Verona In 13/2006

Page 1

in VERONA

N째

13 - DICEMBRE 2006 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA



Primo piano

Un Festival dell’Avventura per la città di Salgari

In copertina foto di Silvia Andreetto

in VERONA

Goffredo Parise ricorda così la figura del padre adottivo: «Era un uomo di poche parole, portava scarpe lucenti, ma alla sera dopo cena mi raccontava i romanzi di Salgari; all’ora stabilita io fremevo; poi lui cominciava: Le tigri di Mompracem, Il Corsaro Nero...». Sul rito di questa lettura serale si costruiva il legame familiare. Lo scrittore di Vicenza ricorda con affetto il Salgari di Verona. A Ponte di Piave in provincia di Treviso, realizzando il testamento di Parise, si è aperta da alcuni anni la casa della cultura intestata a suo nome. Così le città e i paesi perdono l’anonimato, diventano luoghi di memoria e centri di proposta culturale. Riprendono originali vivacità le strade, le piazze, le attività umane. Basta solo osservare il percorso in salita di una città come Mantova, che continua a proporre idee e iniziative sulla scia della spinta del Festivaletteratura. Dunque ci piacerebbe che a Verona nascesse un festival salgariano, meglio, un Festival dell’Avventura perché è lì il segreto della scrittura, del successo e dello spirito di Salgari. E l’avventura esula dalle pagine scritte per coinvolgere tutto ciò che l’uomo fa per uno spirito di ricerca del cuore, dell’animo, della mente, della mano. Perciò Salgari è amato. Diventa quindi risorsa. Potrebbe essere allora una grande occasione per Verona, un omaggio finalmente a un suo grande scrittore e un mettere a frutto in modo intelligente, strutturato, pianificato e concreto un reale patrimonio di casa.

Nel 1894 Salgari si trasferì a Torino ma è nato e vissuto per più di trent’anni a Verona e qui inaugurò i suoi meravigliosi mondi esotici e suoi viaggi letterari di mare e di terra. Il libri di Salgari non hanno fatto le antologie d’elezione ma hanno fatto l’immaginario avventuroso dell’Italia, e non solo. Salgari non vide gli oceani che raccontava ma i suoi libri hanno compiuto lunghissimi viaggi oltre il confine italiano e lui è diventato uno dei maestri del genere avventuroso. È uno scrittore ritrovato, riscoperto, letto. Salgari è stato promosso autore “classico” proprio dai suoi lettori, numerosissimi. In barba alle resistenze dei critici. Tra i suoi lettori, e debitori di ispirazione, non sono mancati o non mancano nomi illustri: Pietro Citati, Giuseppe Pontiggia, Claudio Magris, Mario Spagnol, Sergio Leone, Giovanni Spadolini, Paolo Conte. E sono solo alcuni. Crediamo che Verona non debba perdere questa opportunità. In attesa di raccogliere opinioni a riguardo, e lo si può fare contattando la redazione del giornale, ci facciamo promotori di un sogno e nei prossimi mesi prenderemo contatto con persone che, con diverse competenze, potrebbero dare il loro valido contributo di idee e di mezzi per realizzare a Verona il Festival salgariano dell’Avventura. Idearlo, pensarlo è già opera d’avventura perché il più grande viaggio è l’immaginazione.

Una grande occasione per Verona, che potrebbe finalmente omaggiare un suo grande scrittore, mettendo a frutto in modo intelligente, strutturato e pianificato un reale patrimonio di casa

Elisabetta Zampini lunastella@libero.it

3


IL PERSONAGGIO

«Capitan Dreamer» Maurizio Pollari, artista genovese da anni trapiantato a Verona, racconta la sua vita da bohemien e del suo musical in cerca di uno sponsor. Capitan Dreamer è la storia a lieto fine di un marinaio giramondo dal cuore generoso

di Giorgia Cozzolino «E poi ci troveremo come le star, a bere del wisky al Roxy Bar, oppure non ci incontreremo mai, ognuno a rincorrere i suoi guai…». Forse non è la vita spericolata che canta Vasco Rossi ma quella di Maurizio Fabio Pollari di certo ha il sapore dell’avventura e della libertà. Quella libertà che si paga sempre troppo cara e che, come merce preziosa, non finisce mai in saldo. Ma non importa, perché «l’importante è ridere». Seduto al Corsini, in cambio di un Prosecco, Pollari racconta la sua

vita. La racconta non come fanno certi vecchi, con quella nostalgia carica di tristezza che contagia, ma con gli occhi vispi del ragazzino che sa di averla combinata grossa, ma non gliene importa un fico secco perché, tanto, ha tutto un domani davanti per rimettersi in pari. In pari con la vita, però, Pollari non c’è mai voluto stare, sempre ai limiti e spesso oltre, ha cavalcato gli anni della giovinezza come «una folle corsa sulle note degli Stones», come ama dire. Fin dove si spinga la realtà immaginata e la fantasia vissuta, non è facile capire, ma quest’uomo, classe 1947, di storie da raccontare ne

ha tante. È un attore, drammaturgo di se stesso, un po’ giramondo e un po’ libertino alla Oscar Wilde, e incarna il detto, troppo spesso abusato ma poco praticato, del «lavorare per vivere e non vivere per lavorare». Figlio della costa genovese, Pollari arriva a Verona inseguendo l’amore. Un amore clandestino e proibito per una donna sposata con prole che, racconta, è scoppiato in un maso a Tione e si è lentamente consumato nella città di Giulietta. In occasione di una delle tante selezioni per comparse in Arena ha trovato nella nostra città un punto di riferimento, un luogo dove si

Dicembre 2006


Primo piano In ogni lavoro, in ogni esperienza, Pollari si imbatte in un groviglio di incontri fatali e di amicizie che trasformano l’esistenza piatta di un forse-ragioniere, nelle montagne russe di un sicuro uomo di mondo

La notte Pollari scrive. Il Tredicesimo apostolo è la storia di Fabius Mauritius, un pescatore amico di Giuda che capisce le intenzioni del traditore e va ad avvisare Gesù del complotto per salvargli la vita»

Nella pagina a fianco, in alto: Maurizio Pollari (al centro) durante una pausa di Carmen. In basso: la caricatura di Capitan Dreamer. In questa pagina, in alto: Pollari con il famoso tenore catalano José Carreras (al centro). Nelle altre immagini Pollari con alcune amiche

in VERONA

sente a casa ancor più della sua amata Genova e, per uno che si trova sempre in mezzo alla tempesta, non deve essere poca cosa. Ma prima? Prima ci sono stati gli anni ruggenti di sesso, droga e rock ‘n roll, delle corse pazze su auto sportive e delle puntate al casinò. Pollari si racconta senza prendersi troppo sul serio, parla della sua maturità da ragioniere e dei due anni alla scuola di teatro con l’unico obiettivo di diventare il nuovo Marlon Brando. Gli anni passano tra mille mestieri di fortuna che gli danno quel tanto che serve per coltivare le sue grandi passioni: le donne, la musica, l’arte... insomma, la vita. Come quando prese il treno per gli stabilimenti della Philips a Rotterdam. I propositi erano eccellenti, ma trovò sulla strada Amsterdam. La città gli apparve così diversa e così eccitante che uno come lui non poteva rimanerne che affascinato e allo stesso tempo travolto. Non sappiamo se le cose gli divennero più confuse o più chiare, di certo non arrivò mai a Rotterdam e la Philips perse l’opportunità di averlo tra i suoi collaboratori. In in ogni lavoro, in ogni esperienza Maurizio si imbatte in un groviglio di incontri fatali e di amicizie che trasformano l’esistenza piatta di un forse-ragioniere, nelle montagne russe di un sicuro uomo di mondo. È infatti di questa incredibile capacità di intessere relazioni con le persone più originali, fuori dagli schemi e di successo che sembra nutrirsi la vita di Pollari che tuttora vanta, come dice lui, «public relations eccellenti» e «carissimi amici Vip». Non una, ma mille esistenze in una sola. In lui sembrano vivere

tutte le persone che ha conosciuto e, forse, in tutte loro c’è una parte di lui. Questa è la sensazione che si ha leggendo lo script del suo musical. Già, perché, tra una comparsata in Arena e una in un telefilm tedesco, Pollari ha trovato il tempo di scrivere un vero e proprio spettacolo musicale, Capitan Dreamer, che vorrebbe realizzare a Las Vegas (ma sta cercando un produttore anche in Italia e a Verona). Le sue influenti amicizie, infatti, varcano i confini italiani. A New York ci era andato per conquistare il cuore di una affascinante e nota cantante di colore. Negli anni Ottanta ha fatto da runner, o galoppino che dir si voglia, per i maggiori nomi della musica internazionale, da quel Bob Dylan «antipatico e sbruffone», al «fantastico e gentile» Santana. Da lui Peter Franton «voleva solo droga» mentre, «beh, Elton John cercava dell’altro...». Pollari ha cucinato piccantissimi spaghetti olio, aglio e peperoncino per Frank Zappa e per la sua «enorme guardia del corpo nera, vestita con una tuta rosa fuxia». Conosce bene Zeffirelli, il soprano Gasdia e, tra le mille avventure artistiche, non si è fatto mancare tre imbarchi sulla Oceanic, una delle navi da crociera più famose di tutti i tempi. Ed è forse tra lo scintillio di onde esotiche, mescolate ai ricordi marittimi da ragazzo, che è nato il protagonista del suo musical autobiografico. Sognatore di professione, ma anche disincantato osservatore della realtà, Pollari dice che la sua «folle corsa» è sempre alla ricerca di qualcosa. «Dell’amore? No, banale... di Dio, forse». E cercando tra i suoi ricordi aggiunge: «Tutte le cose belle e buone le ho

avute dalla vita, quelle che contano veramente, e quindi ora tutto è un deja vu… quel che conta è la compagnia, che sia buona! In questo mondo sempre più nevrotico e folle, l’immagine che più mi piace tenere a mente è quella di Eduardo De Filippo che, alle cinque della sera, non si fa un tè, ma un caffè, sereno e tranquillo». «Mi piace Gesù, quello che ha detto, che ha fatto... No, la chiesa no, quella ha stravolto tutto. Ma Gesù sì che era una brava persona». E mentre non ha ancora finito di parlare della trama del suo musical, si tuffa nel racconto di un libro che sta scrivendo. Quando narra, si ha l’impressione che lo stia inventando lì, su due piedi, davanti a quel Prosecco, tra una patatina e l’altra. «Si chiama il Tredicesimo apostolo ed è la storia di Fabius Mauritius, un pescatore amico di Giuda che capisce le intenzioni del traditore e va ad avvisare Gesù del complotto per salvargli la vita». E mentre sei lì a cercare di immaginarti un tredicesimo apostolo traditore del traditore, eccolo che torna a parlare della combriccola del Sunshine Heroes Bar, una bettola di mare, trasformata in un pub alla moda, da dove partono le avventure di Capitan Dreamer, a metà strada tra Corto Maltese ed Ernest Emingway, che dopo una vita in giro per il mondo fa capolino al bar ristrutturato da una bellissima donna di colore, Clara. Al banco l’uomo di mare incontra l’amico Jack, che ritrova come l’ha lasciato: con il drink in mano. E tra un Lucas e l’altro (ovvero un cocktail inventato a Genova da un amico di Pollari), i due si raccontano le avventure vissute.

5


Primo piano Parlano delle scorribande sulla costa in Jaguar, delle «bamboline e dell’ottimo rock», di quando ancora erano pivelli «vestiti di seta nera, con i capelli sulle spalle, un rotolo di banconote in tasca e la risata ogni tre minuti». Capitain Dreamer spiega di quando «tutto era magico e senza limiti» e invita l’amico a non piangersi addosso perché ora è tornato e ha un grande progetto: «Raccontare al mondo tutto quello che si è combinato, e dei casini ne abbiamo fatti da scrivere un romanzo. Alla gente piacerà, rideranno delle nostre avventure e faremo un bel pacco di dollari. Non ti ricordi il nostro motto? L’importante è ridere e noi abbiamo sempre riso di tutti e di tutto, anche quando la vita era più dura dell’acciaio». Jack e Capitan Dreamer ricordano l’avventura che diede forma a quel motto, quando persero tutti i soldi e anche la macchina al casinò di Montecarlo e, senza una centesimo in tasca, trovarono il coraggio di ridere delle proprie bravate. Ma dalle risate si passa alle lacrime quando si scopre che Jack, che nella realtà è un caro amico di Pollari, sciupafemmine, pieno di soldi e di vita ha perso tutto ed è molto malato. Il supereroe che c’è in Capitan Dreamer esce allo scoperto e mobilita Jim (altro personaggio preso dalla realtà) con il quale ini-

Maurizio Pollari nei panni del torero durante una rappresentazione di Carmen

zia una caccia al tesoro per trovare i soldi e far curare l’amico moribondo. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, i due tornano al bar con i soldi, accolti da eroi. Si scopre che quella di Jack non era una vera malattia, ma un avvelenamento per mano di un compagno di poker: il sinistro Slim, che ammette di aver agito per impossessarsi del tesoro. Il perfido impostore tenta quindi di svignarsela con il bottino. Ma è tutto inutile, come in ogni favola che si rispetti,

Capitan Dreamer, Jim e il fido barman Clay impediscono con la forza dei muscoli e dell’astuzia il colpo di mano: e tutti vissero, felici, ricchi e contenti. Se il tempo delle scorribande sul lungomare e al casinò di Montecarlo è passato, non è finito quello del sentimento perché, liberi da ogni impedimento, ora Clara e Capitan Dreamer coronano il loro sogno d’amore. Ma chi nella realtà interpreterà questo musical? Pollari-Capitan

Dreamer sogna, per l’appunto, che un giorno saranno Johnny Deep e Penelope Cruz a far vivere la sua storia su un palcoscenico carico di luci e sfavillanti lustrini, mentre un corpo di ballo di almeno trenta elementi danzerà sulle note degli intramontabili Rolling Stones. Perché, come dice Pollari, «La vita è una lotta, ma puoi renderla piacevole se non sei un idiota». E se lo dice un sognatore che idiota non è, ma solo innamorato della vita e di se stesso, allora vuol dire che è vero, che basta poco per essere felici: un buon Lucas, una bella donna e qualche amico disposto a muovere le montagne per regalarti un tesoro che ti salvi la vita (e magari, anche l’anima). Insomma, cose di tutti i giorni. Ma, tornando alla realtà, il musical di Pollari è finito anche nel cassetto del sindaco Paolo Zanotto che, chissà, magari prima delle prossime elezioni deciderà di promuoverlo e coronare così il sogno di questo veronese d’adozione facendolo rappresentare in arena, accanto a Notre Dame de Paris e all’Aida. Intanto Capitan Dreamer è di nuovo in partenza. Durante il Natale tornerà a casa, a Genova, ad assistere la madre malata. E poi via, da lì si imbarcherà alla volta di Las Vegas alla ricerca di nuove avventure da vivere, da raccontare.

