dall’obbligo d’impianto di tutti gli embrioni prodotti. Secondo la normativa non può essere prodotto un nu-
Le donne più giovani sono esposte al rischio di una gravidanza multipla e a quello di un parto prematuro che mettono in pericolo sia la salute dei nascituri che quella della madre. Una gravidanza trigemina è un incidente di percorso che sta diventando sempre più frequente
mero di embrioni superiore a quello strettamente necessario a un unico impianto, comunque non più di tre, in conseguenza anche del divieto di congelamento. La qualità degli ovociti e degli embrioni è strettamente correlata all’età, questo vuol dire che in caso di età avanzata (38-40 anni) diventa molto difficile ottenere delle gravidanze, mentre le donne più giovani sono esposte al rischio di una gravidanza multipla e a quello di un parto prematuro. In questo modo si mettono in pericolo sia la salute dei nascituri sia quella della madre. «Una gravidanza trigemina non è mai augurabile, è un incidente di percorso che sta diventando sempre più frequente», spiega Torregrossa. Nel settore pubblico un altro problema che le coppie devono affrontare è quello dei tempi, infatti, spiega Zaffagnini, «la lista d’attesa per avere accesso alle tecniche di PMA è di circa un anno». Questo è dovuto, oltre al grande numero di coppie che si rivolgono al Policlinico, anche alla difficoltà oggettiva di lavorare degli operatori del Centro: basti pensare che l’utilizzo della sala operatoria e la presenza del biologo sono programmate per una sola settimana al mese. Dalle testimonianze raccolte par di capire che la legge 40 del 19 febbraio 2004, pur avendo il merito di aver colmato una lacuna normativa importante, non sembra assolvere in pieno al compito di garantire la tutela del diritto alla salute dei cittadini.
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Attualità di Guido Gonzato In tutte le città italiane, e specialmente al Nord, il patrimonio artistico è vittima delle cosiddette ingiurie del tempo. Il problema era noto già nel Rinascimento, quando i monumenti venivano ricoperti dai licheni e dalle “male erbe” che si infiltravano tra le pietre. Ma quelli erano bei tempi. Oggi la questione è cambiata radicalmente, sia nella natura del danno che nella sua intensità. Il problema non sono più le erbacce da estirpare ma l’inquinamento atmosferico, e i monumenti di Verona, la città più inquinata d’Italia, ne soffrono gravemente. La causa del danno è il particolato atmosferico, le famigerate polveri sottili che si formano con la combustione degli idrocarburi. A Verona, il particolato è originato quasi esclusivamente dal traffico automobilistico. Le particelle, di dimensioni inferiori al millesimo di millimetro, sono delle vere e proprie spugne di materiale carbonioso impregnato di residui di combustione, idrocarburi, zolfo, metalli pesanti. L’effetto sui monumenti in pietra, che a Verona sono praticamente tutti di calcare di vario tipo, è devastante. Le particelle si instaurano sulla superficie creando una crosta nera, durissima e difficile da rimuovere, che compromette l’estetica del monumento. L’azione chimica è di gran lunga peggiore: la crosta nera, unitamente all’azione della pioggia, può produrre piccole quantità di acido solforico che trasformano il calcare in gesso, facilmente solubile e asportabile. Col passare degli anni i monumenti vanno letteralmente in briciole. L’effetto chimico della crosta nera si può osservare in particolare sui muri dell’anello esterno dell’Arena.
MONUMENTI A VERONA
Conservazione o sottile e lenta distruzione? Ripulireste un mobile antico con la pialla? Evidentemente no, ma quando si parla di opere d’arte in pietra il procedimento usato è assai simile L’arca del Cinquecento in marmo Rosso Verona (tomba Lavagnoli) sembra in condizioni migliori rispetto a prima, quando era coperta di croste nere. Ma l’estetica non è tutto. Osservando la superficie con una lente d’ingrandimento, si nota un dettaglio rivelatore del tipo di restauro effettuato. In alcuni punti sono a malapena visibili gruppi di minuscoli forellini. Si tratta delle tracce lasciate nei secoli scorsi dai licheni, che colonizzavano le superfici dei monumenti cittadini quando l’aria era sufficientemente pulita. Quando un lichene si
GLI INTERVENTI DI RESTAURO
Negli ultimi anni diverse campagne di restauro si sono susseguite e alcune sono tuttora in corso. Esaminando da vicino alcuni monumenti restaurati, quello che si vede suscita qualche perplessità. Uno dei primi monumenti sottoposti a restauro, diversi anni fa, è stata la facciata di Santa Eufemia.
in VERONA
Lo smog ricopre i monumenti di una patina grigia. Ma possono tornare come nuovi ricorrendo all’abrasione
attacca su una superficie, provoca delle microperforazioni semiferiche profonde circa un millimetro. Ora, questi forellini sono stati quasi completamente abrasi e apparentemente ne rimane solo la parte più profonda. Questo significa che è stato rimosso dal monumento uno spessore di almeno mezzo millimetro di mate-
riale. É probabile che il restauro sia stato effettuato con getti di acqua e sabbia a pressione. Indubbiamente il restauro ha restituito al monumento l’aspetto originario: ma a quale prezzo? La superficie originale ora non esiste più. Rimuovendo mezzo millimetro di superficie alla volta, quanti interventi di restauro si potranno ancora effettuare? Basta osservare da vicino altri monumenti restaurati per verificare che questo tipo di intervento è stato effettuato con sistematicità. Un altro esempio eclatante è la facciata di San Giovanni in Foro, dove le parti in marmo rosso mostrano addirittura evidenti tracce di abrasione. Va detto che in altri casi, come alla base della Scala della Ragione in Cortile Mercato Vecchio, si vede che la crosta nera è stata rimossa senza intaccare la superficie sottostante, che ora mostra tracce della lucidatura originaria. Se il restauro provoca una perdita anche piccola di materiale dal monumento, a giudizio di alcuni esperti tale restauro non è accettabile. Infatti la rimozione delle croste non è un intervento risolutivo, poiché nelle condizioni attuali esse si riformano nel giro di pochi anni. Le modalità di restauro sono un problema controverso e molto dibattuto. Probabilmente, il problema non può essere risolto se non agendo sulle cause. È molto semplice: per salvaguardare i monumenti, basta eliminare l’inquinamento atmosferico... il che consentirebbe anche di salvaguardare la salute dei cittadini. Ridurre drasticamente il traffico degli autoveicoli privati, migliorare il trasporto pubblico, favorire l’uso della bicicletta. Si fa ovunque in Europa, anche in paesi che hanno un clima sfavorevole come l’Olanda o il Regno Unito. Ma in Italia e a Verona, non si fa e chi lo sa se mai si farà in futuro. Godiamoci quindi i nostri bei monumenti, finché li abbiamo.
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e
DITORIALE Giorgio Montoll i
LA DIFFERENZA NEL FARE LE COSE.
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Attualità CAMBIO DELLA GUARDIA A “VERONA FEDELE”
Un prete sopra le righe? di Giuseppe Brugnoli Per una volta cambiamo la rubrica da “ricordi di un giovane cronista” facendola diventare “ricordi giovani di un vecchio cronista”. L’argomento è una pratica sbrigata in fretta, anche se preceduta da molti sussurri e qualche grida, riusciti ad arrivare a compiacenti mass media. Si parla del cambio della guardia alla direzione di Verona Fedele, una pratica sbrigata anche con qualche errore formale che rischia di diventare sostanziale, e che può lasciare strascichi più o meno antipatici, e magari anche qualche interpretazione che può diventare sgradevole. Liberiamo il campo innanzitutto dall’ipotesi sulla legittimità dell’operazione. Qualsiasi buon giornalista, che per avventura si trova al vertice della piccola o grande organizzazione redazionale, sa benissimo che, nel momento in cui viene nominato direttore, comincia la conta alla rovescia sugli anni, mesi e giorni che gli restano nel suo mandato. Solo i direttori che sono anche editori, e magari fondatori del loro giornale, possono pensare che il loro sia un incarico a vita. Per tutti gli altri, anche negli atti ufficiali di fronte ad un notaio, si tratta di un mandato “pro tempore”, e all’editore spetta un diritto inalienabile, come a tutti i padroni nel regime occidentale fondato sulla libera impresa, di licenziare il suo dipendente. Trattandosi poi, per la direzione di un giornale, di un incarico particolarmente delicato, fondato sulla fiducia, non c’è bisogno di “giusta causa” e il licenziamento non può avvenire che in un solo modo, “ad nutum”, improvvisamente, e al licenziato non spetta nessuna spiegazione, oltre ai soldi dell’indennità che gli è dovuta per essere stato mandato a casa d’un colpo. Questa prassi non è stata affatto seguita nel cambio della guardia alla direzione di Verona Fedele dove, essendo il padrone uno solo, e non una società per azioni o di capitali, dove i diversi soci devono necessariamente essere informati e interpellati per una decisione così importante, sarebbe stato più facile prendere il provvedimento e contestualmente comunicarlo ufficialmente, evitando così la sequela delle voci, dei “pissipissi bau-bau” che ha reso più difficili gli ultimi giorni del direttore uscente, più imbarazzante l’attesa del nuovo direttore non più “in pectore”, e che ha auto-
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Don Bruno Fasani lascia la direzione del settimanale diocesano, non senza qualche strascico e polemica per il modo in cui ciò è avvenuto rizzato in diversi “mass media” commenti a volta infelici e tal’altra interessati, mentre diventava quasi fragoroso il silenzio di chi dell’ “affaire” non si è interessato per niente, quasi a dire: «Noi parliamo solo dei fatti nostri, siete pregati di fare altrettanto». E questo è certamente un primo sbaglio di procedura, forse inevitabile ma probabilmente no, nella vicenda. Altri, più evidenti e corposi, appaiono nell’annuncio ufficiale che Verona Fedele ne dà in prima pagina, con due modesti codicilli in terza, nel suo numero del 1 ottobre, l’ultimo firmato dal direttore uscente. Sempre secondo le regole, in questo caso non osservate, l’annuncio del cambio di direzione spetta all’editore, che comunica in poche righe la sua decisione senza darne motivazioni (le quali appartengono alla sfera delle opinioni personali che stanno alla base del rapporto fiduciario), ringrazia sinteticamente il partente e altrettanto sinteticamente presenta il subentrante, e quindi lascia la parola, di seguito, a chi se ne va, che se è di buon gusto non si sofferma troppo a raccontare la rava e la fava, il che serve solo a sollazzare i lettori pruriginosi. Qui, invece, è il direttore uscente che ha il posto d’onore, con un fondo abbastanza pesante in prima colonna, e si dà la notizia da sé cominciando: «Cari lettori, con questo numero, termina la mia direzione di Verona Fedele», il che magari lascia pensare, a qualche lettore disattento, che sia lui che se va, sua sponte, per libera scelta “grato a tutti in fierezza e libertà”, come dice il titolo, e non sia stato accompagnato più o meno gentilmente all’uscita. Inusitata anche la collocazione dell’articolo del padrone di casa, il proprietario-editore, confinato all’estremo opposto della prima pagina e sotto un titolo che proclama “Usura in agguato” e in fianco ad un altro titolo di taglio che afferma “L’eutanasia uccide il diritto”. Di quale usura si tratta, nella fattispecie? L’articolo tratta dell’usura di chi presta soldi ad interessi da strozzinaggio, ma qualcuno
può pensare anche al “logorio del laicismo moderno”, secondo il titolo di un recente libro, che dovrebbe piacere all’ex direttore di Verona Fedele, di Gnocchi e Palmaro. E se l’eutanasia uccide il diritto, non si potrebbe interpretare come una sorta di eutanasia l’imporre una morte dolce ad un bravo prete che dirige un giornale e non sta affatto tirando gli ultimi? Ma il ringraziamento-commiato dell’editore si permette, al di qua delle interpretazioni fantasiose sull’accostamento dei titoli, evidentemente casuale, anche qualche precisazione che suona rimbrotto, e che, se non altro per carità cristiana, trattandosi di uno che si sta accompagnando all’uscita, diventa doppiamente sgradevole: «La sonorità della tua voce forse talvolta ha cantato sopra le righe o può aver fatto cilecca su una battuta». Ce n’è più che a sufficienza per giustificare una perentoria indicazione dell’uscita, e non c’era nessun bisogno di dare queste spiegazioni a cose fatte. Non si usa, se non nel caso di un dissidio che continua pur dopo i saluti di prammatica, soprattutto tenendo conto che il partente, che saluta e ringrazia tutti, si guarda bene dal farlo con il padron di casa, il quale, se pure non è stato lui a nominarlo, è stato lui a tenerselo per tanti anni. Con tutti questi discorsi, impostati più sulla forma che sulla sostanza, corriamo il rischio di dimenticare il personaggio protagonista della vicenda, o almeno di far la figura di volerlo dimenticare. Non sia mai, anche se lo spazio si sta assottigliando. Don Fasani è stato un buon giornalista e un buon prete. Forse più giornalista, anche se attento ad allargare la sua tribuna in diverse direzioni, esplorando le stanze del castello kafkiano dell’informazione, porta a porta, più che ad approfondire i temi legati allo specifico compito di dirigere un giornale diocesano, e quindi necessariamente locale. Ma è stato anche un buon prete che non ha mai perso di vista, neppure per un attimo, quelli che gli intenditori di calcio chiamano “i fondamentali” e che fino a nuovo ordine, sperando che non venga mai, rimangono tali. Li ha difesi talvolta con voce sopra le righe, tal’altra sforando da un coro dimesso e pecorone, ma Vivaddio, e non è un’interiezione ma un’invocazione, ne avessimo, di questi preti.
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Cultura SCRITTORI DI CASA NOSTRA
Nel mondo cresce l’interesse per Salgari Claudio Gallo è impegnato nel recupero e riordino dell’opera salgariana e della produzione di Luigi Motta, un altro veronese, prolifico scrittore di romanzi di avventura. Le opere dei due autori sono conservate nella Biblioteca Civica
di Elisabetta Zampini e Irene Lucchese Negli ultimi tempi l’editoria italiana sta riscoprendo la vita e l’opera di Emilio Salgari, lo scrittore veronese che ha appassionato milioni di giovani lettori. Si assiste al riscatto di tutta la “letteratura popolare”, quella “letteratura di genere” che ha imperversato in Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento. E proprio Salgari è uno dei maggiori esponenti del fenomeno, scrittore dalla fantasia infinita e dotato di una geniale creatività, ma poco stimato dalla cultura a lui contemporanea e presto caduto nel dimenticatoio, trascurato anche dalla sua città natale. Ma è a
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Verona che di recente sono nate iniziative, comitati, premi, idee di riviste ispirate a Salgari e alla sua vasta produzione letteraria. A partire dalla città scaligera, questo recupero ha coinvolto tutta l’editoria nazionale e non solo: Salgari oggi rappresenta un mercato in espansione che sta conquistando anche il mondo di lingua inglese, in particolare gli Stati Uniti. Non bisogna meravigliarsi di fronte a questa nuova tendenza: l’opera di Salgari, come nella migliore tradizione dei romanzi d’avventura, ha una grande dimensione europea, ha grande apertura verso l’esterno. Il creatore di Sandokan, del Corsaro Nero, de Le Tigri di Mompracem non è l’unico nel panorama veronese: suo quasi contemporaneo ed erede è Luigi Motta (nato a Bussolengo nel 1881), anch’egli prolifico scrittore di romanzi d’avventura. La Biblioteca Civica di Ve-
rona ha la fortuna di ospitare gli archivi della produzione sia di Salgari che di Motta. Questa grande opportunità ha attirato l’attenzione del mondo accademico, di critici e studiosi. Tra di essi Claudio Gallo, docente di Storia del fumetto all’Università di Verona e bibliotecario, è colui che più si è impegnato nel recupero e nel riordino dell’opera salgariana e, più recentemente, della produzione di Motta. Il suo lavoro consiste nell’organizzazione del materiale edito ed inedito dei due scrittori veronesi,
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Cultura «Lo scopo ultimo, la ragione di tutto», spiega Gallo, «è dare completezza alla figura salgariana. Della sua vita si sa poco, ma è importante che venga riconosciuto dalla città come un suo tesoro con ricadute, perché no, anche dal punto di vista turistico»
Claudio Gallo
Le immagini delle copertine dei libri di Salgari e Motta sono state messe a disposizione dai Fondi Salgariani della Biblioteca Civica di Verona
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dove la difficoltà consiste nel trovare un filo conduttore tra tutti i documenti ritrovati: in questa fase contano le capacità, l’esperienza del curatore il suo personale intuito. Il secondo passo è divulgare tutto questo materiale. Gallo è un sostenitore della letteratura per ragazzi, il romanzo d’avventura e di fantascienza, la letteratura di genere che da sempre sono soggetti a pregiudizi. Secondo l’esperto salgariano non esistono letteratura “alta” e letteratura “popolare”, ed è lui in prima persona a impegnarsi nel dimostrare come anche questa letteratura abbia una sua dimensione poetica, in grado di fornire una rappresentazione del mondo. Non solo: attraverso i suoi approfonditi studi, il professor Gallo ha potuto constatare come questo genere di letteratura sia stato fondamentale nella formazione dell’individuo, molto più dei classici testi educativi. Un nome per tutti, quello di Alessandro Bausani: la frequentazione salgariana ha avuto non pochi riflessi sulla vocazione dello studioso che sarà uno dei maggiori esperti italiani del mondo orientale, quello persiano soprattutto, nonché traduttore e commentatore delle più importanti traduzioni del Corano in Italia. Senza contare poi gli aspetti legati all’editoria, cioè a ciò che veniva stampato in gran quantità perché vantava un largo numero di lettori con un significativo consenso popolare. È importante cioè sapere che cosa la gente di fatto amava leggere, al di là dei testi letterari canonici. Claudio Gallo svolge questo lavoro complesso e di precisione con grande passione ed interesse, da vero amante della letteratura. «Lo scopo ultimo, la ragione di tutto», spiega Gallo, «è dare completezza alla figura salgariana. Della sua vita si sa poco o si preferisce soffermarsi su alcuni particolari dal sapore leggendario. Inoltre è importante che venga riconosciuto dalla città come un suo tesoro, anche con ricadute, perché no, dal punto di vista turistico». La ricerca porta allora i suoi frutti, intanto a favore di una complessità positiva perché contri-
buisce a collocare Salgari al di fuori di situazioni aneddototiche. E sempre di più il suo nome si pone accanto a altri autori di genere nel panorama europeo coevo. «Ne è testimonianza», prosegue Gallo, «la rivista genovese Per terra e per mare, dell’editore Donath, che Salgari diresse dal 1904 al 1906, quando viveva a Torino. Vi confluiscono contributi e nomi che ne connotano subito un respiro europeo e si fanno delle scoperte sul mondo letterario italiano spesso tralasciate dalle antologie». Si vedono allora comparire nomi come Salvatore di Giacomo o Luigi Capuana, autori che certo non si è abituati ad accostare al genere avventuroso, horror o fantascientifico. Eppure qui i confini tra le letterature di slabbrano. «Salgari era un positivista, vicino alla Scapigliatura lombarda e più di quanto si possa in un primo momento pensare», aggiunge Gallo, «Salgari è vicino al pensiero di Verne, per quanto tra i due non corresse buon sangue. Come lo scrittore francese, Salgari è infatti fiducioso nelle capacità dell’uomo. Ne è un esempio il libro I Robinson italiani. Il richiamo al famoso Robinson Crusue di Daniel Defoe è voluto. Ma rispetto alla fonte di ispirazione, Salgari sottolinea molto di più le possibilità dell’uomo che, grazie alle conoscenze e alle nozioni sul mondo della natura riesce a piegarla a proprio vantaggio, a trarne anzi il maggior beneficio possibile». Si può parlare dunque di
una riscossa della letteratura di genere, diventata terreno di studio riconosciuto e fertile. Uno dei primi segni di ciò è rappresentato dalla neonata rivista Il corsaro nero: «sarà uno strumento – si legge nell’editoriale del primo numero – per conoscere le origini e l’affermazione della letteratura popolare in Italia, ponendo particolarmente in risalto la modernità dell’opera salgariana». E la questione dello stile salgariano, delle famose, lunghe e oggi temutissime pagine descrittive? «Salgari non è vecchio. Scrive in un altro contesto che era diverso dal nostro dove valevano categorie mentali che per noi non ci sono più. Ma considerata e rispettata la distanza storica, rimane comunque la forza narrativa. Per molti lettori salgariani, soprattutto all’estero, le descrizioni ne rimangono un tratto determi-
Per conoscere le origini e l’affermazione della letteratura popolare in Italia, e per porre particolarmente in risalto la modernità dell’opera salgariana, è nata da poco la rivista Il Corsaro nero
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Cultura I figli, anime schiette, spiritualmente sensibili, che sentono d’amare ciò che tutti gli uomini bramano: la vita primitiva, la vita dinamica, i grandi spazi, le grandi cacce, la pesca, la vita insomma come la intesero i nostri padri». Tale citazione proviene da uno scritto custodito alla Civica in uno dei 250 faldoni di lettere, racconti, documenti e materiali inediti che costituiscono il Fondo Motta. «Motta ha una produzione sconfinata», spiega Gallo, «ed è difficile capire con sicurezza se un testo è inedito o meno anche perché molto materiale veniva pubblicato su riviste non tutte rintracciabili ora. É di prossima pubblicazione un romanzo autobiografico di Motta, La grande tormenta. Sempre di Motta è appena terminato un lavoro di sistematizzazione della sua produzione che comprende sia un’ana-
nante in positivo», spiega Gallo. «Quali autori dell’ultimo Ottocento possono vantare tale sorte e tanta popolarità per le loro opere?» scriveva negli anni cinquanta Luigi Motta, «E quale è veramente la ragione di questo formidabile e duraturo successo?
«Motta ha una produzione sconfinata ed è difficile capire con sicurezza se un testo è inedito o meno»
Verona può sempre di più riconciliarsi con i suoi scrittori d’avventura, con Salgari che, come ricordava Motta, «amava viaggiare sulla carta, poiché la realtà del paesaggio e degli uomini è di gran lunga inferiore a quanto crea la fantasia» lisi editoriale che un indagine sui contenuti. Ciò renderà più proponibili e appetibili ulteriori ricerche e approfondimenti sul mondo letterario di questo epigono salgariano». Verona può sempre di più, allora, riconciliarsi con i suoi scrittori d’avventura, con Salgari che, come ricordava Motta, «amava viaggiare sulla carta, poiché la realtà del paesaggio e degli uomini è di gran lunga inferiore a quanto crea la fantasia».