«Con la sua vita ci insegna a non prenderci troppo sul serio» Le persone di solito fanno progetti, hanno un lavoro per garantirsi un’esistenza dignitosa, magari una famiglia e così via. La vita trascorre tra feste comandate e compleanni, più o meno serena più o meno felice, ovviamente ciò dipende da una serie di situazioni e anche da un pizzico di fortuna. Per alcuni la vita è una cosa, diciamo… un po’ meno organizzata. Ci si sveglia la mattina, mai alla stessa ora, e inizia un’avventura o meglio un “delirio” come direbbe il nostro personaggio: Maurizio Pollari. La sua è sempre stata una vita bohemien tra grandi progetti e le bollette del gas che non si sa come pagare. Già da adolescente, senza un soldo in tasca, vive mille avventure tra Genova e Portofino, poi decide di imbarcarsi e finisce per fare il cameriere su una nave da crociera sulla rotta New york-tropici. Ci rimane per un po’, soprattutto perché i soldi

6

appena guadagnati vengono puntualmente spesi al casinò. Così gli tocca reimbarcarsi. Di certo non è un genovese tipico per quel che riguarda il rapporto con il denaro. Qualche anno è passato dai tempi delle passeggiate sul lungo mare ma il suo spirito è lo stesso, basta che qualcuno abbia un’idea o lanci una proposta che è subito pronto a partecipare e a partire. A fare le spese di questa vita on the road c’è il televisore di casa sua, che probabilmente avrà il tubo catodico scarico, visto che nell’ultimo anno sarà stato acceso solo durante la finale del mondiale di calcio (ma non c’è da metterci la mano sul fuoco). Oggi Maurizio lo troviamo sempre uguale, con quel suo modo distinto, lo sguardo intenso, la voce rotonda dal colore vellutato, da vero gentleman. Le difficoltà non lo hanno scalfitto e nonostante situazioni difficili o di

disagio non manchino, riesce sempre ad affrontarle con dignità e correttezza, senza mai piangersi addosso ma sfruttando il suo sarcasmo e la sua vena comica per trovare sempre il lato divertente. Queste capacità di solito si chiamano saper vivere. Episodi divertenti o paradossali riempiono la sua vita, tanto che servirebbe un’enciclopedia a parte. Qualcuno ha scritto che la vita è ciò che ci succede mentre pensiamo a qualcosa d’altro. Maurizio potrà essere accusato di molte cose, ma non di questo. In una società come la nostra sempre più omologata da rigidi schemi di profitto e di efficienza c’è bisogno di personaggi come lui che propongono alternative, talvolta o frequentemente non condivisibili, ma che ci aiutano a prendere le cose con un po’ più di leggerezza e soprattutto a sorridere. Gianni Calafà

Dicembre 2006


Inchiesta

Il velo a Verona: Le donne parlano Vorremmo capire bene il suo significato. E come mai molte musulmane, dopo averlo abbandonato, sono tornate a indossarlo con orgoglio?

Velo sì o velo no? Questa domanda è riecheggiata sui principali organi di informazione nazionali a seguito del forte diverbio scaturito tra la deputata di Alleanza Nazionale, Daniela Santanchè e l’Imam di Segrate, Abu Shwaima, a proposito dell’obbligo, per le donne musulmane, di indossare il velo. Un ennesimo punto di scontro tra la cultura occidentale e quella islamica che contribuisce a chiudere la porta del dialogo. Abbiamo in primo luogo cercato di conoscere le origini della cosiddetta Hijab (il velo) e di tutte le sue varianti: dal Chador al Burqa. Abbiamo cercato di conoscere gli obblighi e le conseguenze che derivano dal suo uso in una società come quella veronese. Lo abbiamo fatto con l’aiuto della massima autorità islamica cittadina, l’Imam Guerfi, e con una sua “sorella” musulmana. Italiane convertite all’Islam ci hanno spiegato la visione e i valori che supportano l’utilizzo del velo. Ad alcune donne veronesi abbiamo chiesto un’opinione in merito. Ne è emerso un quadro dalle mille sfaccettature dal quale possiamo trarre profondi motivi di riflessione.

in VERONA

di Giorgia Cozzolino e Cinzia Inguanta I TIPI DI VELO, LE ORIGINI E I DOGMI

Sono sette i tipi di velo che le donne islamiche possono indossare. Non stiamo parlando dei celebri sette veli delle danzatrici del ventre, bensì di un capo di abbigliamento prescritto dalla religione islamica a tutte le donne che abbiano superato la pubertà. Il principale è la Hijab, che copre il capo e si chiude sul davanti, intorno al collo, talvolta anche con un gioiello. Di questo tipo di velo esistono due varianti di “moda”, che sono Al Amira e Shayla, usati indipendentemente dalle donne, a seconda del proprio gusto nell’abbigliarsi. Il primo è composto da una bandana che trattiene i capelli

sulla fronte, combinata con un foulard che si sovrappone e che finisce coprendo il collo, mentre il secondo è una sorta di scialle avvolto attorno alla testa e fermato su una spalla. Vi è poi il Chador, in voga in Iran, che copre la testa e tutto il corpo lasciando libero il volto. I veli che l’occidente critica fortemente sono il Niquab, tipico dell’area del Golfo, e il Burqa originario dell’Afganistan. Nel Niquab rimangono scoperti solo gli occhi della donna, mentre con il Burqa anche quelli sono nascosti da una retina che permette a chi la indossa di vedere senza essere visti. Un abbigliamento che viene considerato, dal mondo occidentale, un simbolo di sottomissione e asservimento della donna all’uomo. Un obbligo che lede la dignità e la libertà femminile. Se in taluni paesi e talune culture questo ha corrisposto e corrisponde alla realtà, quando cioè all’obbligo del

7


Inchiesta velo segue tutta una serie di divieti e comportamenti lesivi nei confronti della donna, in altri moltissimi casi il velo è visto come una libera scelta religiosa, da portare con orgoglio e fierezza perché simbolo del proprio credo. Così spiega Omossama, una giovane madre musulmana che lavora come mediatrice culturale a Verona e frequenta la moschea di via Bencivegna Biondani: «Quando sono arrivata qui era difficile per me rispondere a chi mi chiedeva perché porto il velo. Un po’ perché non riuscivo a spiegarmi bene in italiano e un po’ perché per me era normale portarlo, ne andavo fiera perché nel mio paese era naturale averlo e non mi ero mai chiesta perché. Poi ho capito che qui il velo aveva altri significati e così ho approfondito la mia conoscenza religiosa e vi ho trovato semplici e valide spiegazioni da dare a chi me lo chiedeva». Allora perché una bella donna come Omossama indossa una Hijab? «Perché me lo dice Dio, il Corano, perché una buona musulmana segue gli insegnamenti e mostra solo a suo marito il suo corpo. Per me è un atto di coraggio, oggi come oggi, mostrare agli altri il mio credo, insomma, un atto di fede». Omossama spiega che «il velo è un obbligo che si ritrova nelle tre religioni monoteiste. Una donna ebrea sposata doveva portare un velo che le copriva interamente i capelli. Nel cristianesimo l’uso del velo si vede attraverso le immagini sacre ma se ne parla anche nel Nuovo Testamento». Nelle Lettere ai Corinzi, Paolo (I,11,6) affermava: «Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra». In una società dove si è sempre più nudi che vestiti, dove più si mostra e più si ha successo e dove il pudore non è più considerato un valore ma un handicap, Omossama rivendica il suo diritto di essere libera di coprirsi. Quasi a dire: una volta arrivati alla fine, bisogna ricominciare da capo.

8

Espressione di fede o rivendicazione di un’identità? Tra le musulmane che vivono a Verona i pareri sull’uso del velo sono diversi e motivati. Ecco cosa ci hanno detto

Patrizia Khadija Dal Monte, veneta convertita all’Islam, responsabile Ucoii per le Pari Opportunità, il velo lo porta da 17 anni «perché fa parte dell’Islam», spiega. «Le musulmane lo vivono come un precetto religioso, non come un’imposizione del maschio. La religione islamica si applica allo spirito e al corpo, non c’è separazione. L’uomo non deve indossare la seta e l’oro, la donna deve indossare il velo. È un obbligo morale». Faridah Emanuela Peruzzi, veronese convertita all’Islam Responsabile Affari Giuridici Coreis (comunità Religiosa Islamica) invece si copre con il velo «solamente durante i momenti in cui è necessario farlo e cioè durante le preghiere. La copertura del capo, sia nell’uomo che nella donna, manifesta la predisposizione all’ascolto e al raccoglimento, il velo quindi esprime lo stato di consacrazione che la donna assume per comunicare con Dio. Al di fuori di questi momenti, l’uso non è obbligatorio e io cerco di attenermi a ciò che è prescritto come necessario». Afida, marocchina sposata con un connazionale e madre di due bambine vive in Italia da 15 anni e il velo non lo ha mai indossato, anche se confessa che il marito sarebbe contento se lei lo facesse. «Non porto il velo, non avrebbe senso è una cosa che non sento», dice, «ci sono delle amiche che come me non lo hanno mai portato, ma da qualche tempo hanno iniziato a farlo, è un modo di rivendicare la loro appartenenza culturale, non mi sembra che ab-

bia molto a che fare con i principi religiosi». Zahya, egiziana, porta il velo perché per lei vuole dire sicurezza, protezione. Una barriera tra lei e il male, «uno strumento morale per discostarsi dagli atti immorali. È il simbolo della differenza tra me e le donne occidentali delle quali non condivido i valori». Il velo diventa un simbolo di distacco da un sistema di valori in cui i musulmani non si riconoscono. Concetto ribadito anche da Patrizia Khadija Dal Monte «Per me la libertà non è fare quello che mi pare, vestirmi come mi pare. Fare il bene è la libertà, la religione dà la libertà. La libertà è vivere nella verità di Dio, non seguire le mode superficiali. Io velata, sono più libera di una velina». I movimenti femminili dei paesi musulmani pur combattendo per l’eliminazione delle disuguaglianze dovute al genere, da sempre dichiarano di non riconoscere come valido il modello di donna proposto dalle società occidentali. LA NIPOTE DI MAOMETTO

Il professor Iqbal al Gharbi, dell’università islamica Zeïtouna, in un suo recente articolo ci ricorda che l’uso del velo è stato contestato in ogni epoca dall’interno stesso del mondo musulmano. «A cominciare dalla nipote di Maometto, Sukaïna Bint El Hussein, che rifiutava di portare il velo e affermava che se Allah le aveva fatto dono della bellezza, sarebbe stato stupido nasconderla sotto un velo».

«Il velo è strumento di segregazione e di esclusione della donna» dice Alma, tunisina studentessa prossima alla laurea, «Mira a proibire il corpo della donna, pensato come perverso e minaccioso per l’ordine sociale islamico, inteso come ordine maschile. Non potendo rinchiudere completamente la donna, usano il velo per coprirla, per rinchiuderla almeno virtualmente. La verità è che non sono pronti», sorride. E continua: «Non possiamo traumatizzare i nostri uomini. La mentalità che ci portiamo dentro è legata agli schemi tribali dei nostri paesi d’origine. La democrazia e la tolleranza del paese, che ora è anche il nostro, sono importanti fattori di cambiamento, ma questo deve maturare nelle coscienze dei singoli non si può imporre». L’ASSESSORE

Il velo diventa una barriera all’emancipazione solo quando diventa un fattore di coercizione per l’assessore all’istruzione del comune di Verona, Maria Luisa Albrigi, che dichiara «per me non è un problema l’utilizzo del velo, purché non venga imposto». L’assessore esprime il timore che a volte l’utilizzo del velo nasconda il bisogno di mantenere vivo un legame con la cultura d’origine dettato dalla difficoltà d’inserimento nella nuova realtà sociale. Rispondere alla domanda velo sì o velo no risulta difficile perché ci sono molti piani di lettura legati al suo utilizzo, che spesso s’inter-

Dicembre 2006


Inchiesta IL PARERE DELL’IMAM

«Noi rispettiamo le leggi, voi rispettate il velo e continuiamo sulla strada del dialogo»

«Sono contrario all’uso del Burqa e della minigonna, ma anche se non condivido ne ho comunque rispetto. Chi invece vuole togliere il velo alle nostre donne in nome della libertà non ha rispetto per la libertà delle donne musulmane di seguire i dettami della propria religione».

L’Imam Mohamed Abdeslem Guerfi

in VERONA

«L’uso del velo è un obbligo religioso, ma non una costrizione. Chi si ritiene un buon musulmano segue i dettami della fede», spiega l’Imam Guerfi. «Il Corano invita le donne e gli uomini a coprirsi. Ma come? Qui sorge il problema che i sapienti hanno risolto indicando per le donne di celare il capo, il petto e il corpo, lasciando scoperte le mani e il viso. L’indicazione è quella di non indossare abiti attillati, sia per uomini che per le donne, e trasparenti. Il colore non è importante», aggiunge, «Il velo è per una salvaguardia della donna, non è fatto per sminuirla ma per proteggerla. In una donna, come in un uomo, ci sono cose che ci attirano, e l’attrazione è sempre la causa di peccato e qualche volta anche di prevaricazione. La donna è considerata come una perla che per conservare la sua bellezza viene nascosta da un guscio brutto». Un ideale romantico, quasi cavalleresco, quindi, che l’occidente ha perduto o superato con l’emancipazione della donna, che a ben vedere mette sotto una cattiva luce l’uomo, considerato alla stregua di un animale che non sa controllare i propri impulsi di fronte a una bella ragazza: «Per noi il peccato comincia con l’occhio e finisce con cose ben peggiori, come i bambini buttati nel cassonetto», replica Guerfi. Il Corano (33;59) recita: «O Profeta! Dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli: è per loro il miglior modo per farsi conoscere e per non essere offese. Dio è veramente Perdonatore e Misericordioso», indicando così l’importanza per l’universo femminile di proteggere la propria bellezza dagli sguardi indiscreti. Ma in nessuna sura il Corano impone al credente di coprirsi, o costringe la donna a celarsi; la invita semplicemente a comportarsi nel modo che Dio considera più appropriato. Tanto che al versetto 2;256 si dice: «Non c’è costrizione nella religione», essa è una scelta consapevole e soprattutto libera. Ed è proprio sul tema della libertà che l’Imam dirige la conversazione spiegando che la violazione della libertà, compresa quella religiosa, in nome della libertà stessa, non è accettabile. «Io sono contrario all’uso del Burqa e della minigonna, ma anche se non

condivido ne ho comunque rispetto. Chi invece vuole togliere il velo alle nostre donne in nome della libertà, non ha rispetto per la libertà delle donne musulmane di seguire i dettami della propria religione». Molti problemi nascono nelle nuove generazioni di musulmani, quelle cresciute in occidente che si trovano nel mezzo di due culture agli antipodi. «Tutto dipende dalla famiglia», spiega Guerfi, «fare il genitore è difficile, ma fino a un certo punto. Se il padre e la madre vivono seguendo i principi islamici i figli cresceranno considerandoli propri. Talvolta i figli possono insegnarci a comprendere quando ci sono attacchi all’Islam, perché sono più aperti e conoscono entrambe le visioni culturali». E racconta: «Il profeta dice di giocare con i tuoi figli per i primi sette anni, di insegnare loro per i secondi sette anni e di diventare loro amico nei successivi sette. Se io seguo i precetti e li insegno ai miei figli nei secondi sette anni della loro vita, essi potranno alla fine essere diventare musulmani, ma non è detto. L’importante è che dopo i 14 anni io sia vicino a loro da amico, senza imporre più nulla». E aggiunge: «Il problema non è il velo o la minigonna, ma quando non si parla. Da qui nascono le incomprensioni e le mancanze di rispetto». Nell’assenza di vero dialogo, Guerfi trova la causa delle incomprensioni tra le due culture che sono nate, a dir suo, solo dopo l’11 settembre. «Da 35 anni i musulmani sono in Italia, eppure non c’è mai stato nessuno scontro prima dell’attacco alle Torri Gemelle. E il problema molto spesso risiede nel linguaggio. I fanatici, quelli che non hanno capito niente della propria fede, ci sono in ogni religione, ma c’è anche chi vorrebbe un Islam a proprio uso e consumo chiamandolo “moderato”. L’islam è islam e basta e quando un islamico rispetta tutte le leggi del paese che lo ospita, non si può attaccarlo solo perché pratica il suo credo». L’Imam si affretta però a precisare che Verona, dal punto di vista dell’integrazione religiosa, è una «isola felice». Qui, afferma, «abbiamo trovato sincerità di dialogo e la volontà di seminare insieme il seme della pace e se non coglieremo noi i frutti, saranno sicuramente i nostri figli».

9


Inchiesta «Rispondere alla domanda velo sì o velo no risulta difficile perché ci sono molti piani di lettura legati al suo utilizzo, che spesso s’intersecano tra loro. Ma non si può demonizzare il velo a causa dell’uso distorto che i fanatici o gli ignoranti ne fanno»

«Di quale emancipazione si sta parlando? Di quella che impone un modello femminile di omologazione consumistica, in cui non c’è spazio per l’interiorità e per la fede?»

«Il velo mira a proibire il corpo della donna, pensato come perverso e minaccioso per l’ordine sociale islamico, inteso come ordine maschile. Non potendo rinchiudere completamente la donna, usano il velo per coprirla, per rinchiuderla almeno virtualmente»

10

secano tra loro. Certo è che, come afferma Faridah Emanuela Peruzzi, «non si può demonizzare il velo a causa dell’uso distorto che i fanatici o gli ignoranti ne fanno. Si cerchi, piuttosto, di fare in modo che questo uso distorto non avvenga, attraverso una maggiore conoscenza della religione, un’informazione più onesta e la repressione dei violenti e dei prevaricatori. Usi e costumi legati a paesi stranieri passano per dettati religiosi e a volte l’Islam non c’entra affatto. Del resto anche nella cultura occidentale ci sono suore cristiane che indossano il velo come segno di devozione a Dio e questo non ha mai suscitato scandalo. Perseguire la libertà ostacolando o negando diritti fondamentali, come quelli religiosi, è un controsenso. Privare qualcuno della libertà di esprimersi attraverso i simboli del suo credo religioso è, a mio avviso, una palese violazione dei diritti costituzionali. E poi di quale emancipazione si sta parlando? Di quella che impone un modello femminile di omologazione consumistica, in cui non c’è spazio per l’interiorità e per la fede? Credo che la religione autentica non ostacoli lo sviluppo armonioso della persona o l’inserimento attivo nella società e nel lavoro, ma costituisca un prezioso punto di riferimento a cui ispirare i propri atti quotidiani. Con o senza velo».

L’inviata «speciale» Barbara Bibbo, giornalista, dopo anni di collaborazioni al Messaggero Veneto, ha deciso di sfruttare i suoi studi arabo islamici nel campo giornalistico e si è trasferita nel Qatar dove da quasi sei anni lavora per Gulf News e corrisponde per Ap e Repubblica. È cattolica e, nonostante le difficoltà e un pandoro che le costerà 20 euro, festeggerà il Natale banchettando con colleghi, amici e il fratello, a base di agnello in umido perché, dice, «è l’unica carne buona in vendita nella zona e una delle poche che so cucinare». Sul velo ha le idee chiare: «Bisogna distinguere da paese a paese. Ci sono islamisti che interpretano un versetto chiave di Maometto, come un invito alle donne a coprirsi per pudicizia. Ma coprirsi cosa: il volto? Le parti intime? O è solo un invito a vestirsi in modo modesto? La questione rimane aperta più che mai, proprio perché il Corano in realtà si può interpretare in molti modi». E prosegue: «Se poi guardiamo al mondo del costume, il velo nel mondo beduino è sempre esistito, anzitutto per coprirsi dal sole cocente! E poi in fondo, non si velano anche gli uomini del Golfo con la bianca “gandura”? Non vedrai mai per strada un qatarino con braccia, ascelle, capo scoperto. Nessuno ci riflette mai. Tra l’altro qui il velo per le donne è un segno di distinzione, inteso come superiorità della popolazione indigena rispetto alla maggioranza immigrata». Barbara allarga poi gli orizzonti geografici e dice: «Nel resto del mondo arabo-islamico, il velo è stato più o meno strumentalizzato per opprimere la donna, senza dubbio. Io credo che siano le donne stesse a poter cambiare questa situazione, però se decidono che il velo fa per loro, bisogna che le rispettiamo. Mia nonna (provincia di Benevento) non usciva mai di casa senza il fazzoletto nero in testa. Indossava solo gonne fino alla caviglia e le calze coprenti, anche durante l’estate. Quindi credo che dobbiamo dare loro tempo, ma anche combattere quel mondo maschilista che usa il velo come una scusa per opprimerle». E conclude: «La domanda da farsi non è velo sì, velo no, ma piuttosto, se le donne sono libere di scegliere di indossarlo o meno. La risposta nella maggior parte dei casi è “no”. Decide per loro il marito, la famiglia, l’Imam o la società che la addita se va in giro a capo scoperto».

Dicembre 2006


IMPARARE A VIVERE MEGLIO

Veronetta, gli errori si pagano di Alessandro Norsa Veronetta, quartiere storico della nostra città, era abitata fin dal ’700, ’800 da persone nobili (di cui oggi rimangono i palazzi) ed altre non abbienti, come testimonia la presenza di tanti istituti religiosi che si occupavano dei poveri. Negli anni ’70 del secolo scorso la maggior parte dei residenti era costituita da anziani. Per spiegare come mai un quartiere popolare abbia finito per trasformarsi in un “ghetto” si fa strada l’ipotesi dell’affitto/affare. A fine anni ’80, primi ’90 c’era una grande diffidenza nell’affittare gli appartamenti agli extracomunitari; chi lo faceva in alcuni casi rincarava l’affitto del triplo per appartamenti dove abitavano (ma succede anche oggi) in dieci in 40 metri quadri. Il sovraffollamento serve per dividere le spese dell’affitto, ma si spiega anche per la naturale tendenza degli immigrati, che vengono da uno stesso Paese, ad aggregarsi per sentirsi meno soli. La presenza degli immigrati durante gli anni è aumentata in modo direttamente proporzionale e la stessa cosa è avvenuta nei condomìni di Veronetta, con il conseguente trasloco altrove degli abitanti originari, creando così, come lo vediamo ora, il “ghetto”. Questo spaccato di storia veronese è simile a quello di altre città italiane; ogni città ha il suo nuovo ghetto. Ricordo – tra le più vicine – a Padova l’“Arcella”, a Brescia il “Carmine”, a Milano “Milano Greco” e “Viale Jenner”, dove attualmente si trova anche la moschea, e nell’interland milanese “Quarto Oggiaro”; tutti ex quartieri popolari, tutti con una storia analoga a quella veronese. Credo che questo sia il prodotto di una politica nazionale limitata e miope. Se l’afflusso di una grande quantità di stranieri fosse stato programmato nel numero e nella collocazione lavorativa/abitativa, oggi non avremmo nessun ghetto, ma una buona integrazione, con i nuovi arrivati in grado di assimilare i valori del Paese che li ospita e i residenti indigeni messi nella condizione di conoscere culture diverse, di

in VERONA

aprirsi verso nuovi modi di pensare e di vivere. Al contrario l’arrivo è stato disordinato, mal gestito, non controllato rendendo possibili sfruttamenti a tutti i livelli (da quello abitativo a quello lavorativo) con problemi di ordine pubblico (rapine, scippi, violenze, droga ecc.). È infatti vero che se un individuo si sposta dalla sua terra per fame e necessità e arriva nel nostro Paese senza un lavoro, anche se è una brava persona dopo qualche giorno che non mangia l’istinto di sopravvivenza la porterà a rubare o a essere comunque vittima della delinquenza. Con i dovuti distinguo, posso citare come esempio di integrazione ben riuscita quella che ho potuto osservare durante il periodo di permanenza semestrale presso l’Università di Coimbra in Portogallo. Lì erano presenti studenti che giungevano dalle diverse ex-colonie portoghesi ed altri di varie nazionalità che venivano ad imparare la lingua. Durante la giornata si poteva stare insieme ed era piacevole condividere le fatiche dello studio e confrontarsi sul diverso modo di stare nel proprio Paese d’origine. Credo che la possibilità iniziale della frequentazione di un corso di lingua e cultura portoghese indetto dalla facoltà di Lettere della stessa Università abbia facilitato la comprensione reciproca. Il numero degli studenti veniva precedentemente concordato con i docenti e teneva conto della loro effettiva possibilità di seguire nuovi allievi durante i corsi; inoltre per gli studenti era garantita una soluzione abitativa sicura e dignitosa. La situazione era ideale perché la condizione tra le persone era paritaria e il rispetto reciproco garantito. Mi rendo perfettamente conto che è impossibile applicare il modello di una città universitaria ad una nazione, ma l’esempio serve solo a sottolineare che in presenza di un flusso migratorio più morbido sono maggiori le possibilità di integrazione. Voglio anche portare la testimonianza di un recente viaggio in Romania. Da questo Paese emigrano in Italia migliaia di persone ogni anno. Le motivazioni che le spingono sono legate o a delle certezze (qualche parente che già si è stabilito qui e che li

può introdurre nel lavoro e nella vita sociale); oppure a delle false convinzioni (la vita in Italia è facile e qualche cosa di sicuro si trova da fare). Con queste motivazioni, o convinzioni, si allontana dalla Romania gran parte della fascia intermedia della popolazione. Mi ha fatto una certa impressione vedere alcuni paesi del Maramuresul abitati prevalentemente da anziani e bambini, che mi raccontavano del loro ineluttabile stato di abbandono. Coloro che emigrano sono solitamente i migliori (che sono anche quelli che avrebbero potuto fare qualche cosa per la loro nazione) e i peggiori (che dovunque creano disordine). Per i peggiori non vale la pena spendere una parola di più, ma per i migliori credo di sì. È forse ben utilizzata un’ingeniere ucraina che trova lavoro come badante in Italia? Il fatto che questa persona svolga un lavoro diverso dalla sua qualifica in un altro Paese è certamente un danno alla ripresa economica della sua nazione che in lei aveva investito. Già nell’ ’800 Daniele Comboni diceva «Aiutare l’Africa con l’Africa»: credo che questo concetto sia più che moderno; è di fatto mia convinzione che il modo migliore per aiutare tanti potenziali migranti sia quello di evitare lo sradicamento dalla loro terra, con programmi di incentivazione alla ripresa economica del loro Paese. Riassumendo, ritengo che il nocciolo per una integrazione ottimale sia: 1)la possibilità di avere una larga distribuzione di stranieri sul territorio e non concentrati in pochi quartieri; questo per offrire la possibilità della reciproca conoscenza e per evitare gli stereotipi che infine sono i precursori del pregiudizio. 2) L’adeguamento degli stranieri alla formazione e allo stile lavorativo. 3) L’adeguamento alle norme sociali e il rispetto per le tradizioni culturali e religiose del Paese ospite. 4) Il rispetto, da parte del Paese ospitante, della diversa cultura e sensibilità di chi proviene da terre lontane. Con queste premesse credo fermamente sia possibile una buona ed arricchente integrazione; diversamente si creano diffidenza e paura per la diversità.

11


Cultura CIBI DI ALTRI PAESI

Profumi d’Oriente Tanti in città i negozi di alimentari gestiti da immigrati. Sugli scaffali si trova merce che viene da lontano. Per far sentire a casa chi ha lasciato la terra dove è nato, ma anche per incuriosire chi vuole cimentarsi con una cucina diversa

Condividere le abitudini alimentari significa entrare nella vita e nello stile di altri popoli, è un elemento di conoscenza e integrazione che sicuramente rende più facile la convivenza tra culture diverse

Presanna, titolare di un negozio di alimentari in via Carducci

12

di Elisabetta Zampini e Irene Lucchese Il cibo è stato forse il primo prodotto di importazione. L’Europa importa cibi stranieri da più di tremila anni, anche se il momento di maggior novità culinaria è rappresentato certamente dalla scoperta dell’America: grazie a Colombo per noi oggi sono assolutamente comuni caffè, cacao, patate, mais, pomodori e così via. Di più recente introduzione sono il kiwi, il pompelmo, il mandarino: nessuno pensa che quest’ultimo sia arrivato in Europa dalla Cina nella prima metà del 1800, mentre kiwi e pompelmo addirittura nel 1900. Questi cibi sono pienamente entrati nella cultura italiana e veronese, tant’è che hanno rivoluzionato i paesaggi agrari attorno alla città: basta guardare i numerosi campi di soia o le piantagioni di kiwi che invadono le nostre campagne. Anche nei supermercati si trovano facilmente alimenti non autoc-

toni, come il riso basmati, il couscous, la salsa di soia, tutto il necessario per preparare una cena messicana, cinese o indiana. «Oggi, però, non c’è ancora una diffusa cultura della cucina straniera nelle case», commenta Claudia Robiglio, docente di Geografia economico-politica e presidente del Master in Geografia, Governance ed Economia alla facoltà di Lingue e letterature straniere dell’ateneo veronese. «I contatti con le nuove pietanze avvengono soprattutto nei ristoranti, nei chioschi, nelle gastronomie», aggiunge. Come a dire che i veronesi hanno voglia di assaggiare ma non si fidano sempre delle proprie mani: meglio affidarsi agli esperti. «La grande novità di questi ultimi anni», prosegue la docente, «sono le serate a tema: tra i giovani (e non solo) si è diffusa l’abitudine di uscire apposta per cenare cinese, giapponese, messicano o mangiare assieme una paella, piatto unico simbolo di convivialità. La cucina cinese, ad esempio, è stata

una delle prime a comparire a Verona con grande successo, mentre più recente e da sperimentare è quella giapponese». Condividere le abitudini alimentari significa anche entrare nella vita e nello stile di altri popoli, è un elemento di conoscenza e integrazione che sicuramente rende più facile la convivenza tra culture diverse. Il cibo ha intrecciato legami di uomini e geografie da sempre. Le Vie delle Spezie erano i tragitti sui quali si realizzava una sorta di “globalizzazione dell’antichità” che metteva in comunicazione il Mediterraneo con le terre misteriose dell’Asia. Dopo aver attraversato il mare e dopo gli avventurosi viaggi dei carovanieri arabi arrivava nei piatti delle più ricche famiglie romane la più preziosa tra le spezie, il pepe. Il viaggiatore, di ritorno dalla favolosa Zanzibar, era fiero di portare con sé come ricordo o come dono da offrire un piccolo tesoro di spezie: la cannella, la noce moscata, lo zenzero, il cardamomo, il

Dicembre 2006


Cultura

Burim è il titolare di un negozio di alimentari etnici in via XX Settembre

I contatti con le nuove pietanze avvengono soprattutto nei ristoranti, nei chioschi, nelle gastronomie. Come a dire che i veronesi hanno voglia di assaggiare ma non si fidano sempre delle proprie mani: meglio affidarsi agli esperti