Per chi vuole approfondire
Alla Gran Guardia l’incontro con l’editoria di qualità Il 10, 11 e 12 novembre Verona ospiterà “Inchiostro Fiera dei Libri”, una rassegna nazionale dell’editoria di qualità. A curare la manifestazione sarà lo staff redazionale di Inchiostro, rivista italiana di narrativa riservata agli autori esordienti. Le stanze del Palazzo della Gran Guardia saranno teatro di incontri, tavole rotonde, esposizioni di piccoli editori. Nei tre giorni di Fiera sono proposti momenti dedicati agli addetti ai lavori, ai visitatori più giovani e alla poesia. Una mattinata sarà poi dedicata ad Emilio Salgari e alla sua geniale opera: l’incontro sarà coordinato da Claudio Gallo e prevede, tra gli ospiti, anche Gianfranco de Turris, caporedattore dei GR Rai per la cultura, scrittore e studioso, esperto di Salgari e di tutta la letteratura d’avventura del Novecento. La Fiera si concluderà con un’asta benefica nella quale un centinaio di autori regaleranno i loro “libri del cuore”. (I.L.)
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Cultura IL PERSONAGGIO
L’abate Cesari custode della lingua Nacque a Verona nel 1760. Scrisse la “Nuova edizione del vocabolario della Crusca”. Fu uno dei maggiori promotori del movimento purista
Intellettuale e letterato, cercò di controbilanciare, soprattutto per quanto riguarda il problema della lingua italiana, le tensioni rinnovatrici che dall’illuminismo fino all’epoca napoleonica attraversarono la penisola
in VERONA
di Elisabetta Zampini A Milano nel 1760 nasce la società dei “Pugni”, sodalizio di intellettuali quali i fratelli Verri e Cesare Beccaria con un programma, già indicato nel nome, di rottura, di rifiuto radicale della tradizione in favore di riforme e di aperture a idee di più ampio respiro europeo. É il vento dell’illuminismo accolto con fervore e passione. Nello stesso anno a Verona nasce Antonio Cesari, intellettuale e letterato. Cercò nella sua opera e nell’impegno di studioso di controbilanciare le tensioni rinnovatrici che dall’illuminismo fino all’epoca napoleonica attraversarono la penisola. Almeno per quanto riguarda l’aspetto linguistico, cioè il problema della lingua italiana: di quale dovesse essere, se una lingua fosse data una volta per tutte, o fosse in continua evoluzione. La questione si poneva allora a causa del diffondersi di parole nuove straniere – inglesi ma specialmente francesi – non tanto nell’uso parlato quanto scritto. Del resto proprio l’illuminismo aveva evidenziato l’importanza di una lingua comunicativa, adatta alle proposte politicheculturali da diffondere e rendere efficaci. In secondo piano si ritrova dunque la lingua classica, letteraria in senso tradizionale del termine, talvolta anche in netta antitesi con il parlato.
L’iscrizione in memoria del Cesari che si trova in quartiere Filippini
La stessa data avvicina dunque due posizioni opposte, contrastanti, una nel segno del rinnovamento e una del contenimento. Il tema è attuale. La questione della lingua non è un fatto erudito, di chi ama fare avventure mentali sulle parole (che pure possono essere viaggi affascinanti). La lingua è specchio di un mondo e nello stesso tempo può offrirne le chiavi di lettura, espanderne i significati. É un indicatore di come vanno la storia, le idee, gli uomini. Basta consultare gli attuali dizionari che si presentano continuamente rinnovati. Lo sottolinea, ad esempio, l’ultima edizione del Devoto Oli: «Molto è cambiato nella società, nelle conoscenze condivise, negli interessi culturali: un rinnovamento radicale che non può non avere i suoi riflessi nella lingua. Ma la lingua – e l’italiano in special modo – accanto al nuovo e al globale mantiene il vecchio e il particolare. Accanto all’attachment allegato ai messag-
La lingua è specchio di un mondo e nello stesso tempo può offrirne le chiavi di lettura, espanderne i significati. É un indicatore di come vanno la storia, le idee e gli uomini gi di posta elettronica, c’è spazio per un arcaismo come lungi. Accanto alle cellule staminali e alla cartolarizzazione, c’è spazio per parole casalinghe come carabattola, posapiano o pennichella». Antonio Cesari, entrato nel frattempo nell’ordine di San Filippo Neri, scrive tra il 1806 e il 1811 la “Nuova edizione del vocabolario della Crusca”. Per questa e altre opere come la “Dissertazione sullo stato presente della lingua italiana” e “Le Grazie”, si pone come uno dei maggiori promotori del movimento purista. Lo scopo è
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Cultura Dante era stato accantonato dalle avanguardie intellettuali, in quanto simbolo di una tradizione che doveva essere superata. Nel mirino era il mondo medioevale di cui era stato interprete. Per la corrente più legata all’illuminismo, il medioevo rappresentava infatti l’oscurantismo, per i puristi era invece un momento in cui si era manifestata una identità culturale compatta basata sulla cristianità e sulla romanità
salvaguardare l’italiano dall’invadenza di forestierismi e neologismi attingendo alla fonte degli autori del trecento, primo fra tutti Dante, la purezza della lingua. Sarebbe semplice porre il Cesari come un oppositore al nuovo, in ritardo sui tempi, antagonista perdente ed ingenuo. I ritardi costringono a pause talvolta significative. In realtà la sua figura si pone all’interno di una discussione, quella della lingua, con molteplici e opposte voci (Manzoni e Monti per citare solo alcuni nomi) che testimonia e fa da specchio a un momento culturale, artistico, sociale e politico di contraddizioni, di possibilità e di mutazioni: dai fermenti autonomisti nati sulla scorta della rivoluzione francese, al dominio napoleonico, alla restaurazione fino al movimento risorgimentale. Dal punto di vista culturale emerge la necessità di gestire il rapporto tra le tensioni create dalla Rivoluzione e il patrimonio della tradizione. É un rapporto di equilibri tra contrasti, dove però tutte le parti in causa hanno un valore e offrono un contributo per non perdere niente di ciò che di buono c’è nel vecchio e nel
Il busto marmoreo di Antonio Cesari in Cattedrale
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nuovo. In ballo c’è il concetto di italianità da salvaguardare, ma forse ancor prima, da formulare, da interpretare in chiave attuale. Verona respirava il clima del classicismo inaugurato nella prima metà del Settecento dal Maffei e contemporaneamente ospitava quello che possiamo definire un cenacolo di studiosi di Dante. Il purismo del Cesari si inserisce dunque in questo contesto. Ma si tratta di un classicismo vivace, non accademico e stagnante. L’impegno letterario e linguistico del Cesari non è dunque, come spesso si è detto, né ingenuo né un retaggio erudito di una città un po’ spenta o conservatrice. La realtà delle cose spinge inevitabilmente verso giudizi più sfumati per una complessità di motivazioni. Dante Alighieri era stato infatti messo da parte dalle avanguardie in quanto simbolo di una tradizione che doveva essere finalmente superata. Nel mirino non era solo il suo linguaggio, ma anche il mondo medioevale di cui era stato speciale interprete. Per la corrente più legata all’illuminismo, il medioevo rappresentava infatti l’oscurantismo, per i puristi era invece un momento in cui si era manifestata una identità culturale compatta basata sulla cristianità e sulla romanità. Difficile non trovare torti e ragioni, equilibri ed estremismi da entrambe le parti. Di certo Antonio Cesari amava la letteratura e la lingua del Trecento, toscana ovviamente. Ne aveva un vero e proprio culto. Per lui il toscano del Trecento era superiore a ogni altro dialetto e in quanto punta massima di espressione linguistica, non poteva mutare, cambiare, modificarsi. A quella lingua ci si doveva riferire. Certo una posizione rigorosa. Ma leggendo le pagine del Cesari emerge anche il trasporto e la passione intellettuale per questi studi. La Toscana del Trecento acquista quasi un’aurea mitica, l’età dell’oro della lingua e dell’etica. Gli altri dialetti sono infatti «rugginosi, goffi, sregolati, smozzicati, deformi; il toscano nacque, per così dire, bello e formato, soave, regolato, gentile» e proseguendo nella «Dissertazione» il Cesari afferma
che in Toscana «tutti in quel benedetto tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene», senza distinzione quindi tra la lingua dei nobili e la lingua del popolo. Ecco allora la raccolta di queste parole preziose in un vocabolario, dato una volta per tutte, cristallizzato, immutabile. In modo ironico e accalorato Giacomo Leopardi criticò direttamente il Vocabolario della Crusca in un’annotazione al canto “Ad Angelo Mai”: «chiunque stima che nel punto medesimo che si pubblica il vocabolario d’una lingua si debbano intendere annullate senz’altro tutte le facoltà che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avute verso la medesima; e che quella pubblicazione, per sola e propria sua virtù, chiuda e stoppi a dirittura in perpetuo le fonti della favella; costui non sa che diamine si sia né vocabolario né lingua né altra cosa al mondo». Antonio Cesari è dunque figura di rilievo nel contesto letterario italiano e molte sono le tracce della sua presenza lasciate nella città natale. Fu precettore privato del piccolo Nicola Mazza che, a causa della cagionevole salute, non poteva frequentare regolarmente la scuola. A Castel D’Azzano si trova ancora l’omonima villa campestre dove il Cesari amava soggiornare. Nel duomo c’è la statua che lo ritrae, realizzata da Grazioso Spazzi e in quartiere Filippini si conserva un’iscrizione in sua memoria quale difensore della lingua del Sommo Poeta. Cesari, insieme ad altri dantisti veronesi come Bartolomeo Perazzini, Pier Iacopo Dionisi e Scipione Maffei, contribuì a creare a Verona un centro di ripresa degli studi danteschi. Tra il 1824 e il 1826 Cesari diede alle stampe “Sulle bellezze della Divina Commedia”, una serie di dialoghi tra quattro importanti dantisti veronesi “storici”: Filippo Rosa Morando, Giuseppe Torelli, Agostino Zeviani e Girolamo Pompei. Si tratta di un’opera che per la particolare analisi linguistica e stilistica della Divina Commedia rappresenta una momento significativo della moderna critica dantesca. L’abate Antonio Cesari morì a Ravenna nel 1828.