Mahamut (al centro) con due suoi collaboratori gestisce un Kebab in via XX Settembre

in VERONA

cumino, la vaniglia e gli straordinari chiodi di garofano. Davvero è molto semplice trovare questi e altri prodotti “lontani”. E ciò invoglia a provare a “mettere le mani in pasta”. Già una buona fortuna l’ha avuta il cous cous: è veloce, facile da cucinare, può essere un piatto completo. Si adatta anche alla frenetica vita del Nordest. Tanti sono a Verona i negozi di alimentari o le macellerie gestite da stranieri e che propongono prodotti dei paesi d’origine. Molti hanno iniziato l’attività in questi ultimi mesi. Alle Golosine, in via Prina, c’è una grande macelleria rumena “Alba Julia”. È sabato pomeriggio. Il negozio è pieno. Specialmente stranieri. Ma l’invito a entrare è rivolto a tutti: sulla tenda sopra la vetrina accanto alla bandiera rumena compare quella italiana. La macelleria “Noyel”, in via Saffi (vicino a Porta Palio) ha aperto da un anno. I gestori sono contenti. Sono dello Sry Lanka: «Da noi vengono a comprare soprattutto rumeni e africani. Ma anche italiani», dicono. A San Zeno c’è l’ “Anatolia Kebab». Oltre al classico panino di verdure e carne speziata, vengono offerte specialità turche. Il nome del locale evoca viaggi in una regione d’obbligo per chi si reca da turista in Turchia, l’Anatolia appunto. Si fa riferimento cioè a un luogo conosciuto ed invitante, quasi a rassicurare. In effetti l’aumento dei viaggi all’estero è ritenuto dagli stessi negozianti uno dei principali moventi dei clienti veronesi: «Gli italiani che entrano nel mio negozio», spiega Presanna, proprietario di un negozio di alimentari in via Carducci, «vo-

gliono ritrovare i sapori che hanno provato in viaggio in India o in altri paesi orientali. Perciò cercano le spezie come il pepe o il peperoncino dal sapore particolarmente forte, ma anche il riso. Il basmati e il riso rosso soprattutto». Il negozio si chiama “Proboda”, il nome della figlia, e ha diversi prodotti. Le sorprese si concentrano nel reparto verdure: «Quelle verdure lì non ci sono in Italia», sorride Presanna, «si cuociono e servono per condire il riso». E mostra una grossa fetta di Jackfruit. Ma è inutile tentare di far paragoni con la patata o la zucca

ce: «La carne è solitamente fatta di bistecche di pollo, tacchino e vitello aromatizzate di origano, pepe nero, sale e ammorbidito con lo yogurt, ma c’è la versione greca, si chiama Ghiros e prevede anche l’uso della carne di maiale». Non mancano le specialità turche come il bürek, un involtino leggero a base di formaggio e verdura, o il pollo con peperoni e cipolla. Il riso poi si sposa con tutte le specialità: «capita spesso che gli italiani mi chiedano la ricetta di questi piatti. All’inizio passano davanti alla vetrina, due o tre volte, poi entrano, provano ad assaggiare e infine

per farsi spiegare a quale altro ortaggio possa essere affine: «Ha il suo sapore», continua a ripetere e viene voglia di sperimentare. Qualcuno ha la strada spianata: «Molte persone del mio paese, lo Sry Lanka, lavorano come domestici in famiglie italiane. In certi giorni preparano per tutti i nostri piatti tipici e così queste verdure e questi prodotti cominciano ad essere conosciuti». Tra i tanti Kebab di via XX settembre, c’è il “Günes Kebab”. «Günes significa Sole, in lingua turca», spiega Mahmut, nato a Istanbul e qui in Italia da 5 anni. Il giovane gestore racconta le varietà del fenomeno del momento che contende il primato al vecchio hamburger nel campo del piatto velo-

chiedono la ricetta. Ma i miei clienti sono internazionali. I turchi sono pochi perché qui a Verona non ne abitano molti». Nei dolci, oltre al budino di riso, trionfano il succo di miele, i pistacchi e le noci come nel baklava turco. Attorno a questi negozi o attività si concentra non solo la curiosità dei nativi ma anche la nostalgia di chi è venuto ad abitare in Italia, lasciando la propria terra, i legami di volti e paesaggi. La memoria, si sa, viaggia non solo attraverso i pensieri e le parola, ma ritorna in un’aria musicale, in un’immagine, in un profumo, in un sapore: la famosa pearà della nonna che «come lei non la faceva nessuno». I cibi, quei cibi, riportano a casa. Rassicurano.

13


STUDIO

e

DITORIALE Giorgio Montoll i

LA DIFFERENZA NEL FARE LE COSE.

Redazione e impaginazione di libri e giornali Comunicati stampa Progetti editoriali

045.592695 - 320.4209663 Lungadige Re Teodorico, 10 - 37129 Verona


Cultura In quest’ottica è stato aperto da due mesi il negozio “Alimentari etnici”, sempre in via XX settembre. Burim, di etnia Rom, è l’iniziatore di questa attività: «Qui si trovano prodotti della Romania, Albania, Turchia, Kossovo, Bosnia, Croazia. Prodotti originali. Importati. Gli stranieri che abitano a Verona li cercano. Cercano le marche che trovavano quando erano a casa, come i biscotti “Moto” o il dado in polvere Vegeta», dice. E i veronesi? «I veronesi comprano i prodotti che hanno conosciuto quando sono stati in vacanza in Croazia o in

«Non è facile portare qui i prodotti originali dall’estero. Ci sono molte spese di trasporto, imprevisti, e poi tutta la merce deve superare due controlli medici prima di essere ammessa ad entrare in Italia. È questione di scelte. Se si cercano i prodotti originali c’è da tener conto anche di questo. Comunque sono molti i clienti che si fanno delle vere e proprie scorte di certi prodotti»

Turchia: le olive turche piccanti, la paprika, i cetrioli e peperoni in composta e l’ajvar, salsa piccante di pomodori e peperoni». Ma si trovano anche gli ingredienti per cimentarsi nel gulash, anzi ci sono le scatole di gulash già pronto, oppure i kiseli kupus, foglie di cavolo in composta per fare i sarma, involtini di carne e riso. Oppure i cay Mevlâna, o Ceylon, le migliori qualità per fare il tè alla turca da sorseggiare nei bicchieri decorati. Il prezzo è comunque vantaggioso? «Dipende. Nei supermercati le cose si trovano anche a meno», risponde il figlio di Burim, «ma non sono uguali a queste che vendiamo in questo negozio. Non è facile portare qui i prodotti originali dall’estero. Ci sono molte spese di trasporto, imprevisti, e poi tutta la merce deve superare due controlli medici prima di essere ammessa ad entrare in Italia. È questione di scelte. Se si cercano i prodotti originali c’è da tener conto anche di questo. Comunque sono molti i clienti che si fanno delle vere e proprie scorte di certi prodotti». La via delle spezie veronese si ferma qui, davanti al negozio di Burim, in una strada affollata e vivace di sabato pomeriggio. Un momento buono per una pausa e assaggiare il bürek ancora caldo regalato da Mahmut. Le cose, le persone, i sapori fluiscono, si mescolano. Al Günes Kebab c’era anche la pizza kebab: un nuovo incontro. (Ha collaborato Fabio Muzzolon)

in VERONA

Il volume, con più di 300 immagini a colori, in 280 pagine ricorda l’evento che ha visto protagonista la Chiesa italiana riunita a Verona durante il mese di ottobre 2006

Un libro per ricordare il Convegno Ecclesia280 pagine di grande formato (24x30cm), più di 300 immagini a colori, di cui alcune aeree, scattate da un pool di quattro fotografi. Si presenta così il volume “Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo” voluto dalla Curia di Verona, prodotto dallo Studio editoriale Giorgio Montolli, edito da Siz Edizioni e finanziato dal Gruppo Banco Popolare di Verona e Novara. Un libro illustrato che riporta alla memoria i giorni del IV Convegno Ecclesiale della Chiesa Italiana, che Verona ha ospitato dal 16 al 20 ottobre 2006. Il volume, corredato da ricche didascalie, è la fotocronaca dell’evento: delle processioni, delle fiaccolate, delle veglie in Cattedrale, dell’oratorio sacro Resurrexi al Filarmonico, dei concerti campanari, delle mostre e delle iniziative culturali che hanno accompagnato il Convegno, dei lavori in Fiera e della visita del Papa. Tre presentazioni aprono il volume. La prima è quella di mons. Giuseppe Betori, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), che traccia la storia di questi convegni che la Chiesa cattolica tiene ogni dieci anni. Segue la presentazione del vescovo di Verona Padre Flavio Roberto Carraro, che invita i cristiani a seguire gli spunti emersi durante il convegno. Il terzo intervento è dell’avvocato Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare di Verona e Novara: «Abbiamo voluto promuovere una pubblicazione celebrativa dell’evento, una sorta di fotografia di gruppo che possa nel tempo vivificare la memoria e le emozioni di quei giorni», ha dichiarato Fratta Pasini. Nel libro, che si presenta con una copertina rosso cardinalizio, non mancano i documenti, come la prolusione del cardinale Dionigi Tettamanzi in Arena, il discorso del papa ai delegati in Fiera e l’omelia durante la celebrazione della Santa Messa allo stadio, le conclusioni del presidente della CEI cardinale Camillo Ruini e le sintesi dei vari lavori di gruppo. Lo Studio editoriale Giorgio Montolli, a cui si deve anche il progetto grafico e l’impaginazione, per realizzare l’opera ha coordinato un équipe di lavoro formata dai fotografi Moreno Faccioli, Giampaolo Mascalzoni e Federica Melchiori, dello Studio fotografico New Deltaprint di Verona, che hanno prodotto circa 10 mila scatti, sui quali è stata fatta una difficile selezione. Alle riprese aeree ha provveduto Francesco Passerella. I testi sono delle giornaliste Cinzia Inguanta e Marta Venturi. Ha collaborato Pino Agostini. Il libro si acquista in libreria. (Per ordini sopra le 15 copie contattare Siz Edizioni, al numero telefonico 045.8730411).

15


Cultura di Elisabetta Zampini «Il Medioevo inventa tutte le cose con cui ancora stiamo facendo i conti: le banche e la cambiale, l’organizzazione del latifondo, la struttura dell’amministrazione e della politica comunale, le lotte di classe e il pauperismo, la diatriba tra Stato e Chiesa, l’università, il terrorismo mistico, il processo indiziario, l’ospedale e il vescovado, persino l’organizzazione turistica, e sostituite le Maldive a Gerusalemme o a Santiago de Compostela e avete tutto, compresa la guida Michelin». Così si esprimeva Umberto Eco in Dieci modi di sognare il medioevo. Molto dunque accadde. Novità e contrasti. Il rapporto con “l’altro” messo continuamente alla prova. In quel periodo più volte la storia di Verona si intrecciò ad accadimenti che ebbero un risvolto europeo e conseguenze molto più ampie nel tempo e nello spazio. Fra il 1181 e il 1185 il papa Lucio III, al secolo Ubaldo degli Allucingoli, pose qui la sua sede, dopo la fuga dalla turbolenta Roma e nel 1184 vi aprì un Concilio. Il 1184 è una data importante. Segue la Pace di Costanza che portò a una tregua nelle lotte tra l’Impero e le autonomie locali. Federico Barbarossa riconobbe ai comuni i loro diritti in ambito amministrativo e, in parte, anche politico. Si creava anche una tregua nei rapporti tra il papa e l’imperatore. Erano queste, infatti, le due autorità su cui si imperniava l’organizzazione del mondo europeo così come si presentava dopo la caduta dell’impero romano. Entrambe unite dal comune vincolo della cristianità. Entrambe ritenute legittime e fatte risalire a Dio. Il problema stava nel trovare i limiti tra potere spirituale e temporale. A Verona, nell’autunno del 1184, il Barbarossa sedeva accanto al papa nella basilica di San Zeno all’apertura del Concilio, sotto lo sguardo soddisfatto dell’allora vescovo di Verona Ognibene. La vicinanza tra papa e imperatore era segno, almeno in quell’occasione, di una ritrovata (e studiata) concordia. Basta però cambiare il punto di vista per ritrovarvi l’inizio della lunghissima discordia tra la Chiesa e i movimenti religiosi pauperistici, quelli almeno che furono giudicati

16

Il Concilio di Verona e la condanna degli eretici Fu indetto nel 1184 da Lucio III. Fu l’inizio della discordia con i movimenti pauperistici all’interno della Chiesa

eretici. Si noti che il termine eretico non è storico ma è il modo in cui gli oppositori hanno definito, con valenza negativa, gli altri. Catari, Patarini, Valdesi e altri movimenti vennero condannati. Nel decretale “Ad abolendam diversarum haeresium pravitatem”, si stabilirono le premesse dell’inquisizione: si decretò la condanna di eresia e quindi la scomunica per chi nei gesti e nelle parole manifestasse un costume religioso non conforme alla dottrina cattolica. I vescovi ricevevano inoltre l’ordine di ricercare gli eretici. L’eretico pentito e confesso sarebbe stato lasciato in pace. In realtà si trattava di movimenti popolari che non volevano tanto soffermarsi, almeno agli inizi, su questioni teologiche; avevano piuttosto una valenza spirituale, di rinnovamento del-

lo spirito religioso cristiano e di rivendicazioni sociali, rifiutavano l’ostentazione del potere, del lusso, la dimensione temporale di cui si era rivestita la Chiesa. Indagini storiografiche più raffinate hanno poi sottolineato come dietro questo movimento religioso di riforma ci fossero anche moventi economici, politici e sociali che facevano leva sul malcontento di una diffusa povertà. Nel XII secolo la società si apriva. Smessi gli abiti difensivi del castello asserragliato per controllare i continui arrivi dei popoli del Nord, le città cominciavano a brulicare di attività artigianali. La produzione aumenta e di conseguenza anche il commercio e Verona non è da meno. In questo secolo si consolida una tradizione manifatturiera che farà diventare la città, nei due secoli successivi, il

centro produttivo laniero più importante del Veneto. Ciò favorito dalla sua posizione geografica, vicina a due vie d’acqua allora fondamentali: l’Adige e il Po. Riprendono dunque con più frequenza i viaggi delle merci e, insieme, delle persone. Le idee mutano man mano che nella quotidianità si aprono spiragli nuovi. Si creano visioni indipendenti. Si cerca credito. Riconoscimento. Autonomie. Si è contro i privilegi che favoriscono solo alcuni uomini, alcune famiglie. In effetti questi movimenti nascono un po’ dovunque, ma fioriscono soprattutto dove si è manifestato un più rapido sviluppo economico e perciò diventa più evidente e «stridente il divario tra le condizioni degli sfruttati e quelle dei privilegiati». Sia Pietro Valdo, a Lione, che Francesco ad Assisi appartengono a due ricche famiglie mercantili e decidono di rinunciare a tutto per un rinnovamento interiore e religioso. Si votano alla povertà, usano come lingua il volgare per incontrare la gente. A Verona si attesta soprattutto la presenza di Catari e Patarini ma è probabile che fossero presenti anche dei Valdesi. Per gli inquisitori gli eretici erano «rustici et illetterati, idiotae e sine litteris» e ciò non diceva solo un dato di fatto, e cioè la diffusione di questi movimenti religiosi specialmente (ma non solo) tra il popolo, che «non sapeva di latino», quanto un timore per l’affiorare di una cultura diversa da quella ufficiale. La paura ha il suo antidoto nella conoscenza e nell’incontro. L’altro diventa scoperta, ricchezza, opportunità. Nell’ambito della Chiesa cattolica ciò prende il nome di movimento ecumenico che ha avuto un significativo impulso dopo il Concilio Vaticano II, chiuso da Paolo VI, l’8 dicembre 1965 (l’anno scorso ricorreva il quarantesimo anniversario della chiusura dei lavori conciliari). Iniziarono o ebbero maggior riconoscimento anche movimenti laicali che avevano come finalità proprio quella di favorire il dialogo religioso per superare le divisioni e aspirare al recupero dei valori comuni. Ne è un esempio il Sae, Segretariato attività ecumeniche, attivo anche a Verona.

Dicembre 2006


Cultura BIBLIOTECA CAPITOLARE

Negli antichi libri fa capolino la musica Sono conservati codici liturgici risalenti anche al V secolo contenenti testi senza notazione o con indicazioni musicali evolute, come quelli di San Isidoro

La produzione libraria fu particolarmente ricca già nel VIII, IX e X secolo grazie all’opera dell’Arcidiacono Pacifico che scrisse 218 codici e del vescovo di Verona Raterio, che definì la città “L’Atene d’Italia”

Pagina di uno dei Corali del sec. XIV miniati dal Turone e seguaci per la Cattedrale di Verona (Biblioteca Capitolare)

in VERONA

di Nicola Guerini La Biblioteca Capitolare di Verona nasce dalla Schola Sacerdotum Sanctae Veronensis Ecclesiae (il Capitolo della Cattedrale), che aveva il compito di preparare i nuovi sacerdoti oltre a prestare servizio liturgico in Duomo. Per soddisfare questo impegno era necessaria un’officina di produzione libraria per la liturgia e per la cultura varia. Si creò quindi lo “Scriptorium”, risalente al secolo V d.C. come dimostra la testimonianza rappresentata da un “Lettore” della Cattedrale, Ursicino, del primo agosto dell’anno 517, durante la dominazione degli Ostrogoti. La produzione libraria fu particolarmente ricca già nel VIII, IX e X secolo grazie all’opera dell’Arcidiacono Pacifico che scrisse 218 codici e del vescovo di Verona Raterio, che definì la città “L’Atene d’Italia”. Successivamente, tra i secoli IX e XIV, la produzione si arricchì di libri liturgici con notazione musicale documentato dal suo principale autore, Stefano, cantore della Cappella musicale. Sono infatti conservati antichi codici liturgici contenenti i testi con nessun elemento di notazione o con indicazioni musicali già evolute, come quelli di San Isidoro risalente al V secolo. Altri esempi sono dati da una raccolta di preghiere, che venivano intonate, dal “Messale cum notis musicis”, e da un Antifonario con chiara notazione diastematica, e cioè la capa-

cità di indicare con le note l’ampiezza degli intervalli melodici. Di grande interesse sono gli “Hiymni et Capitula cum notis musicis” che presentano il vero sistema musicale inventato da Guido d’Arezzo, monaco e musico dell’abbazia di Pomposa del secolo XI: sul manoscritto infatti è tracciato il rigo rosso per il suono “fa” e in giallo per il suono “do”. Infine sono presenti un gruppo di 17 Corali miniati nella scuola di Turone de Maxio da Cammago, che nel 1356 abitava a Verona in contrada San Michele alla Porta. La musica dei vari Vesperali, Graduali e Mattutinali è l’espressione del canto gregoriano che viene adottato ormai ufficialmente per tutto il XIV secolo. Tra i numerosi manoscritti è importante ricordare il Codice “S.Agostino – De civilitate Dei” (sec. V), il “Sacramentarium Wolkfangi”(sec. X) proveniente da Ratisbona, e il “Mozarabico”. Quest’ultimo fu scritto in Ispana e arrivò a Verona nel secolo VIII, dopo essersi fermato a Cagliari e a Pavia. A Verona poi fu aggiunto alla pergamena, come prova di penna, il famoso indovinello: “Separeba boues alba pratalia araba et albo uersorio teneba et negro semen seminaba”. Nel XIV secolo la Biblioteca Capitolare ospitò il Petrarca, il quale vi trovò le Lettere di Cicerone e Dante Alighieri; nel suo soggiorno veronese, ebbe contatti con l’ambiente della Cattedrale, dove tenne nella loro

chiesa di Sant’Elena la lezione: “Quaestio de aqua et terra”. Nei successivi secoli XV, XVII la Biblioteca Capitolare divenne centro di cultura e visita di personaggi illustri che impreziosirono il già ricco patrimonio librario con donazioni di “incunaboli” e cioè libri stampati nei primi cinquant’anni dall’introduzione della stampa (1450-1500). Nel 1630, in occasione della guerra per la successione di Mantova, le milizie assoldate da Venezia e accampate intorno a Verona saccheggiavano le campagne e le città, provocando anche lo smarrimento di Codici antichi e preziosi. Solo 99 manoscritti furono messi in salvo dal Canonico Bibliotecario Agostino Renani che li nascose senza farne parola con nessuno. Quando nel 1630 a Verona scoppiò la peste bubbonica, morirono molti ecclesiastici, tra i quali anche il Canonico Bibliotecario Renani, che si portò nel sepolcro il segreto del nascondiglio dei Codici. Solo il marchese Scipione Maffei, importante umanista veronese, nel 1712 stimolò un’accurata ricerca. Nel 1713 l’archivista Carinelli riuscì trovare, nascosti nel cavo profondo della cimasa di un armadio molto alto, 99 Codici, ricoperti di tavole e stracci. Il fortunato ritrovamento ebbe una risonanza in tutta Europa e la Biblioteca Capitolare ritornò a essere, grazie al Maffei, un centro vivace di cultura. Alla sua morte il marchese donò al Capito-

17


Cultura lo la propria ricchissima biblioteca. L’aumento del patrimonio librario portò alla costruzione della nuova sede nel chiostro canonicale sul progetto dell’architetto veronese Ludovico Perini: utilizzata già nel 1728, fu completata definitivamente nel 1780. Durante il periodo dell’occupazione napoleonica la Biblioteca fu depredata di preziosi Codici e solo una parte di essi fu in seguito restituita. Nel secolo XIX la scoperta più importante per la risonanza mondiale, fu quella delle “Istituzioni di Diritto Romano”del Gaio, fatta nel 1816 dallo studioso prussiano GB Niebuhr. Questo volume è l’unico esemplare di quell’epoca esistente al mondo. In seguito furono scoperti la “Moralia in Job” di Gregorio Magno del CodiceXL che conserva frammenti di Virgilio, di Livio, di Euclide (del secoloVII). Nel Codice LXII, che reca in prima lettura: “Cresconius-Concordia Canonum” furono scoperti frammenti del Codice di Giustiniano del sec. VI. Nel 1898 nel Codice LV, che contiene l’opera di Isidoro “De Summo Bono” trascritta nel secolo VIII. Molti di queste scoperte sono state possibili attraverso i codici palinsesto la cui pergamena, scritta e poi raschiata, veniva riscritta con nuovo testo. Un contributo importante lo diedero tutti i bibliotecari che si succedettero nell’ultimo secolo: monsignor GB Giuliani (diresse la Capitolare dal 1856 al 1892 quando l’alluvione dell’Adige del 1882 distrusse l’Archivio), don Antonio Spagnolo dal 1894 al 1916, monsignor Giuseppe Zamboni dal 1916 al 1922. Dal 1922 al 1972 fu monsi-

Pagina di Corale miniata da Gerolamo Dai Libri per S. Maria in Organo (Museo di Castelvecchio)

18

gnor Giuseppe Turrini che catalogò le 11mila pergamene colpite dall’alluvione del 1882 oltre a creare un catalogo alfabetico dei manoscritti e delle opere musicali. Ma egli fu soprattutto legato alle vicende legate alla guerra 194145 quando, per timore di incursioni aeree, trasferì in rifugi adatti il materiale più prezioso. Il bombardamento americano del 4 gennaio 1945 ridusse però anche l’edificio centrale della biblioteca ad un cumulo di macerie, seppellen-

Pagina di Corale miniata da Gerolamo Dai Libri per S. Maria in Organo (Museo di Castelvecchio)

do con gli scaffali, i libri che non si erano potuti trasferire e che però furono quasi tutti recuperati sotto le pietre dell’edificio. Il 28 settembre 1948 fu inaugurato il nuovo edificio con un salone più ampio e con l’arredamento più adatto per la custodia e la conservazione dei manoscritti e delle pergamene.

MUSICALMENTE Il cristianesimo e la musica: un legame stretto di Nicola Guerini La musica occidentale nasce con la parola intonata della liturgia romana ed è tratta dalla Sacra Scrittura. Alcuni cantici come il Magnificat, ed alcuni passi delle lettere degli Apostoli sono delle vere e proprie composizioni strofiche costruite secondo la metrica della poesia religiosa ebraica, che veniva intonata. La musica cristiana è la liturgia stessa che si fonda su una concezione sacrale della parola, che, nel caso delle Sacre Scritture è considerata ispirate da Dio. La musica deve quindi celebrare la solennità della Parola. Fondamentale nel canto cristiano e poi gregoriano è il concetto della musica solo come preghiera, dal quale deriva lo strettissimo rapporto fra la parola e il suono. Con il canto cristiano ha inizio la storia della musica occidentale: infatti le testimonianze pervenuteci non riguardano solo scritti teorici letterari o fonti iconografiche, come era avvenuto con le culture dell’antichità classica, ma di vere opere musicali tramandate in grande abbondanza. Fino all’età carolingia, la storia della musica europea non era scritta e sopravviveva solo attraverso la tradizione orale. Successivamente nacque l’esigenza di una notazione che fissasse per sempre la memoria di quei canti dando origine a un’evoluzione proiettata in una continuità nel tempo fino a diventare la notazione usata tuttora. Dopo l’Editto di Milano del 313, che diede ai cristiani la libertà di culto, si diffusero numerosi riti in tutta Europa con una grande fioritura di canti liturgici diversi. Al centro di questo fervido periodo importante è l’influenza di San Gregorio Magno (590-604), il Papa dal cui nome deriva, secondo la leggenda, quello del canto gregoriano. In realtà non si conosce nessuna relazione storica da cui risulti un’azione del Papa Gregorio I nei confronti del canto cristiano mentre va ricordato il suo intervento importante nell’organizzazione della Messa nel rito romano,

presente ancora oggi. È proprio con lui che, insieme all’opera di Carlo Magno (768-814), si instaurò l’unificazione liturgica di tutto l’Impero d’Occidente attraverso la fusione tra il rito romano e quello gallicano. L’introduzione del nuovo rito creò tensioni e resistenze del clero locale che, abituato ad un proprio repertorio di canti, dovette imparare a memoria un repertorio completamente nuovo, in un periodo in cui non c’era la scrittura musicale. A causa di queste difficoltà, intorno alla metà del secolo IX s’iniziò a corredare i testi liturgici di segni che, posti al di sopra delle parole del testo, come accenti, indicavano un embrionale movimento melodico. Da questa primitiva notazione, nata con lo scopo di aiutare la memorizzazione, si sviluppò la notazione propria del canto gregoriano, chiamata notazione neumatica, che raggiunse il suo massimo splendore nel sec. X e XI. La scrittura neumatica iniziale era priva di indicazioni di rapporti fra i suoni ma, attraverso i segni sopra il testo, era possibile seguire il tracciato chironomico (dal greco cheir, mano, e nomos, legge) di questa notazione che riproduceva i riferimenti di un’immaginaria mano di direttore di coro. Attraverso gli studi approfonditi sull’origine della scrittura è possibile dimostrare che i segni, chiamati Neumi (dal greco neuo, indicare) hanno tratto origine dagli accenti grammaticali del greco e del latino e precisamente due: la virga per distinguere le sillabe toniche, che si pronunciavano con intonazione acuta, e il punctum per le sillabe atone, sulle quali vi era un’intonazione più grave. Da qui fioriranno altri segni in grado di fissare le melodie con sempre maggior precisione di valori, dinamica e agogica. È importante ricordare però che il ritmo del canto non è misurato esattamente con rapporti aritmetici poiché il canto gregoriano è indipendente da qualunque scansione periodica del tempo ed è strettamente legato al ritmo e alla dinamica del testo verbale, che è sempre in prosa e con carattere “oratorio” (da oratio, discorso in latino).

Dicembre 2006



Cultura ARTI GRAFICHE

Hans Mardesteig maestro nella stampa Come Bodoni il fondatore della “Stamperia Valdonega”, amico di d’Annunzio, è stato un incisore espertissimo, quasi un giocoliere dei caratteri

È recente la notizia che la Stamperia Valdonega e le Grafiche SIZ, due note realtà imprenditoriali veronesi del settore grafico-librario, hanno siglato un accordo che prevede la costituzione di una nuova compagine societaria. Lo scopo, si legge in un comunicato congiunto, è quello di rafforzare il posizionamento di Stamperia Valdonega nei mercati di riferimento e nel contempo di sbarcare nei mercati emergenti dell’Est Europa e dell’Asia, sempre più interessati alla qualità made in Italy, editoria di pregio inclusa. La notizia è l’occasione per ripercorrere la storia della Stamperia Valdonega

Andrea Appiani “Ritratto di Giambattista Bodoni” Parma, Galleria Nazionale

20

di Oreste Mario Dall’Argine Nel corso di una visita alla casa di d’Annunzio a Gardone Riviera ci è capitato di leggere un biglietto autografo di d’Annunzio, con il quale il poeta concedeva ad Hans Mardesteig il permesso illimitato di entrare «in qualunque giorno e in qualunque ora per ragionare meco intorno ai segreti della bella stampa». Questo in data 29 ottobre 1927. Sono passati quasi ottant’anni dalla data di questo singolare scritto che ci rivela in parte il carattere dell’Immaginifico, ma che ci riporta a riflettere su quella che è stata la figura di Hans (Giovanni) Mardesteig nel campo della cultura e della stampa d’arte italiana e, in particolare, di Verona. Qui infatti concentrò la sua vita professionale fondando una propria attività tipografica nota come “Stamperia Valdonega”. Cresciuto nei fermenti culturali di Weimar nel primo dopo guerra (1915-1918), creatore della rivista Genius, momento di riscatto intellettuale della Germania sconfitta, Mardesteig segue il suo istinto più profondo e compiuti gli studi universitari di giurisprudenza, comincia a gettare i semi della sua arte tipografica. Dopo una breve esperienza a Montagnola di Lugano, si trasferisce a Verona attorno agli anni Trenta, essendosi aggiudicata la stampa dell’opera di d’Annunzio: nasce così l’“Offici-

na Bodoni”, nome che voleva rendere omaggio al suo maestro. Interessante quello che scrive Giovanni Mardesteig raccontando i suoi incontri con lo scrittore: «...le visite al Vittoriale erano sempre molto proficue, soprattutto quando potevo discutere da solo con lui... egli possedeva una facoltà d’intuizione di mirabile prontezza... Quando discutevamo di frontespizi... decideva sempre per quelli che piacevano di più anche a me». Il rapporto con il poeta delineò la svolta decisiva della sua maestria, tanto da essere riconosciuto quale “tipografo principe”. È quasi vana esibizione parlare di tutto quello creato da Giovanni Mardesteig; diciamo soltanto che alcuni grandi pittori come De Pisis, De Chirico, Manzù gli devono tanto per le pubblicazioni a loro destinate. La fatica e la ricerca per la ricostruzione di molte tavole del Dürer e la preziosissima Edizione dell’Opera di Terenzio “Andria” nella traduzione del Machiavelli rimangono a testimonianza della sua interpretazione dell’arte tipografica. Mardesteig, come Bodoni, è stato un incisore espertissimo, quasi un giocoliere dei caratteri. Ad un certo punto dell’attività, l’Officina Bodoni si rivela troppo piccola e non in grado di correre coi tempi. Si arricchisce di nuove macchine da stampa e si trasferisce, ingrandendosi, in un’altra zona di Verona, cambiando anche il

nome della ditta in “Stamperia Valdonega”. Hans Mardesteig muore nel 1972 e gli succede il figlio Martino. Egli continua e accresce l’eredità, aggiornandosi nello stesso tempo con le nuove tecniche di stampa. Valorizza il nome di Stamperia, usato per definire l’attività dell’azienda che conserva una sezione di stampa a mano accanto alle macchine più moderne. L’attrazione per i libri rari, per i libri d’arte, per la continuazione dell’arte tipografica sono per Martino come le grandi passioni che prendono l’anima e la vita degli uomini nei tempi più significativi della loro vita. Dice Martino Mardesteig parlando dell’editoria odierna: «Noi, anche per i libri stampati con le nuove tecniche, salviamo e riportiamo ciò che mio padre, allievo quasi filiale di Bodoni, mi ha insegnato». Ma egli pensa che un futuro per il libro d’arte e per un’officina tipografica ci sia e possa sopravvivere difendendo e imponendo la conoscenza del libro “bello”. L’erede del grande Hans dice: «Quando penso di pubblicare un libro o suggerisco ad un committente la ristampa o la stampa di un libro prezioso, ricordo sempre le parole di mio padre: “il libro al quale tu decidi di dedicare la tua opera ed il tuo ingegno deve essere prima amato, poi riamato fino alla consumazione, come per una bella donna. Solo allora potrai cominciare, sicuro di finire un’opera d’arte”».