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Cultura MUSICA
Compositori veronesi tra ’600 e ’700 Dopo la peste del 1630 inizia un ciclo fecondo per la musica a Verona. Tra i compositori di questo periodo Dall’Abaco, Gazzaniga, Salieri e altri meno noti
Il 60 per cento della città finisce nelle fosse comuni, gettato nelle acque dell’Adige, bruciato sui roghi, coperto dalla calce viva. In Duomo la peste passa come una ventata gelida di morte: uccide canonici, cappellani e chierici privati. Gravemente decimati sono anche tutti i sodalizi e organismi musicali: dalla Cattedrale del Duomo alle Scuole Accolitali, alle Accademie, che escono assai provati dalla grave calamità
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di Nicola Guerini «Ed ecco perciò Verona, pochi mesi avanti bel teatro di gusti cavallereschi, fatta spettacolo in felicissimo à gli stranieri di miseria compassionevole, per le pubbliche, e le private ghiatture: travagliata dalle esterne invasioni, meza consumata dalle proprie militie, guasta dalle inondazioni, abbattuta dalla pestilenza, et in uno de’ più degni, e pregiati membri, tocca non solo, mà sfigurata dal foco. O memorie, ò tempi! Era, ridotte le cose à segno, che meglio si potevano lacrimare, che ristorare, e meglio piangere, che descrivere. La naturale elazione allora de gli animi veronesi, si vidde se non distrutta, almen depressa, e costernata». Così il medico Francesco Pona, scrive davanti al tragico spettacolo della città decimata dalla peste del 1630. Secondo le statistiche del tempo: «erano 53.533, sono morti 32.895, sono vivi 20.630, cioè 7.681 homeni, 9.443 donne, 3.506 putti». Il 60 per cento della città finisce nelle fosse comuni, gettato nelle acque dell’Adige, bruciato sui roghi, coperto dalla calce viva. In Duomo la peste passa come una ventata gelida di morte: uccide canonici, cappellani e chierici privati. Gravemente decimati sono anche tutti i sodalizi e organismi musicali, dalla Cattedrale del Duomo alle Scuole Accolitali, alle
Veduta di Verona in una stampa seicentesca
Accademie, che escono assai provati dalla grave calamità. Non manca però la ferma volontà di ripresa che già si manifesta nel 1631 con la solenne processione di ringraziamento per il cessato contagio: si svolse dal Duomo a S.Anastasia e a S. Fermo «ove fu cantata una messa la più solenne che portassero i tempi». Dall’espressione di un antico cronista dell’epoca, traspare così l’impegno a non voler perdere la tradizione musicale, passata e re-
cente, nonostante le difficoltà che la peste aveva portato. La cappella del Duomo è la prima a dare qualche segno di ritrovata vitalità per quanto i generosi sforzi delle autorità capitolari (l’insieme delle autorità ecclesiastiche che affiancano il vescovo nel governo della diocesi) raramente trovarono adeguata rispondenza nei risultati. Il continuo avvicendarsi alla guida della Cappella di maestri non sempre all’altezza del compito nei decen-
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Cultura Il nome di Torelli si aggiunge alla lunga lista dei musicisti veronesi che, formatisi nella loro città natale, troveranno poi altrove stabile sistemazione e gloria. Si ripete così una storia antica, iniziata con i frottolisti Tromboncino e Cara, quindi proseguita con Vincenzo Ruffo, Stefano Bernardi e molti altri meno noti ma altrettanto rappresentativi “ambasciatori all’estero della Verona musicale”
ni centrali del Seicento, le severe restrizioni alle spese per i salari dei musici imposte dalla scarsità delle rendite, lo stato di decadenza delle Scuole Accolitali – per i permanenti vuoti nel corpo docente – sono gli aspetti più evidenti di una generale precarietà che certo non favorisce il ritorno al prestigio dei tempi migliori. Soltanto nel 1670 le istituzioni cattedrali sembrano trovare nuovo vigore grazie al veronese Dionisio Bellante, già violinista in Duomo nell’immediato dopo peste e, dal 1658, maestro di cappella (incarico simile egli lo ricopre presso la chiesa di San Luca). Di Bellante va ricordato l’oratorio “Il figliol prodigo” e una scuola per ragazzi, i “Pueri cantores” che, affiancandosi ai clerici e musicisti salariati, rinforzavano con successo le attività della Cappella. Gli eccellenti risultati conseguiti dal Bellante sul piano didattico e artistico nel periodo del suo incarico sono compromessi da una nuova serie di calamità naturali (inondazione, tempeste di grandine e siccità) che colpiscono il territorio veronese nel 1668, facendo cadere le rendite terriere di cui la Messa Accoliti godeva. Il Capitolo è costretto ad altri drastici provvedimenti restrittivi verso Scuole e Cappella, i cui organici sono pressoché di-
mezzati (rimangono in servizio il solo maestro, che muore nell’ottobre del 1685, e qualche cantore). Alla vigilia dell’ultimo duro colpo inflitto alla vita musicale della città, nel luglio del 1684, lascia il suo posto di violinista in Duomo Giuseppe Torelli (1658-1709), entrato fra i “musici salariati” della Cappella nell’agosto del 1683. Nato nella nostra città nell’aprile del 1658, in una casa di S.Maria in Chiavica, da Stefano Torelli che per parecchi anni fu sovrintendente alla Dogana. Il giovane Giuseppe apprende le prime lezioni a Verona con il maestro Giuliano Massarotti ed in seguito perfezionerà i suoi studi presso l’Accademia Filarmonica nei cui registri si parla nel 1684 di questo “suonatore di violino”. Il nome di Torelli si aggiunge alla lunga lista dei musicisti veronesi che, formatisi nella loro città natale, troveranno poi altrove stabile sistemazione e gloria. Si ripete così una storia antica, iniziata con i frottolisti Tromboncino e Cara, quindi proseguita con Vincenzo Ruffo, Stefano Bernardi e molti altri meno noti ma altrettanto rappresentativi “ambasciatori all’estero della Verona musicale”. Nel 1684 Torelli parte per Bologna, centro importante del violinismo seicentesco, dove viene accolto quale membro della locale
Supplica di Vivaldi all’Accademia Filarmoniva per ottenere l’utilizzo del teatro cittadino
Accademia Filarmonica e della rinomata Cappella musicale di San Petronio. Il successo sempre crescente lo porterà alla pubblicazione di varie opere; di particolare importanza è la raccolta di dodici concerti grossi con una Pastorale per il Santissimo Natale Op. 8, edita dopo la morte dell’autore, costituita da sei concerti per violino. La scuola barocca bolognese ha in lui un esponente di grande valore, al quale si deve il merito delle prime e decisive affermazioni del concerto con il violino solista. Torelli si trasferirà a Vienna nel 1695, nel 1698-99 sarà attivo nella Corte di Brandeburgo-Ansbach per tornare poi nel 1701 a
Vincenzo Rotari, “Società di gentiluomini veronesi dilettanti di musica”
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Cultura Anche Felice Evaristo Dall’Abaco (16751742) dalla nativa Verona si trasferisce a Modena, per completare la sua formazione violinistica. Poi ad Amsterdam e Parigi, capitali settecentesche dell’editoria musicale, pubblica varie raccolte di sonate violinistiche. Verona ha voluto mantenere viva la memoria dell’illustre compositore intitolando al suo nome il Conservatorio musicale cittadino
Sopra: la casa natale di Evaristo Dall’Abaco, vicino alla chiesa di Sant’Eufemia. A fianco: il conservatorio cittadino che porta il nome del celebre musicista
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Antonio Salieri
San Petronio, ormai consacrato fra i “grandi” della generazione musicale di Corelli e Vivaldi. Anche Felice Evaristo Dall’Abaco (1675-1742) dalla nativa Verona (in una casa nell’attuale vicolo S.Giovanni in Foro presso la chiesa di Santa Eufenia) si trasferisce a Modena per completare la sua formazione violinistica con il celebre Tommaso Antonio Vitali. Di qui, agli inizi del Settecento, Dall’Abaco passa come violoncellista al servizio di Massimiliano II di Baviera, presso la Corte di Monaco, seguendo il suo principe nei numerosi spostamenti attraverso Francia e Belgio. Egli percorre tutte le tappe della carriera all’interno della Cappella bavarese divenendone direttore “konzermeister”(maestro dei concerti) e, dal 1717, addirittura consigliere di Massimiliano II. Ad Amsterdam e Parigi, capitali settecente-
Felice Evaristo Dall’Abaco
sche dell’editoria musicale, Dall’Abaco pubblica varie raccolte di sonate violinistiche, triosonate e concerti che lo impongono quale autorevole e raffinato esponente dello stile strumentale italiano all’apice della sua stagione. Verona ha voluto mantenere viva la memoria dell’illustre compositore intitolando al suo nome il Conservatorio musicale cittadino. Estintasi con la metà del secolo XVII la grande tradizione strumentale italiana e trasferitisi all’estero i suoi maggiori protagonisti, dilaga la musica vocale con un particolare interesse verso il melodramma. É a questa nuova sensibilità che dobbiamo rivolgerci per trovare altre presenze veronesi significative nel panorama della musica del secondo Settecento. Tra queste, Giuseppe Gazzaniga (1743-1818), autore di oltre sessanta opere, serie, buffe e intermezzi, oratori, messe, cantate, nonché sinfonie, ouvertures e concerti per pianoforte e orchetra. La sua carriera inizia a Napoli studiando con Porpora e Piccinni, come ogni operista del tempo, e prosegue con continui spostamenti di città in città dove vengono rappresentati i suoi lavori; dal 1791 fino alla morte si stabilisce a Crema come maestro di Cappella del Duomo. Tra le sue opere va citato “Il convitato di pietra” (1787), dal quale Mozart e il librettista Lo-
renzo Da Ponte trassero lo spunto per il capolavoro teatrale “Don Giovanni”, andato in scena a Praga il 29 ottobre dello stesso anno. Da citare il grande successo al Filarmonico del 1775 con “L’isola di Calipso” e il grande trionfo dell’opera “La vendemmia” composta su libretto di Carlo Goldoni, data a Verona nel 1778, e il dramma giocoso “L’isola d’Alcina” su libretto di Bertati. Gazzaniga torna al Filarmonico nel 1797 con “La moglie capricciosa”, nel 1797 con la prima de “Il divorzio senza matrimonio” e nel 1799 con “Fedeltà ed amore alla prova”. Nel 1780 al Filarmonico c’è il debutto del legnaghese Antonio Salieri (1750-1825) con “La scuola dei gelosi”. Salieri è già famoso. Dopo gli studi a Venezia con Pescetti e con Pacini ottiene notevole successo nel campo operistico europeo. Bene apprezzato dal maestro di cappella alla Corte di Vienna, Gassmann, viene da questi convinto a trasferirsi nella capitale imperiale dove riceve lezioni e protezione. Dopo aver esordito a Vienna nel 1770 con “Le donne letterate”, nel 1774, alla morte di Gassmann, prende il suo posto. Incontra subito il favore del pubblico ricevendo numerosi inviti: a Milano per l’inaugurazione della Scala con “L’Europa riconosciuta” e a Parigi su richiesta di C.W.Gluck con “Le
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Cultura Nell’anno mozartiano è doveroso ricordare che è assolutamente infondata la diceria che imputava Salieri come responsabile dell’avvelenamento di Mozart per invidia del suo genio. Questa infatti è la leggenda immortalata da Puskin, che ne fece un piccolo testo teatrale
Manaidi” del 1784. Nel 1778 prende la direzione della Cappella Imperiale succedendo a G. Bonno, ma dodici anni più tardi decide di mantenere solamente la carica di compositore di Corte, dedicandosi con passione all’insegnamento: tra i suoi allievi Beethoven (che gli dedicò le tre Sonate Op 12), Schubert, Liszt, Meyerbeer, Hummel, Sussmayr. Organizzatore infaticabile (annoverato tra i fondatori del Conservatorio di Vienna), dopo il 1821 soffre di una grave malattia mentale. Nell’anno mozartiano è doveroso ricordare che è assolutamente infondata la diceria che imputava Salieri come responsabile dell’avvelenamento di Mozart per invidia del suo genio. Questa infatti è la leggenda immortalata da Puskin, che ne fece un piccolo testo teatrale (1830), poi musicato da Rimskij-Korsakov. Oltre a “Le Manaidi”, fra le quarantina di opere di Salieri figurano, in primo piano, “Tarare”, “La grotta di Trofonio”, “Prima la musica poi le parole” e il “Falstaff ” del 1799, dal quale Beethoven utilizza un’aria per dieci variazioni per pianoforte. È di notevole spessore anche la sua produzione orchestrale (sinfonie, serenate, concerti per pianoforte, per organo, per flauto e oboe, per violino, violoncello e oboe), sacra (6 messe, un requiem, una settantina di inni offertori) e cameristica.