Dicembre 2006


IL PERSONAGGIO

Dino Buzzati Scrittore, giornalista, pittore e fumettista: una delle figure più affascinanti della cultura italiana del Novecento

di Irene Lucchese

Dino Buzzati

Nasce il 16 ottobre 1906 a San Pellegrino, vicino a Belluno. Il padre è insegnante all’Università di Pavia e alla Bocconi, la madre appartiene a un’importante famiglia veneziana. Secondogenito di quattro figli, trascorre la sua infanzia nell’ottocentesca villa di famiglia, luogo d’origine dell’universo fanta-reale dello scrittore

in VERONA

Il 16 ottobre 2006, Belluno e Milano hanno festeggiato in questa data il centenario della nascita di un loro famoso cittadino: Dino Buzzati. Il ricordo di uno dei più geniali personaggi del Novecento italiano è iniziato già nei primi mesi dell’anno, con manifestazioni, conferenze, mostre in tutta Italia. Ma non solo: anche l’Europa ha ricordato lo scrittore italiano, segno della sua fama, della sua importanza che travalica i confini nazionali. L’anniversario ha rappresentato la migliore occasione per ripercorrere la vita e le opere di un artista poliedrico, a tutto tondo, completo. Scrittore, giornalista, pittore e fumettista: questo è stato Buzzati, una delle figure più affascinanti e complesse della cultura italiana del Novecento. Dino Buzzati Traverso nasce il 16 ottobre 1906 a San Pellegrino, nei pressi di Belluno. La sua è una famiglia benestante, il padre è insegnante all’Università di Pavia e alla Bocconi, la madre appartiene ad un’importante famiglia veneziana. Secondogenito di quattro figli, trascorre la sua infanzia nell’ottocentesca villa di famiglia, luogo d’origine dell’universo fanta-reale dello scrittore. Frequenta il liceo classico Parini di Milano e, successivamente, si laurea in Giurisprudenza. Sin dalla giovane età si manifestano in lui quei temi, interessi, passioni ai quali resterà fedele tutta la vita: la poesia, la musica, il disegno e la montagna, vera compagna dell’infanzia: «Penso» dice

Buzzati in un’intervista concessa a Il Giorno il 26 Maggio 1959 «che in ogni scrittore i primi ricordi dell’infanzia siano una base fondamentale. Le impressioni più forti che ho avute da bambino appartengono alla terra dove sono nato, la valle di Belluno, le selvatiche montagne che la circondano e le vicinissime Dolomiti. Un mondo complessivamente nordico, al quale si è aggiunto il patrimonio delle rimembranze giovanili e la città di Milano, dove la mia famiglia ha sempre abitato d’inverno». La sua carriera inizia nel luglio 1928, quando viene assunto dal Corriere della Sera come cronista; sarà anche inviato di guerra ad Addis Abeba e prezioso testimone della Liberazione a Milano il 25 aprile 1945. È proprio il lavoro in via Solferino che ispira il suo romanzo più famoso, Il deserto dei Tartari, pubblicato nel 1940. Buzzati, infatti, lavora al giornale soprattutto di notte, tornando a casa verso le tre, quando la città è immersa nel silenzio più totale. Il testo nasce per spezzare la «monotona routine redazionale notturna. Molto spesso avevo l’impressione che quel tran-tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. È un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nella esistenza ad orario delle città». Da questa angoscia soffocante prende forma la visione di un mondo militare fantastico, quella Fortezza Bastioni in cui il protagonista Giovanni Drogo, assieme ai suoi

compagni, consuma la vita nell’attesa vana di un evento che non arriva. Più di cinquanta opere, tra romanzi, poesie, testi teatrali, libretti per musica: queste la varietà della produzione buzzatiana, a cui vanno aggiunti i fumetti e vari dipinti. La pittura non è un semplice hobby, ma è lo stesso Buzzati a considerarla un vero lavoro: «Dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie». Non mancano, nella sua originale carriera, nemmeno i riconoscimenti: Buzzati infatti, vince il Premio Strega nel 1958 con Sessanta racconti e, nel 1970, gli viene assegnato il premio giornalistico «Mario Massai» per gli articoli pubblicati sul Corriere a commento della discesa dell’uomo sulla luna. Dopo una lunga carriera di scrittore e giornalista, Dino Buzzati muore a Milano il 28 gennaio 1972. Il ricordo che l’Italia vuole tributare all’artista lombardo-veneto è significativo e duraturo; le Poste Italiane hanno, infatti, emesso proprio il 16 ottobre un francobollo a lui dedicato, per rendere omaggio al genio poliedrico del grande autore italiano che con il suo stile ha segnato le pagine più rappresentative del Novecento.

21


I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA

Vittorio Messori, testimone di un tempo difficile di Giuseppe Brugnoli Nell’ultimo numero di questa rivista, che aveva fin qui graziosamente raccolto i “Ricordi di un giovane cronista”, all’autore di queste note è venuta la voglia, “per una volta tanto”, di cambiare il titolo in quello di “Ricordi giovani di un vecchio cronista”, e il mutamento un po’ radicale di rotta ha avuto qualche conseguenza imprevista: un più ampio interesse per la rubrica, confermato da qualche telefonata e da un paio di scritti. Giusta punizione per chi, pur osando definirsi vecchio cronista, aveva dimenticato la prima regola del giornalismo: scrivere dell’attualità, lasciando agli storici, ai memorialisti, magari soltanto ai nostalgici, di riandare all’indietro, alle rievocazioni. Così, per stare sull’oggi, in questo articolo si parla di un personaggio che è sempre di stretta attualità, per i suoi puntuali e spesso ficcanti interventi giornalistici e per una serie di libri che, anche se godono, si fa per dire, di un assordante silenzio nella pubblicistica nazionale, quando non di qualche recensione biliosa e saccente, quasi sempre soltanto denigratoria, corrono per il mondo in successive edizioni e traduzioni che hanno grande appeal presso un pubblico sempre più numeroso e fedele. Parliamo di Vittorio Messori, scrittore e giornalista cattolico, per il quale l’aggettivo, che secondo la grammatica dovrebbe essere qualificativo, diventa il più spesso una sorta di diminutio, e quindi in qualche modo squalificante. Un destino condiviso, ma in minor misura, da quegli scrittori e giornalisti che, appassionati magari di giardinaggio o di volo a vela, trovano modesti spazi in riviste specializzate in tuttologia e scrivono preziosi libretti amorosamente collezionati da esili schiere di aficionados. Qui, con una duplice aggravante: che Vittorio Messori non si interessa di modesti hobbies capaci di rallegrare qualche scampolo di vita, ma affronta temi fondamentali per la vita di ciascuno, quali la vocazione e il destino dell’uomo comune e la presenza attuale di un uomo che è anche Dio, e quindi dovrebbe godere di maggior considerazione, e che la sua ampia produzione di scrittore “impegnato”, anche se non nel senso

in

oggi usuale e unidirezionale del termine, costituisce, se non altro, almeno un interessante fenomeno “di costume”. Chi scrive queste righe conobbe Vittorio Messori quando ebbe l’occasione di presentarlo in una pubblica riunione a Verona, dove fu sottoposto ad un fuoco di fila di domande, alcune delle quali chiaramente gratulatorie e quasi incensatorie, altre che tendevano a metterlo in difficoltà. Rispose a tutti – questo è il ricordo – con una certa secchezza, quasi con un accenno di insofferenza, con affermazioni ferme e lapidarie che non lasciavano spazio ad alcuna replica, così che l’impressione fu che egli avesse una sua verità da porgere, una sua linea da seguire senza tentennamenti od esitazioni, quasi si fosse creato un personaggio da proporre universalmente. Il pensiero fu che, come molti dei convertiti, e Vittorio Messori è un grande convertito, fosse in qualche modo “più realista del re”, e che in cristiani di scarsa o debole convinzione, come era in generale l’uditorio, egli avesse dato l’impressione di un uomo chiuso nella propria fede, altero e sostanzialmente distante. Tale, in fondo, da giustificare, almeno in parte, il generale isolamento e spesso il patente ostracismo da cui era colpito nella composita tribù degli scrittori da giornale. Poco tempo fa, c’è stata una seconda occasione di incontro, all’abbazia di Maguzzano ora retta dalla Congregazione di San Giovanni Calabria, dove Vittorio Messori ha un suo buen retiro in un’ala isolata del vasto convento, e dove avrebbe avuto piacere che fosse installato un ricordo della Repubblica Veneta, costituito dalla riproduzione in pietra del Leone di San Marco. Auspice, anzi pronubo l’amico e collega Stefano Lorenzetto, fattosi interprete del desiderio presso la Fondazione Masi, in una bella giornata di settembre la scultura fu con breve cerimonia benedetta sul muro perimetrale dell’abbazia, a ricordare, come disse Messori presentando l’opera, non soltanto i lunghi secoli di pace che furono assicurati al territorio gardesano e a tutto il Veneto-Lombardo dalla Serenissima, ma anche la distruzione e la spoliazione che l’occupazione napoleonica provocò in quella rete di luoghi sacri di cui la secolare abbazia di Maguzzano era uno dei capisaldi, per augu-

rare che, a somiglianza di quanto avevano fatto il Poveri Servi della Divina Provvidenza in quest’angolo del basso Garda, anche nei confronti di altri luoghi sacri oggi diruti e abbandonati si possa fare altrettanto. L’ambiente agreste e la cerimonia conclusa con una familiare refezione alla mensa conventuale, erano certamente propizi ad una conoscenza meno superficiale con l’autore di tanti libri che una volta si sarebbe potuto chiamare “apologetici”, ma che sono invece soltanto precise e accurate analisi storiche e incontri di grande spessore, come le interviste all’attuale Papa quando era ancora cardinale e al suo predecessore Giovanni Paolo II, volumi che nel frattempo era venuti ad arricchire non soltanto la libreria ma anche e più ancora la mente di chi scrive. Così, quelle poche frasi scambiate nell’incontro conviviale, e più ancora durante la visita ai luoghi dell’abbazia, mentre gli altri visitatori si disperdevano qua e là, hanno fatto scoprire al sottoscritto non un Messori diverso, ma un Messori più completo, e quindi un po’ distante dall’iconografia tradizionale che ne privilegia una sola dimensione, quella del defensor fidei, quasi imprigionandolo in un cliché che assomiglia ad un’armatura. In realtà lo scrittore Vittorio Messori è uomo completamente calato nel suo tempo, che è il nostro, di cui condivide e soffre le contraddizioni, che tenta di risolvere sorretto non soltanto dalle fede e dalla saldezza nei principi, ma anche da una profonda umanità, che si potrebbe chiamare pietas, fatta di comprensione e condivisione dei problemi. Nessun orgoglio intellettuale in lui, nessun atteggiamento di superiorità, ma una limpida visione dei problemi di oggi e qualche pacato suggerimento per aiutare a superarli. Così che appare assai triste il fatto che egli sia osteggiato e vilipeso non solo dai nemici del nome cristiano, ma anche da molti che, per il loro ufficio o per personale scelta, dovrebbero vedere in lui non un fondamentalista a cui mettere il bavaglio o da escludere in ogni modo, ma un saggista ed editorialista che, alieno da ogni compromesso con le proprie convinzioni, rimane uno dei più autorevoli e affidabili testimoni del cristianesimo in tempi tanto convulsi e controversi.