in VERONA
MUSICALMENTE
Il concerto di Nicola Guerini Il termine “concerto” sembra derivare dal latino “consertus” (da conserere, tenere insieme): nel secolo XVI veniva anche indicato “conserto”. Il significato originale è quindi di “insieme, sia vocale che strumentale”. Come primi esempi ci sono i concerti ecclesiastici a otto voci con organo di Banchieri del 1595 e i “cento concerti ecclesiastici a una, due, tre e quattro voci, con basso continuo per sonar nell’organo” di Viadana del 1602. Anche Claudio Monteverdi intitolò concerto il suo settimo libro di madrigali che contiene brani per voci ed accompagnamento strumentale. Nel XVII secolo si diffonde il “Concerto di gruppo di ripieno”, una composizione puramente strumentale, senza parti solistiche, con più di un sonatore per ogni parte polifonica (orchestra). Successivamente si va definendo il “Concerto Grosso” che nasce invece dalla contrapposizione di due corpi sonori diversi: il “Concertino”, formato dai sonatori più esperti, e il “Ripieno” di tutta l’orchestra anche detto “Concerto Grosso”. Ne deriva un nuovo contrasto sonoro che evidenzia le capacità espressive e tecniche dei solisti del “Concertino”. Gli strumenti più impiegati nel concertino erano due violini e un violoncello anche se esistono diverse formazioni per esempio nei “Concerti Brandeburghesi” di Bach e in molti di quelli di Vivaldi. L’introduzione dello strumento solista, come lo intendiamo oggi, nasce nel periodo di Torelli ma è con Vivaldi che raggiunge equilibrio formale, raffinatezza stilistica e l’articolazione in tre movimenti (vivacelento-vivace). Il violino diventa, almeno per gli italiani, lo strumento solista prevalente per tutto il XVIII secolo, anche se vanno ricordate pagine magnifiche di Concerti per oboe (Vivaldi, Albinoni, Haendel), fagotto (Vivaldi), flauto (Quantz) e tromba (Telemann). Da ricordare che anche il ruolo del clavicembalo, storicamente affidato al solo sostegno armonico
nella realizzazione del Basso continuo, subirà un significante cambiamento di ruolo nel Concerto Brandeburghese n°5 di Bach. Qui infatti per la prima volta questo strumento fu utilizzato con un ruolo da “solista”, anticipando alcune caratteristiche che saranno presente nel “Concerto per pianoforte ed orchestra” del Settecento. Durante il Classicismo, e soprattutto con Mozart, il Concerto per strumento solista subisce un’evoluzione che si spiega insieme alla diffusione della forma sonata, affermando in modo sempre più deciso il suo carattere “virtuosistico” sotto il profilo tecnico ed espressivo. La nuova forma è in tre tempi, il primo in forma Sonata, il secondo con carattere di Andante o Adagio e l’ultimo generalmente in forma di Rondò. Anche il ruolo della Cadenza è importante per definire quello del nuovo solista. Introdotta, infatti, dopo il caratteristico accordo con tutta l’orchestra, ha lo scopo di mettere in risalto tutte le capacità virtuosistiche dello strumentista. La Cadenza, che viene eseguita mentre tutta l’orchestra “tacet”, in un primo tempo era affidata all’improvvisazione estemporanea del virtuoso, ma successivamente fu scrupolosamente scritta dal compositore. É sicuramente di grande interesse per l’appassionato poter notare le varie differenze durante l’evoluzione del Concerto, tra il Classicismo e tutto il tardo Romanticismo, attraverso lo sviluppo formale, il ruolo della cadenza, la complessità della scrittura musicale, i nuovi equilibri fra solista/i ed orchestra, senza trascurare la presenza di formazioni orchestrali sempre più grandi. Nel Novecento si è ripresa l’antica concezione del Concerto puramente orchestrale anche se la scrittura moderna richiede un’ottima abilità tecnica, come avviene per esempio nel “Concerto per orchestra di Bartok”. Oggi, tra le numerosissime realtà musicali e stilistiche, la figura del Concerto assume indubbiamente nuovi significati espressivi, pur mantenendo vivo quell’intenzione di contrapposizione dialettica tra diversi linguaggi che, se in una forma diversa e con evolute risorse drammaturgiche, continueranno ad incontrarsi per… “concertare”.
FOTO CONCERTO DUE NUMERI FA
Cultura di Oreste Mario dall’Argine • Fabrizio De Andrè. Come già altre volte ha fatto, l’Accademia Filarmonica Veronese si accosta, sempre con molto acume, al mondo della musica leggera così detta “colta”. Un accostamento che si è notato in chiusura del cartellone autunnale, avvicinando negli ultimi due appuntamenti il Don Giovanni di Mozart e quel poeta della musica che è stato Fabrizio De Andrè. Un poeta, appunto, del periodo d’oro dei cantautori “colti” al tempo dei Tenco, Battisti, Lauzi, Paoli, Iannacci, Celentano, fino a Modugno. Un bravissimo “metteur insieme”, come lo definisce Roberto Danè, che, accostando pezzi di vita alla poesia, la poesia alla musica, citazioni, spunti e contributi, li ha ricomposti in un grande affresco con una sua impronta così forte da diventare carismatica. Voce e musica, accomunate da un logos identico di forza espressiva, consentono a questo “ragazzo” della scuola genovese di evadere in modo assolutamente originale dal mondo variegato e spesso incolore della musica consumistica o nazionalpopolare, per usare definizioni alberoniane. Senza andare alle vette delle sue creazioni e delle sue interpretazioni, se pensiamo a quel piccolo e popolarissimo esempio di favola musicale e poetica che è La canzone di Marinella, è impossibile non notare la forza, la sensibilità e l’originalità di una creatività di rara spontaneità anche virtuosa. Il lento scorrere della melodia, all’apparenza solo accompagnatoria, trasformano il pentagramma in un andare dolce e immaginifico, attraverso la fusione della fisicità caduca con la dolcezza della natura. In De Andrè c’è chi sente un eco del surrealismo francese. La nuova musica, come tutte le ricerche e i tentativi di innovazione culturale, ha anch’essa, come il futurismo, un suo manifesto: dal quale futurismo prende a modello l’irritazione, la rabbia che irri-
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ACCADEMIA FILARMONICA
De Andrè e Mozart hanno chiuso la stagione 2006 Il Settembre dell’Accademia si conferma un appuntamento unico per Verona con scelte azzeccate e interpreti di eccezionale talento
Wolfgang Amadeus Mozart
de al romanticismo dei testi, alla melodia sdolcinata, alle gigionesche interpretazioni di piccoli tenori e ancor più piccoli soprani, a tutto l’apparato che circonda il fiorire di parolieri e compositori morti prima di nascere, ma comunque accompagnati dal clamore delle case discografiche. • Wolfgang Amadeus Mozart. A chiudere il Settembre dell’Accademia è toccato invece a Mozart, una figura fra mito e leggenda. Mito e leggenda che confondono la sua vicenda umana e quella musicale. Il mito di una musica che supera il sogno di ogni fantastica bellezza, la leggenda di un uomo che attraversa la vita in tutti i suoi percorsi del vivibile. L’Accademia Filarmonica ha chiuso la decima edizione con un’edizione particolarmente vivace ed attraente del Don Giovanni, diretto dal Maestro Zsolt
Hamar, che fonde in sé professionalità ed estro creativo. La particolarità di questa edizione è la regia affidata ad Eugenio Monti Colla, un erede di quella grande famiglia di marionettisti “Colla e figli” che assieme alla famiglia Ferrari hanno segnato questo particolare spunto della vita del teatro italiano. È la prima volta che Eugenio Monti Colla si trova a manovrare i fili delle sue marionette accanto a cantanti in carne e ossa. Questo dimostra come non esistano confini nella creatività artistica. La regola essenziale – e questa dovrebbe valere per tanti facili sperimentatori di trasformazioni dei palcoscenici in palestre di ignobili invenzioni e cor-
Fabrizio De Andrè
ruzioni artistiche – è quella di sapersi accostare a testi, a musiche, a qualsiasi capolavoro come il Don Giovanni, con quel senso di sacro rispetto che sempre è dovuto alle opere e alle ispirazioni degli autori. La forza creativa Mozart, infatti, fu parte di quella grande ondata di cultura che spezzò gli equilibri sociali ed artistici del ‘700 illuminato e aristocratico, per aprire le porte al romanticismo del popolare ‘800. Nella sua musica così trasparente si nasconde un magnifico artifizio che porta in sé dolcezza e letizia alla tristezza e all’angoscia della vita. Mozart si aggroviglia nelle note per sciogliersi nella soavità più incantata di una creatività epifanica. Il suo sogno umano si interrompe presto, avvolto nel mistero di una morte discussa, glorificata dalle note di quel Requiem che resta nei secoli il miracolo della genialità umana.