VERONA

Dicembre 2006


Spettacoli di Alice Castellani A quindici anni dalla sua prima incredibile, spettacolare ed emozionante edizione de La tempesta, Tato Russo torna a riproporre l’allestimento shakespeariano che ottenne allora un clamoroso successo di pubblico ed entusiastici commenti da parte della critica Torna quindi a Verona per Il Grande Teatro, al Teatro Nuovo dal 30 gennaio al 4 febbraio. La tempesta è un’opera tra le più belle e poetiche del Bardo e questo spettacolo è un lavoro epico e didattico, austero e monumentale, con numerosissime invenzioni registiche, dal gioco linguistico con le scene dei comici napoletani alle suggestioni coreografiche di un Ariel androgino, bianco e polimorfo che si moltiplica all’infinito; dalla doppia recitazione dal vivo e registrata di Tato Russo alle clownerie delle tavole imbandite per i naufraghi; dai costumi elisabettiani al teatrino barocco sospeso in aria, al finale del ritorno per mare con una quinta che diventa vela e la pedana della rappresentazione che si alza come il portellone di una nave. La pièce è solidamente strutturata, ma l’approccio risulta decisamente non convenzionale, con la grande nave del teatro a veleggiare verso un’isola che non c’è, se non nella coscienza del poeta e del pubblico che rende lo spettacolo una sorta di rito d’espiazione, riflessione sugli strumenti e i percorsi della vita, viaggio prodigioso verso il giudizio finale. Trenta attori sull’isola incantata di Prospero cedono il passo all’uomo, sulla scena di una Tempesta metafisica e suprema, devastante e ricompositiva, che si scatena su un’isola della mente che scuote le onde più inquiete e recondite della psiche umana. Per Ben Jonson, uno dei primi critici a riconoscere la grandezza del drammaturgo e poeta inglese, «L’opera di Shakespeare non è di una sola epoca, ma è del tempo in tutta la sua interezza», dunque anche del nostro. E così l’allestimento di Tato Russo diventa tangibile testimonianza di inquietudini contemporanee, accompagnate da un ripiegamento su se stessi e da un tragico abbandono

in VERONA

TEATRO NUOVO

Una Tempesta metafisica sull’isola della mente

La Tempesta è un’opera tra le più belle e poetiche di Shakespeare e questo spettacolo di Tato Russo, che torna a Verona dopo il successo di 15 anni fa, è un lavoro epico e didattico, austero e monumentale, con numerose invenzioni registiche Tato Russo

In scena dal 30 gennaio al 4 febbraio

dell’anima di fronte alle sfrontate provocazioni della macchinateatro che si rivela ed espone. Russo si è impegnato a convogliare un mare di sensazioni tempestose in un ordinato scritto, trovando il senso profondo e il segno di questa messinscena nella grande Nave del Teatro che veleggia verso l’isola della Coscienza aspirando ad una palingenesi poetica e teleologica, accompagnata da un incommensurabile desiderio di purezza. La messinscena perde il gusto di favola pastorale intrisa d’Arcadia e di Commedia dell’Arte ed evade dal compiacimento elisabettiano e barocco di rappresentare il gran sentimento del meraviglioso, staccandosi dalle moralities tipiche del teatro inglese. È l’aspetto profetico e messianico dell’opera, molte volte tralasciato, che prende qui il sopravvento sull’illusionismo della vicenda, sul gioco del teatro nel teatro, che pur è presente, e nel percorso della rappresentazione diventa lo stile della messinscena. Russo ha scelto per lo spettacolo attori particolari, di diversa estrazione ma tutti individualmente riconducibili al pathos dell’anima e a un lavorio dello spirito. Eliminando l’intera scena iniziale del famoso “prologo a mare”, che da sempre ha stuzzicato la fantasia dei registi, spesso a scapito dello spessore tragico complessivo dell’opera, favorisce l’interiorizzazione della Tempesta che, perduto il carattere d’evento esterno e reale, prende l’aspetto o il senso d’un fatto metafisico, emotivo, d’una grande turbativa della coscienza, con i vari accadimenti che divengono proiezioni dello spirito interiore. La tempesta è allora l’avvenimento costante dell’opera e misura della coscienza, evento non naturale ma ontologico così che azioni e personaggi acquistano vigore drammatico e divengono esemplificazione d’un caso della coscienza su cui dibattere poeticamente. Tato Russo esplicita a suo modo il ruolo del teatro come indicatore della coscienza, schermo dei problemi e moltiplicatore degli eventi, e soprattutto spazio di coinvolgimento emotivo dello spettatore.

23


Spettacoli

È iniziata al Teatro Camploy il 1 dicembre e continuerà fino al 30 marzo, la rassegna L’Altro Teatro organizzata dall’assessorato allo Spettacolo e che propone un excursus sul teatro d’innovazione italiano, all’insegna della sperimentazione e della contemporaneità. Un’occasione, per quel pubblico curioso che nel Camploy può trovare uno spazio d’elezione, per scoprire nuovi “punti di vista” ed esplorare nuovi terreni. Il 21 febbraio la compagnia Lombardi-Tiezzi con Emilia Romagna Teatro propone Gli uccelli di Aristofane, nella drammaturgia a cura di Sandro Lombardi e per la regia di Federico Tiezzi che sanno leggere magnificamente la Grecia di Aristofane alla luce dell’attualità, anche grazie alla traduzione di Dario Del Corno secondo cui questa è «la più bella commedia di tutti i tempi». Due ateniesi lasciano la loro città, divenuta uggiosa e opprimente perché divorata dalla corruzione e sull’orlo del crollo definitivo, per andare in cerca di un luogo privo di noie e fastidi, dove poter trascorrere in santa pace il resto della vita. Così comincia Gli Uccelli di

24

TEATRO CAMPLOY

“Gli Uccelli” di Aristofane In scena fino al 30 marzo Aristofane. Nel mondo degli uccelli i due ateniesi cercano e trovano un grande sogno utopico, una patria dolce e materna, senza leggi né violenza. L’utopia di Aristofane è certamente nostalgica e rivolta ad un vagheggiamento del passato, quando Atene poteva forse davvero essere considerata una “città ideale”. Ma attraverso una comicità surreale e lirica, fantastica e liberatoria, Gli Uccelli è anche un’opera colma di spirito di contestazione. Lo spettacolo, ricco d’inventiva e governato con superbi scatti, mescola una leggerezza mozartiana all’alta pedagogia brechtiana, rappresentando nella città di Nubicuculia, la città fra le nuvole, non tanto lo spazio della politica, quanto

quello del teatro: una nowhere land capace di dar corpo a tutte le utopie. Intrisa di comicità e sarcasmo, questa commedia dissacra tutti i miti di allora come di oggi; e mentre ridiamo di cuore pensiamo alle sue verità e ai suoi significati, al regno di Utopia che si realizza sul palcoscenico, dove sono possibili, allo stesso tempo, la realtà e il sogno. Pasolini aveva già visto come, nonostante la sua ideologia aristocratica e conservatrice, Aristofane fosse ne Gli uccelli “più moderno di ogni moderno”, rivendicando la necessità della gioia e della concretezza, e soprattutto dei piaceri del corpo: dal cibo al sesso, al godimento della natura.

La pièce ruota attorno al sogno di una società libera e felice, dove gli uomini siano in simbiosi con la natura, nel migliore dei mondi possibili. Nel racconto di Aristofane il regno di Utopia si riconverte a poco a poco nel mondo che conosciamo, con le sue strutture di potere e le sue figure di potenti; lo spettacolo allestito da Tiezzi descrive un passaggio decisivo anche nel mondo contemporaneo: quello per cui da una situazione nata per realizzare un sogno di democrazia e di tolleranza si passa quasi inevitabilmente ad uno di potere, assurgendo a metafora di tutte le rivolte libertarie destinate a degenerare in un ottuso autoritarismo. Il tutto proposto però con uno sfrontato impatto comico, sospinto verso una sorta di leggerezza cabarettistica, senza rinunciare al necessario rigore intellettuale, piuttosto con una moderna drammaturgia capace di agire non mediante riscritture ma con sapienti sottolineature, suggerendo più che descrivendo e giocando su scale musicali, sussurrando e fischiettando le ballate di Brecht, Beatles e Mozart. (A.C.)

Dicembre 2006


Spettacoli È l’unico teatro storico dell’Ottocento della provincia di Vicenza, ma si trova, in pratica, al confine con Verona. È il teatro comunale di Lonigo, oggi luogo di interessanti rappresentazioni. La sua storia ha però origini ben più antiche e nacque infatti per sostituire il settecentesco teatro dei Concordi, proprietà di un’élite di cittadini della nobiltà e dell’alta borghesia leonicena, in un luogo di cultura e spettacolo più accessibile anche al ceto impiegatizio e, talvolta, operaio e contadino che si era affermato nel corso del XIX secolo. Il progetto fu affidato all’architetto Giovanni Carraro e l’inaugurazione avvenne il 23 ottobre 1892, con il «Ballo in maschera» di Giuseppe Verdi. Sul palcoscenico del Teatro Comunale si alternarono spettacoli fino al 1977, con la partecipazione di importanti nomi del mondo della lirica e della prosa. Purtroppo, con la trasformazione in sala cinematografica, il teatro finì nel degrado tanto da renderne necessaria la chiusura per restauro. I lavori durarono oltre dieci anni e finalmente, il 22 ottobre 1993, il Teatro Comunale riaprì i suoi battenti con un concerto lirico.

Giuseppe Pambieri

Uno spettacolo quasi onirico, acido, ritmico, scandito da luci violente e colorate che accompagnano, in un clima di sogno, l’andamento della commedia

in VERONA

LONIGO

“La Commedia degli errori” In scena il 17 febbraio In un fitto cartellone, Shakespeare farà capolino tra il sipario leoniceno sabato 17 febbraio con “La Commedia degli errori” adattata da Luca Simonelli con Giuseppe e Micol Pambieri e Nino Bignamini. Ispirato al modello plautino dei “Menecmi”, questo spettacolo è uno delle prime commedie scritte dal drammaturgo di Stratford upon Avon. Pambieri non ricalca però il plot originale, ma amplifica il tema del doppio creando qualcosa di nuovo. La vicenda originale, dall’intreccio spumeggiante e ricco di colpi di scena, prende infatti il via quando due coppie di gemelli identici (due giovani padroni con i relativi servi) vengono separate per poi riunirsi, casualmente e inconsapevolmente, nella città di Efeso, dando così luogo a una serie di equivoci. Una trama, quindi, difficilmente narrabile per i suoi complessi capovolgimenti di ruolo. «Quale errore disvia i nostri occhi e i nostri orecchi? Finché non abbia fatto luce su questa sicura incertezza, voglio prestarmi all’illusione che mi si offre». Recita così il testo shakespeariano evocando uno straordinario gioco linguistico sul quale si basa gran parte della genuina comicità dell’opera. Nella storia delle rappresentazioni

elisabettiane, le due coppie di gemelli protagoniste, erano sempre interpretati da due attori dall’aspetto simile. Nella commedia di Pambieri, invece, un solo attore interpreta i gemelli così da rendere ancora più rilevanti, ma soprattutto comicissimi, i loro scambi di persona. La storia si svolge in una unica giornata, dall’alba al tramonto, passando da un tragico inizio al più classico degli happy end, con ricongiungimenti famigliari e un nuovo matrimonio all’orizzonte. Il tutto condito da inganni ed equivoci. L’involontaria comicità degli scambi di persone, delle in-

credibili e quasi astratte situazioni in cui le due coppie di gemelli si vengono a trovare, si innesta in una Efeso magica e surreale dove le rincorse dei personaggi, che non trovano mai una logica alle loro azioni, diventano metaforicamente, incomunicabilità angosciosa e malinconica. I gemelli, separati dal destino, sono perfettamente uguali nell’apparenza, ma agli antipodi nel carattere: Antifolo, il gemello che il destino ha voluto crescesse a Siracusa, è intellettuale, colto, un po’ spocchioso, quasi dominato da un aplomb inglese, schivo ma allo stesso tempo assetato di nuove esperienze. Il suo doppio cresciuto nella città rivale di Efeso, è un solido mercante con le gambe ben piantate per terra, passionale e iracondo. I due servi fanno il verso ai rispettivi padroni imitandone i vezzi e amplificandone gli equivoci. Anche il tempo occupa una parte da protagonista nella vicenda: dall’alba, con la condanna a morte di Egeone, padre dei due gemelli, quasi un incipit tragico, al tramonto, in cui l’agnizione finale vede i due figli confrontarsi come in un unico specchio. «Unità di tempo, sì, ma anche tempo impazzito», spiega il regista, «una frantumazione temporale che va di pari passo con l’alienante contrappunto delle reciproche incomprensioni». Uno spettacolo quindi quasi onirico, acido, ritmico, scandito da luci violente e colorate che accompagnano, in un clima di sogno, l’andamento della commedia. (G.C.)

25


Territorio VALPOLICELLA

San Giorgio e il suo Museo Una veduta del piccolo chiostro annesso alla chiesa di S. Giorgio, con i caratteristici capitelli romanico-bizantini

A fianco della chiesa si può visitare un piccolo ma interessantissimo museo, affidato alla Pro Loco di San Giorgio e alla giovanissima curatrice Giulia Perusi. Il museo, costituito da quattro locali e dagli scavi dietro la Pieve, espone reperti archeologici e paleontologici rappresentativi dell’area di Sant’Ambrogio e del Monte Pastello

26

di Guido Gonzato Ci sono luoghi che sembrano benedetti dal cielo, e San Giorgio in Valpolicella è sicuramente uno di questi. La sua posizione elevata, nel cuore della Valpolicella e a poca distanza dal lago di Garda, dona a questo antico borgo un panorama incantevole; e la sua storia plurimillenaria ha lasciato un’eredità importante. L’area di Sant’Ambrogio iniziò ad essere frequentata già in epoca preistorica. Questa era una zona di confine tra le popolazioni Venete, che avevano colonizzato la pianura, e le popolazioni Retiche delle zone collinari. A S. Giorgio erano presenti gli Arusnati, ricordati da una iscrizione romana scoperta da Scipione Maffei. Seguirono la conquista romana, la cristianizzazione (piuttosto tardiva) e l’arrivo dei Longobardi. La Pieve venne costruita nell’ottavo secolo, secondo quanto riporta un’iscrizione su una colonna del ciborio; ma conserva elementi assai più antichi. Una antica ara, che un’iscrizione dedica al sole e alla luna, venne riutilizzata come basamento per una colonna. Era quasi una regola, all’epoca, che la costruzione di edifici sacri cristiani avvenisse al di sopra di preesistenti templi pagani, che venivano in tale modo “riconsacrati”. Ulteriori rimaneggiamenti avvennero nel Medio Evo, con l’aggiunta di affreschi tra l’XI e il XIV secolo, e all’i-

nizio del secolo scorso, quando venne ricostruito il ciborio. Una visita alla Pieve consentirà al visitatore di ammirarne la splendida architettura e il bellissimo chiostro, ornato da colonne che gli artigiani scolpirono tutte diverse una dall’altra. Nel chiostro sono conservate alcune lapidi medioevali e romane. A fianco della chiesa si può visitare un piccolo ma interessantissimo museo, affidato alla Pro Loco di San Giorgio e alla giovanissima curatrice Giulia Perusi. Il museo, costituito da quattro locali e dagli scavi dietro la Pieve, espone reperti archeologici e paleontologici rappresentativi dell’area di Sant’Ambrogio e del Monte Pastello. All’ingresso fanno mostra di se alcuni frammenti del ciborio longobardo, dal caratteristico ornamento a nodo intrecciato che ricorda analoghe decorazioni dell’area celtica. Le vetrine espongono una raccolta di lame di selce e alcuni dei reperti rinvenuti negli scavi adiacenti: oggetti in corno e terracotta come fusarole e pesi per telaio, alcune fibule (spille) in bronzo, statuette votive. Di altri oggetti è stato curato lo studio da parte dell’Università di Padova e se ne attende la restituzione. La sezione archeologica del museo termina con una raccolta di iscrizioni lapidee romane, tra cui la celebre lapide che cita gli Arusnates. Degna di nota la magnifica collezione di fossili provenienti dal Pa-

stello, tra cui si distinguono rari esemplari di pesci e piante fossili. La campagna di scavi condotta tra il 1985 e il 1990 ha portato alla luce, nelle immediate vicinanze della chiesa, i resti di due capanne e di una cisterna risalenti alla tarda età del ferro (V-IV secolo a.C). Queste abitazioni vennero parzialmente scavate nella roccia, quindi completate con parti in legno che ovviamente non si sono conservate. Si sono riconosciuti un laboratorio adibito alla fabbricazione o riparazione di materiali in metallo (bronzo e ferro), e uno per la costruzione di materiali in corno, pietra e argilla. Quello che si vede sono i fondi delle capanne e della cisterna, oltre che alcuni fori per la posa di pali. A Verona ci sono diversi esempi di pavimentazione romana, ma nessuno che risalga addirittura alla preistoria come questo. Un sito quindi molto interessante, ma in qualche modo incompleto. Un’idea potrebbe essere quella di arricchirlo aggiungendo riproduzioni di oggetti che qui venivano fabbricati. Fondi permettendo! La Pieve, il Museo e la bellezza del circondario rendono una visita a San Giorgio praticamente obbligatoria. Contatti: Museo della Pieve, 349/3242529. Aperto ogni domenica dalle 14.30 alle 18.30, o su prenotazione negli altri giorni. Ingresso 2 Euro.

Dicembre 2006



Viaggiare GEORGIA

L’ex paradiso dell’Urss Il Paese cerca di uscire dal profondo degrado sociale che è seguito alla polverizzazione dell’Unione Sovietica In Georgia, ma forse in tutte le exrepubbliche sovietiche, l’idea che esista uno Stato, un potere centrale capace di organizzarsi democraticamente per rispondere ai bisogni della gente è alquanto labile. Così, il vuoto è colmato dai clan, dalle etnie, dai gruppi organizzati che detengono un predominio basato sulla capacità di controllare il territorio, grazie ai proventi che derivano da traffici quasi sempre illeciti

28

di Michele Domaschio L’ultima volta che sono stato a Tblisi è scoppiata la rivoluzione. Nel novembre del 2003, nella piazza antistante il Parlamento georgiano, una folla di manifestanti agitava bandiere di colore arancione (tonalità diventata poi di moda nelle dimostrazioni dell’est europeo, come dimostra il caso dell’Ucraina), chiedendo a gran voce all’allora primo ministro, Shevardnadze, di sloggiare dal palazzo. La singolarità del tumulto era data dalla presenza di numerose automobili, tranquillamente parcheggiate nelle vie che conducevano al luogo dell’adunata. L’amico georgiano che ci faceva da cicerone durante quei giorni ci invitò a leggerne le targhe: composte da una serie di lettere e cifre, come tutte le altre, ma con la particolarità che su ciascuna di queste i tre numeri erano identici. «Ecco, quello significa che sono mafiosi» sentenziò la guida, con la stessa tranquillità con cui – poche ore prima – ci aveva illustrato la maestosa cattedrale di Sioni e le icone custodite nel museo della capitale. I mafiosi: in Georgia, ma forse in tutte le ex-repubbliche sovietiche, l’idea che esista uno Stato, un potere centrale capace di organizzarsi democraticamente per rispondere ai bisogni della gente è alquanto labile. Così, il vuoto è colmato dai clan, dalle etnie, dai gruppi organizzati che detengono un predominio basato sulla capacità – effettiva – di controllare il territorio, grazie ai proventi che derivano da traffi-

ci quasi sempre illeciti o dalle smisurate fortune che si sono accaparrati al momento del crollo del monolite sovietico. Non a caso, l’odiato despota rimosso dalla rivoluzione del 2003, Eduard Shevardnadze, era stato sino a pochi anni prima il fidato ministro degli esteri di Gorbiaciov, e come il suo mentore aveva acquisito larghissimi consensi in giro per il mondo, salvo meritarsi la fama d’intrallazzatore e cinico oligarca nella sua terra d’origine. In questo contesto, giusto per dare l’idea di come sia difficile applicare le nostre categorie ad una realtà completamente diversa, la cosca mafiosa più potente, in molte zone del territorio ex-sovietico, si chiama Militia: ovvero, è la stessa Polizia locale. Tornando all’episodio di prima, la presenza delle vetture era finalizzata a controllare gli sviluppi della manifestazione, organizzata a tavolino per rimpiazzare l’ormai scomodo gerarca. Stavamo assistendo, insomma, ad uno spettacolo allestito nei minimi dettagli, piuttosto che a una vera e propria sommossa popolare: ulteriore conferma si poteva trarre dal continuo viavai di pullman, che si fermavano ad alcune centinaia di metri dal centro cittadino e face-

vano affluire allegre compagnie di manifestanti raccolti nelle periferie di Tblisi, pronti a dimostrare tutto il loro scontento per la politica governativa in cambio di poche decine di lari. Queste immagini mi tornano alla mente mentre i giornali riportano l’esito del referendum appena svoltosi recentemente nell’Ossetia del Sud. Il 99% dei votanti ha optato per la secessione di questa piccola regione, attualmente inserita nel territorio della repubblica di Georgia, ma che desidera affrancarsi da Tblisi e sta perseguendo tale obiettivo – al pari dell’altra repubblica autonoma, l’Ajaria – con il fattivo appoggio della Russia. Ancora una volta, la volontà popolare trionfa, sotto il severo sguardo di chi trama per disgregare ulteriormente questo mosaico di etnie. Le frequenti frizioni con Mosca tengono con il fiato sospeso tutti gli abitanti della regione del Caucaso: basti pensare che a nord la Georgia confina con la Cecenia e


Viaggiare La leggenda che avvicina Dio al piacere dell’ospitalità

sovente i russi accusano il governo di Tblisi di fiancheggiare le milizie indipendentiste. Gli ultimi episodi di questa guerra di nervi hanno visto, dapprima, un’escalation nel boicottaggio economico da parte di Mosca, poi un provvedimento di sinistra memoria: nelle scuole russe tutti i bambini di origine georgiana sono stati censiti, in vista di un’imminente espulsione dal paese delle loro famiglie. Come se non bastasse, con l’approssimarsi dell’inverno (che nel Caucaso significa andare tranquillamente ben al di sotto dei 10 gradi sotto zero) vi è la concreta minaccia che l’approvvigionamento di gas dalla Russia venga ridotto, o sia richiesto un esponenziale aumento dell’esborso economico per la fornitura. «Ogni anno, d’inverno, i nostri vecchi muoiono come mosche» mi racconta padre Witold, l’energico direttore della Caritas locale: con alcuni volontari è riuscito ad allestire una mensa, dove ogni giorno si mettono in coda decine di persone. «La cosa che fa pena è vedere alcuni ex professori universitari, o musicisti, costretti a elemosinare un piatto di minestra, perché da un giorno all’altro si sono trovati senza lavoro, senza stipendio, senza il sussidio garantito dallo Stato», continua Witold. Constatare il degrado sociale nel quale è sprofondato il Paese dopo la polverizzazione dell’Urss è ancor più stridente se si pensa che questa regione, un tempo, era la culla della cultura sovietica e il luogo privilegiato per le vacanze degli alti funzionari di partito, anche in virtù della varietà e della

in VERONA

bellezze paesaggistiche, tanto sulle coste temperate del Mar Nero come ai piedi degli imponenti rilievi del Caucaso. Il potere centrale di Mosca garantiva, inoltre, la convivenza delle varie etnie presenti in questo territorio: oltre ai georgiani, gli armeni, gli osseti, gli azeri, e come se non bastasse, ognuno con la sua chiesa, ortodossi georgiani e ortodossi armeni, armeni aposotolici e azeri fedeli all’Islam, oltre a una esigua minoranza di cattolici. Oggi, sul palazzo governativo dove alloggia il nuovo primo ministro, Mikhail Saakhasvili, giovane e rampante avvocato formatosi nelle Business School americane, sventola come sempre la bandiera delle Cinque Croci e campeggia il motto nazionale: Dzala ertobasia, L’unità fa la forza. Ma è difficile dire se si tratti di un’esortazione o di un’irriverente boutade, carica di caustica ironica.

I Georgiani amano raccontare questa storia: quando Dio distribuì le terre alle varie popolazioni, essi arrivarono in ritardo e così il Creatore, contrariato, ne chiese il motivo. Allora i Georgiani risposero che si erano attardati per fare un grande banchetto in Suo onore, e il buon Dio, lusingato da tale attenzione, decise di riservare loro il più bel luogo del mondo. La leggenda la dice lunga sia sull’affabile rapporto intrattenuto con le divinità, sia dell’attenzione qui riservata ai piaceri della tavola. Di questo secondo aspetto si può essere diretti testimoni se per caso si è invitati ad una cena georgiana: qualora ciò accadesse, cercate di restare digiuni per i due giorni precedenti (e non prendete impegni per i due giorni successivi). Il motivo è presto detto: ogni famiglia – anche la più povera – non accetterà mai di lasciarvi andare prima di avervi rimpinzato con almeno una decina di piatti tipici. Generalmente, il tamada (maestro di cerimonia, la persona più anziana o importante della casa) propone degli antipasti, che possono essere i khachapuri (schiacciatele calde farcite di pecorino) o alcuni spiedini di carne d’agnello (mstvadi). È d’uso, in questa fase del pranzo, non bere vino, ma accompagnare il tutto con acqua o succo di frutta: alla prima esperienza di fronte alle leccornie della tavola georgiana, con alcuni ignari amici ci siamo invece dedicati da subito alle delizie dell’acidulo vino Saperavi. Il guaio è stato che, terminato il primo giro di pietanze (dopo circa due ore), eravamo assolutamente convinti che il convivio volgesse al termine: così abbiamo commesso il grave errore di sorseggiare un bicchierino di vodka, tanto per facilitare la digestione. Solo a quel punto, ammirati per la robustezza del nostro fegato, i padroni di casa hanno iniziato a servire i “piatti forti”: agnello in umido con erbe aromatiche e verdure (chakapuli), frattaglie stufate (djigari), gulasch di carne di agnello con riso (chikhitma), una densa minestra di carne bovina e verdura (kharcho), ed infine pollo stufato in umido con pomodori e verdura (chakhokhbili). Ovviamente, visto che oramai avevamo abbandonato il vino per la vodka, abbiamo dovuto proseguire tutto il resto del pasto degustando il nettare dei cosacchi (con le difficoltà che si possono facilmente immaginare per cercare di mantenere un contegno minimamente dignitoso sino al termine del banchetto).

29


Per unire l’Europa è ancora molta la strada da percorrere Le difficoltà stanno nell’incompatibilità delle diverse nazioni su temi politici di grande rilievo, quali l’accoglienza dei flussi migratori, la gestione delle risorse energetiche e la bioetica di Francesco Sessa Oggigiorno capire cosa si intende quando sentiamo parlare di europeismo è cosa alquanto utile per la nostra società. Non solo per questioni politiche, ma anche economiche e sociali. Ne abbiamo discusso col prof. Oreste Dall’Argine, esperto in storia e letteratura moderna e comunicazione contemporanea, e con il generale Giulio Innecco, collaboratore della NATO. Possiamo collocare l’inizio concreto del pensiero europeista nel 1942, anno in cui fu creato il Manifesto di Ventotene, redatto da Altiero Spinelli con l’ausilio di Ernesto Rossi. Oggi si può affermare che tale manifesto fu uno degli avvenimenti socio-storici più importanti del XX secolo, nonostante, come sottolinea il prof. Dall’Argine, «mostri in certi frangenti un esagerato idealismo, quale il suggerimento dell’abbattimento di ogni confine tramite l’uso dell’esperanto come lingua ufficiale, in modo da rendere comune l’identità di tutte le nazioni». Alla fine della seconda guerra mondiale l’idea comunitaria godette di un favorevole periodo grazie alla presenza di quattro grandi statisti: De Gasperi, Adenauer, Schuman e Spaak, a loro volta rappresentanti Italia, Germania, Francia ed Olanda, i quali erano uniti nella convinzione che l’integrazione politica ed economica dell’Europa sarebbe stata la soluzione a molti problemi esistenti in quell’epoca. Vennero perciò costituiti alcuni importanti organi comunitari, specialmente di natura economica. Nel 1957 fu istituita la Comunità Europea di Difesa (CED), con l’obiettivo primario di fronteggiare la crescente minaccia sovietica ai confini orientali europei. «Anche se in futuro si riuscirà a raggiungere la creazione di un esercito integrato, sarà comunque difficile poterlo impiegare con tempestività, a causa delle divergenti opinioni che gli stanno alle spalle» afferma il Generale Innecco. Ma il problema principale giace sul piano culturale: l’Europa non è tuttora “sentita”, soprattutto dalla classe medio-bassa, alla quale poco importa delle questioni politico-economiche. Altro esempio poco incoraggiante sta nell’incompatibilità delle diverse Nazioni su temi politici di grande rilievo, quali l’accoglienza dei flussi migratori, la gestione delle risorse energetiche e la bioetica. La Comunità Europea probabilmente risolverà i propri problemi col tempo, ma è improbabile che essa possa ambire al rango di super-potenza, in quanto mancano mezzi, struttura, coesione e volontà politica. Tuttavia sarebbe auspicabile che si ponga in grado di ricoprire una posizione, se non protagonista, almeno comprimaria, con un minimo di determinazione.

30

LA CASA EDITRICE

“Positive Press” di Francesca Paradiso Positive Press risiede a Verona in via Sansovino 16, nasce nel 1994 dall’idea di Stevie Kim, nata a Seul in Korea nel 1964 e arrivata a Verona 18 anni fa, dopo essere cresciuta nella vivace New York. «In Italia nessuno trattava testi di tipo divulgativo sulla ricerca scientifica – spiega Stevie Kim – ho così voluto concentrare l’interesse di Positive Press proprio su questo. Nel corso degli anni poi ci siamo specializzati sui testi per i disturbi alimentari, prendendo spunto da libri di auto aiuto di tipo anglosassone». Il progetto della casa editrice è cresciuto grazie anche a Riccardo Dalle Grave, marito della signora Stevie Kim, che ha avviato il primo centro di ospedalizzazione per disturbi alimentari. Il catalogo di Positive Press si concentra in maniera prevalente sui disturbi alimentari, tra cui anoressia, bulimia e obesità; senza però tralasciare Psicologia per tutti con titoli come Donna e Autostima, Burn-out, mobbing e malattie da stress. Alcune opere sono veri strumenti a scopo clinico come Terapia Cognitivo Comportamentale dei disturbi dell’Alimentazione. Positive Press ha anche acquisito la qualifica di Provider ECM dal ministero della Salute, programma di Educazione Continua in Medicina, nato con lo scopo di mantenere elevata e aggiornata la professionalità degli operatori della Sanità. Tra i tanti servizi offerti da Positive Press (www.positivepress.net), oltre l’editoria, anche corsi di formazione, consulenza aziendale sulla salute e sul benessere, organizzazione di convegni, dibattiti scientifici e manifestazioni fieristiche. Stevie Kim sottolinea che: «L’Italia è all’ultimo posto come nu-

mero di lettori, noi però offriamo un lavoro altamente specialistico. Per la distribuzione ci affidiamo a Messaggerie libri, il più importante distributore nazionale che distribuisce ben il 70 per cento dei libri italiani. Oltre a questo ci avvaliamo in maniera complementare della vendita per corrispondenza attraverso la newsletter Emozioni e cibo. I nostri libri, poi sono acquistabili nelle librerie e nei convegni di settore». Nei primi anni della casa editrice era possibile reperire alcuni testi anche nelle edicole, tra questi alcuni instant book con tirature significative. «Oltre 100 mila le copie vendute de Il Contacalorie AIDAP prima di cedere i diritti alla Class che ha fatto una distribuzione ancora più capillare».

in VERONA

Giornale di attualità e cultura Direttore

Giorgio Montolli g.mont@libero.it Redazione

Giorgia Cozzolino Cinzia Inguanta Elisabetta Zampini STUDIO

e

DITORIALE

Giorgio Montolli

Lungadige Re Teodorico, 10 37129 -Verona. Tel. 045.592695

Stampa

Croma - Verona Registrazione al Tribunale di Verona n° 1557 del 29 settembre 2003

N° 13/dicembre 2006 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.

www.verona-in.it

Dicembre 2006




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.