Il Teatro Filarmonico
Ottobre 2006
Spettacoli Il Grande Teatro Organizzato dall’assessorato allo Spettacolo del Comune di Verona, il Grande Teatro torna anche quest’anno con otto spettacoli al Teatro Nuovo, dal 7 novembre 2006 al 18 marzo 2007, dal martedì alla domenica, per un totale di quarantotto appuntamenti. Carlo Cecchi con Paolo Graziosi, aprirà il cartellone nel segno di Pirandello, e Anna Marchesini, è l’interprete di Le due zittelle, liberamente tratto dal romanzo di Tommaso Landolfi. La formula, su cui si basa il cartellone, è ancora una volta ispirata alla selezione del meglio del programma teatrale nazionale: da una parte spettacoli già varati che hanno riscosso grande successo nella scorsa stagione, dall’altra nuovi allestimenti come quello di Lella Costa ispirato all’Amleto shakespeariano. Oltre ai grandi attori, fra i più noti e applauditi del palcoscenico nazionale (Umberto Orsini, Lello Arena, Ugo Pagliai, Paola Gassman, Luca De Filippo, Carlo Cecchi, Paolo Graziosi, Anna Marchesini e Lella Costa), spiccano quest’anno anche importanti registi: Massimo Castri, che firma la regia del Padre di Strindberg con Umberto Orsini, Tato Russo, che rimette in scena (nel duplice ruolo di attore e regista) dopo quindici anni, a grande richiesta, uno dei suoi più acclamati successi, La tempesta di William Shakespeare, e Francesco Rosi, che cura la regia di Le voci di dentro di Eduardo De Filippo, con Luca De Filippo, Antonella Morea e, per la prima volta al Grande Teatro, Carolina Rosi, figlia del grande regista. Per quanto concerne i testi, dominano i classici, da Pirandello a Goldoni, da Strindberg a Shakespeare e Eduardo De Filippo, con la presenza “letteraria” di Tommaso Landolfi e di Dino Buzzati.
in VERONA
Sei personaggi in cerca d’autore, per la regia di Carlo Cecchi
TEATRO NUOVO
L’ironia di Pirandello tra finzione e realtà Martedì 7 novembre in scena Sei personaggi in cerca d’autore
La critica, nell’applaudire il protagonista, sia come regista che come interprete, sottolinea la modernità, la freschezza, l’ironia, e l’essenzialità, che sono caratteristiche fondamentali di Cecchi. Lo spettacolo è acuto ironico e di una semplicità folgorante
La stagione del Grande Teatro si aprirà martedì 7 novembre al Nuovo con Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, con la regia di Carlo Cecchi che nello spettacolo interpreta anche lo sconcertante personaggio del regista. Coprotagonista nel ruolo del padre, un altro grande nome del teatro italiano, Paolo Graziosi, uno degli attori prediletti da Giorgio Strehler. Numerosi i riconoscimenti a questo allestimento pirandelliano: premio La maschera d’oro 2005 a Carlo Cecchi, come migliore attore, premio Olimpico del teatro 2005 a Paolo Graziosi, premio Alda Bisazza - Valeria Moriconi ad Antonia Truppo, come migliore attrice esordiente. Protagonisti di questo dramma i sei componenti di una famiglia che si ricostituisce dopo essersi separata. Padre e figlio – rimasti soli perché la madre scappa con un altro uomo da cui avrà in seguito tre figli – riformeranno con la madre, nel frattempo vedova per la morte dell’uomo con cui è fuggita, l’ori-
ginario nucleo familiare che diventerà così di sei persone. Ma dopo la riunione, fra odi, disprezzi, strazi, ricatti e vendette, la vita in famiglia diventerà un inferno che culminerà nella morte della bambina e nel suicidio del giovinetto. «Il ritratto che ne viene fuori – scrive Carlo Cecchi – potrebbe essere atroce se Pirandello, come sempre fa, non annegasse quell’inferno d’irrealtà e d’imbecillità borghese nell’aura dolciastra del dibattito pseudo-filosofico e pseudoestetico. E la trama nera dei suoi canovacci – così esemplarmente italiani – continua, da quasi un secolo, ad essere nascosta sotto la maschera del conflitto fra finzione e realtà…». La critica, nell’applaudire il protagonista, sia come regista che come interprete, ha sottolineato la modernità, la freschezza, l’ironia, l’essenzialità, che sono caratteristiche fondamentali di Cecchi, e che contribuiscono a rendere lo spettacolo acuto e sorprendentemente ironico, di folgorante semplicità.
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Spettacoli
Umberto Orsini
di Alice Castellani Dal 21 al 26 novembre, per la rassegna Il Grande Teatro, al Teatro Nuovo di Verona sarà in scena Il padre, di August Strindberg, proposto dalla Fondazione Emila Romagna Teatro per la regia di Massimo Castri. Strindberg, il più importante scrittore svedese a cavallo del secolo, e uno dei più grandi drammaturghi europei, scrisse l’opera nel gennaio-febbraio 1887 e Nietzsche, in un carteggio con l’autore, disse di averlo letto due volte «con profonda commozione e con eccezionale sorpresa», giudicandolo «un capolavoro di dura psicologia». Lo stesso Strindberg parlava di un dramma «scritto con l’ascia, non con la penna», espressione più che comprensibile sulle labbra di un autore così geniale e visionario, acuto osservatore del reale, caratterizzato dal continuo desiderio di andare oltre, nel tormentato bisogno di smascherare le miserie della società e della condizione umana, donando così alla sua opera un carattere fortemente innovativo. La vicenda, che vede protagonista sulla scena Umberto Orsini (la cui prima grande prova d’attore fu nel 1961 nell’Arialda di Tesori, con la regia di Luchino Visconti), prende spunto da un banale dissenso tra coniugi sull’educazione da dare alla figlia. Il diverso modo di affrontare la questione da parte del Capi-
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TEATRO NUOVO
«Il Padre» di Strindberg In scena dal 21 al 26 novembre tano di cavalleria Adolf, uomo rigoroso e di coltivati interessi scientifici, e la moglie Laura (Manuela Mandracchia), fa venire al pettine i nodi irrisolti di un rapporto fra sessi inaridito in regole che hanno reso i due coniugi estranei l’uno all’altro, rivali, nemici. Laura è l’ideatrice e la motrice della “macchina infernale” che guida la fabula. Decisa a imporre ad ogni costo la propria volontà non esita a instillare nell’animo del marito un dubbio atroce: che egli non sia il vero padre della figlia Berta. Dopo la rivelazione della moglie, per il Capitano inizia un lungo calvario mentale che lo sprofonda in un’angoscia devastante che per tanti versi prefigura la crisi dell’istituto familiare nella società borghese, mostrando il matrimonio, privato di qualsiasi alone religioso o di romantici rivestimenti, nel suo più sgradevole vuoto. La donna si tramu-
ta in persecutrice, trama per interdire il marito, fino a quando un improvviso atto di violenza di lui ne rende manifesta la follia, cui segue una sorta di regressione infantile e la successiva apoplessia. L’annientamento del Capitano è comunque già tutto preordinato nella sua mente: Laura è per lui, da sempre, non la moglie, ma la madre nel cui grembo abbandonarsi al “piacere” tutto infantile “delle lacrime”. Questa tragedia moderna fu giudicata da alcuni, all’indomani della prima la sera del 14 novembre 1887, «l’opera di un pazzo», ma è giusto ricordare che la stessa esistenza di Strindberg fu emotivamente difficile. Visse in una continua e martoriata ricerca di sé, scandita da amare contraddizioni pagate sempre, profondamente, di persona sulla propria psiche. Duro fu il rapporto con il padre, con le tre successive mogli
(da cui finì sempre per divorziare), con la Svezia, da cui spesso si allontanò e che spesso mise sotto processo le sue opere, ma dove ritornò sempre, come nel grembo di una madre-matrigna. Lui per primo, comunque, si poneva in una condizione di conflitto con il suo paese: quando scrisse La sala rossa, nel 1879, intendeva certamente operare «uno smascheramento dei pilastri della società». Scrisse cioè «non per essere definito un poeta, ma per colpire». La società svedese lo ricambiò con processi per blasfemia, per oscenità, con continui attacchi carichi di livore. Nel romanzo Bandiere nere del 1907 un personaggio, non a caso uno scrittore, Falkenströmm, sembra parlare a suo nome: «Hanno sempre creduto che io intendessi soltanto punire chi mi leggeva, mentre io reagivo al male che provavo dentro di me. Per poter scrivere i miei libri ho offerto in olocausto la mia esistenza e la mia persona».
Manuela Mandracchia
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Spettacoli VICENZA-TEATRO OLIMPICO
Volle aiutare gli uomini e venne incatenato Prometeo fu punito per aver cercato di perfezionare la natura morale e intellettuale dell’umanità. La sua figura si accosta a quella del Crocifisso
Il titano è colpevole di aver portato il fuoco agli uomini e per questo viene punito da Zeus che lo fa incatenare su una roccia, dove il suo fegato verrà divorato giorno dopo giorno da un rapace. Nell’eroe martoriato è facile identificare i diseredati, gli oppressi, i perseguitati, coloro che si sono posti ai margini della società, o che da questa sono stati respinti per aver osato un riscatto o tentato un qualche perfezionamento nell’ambito della natura morale o intellettuale dell’umanità
in VERONA
«E pur, della mia sorte né favellare né tacere io posso. Ché per un dono che ai mortali io porsi, sotto il giogo sono io di tal destino: la furtiva predai fonte del fuoco nascosta entro la fèrula, che agli uomini maestra fu d’ogni arte, ed util sommo. Di tal misfatto pago il fio, nei lacci, a cielo aperto, turpemente avvinto». Questo ottobre al Teatro Olimpico di Vicenza, nell’ambito del 59° Ciclo di spettacoli classici, è stato rappresentato Prometeo Incatenato di Eschilo. La scena palladiana ha accolto uno dei maggiori attori della generazione di mezzo, Sebastiano Lo Monaco. La firma dell’allestimento è invece di un grande maestro italiano del teatro, Roberto Guicciardini. La presenza di Lo Monaco è stata una novità assoluta, mentre Guicciardini è tornato sul palcoscenico vicentino dopo anni di assenza. Si tratta di un titolo poco frequentato dai cartelloni dell’Olimpico (l’ultimo allestimento risale al 1999, con la regia di Lamberto Puggelli), anche se la tragedia è tra le più suggestive e intriganti del teatro greco. Protagonista è il titano Prometeo colpevole di aver portato il fuoco agli uomini e per questo punito da Zeus/Giove il quale ordina a Efesto di portarlo su un dirupo, scortato da Cratos e Bia, dove il suo fegato verrà divorato giorno dopo giorno da un rapace. Mentre viene incatenato, Prometeo non parla. Solo quando i tre si allontanano, inizia il suo appello alle Oceanine in una grande e famosissima monodia:
«O luminoso etere, o venti dalle rapidi ali, o sorgenti dei fiumi, sorriso innumerevole delle acque del mare». Il mare ode il suo lamento e le figlie di Oceano accorrono al suo lamento. Prometeo narra loro le proprie colpe e soprattutto di come diede agli uomini il benefico fuoco. Entra in scena Oceano che interviene per r consigliare Prometeo a ridurre la propria tracotanza e a dimostrare una maggiore remissione; solo così egli potrà aiutarlo. Ma il titano è sprezzante e risponde ironico, respingendo Oceano e i suoi consigli. Riprende a narrare le opere di benevolenza compiute in favore degli uomini e le Oceanine gli chiedono: «Ma tu, Prometeo, perché non provvedi a te stesso?». Il titano, che possiede il dono della preveggenza, accenna a un segreto sul destino di Zeus che egli considera essere l’arma per la sua liberazione: «E col segreto io sfuggirò le pene e i lacci turpi». Una giovanetta con due brevi corna sulla fronte arriva per caso sulla roccia dove è incatenato Prometeo: è Io, lontana ava di Eracle, che vaga per la terra cercando di scampare alla vendetta che Era ha lanciato contro di lei e al marito infedele, Zeus. Io racconta alle Oceanine le proprie sventure e Prometeo le predice quanto ancora dovrà patire. Ma le annuncia anche la fine di Zeus, se egli non sarà presto liberato. La giovane gli domanda chi mai potrà liberarlo e Prometeo risponde che sarà proprio uno dei suoi fi-
gli: «Di terza stirpe, dopo dieci stirpi». E mentre si intravede un finale di giustizia e felicità, entra in scena Zeus a mescolare di nuovo le carte: il dio supremo invia Ermes da Prometeo per sapere quale segreto egli nasconda. Prometeo rifiuta di rivelarlo e una grande rovina lo travolge: la roccia alla quale è incatenato si squarcia ed egli cade nel vuoto, scomparendo per sempre. Il testo, tradotto da Monica Centanni, presenta complessità linguistiche che rendono difficile la resa della profondità e della bellezza del testo originale. «Nel lessico» commenta la Centanni «si è tentato di alludere all’elaborata complessità dei composti e delle figure, senza comporre parole e immagini, formalmente o retoricamente incompatibili con le strutture della lingua italiana. Nella resa dello stile linguistico dei diversi personaggi e dei cori si è cercato di rispettare, come Eschilo fa, l’ethos delle diverse voci». «L’identificazione con la nostra storia», spiega Roberto Guicciardini, «si spinge fino a farci vedere nell’eroe martoriato una figura che in sé assomma i diseredati, gli oppressi, i perseguitati, coloro che si sono posti ai margini della società, o che da questa sono stati respinti per aver osato un qualche perfezionamento nell’ambito della natura morale o intellettuale dell’umanità. Una figura che, in sintesi, ricalca quasi in controluce i lineamenti di un uomo crocifisso, come riconobbe Tertulliano o, ai giorni nostri, Simone Weil». (G.C.)
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Spettacoli di Oreste Mario dall’Argine Chi era Brecht? “L’avete conosciuto? Indossava una giacchetta grigia per essere dimesso, perché lottava per l’uguaglianza. Quando un gigante si batte per l’uguaglianza ci rende tutti uguali a dei giganti”. (Peter Hcks - “Brecht”) Molto spesso, anche il più ignorato dei letterati o dei politici, quando vuol concludere un saggio o un suo discorso con una dimostrazione della profondità della sua cultura, cita Bertolt Brecht in questa sua famosa frase: “Beato quel paese che non ha bisogno di eroi!”. Ma non è certo questo incipit, ormai salottiero, il nostro modo per ricordare Brecht nel cinquantenario della morte. È solo per constatare seriamente quanto un grande poeta del teatro moderno possa essere ancora sconosciuto e usato con la citazione di un suo solo verso, strumentalizzandolo per ogni uso, e quanto, anche nelle società più evolute l’ignoranza culturale abbia globalizzato l’uso della mente. In realtà anche di quegli intellettuali, che per un solo biglietto omaggio esaltavano negli anni ’50 “Il Piccolo” di Grassi e Sthreler per la messa in scena dei capolavori brechtiani, quasi nessuno ha ricordato questo anniversario. Solo Claudio Magris, da profondo germanista quale è e da acuto studioso, ha scritto sul “Corriere” un profondo profilo del drammaturgo di Augusta. Brecht nasce ad Augusta nel febbraio del 1872; Augusta è oggi un sobborgo di Monaco, ma nella storia europea ebbe grande importanza per il protestantesimo, se non altro per la Professione di Augusta del 1830. Egli nasce dunque nel momento più fulgido dell’Impero di Guglielmo II. «Il nostro Dio – afferma Guglielmo II – non si sarebbe data tanta pena per la nostra patria Germania, se non avesse in serbo per noi cose ancora più grandi». Questa era la Germania ai tempi della nascita di Brecht: le cose più grandi che Dio aveva in serbo per Guglielmo II, il popolo certamente e il mondo intero, non l’avrebbero mai potuto immaginare! Brecht comincia la sua vita con
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ANNIVERSARIO
In ricordo di Bertold Brecht Nel cinquantenario della morte il profilo sintetico di un grande uomo che pagò di persona il coraggio della sua arte questa incomprensibile preveggenza, cui il destino riserva l’umiliazione di grandi sconfitte insanguinate da terribili genocidi. Il nostro abbandona la Germania nel 1933, quando Hitler prende il potere, lasciando il Berliner Ensemble dove aveva incontrato il
suo vero e pieno successo mondiale con la rappresentazione del capolavoro “L’opera da tre soldi”. Da Augusta inizia una vita di esule per sbarcare in America nel 1941. Sottoposto alle indagini della Commissione sul Partito Comunista Americano, riesce a ritornare a Berlino nel 1948. Rinasce il suo teatro, dove fino al 1956, anno della morte, crea e lavora per un suo mondo poetico che definire “comunista” è troppo facile, perché esso è in realtà quello dell’uguaglianza delle libertà. Certo non è un teatro cattolico, ma nel campo dell’arte, gli estremi possono anche toccarsi nel nome dell’universalità della poesia. Brecht, nella sua vita, ebbe sempre da combattere duramente contro tanti pseudo intellettuali che lui
con molta ironia definisce “TUI”, cioè intellettuali di casta che vollero incasellarlo nel paradigma di un’appartenenza organica a una parte. È nettamente evidente, nei suoi testi sia teatrali che poetici come nelle sue canzoni composte con Kurt Weil, che non si può certamente ritagliargli alcuna posizione di compromesso politico. Il suo è il teatro della verità (non in senso assiomatico) della conflittualità umana per il riscatto di chi è comunque suddito e schiavo di una società oppressiva e spregiudicata. «Ebbene – scriveva Paolo Grassi – i “TUI” casta rinfacciano a Brecht proprio quello che essi stessi non sanno fare, perché trasferiscono nel regno del teatro, nel regno bello fin che si vuole ma regno della fantasia inoperante, ciò che invece appartiene alla sfera della realtà concreta e dura, la rivoluzione». E sull’autorevolezza di questo intervento è difficile discutere perché Paolo Grassi e Giorgio Sthreler furono quei due grandi uomini di teatro che, in una Milano ancora toccata dalle ferite della guerra, portarono “Il Piccolo”, fra polemiche pretestuose e senza fondamento culturale, all’attenzione del mondo teatrale internazionale con i successi più strepitosi dei capolavori del drammaturgo tedesco . Da “L’opera da tre soldi” a “Madre Coraggio” a “Galileo”, ai recital delle canzoni brechtiane con una Milva imprevedibilmente trasformata, crearono una stagione culturale mai più raggiunta da altra città europea. Si può ben dire che quest’opera sia stata anticipatrice di un fatto politico così importante quale l’Unione Europea, alla quale grandi e irripetibili uomini politici stavano lavorando. Questo brevissimo ricordo di Brecht risponde ad un dovere di riconoscenza per un uomo che seppe resistere a sfortune, critiche e attacchi ingiusti, proprio perché una sua facile quanto discutibile “certificazione politica” lo perseguitò per tutta la vita, molto spesso esiliandolo in quella Berlino disperata dietro un inconcepibile muro. E questo ricordo gli è dovuto anche perché il professionismo del teatro italiano pare averlo dimenticato.
Ottobre 2006
IMPARARE A VIVERE MEGLIO
L’inserimento nel gruppo La partecipazione permette la comunicazione che a sua volta crea legami di solidarietà tra i membri e rafforza la comunità di Alessandro Norsa Nella mia pratica professionale accade sempre più frequentemente che persone dai 15 anni in poi mi presentino problematiche riguardanti l’inserimento nei gruppi. Durante l’infanzia le attività extra scolastiche e i gruppi vengono solitamente scelti in accordo tra genitori e figli; le possibilità di scelta sono numerose e in questa situazione i parenti possono agevolare l’inserimento; successivamente è la persona che, come per un passaggio iniziatico, deve orientarsi nella scelta e facilitare la propria integrazione. Tralasciamo in questa sede i casi nei quali l’inserimento risulta problematico e consideriamo solo quelle situazioni che rendono difficoltoso il rapporto nel gruppo nell’età più matura. Pensiamo ad esempio al trasferimento da un’altra città (non necessariamente di uno stato straniero), oppure una separazione o un divorzio (dove è indispensabile ricreare una rete di conoscenze per avere la possibilità di ricostruire una relazione). Frasi del tipo: «Ci élo?», «De ci élo Fiòl?», «Da ‘ndo iénlo?», «El cogniossi to?» sottolineano la “soca”, le radici della persona, la possibilità di averne delle informazioni e magari anche dei pareri o meglio dei giudizi. Questo meccanismo è talmente radicato che non solo riguarda l’accettazione del singolo nel gruppo, ma anche la possibilità di fondere insieme più gruppi. Questo modo di vedere le cose fa parte di un pensiero orientato alla chiusura, alla diffidenza e al controllo piuttosto che all’apertura. In merito a questo atteggiamento ci sono due possibili spiegazioni. La prima è di tipo storico. Dove per la storia della città, la benevolenza verso lo sconosciuto ha lasciato il posto a una naturale diffidenza, e questa fa ormai parte di un aspetto culturale consolidato e tramandato. La seconda, di tipo naturalistico, prevede che spontaneamente le persone (e soprattutto quelle più insicure) siano inizialmente
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guardinghe nell’incontro col prossimo e cerchino di comprenderne le intenzioni prima di accoglierlo. Ritengo che questo tipo di comportamento sia assimilabile alle dinamiche presenti nei gruppi chiusi, dinamiche che hanno radici profonde nella storia evolutiva dell’uomo, il quale ha dovuto costituire gruppi per poter garantire la sopravvivenza della specie. I membri di tali gruppi si disperdevano e si aggregavano secondo le condizioni ambientali, acquisendo metodi di riconoscimento e di affiliazione, come di esclusione, che divennero importanti per assicurare la giusta
distribuzione della preda catturata e per prevenire l’intrusione di persone dall’esterno. Questa ipotesi è legata a meccanismi arcaici di gestione del potere e di controllo: il gruppo chiuso dà la possibilità ai suoi membri di garantire le risorse che i singoli mettono a disposizione e ostacola gli altri che potrebbero sottrarle. Come ipotizzare di modificare le cose? Non tutti in un gruppo sono uguali, vi sono i leader e i gregari. I primi hanno maggiori possibilità di cambiamento rispetto ai secondi e, vista la forza di coesione del gruppo, se questi operano modificazioni i secondi li seguono. Da un’ottica di chiusura – che alla lunga, nel periodo che stiamo attraversando, porterebbe inevitabilmente a un’implosione dato l’alto numero degli integrabili – è necessario tendere a un’ottica di integrazione, passando per la fase indispensabile della loro partecipazione. La partecipazione permette infatti la comunicazione, che a sua volta crea legami di solidarietà tra i membri. In questo modo l’energia disponibile aumenta e il sistemagruppo si forma e si sviluppa. L’energia disponibile si distingue in due tipi: energia di produzione e di solidarietà. Nel momento in cui il gruppo integra i concetti di comunicazione, energia di produzione e di solidarietà sarà maggiormente maturo. La responsabilità del leader – sia quello dei gruppi spontanei che di quelli più strutturati – è quella dell’integrazione; maggiore è il grado di integrazione che riesce a stabilire (che per forza di cose non può essere totalitario) e maggiore sarà il suo consenso e il suo essere leader sarà carismatico piuttosto che autoritario. Potrei allora così concludere: se integri sarai integrato, se separi o emargini prima o poi subirai lo stesso trattamento, poiché le occasioni nella vita non si riducono solo a ciò che è circostanziale o attuale e i bisogni che avremo del prossimo nel futuro non li possiamo conoscere.
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Viaggiare SPAGNA
di Michele Domaschio Il posto migliore per vedere Bilbao è un ponte. Un ponte bianco, leggero, che segue con la sua forma la curva del fiume. Ricorda la fiaba narrata nelle “Mille e una notte”: il mondo, creato da Dio come un’unica forma di terra, era stato graffiato dagli artigli del Maligno; dalle ferite sgorgarono i fiumi e gli oceani, che separano gli uomini e li rendono nemici gli uni agli altri; così, il Misericordioso aveva inviato gli angeli, per riunire ciò che era stato diviso; e gli angeli avevano posato le loro ali, candide, trasformandole in altrettanti ponti (per questo, conclude la novella, il ponte è – dopo la fontana da cui sgorga l’acqua – il più sacro dei monumenti). É azzardato sostenere che Santiago Calatrava si sia ispirato a questo racconto per concepire la passerella pedonale Zubizuri: sta di fatto che la leggerezza del manufatto è pari solamente all’impareggiabile vista che si gode sostandovi per qualche tempo. Da un lato la città vecchia, sovrastata dalla collina dove si scorge la grande ruota del Luna Park e le guglie grigiastre della basilica de Begoña; sulla sponda opposta, scintillante pure con un pallido sole, il sinuoso e ardito profilo del museo Guggenheim; e guardando per un attimo proprio dove posiamo i piedi si potrà ammirare il lento scorrere del Nerviòn, poiché la passerella è lastricata di vetri trasparenti. Città dai forti contrasti, Bilbao, se
Bilbao dai mille contrasti Dopo gli anni Settanta la città è cambiata ed è diventata l’atelièr a cielo aperto dei maggiori progettisti e architetti contemporanei
Il Museo Guggeneheim di Bilbao
questa definizione non riecheggiasse uno dei più consunti stereotipi del viaggiatore ai tempi della globalizzazione. Eppure, fa realmente impressione constatare
Frank Gehry racconta che l’ispirazione gli è nata grazie a una singolare abitudine della nonna materna. L’anziana donna, infatti, era solita comprare le anguille fresche al mercato e poi non aveva il coraggio di passarle subito in padella. Così, le lasciava un paio di giorni in una tinozza, dove sguazzavano felici, ignare della triste sorte che le attendeva. Il piccolo Frank, affascinato dal riverbero che proveniva dalle scaglie del pesce, ha cercato di riprodurre tale effetto in molte sue opere, una volta diventato architetto. Il rivestimento del museo Guggeneheim a Bilbao è forse l’esperimento meglio riuscito, da questo punto di vista: tutte le forme esterne sono morbidamente ondulate, e ricoperte di sottili lamelle di titanio. L’effetto cromatico che scatu-
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quale stravolgimento abbia comportato sul tessuto urbano (e, quindi, sulla vita dei suoi abitanti) essere diventata – nel breve volgere di una decina d’anni – una sorta di
Il Guggeneheim e l’ispirazione di Gehry risce dall’utilizzo di questo materiale è assolutamente unico: sembra quasi che le pareti siano in grado di catturare la luce e portarla sin nel cuore del museo. Per aumentare questa sensazione, e per infrangere la separazione interno/esterno, Gehry ha fatto abbondante ricorso al vetro e ha fatto sì che – in diversi punti – le superfici abbiano modo di “entrare” nell’area museale, estendendo quest’ultima ben oltre i confini spaziali delle sale di esposizione. Così, ad esempio, la piscina
atelièr a cielo aperto per i maggiori architetti e progettisti contemporanei. Bilbao era, sino agli anni Settanta, tutta rannicchiata nei vicoli di Casco Viejo, il quartiere storico della città: le sette stradine parallele che sboccano sul fiume erano la trama originaria sulla quale si è sviluppato l’ordito dei suoi traffici, che mercanti operosi hanno trasformato in ricchezze e denaro sonante, come testimonia ancor oggi l’imponente sagoma del Banco de Bilbao y Vizcaya. La città ha poi attraversato il fiume, ha usato la sua ansa per cingere i giardini dell’Ensanche, il quartiere dove oggi si trovano gli uffici, i negozi, i ristoranti più chic. Ma il cuore di Euskadi, come i simpatizzanti dell’Eta chiamano questa terra, con il nome antico dei loro avi, batte nelle piazzette attorno alla Catedral. È qui che nella canicola d’agosto abbiamo visto dei falò accesi per ricordare il sacrificio di una giovane attivista, vittima del fuoco della Guardia Civil: un capannello di vecchi con il fazzoletto al collo e gli occhi lucidi seguiva l’orazione funebre, tenuta da un ragazzo di poco più di vent’anni, culminata con il canto che chiede per il Pais Vasco l’indipendenza dall’odiata Spagna. Una commemorazione o uno spettacolo per turisti? Viene da chiederselo, sia per la netta sproporzione tra gli attori dell’evento e la folla circostante (plotoni di asiatici, armati di qualsiasi diavoleria capace di fissare in immagine anche il più piccolo refolo di vento), sia per la consapevolezza dell’assurdità storica di certe rivendicazioni.
artificiale che delimita un lato del complesso appare all’occhio del visitatore come una parte del paesaggio fluviale, e la torre situata a quasi 500 metri dalla struttura è perfettamente funzionale all’opera di integrazione del vicino ponte autostradale. A vigilare sul museo si trovano due strani e inquietanti animali: all’ingresso principale, Puppy, una gigantesca scultura floreale dell’artista Jeff Koon che rappresenta un docile cagnolino alto circa quattro metri e mezzo; sul lato del fiume, Maman, una scultura bronzea del francese Louise Bourgeois che gli abitanti del posto hanno subito ribattezzato “la Araña” (il ragno), visto che i suoi lunghi tentacoli lasciano ben poco spazio ad altre interpretazioni.
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Libri Nel secolo di internet, dell’Europa resa finalmente una dal denaro – unico dio, unica moneta – che posto può avere un manipolo di nostalgici che intendono erigere confini a difesa di una terra poco più che immaginaria? Nei più anziani, forse, c’è il desiderio di preservare i ricordi, per non farli sfuggire: ricordi della resistenza all’oppressore franchista, fatta anche della strenua difesa della propria lingua (nelle aule dell’Università di Deusto, durante i lunghi anni della dittatura, i gesuiti riuscirono a beffare i controlli, insegnando pubblicamente nel castigliano imposto dal regime, salvo poi tenere lezioni clandestine e produrre e diffondere ciclostilati interamente redatti in lingua basca). Sotto i portici della Plaza Nueva, davanti a qualche bottiglia di Tzacolì o di sidro, ora ritrovi questi vecchi che giocano a carte, magari inconsapevoli che gli stessi tavoli hanno assistito alle appassionate discussioni di Miguel de Unamuno, il filosofo che – senza scomporsi davanti alle pistole puntate dei falangisti – li arringò dicendo: «Voi vincerete, perché avete la forza bruta dalla vostra. Ma non riuscirete a convincere. Perché per convincere vi serve ciò che non possedete: la ragione e il diritto». Ai più giovani può bastare, per sentirsi parte dell’Euskadi, disputare un torneo di pelota in una piazza che sembra costruita apposta per diventare campo di gioco, e tribuna per il pubblico. La palla di gomma si schianta sulle mani, appena protette da un guanto di cuoio, e rimbalza forsennata sul cemento: potrebbe sembrare un rituale antico, ma le maglie degli atleti – accanto ai nomi impronunciabili delle squadre di appartenenza – ostentano il logo di qualche onnivora multinazionale dello sport. I turisti, imperterriti, tempestano di flash i malcapitati giocatori, e rimane il dubbio se poi, nelle immagini, sarà il vecchio o il nuovo a prevalere.
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LA CASA EDITRICE
“Della Scala Edizioni” Fondata a Verona nel 1985 da Mauro Bonato di Francesca Paradiso La casa editrice Della Scala ha sede in Piazza San Zeno ed è stata fondata a Verona nel 1985 da Mauro Bonato, assieme alla rivista Civiltà Veronese. Dopo un anno ecco i primi libri tutti incentrati su Verona, per raccontarne la storia, le tradizioni, per valorizzare il territorio. «La rivista è ferma da alcuni anni a causa dei miei numerosi impegni» spiega Bonato, «oggi andrebbe ripensata e rivista». Tra i primi libri pubblicai Un vecchio trenino. La ferrovia di Verona Caprino Garda appartenente alla collana Trasporti e nel 1985 L’abbraccio di Verona al Papa, della collana Varia, in cui si trovano anche la storia dei Vescovi di Verona e dei Santi. Tra le collane spicca Libraria e Bibliografica, una serie di volumi dedicati alla storia delle biblioteche, del libro, della stampa e della bibliografia. «Sono soddisfatto di aver presentato l’inedito di Emilio Salgari La battaglia nel Tonkino; non erano più stati pubblicati suoi libri in Italia da circa un trentennio». Della Scala ha anche pubblicato Le invenzioni del cerusico Coltelli, di Berto Barbarani, autore conosciuto soprattutto come poeta, mentre questo è un racconto fantastico. Si tratta quindi di due grandissimi scaligeri che trovano spazio ne La Biblioteca di Verona (realizzata anche in una collana tascabile). Accanto a questi si colloca Atlantis, del veronese Lorenzo Montano, in cui l’autore racconta la sua storia di ebreo costretto a fuggire in Inghilterra a causa delle leggi razziali. E se le rive dell’Adige sono il cuore pulsante di questa casa editrice, non poteva certo mancare la collana dedicata a I poeti di Civiltà
Le invenzioni del cerusico Coltelli. Racconto fantastico di un autore, Berto Barbarani, che il grande pubblico conosce soprattutto come poeta
Veronese. Gianpaolo Feriani ha pubblicato con Della Scala le sue opere, «Feriani è considerato da molti il più grande poeta scaligero, ha vinto nel 1995 il premio Aque Slosse, concorso nazionale di poesia. Con El smorsegon del tempo è il primo veronese a ricevere questo importante riconoscimento». «Volevo offrire uno spazio per valorizzare chi studiava nel territorio e incentivare le ricerche su tutto ciò che riguarda la mia città» afferma Bonato. «Ho deciso di farlo attraverso una serie di pubblicazioni accessibili a tutti, adeguando sia il linguaggio dei testi sia il prezzo. Volumi molto fruibili con l’intento di raccontare Verona anche nei suoi aspetti meno conosciuti. É importante che ognuno trovi le proprie radici e le proprie origini proprio nel luogo in cui è nato». E il domani? «Non mi è chiaro il futuro della casa editrice» commenta l’editore «tengo in partico-
lare ad alcune collezioni. Se ci sarà un mutamento esso dipenderà in parte anche dai manoscritti: ricevo molto materiale, studi di veronesi e anche tesi di laurea». E aggiunge: «La casa editrice la seguo con gusto e passione dedicando ad essa ogni mia cura. Mi piacciono tutte le cose che faccio e il mio lavoro, di giornalista e di editore, mi ha sempre entusiasmato. Sono affezionato a La luna e il falò di Cesare Pavese e a un’altra opera, curata da me, di Leopoldina Naudet: Memorie secrete. Un libro coinvolgente per la bellezza e la profondità della storia raccontata. Sono pagine dense del diario spirituale della fondatrice delle Sorelle della Sacra Famiglia».
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N° 12/ottobre 2006 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.
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