Verona In 15/2007

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15 - GIUGNO 2007 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA



Primo piano

Cominciamo a pensare in un modo nuovo

In copertina: atlete di pattinaggio artistico della Polisportiva Buon Pastore di Borgo Roma durante una performance

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PARTITE IVA E FISCO

IL CROLLO DI RIFONDAZIONE

Gli studi di settore sono lo strumento che lo Stato utilizza per far pagare le tasse agli imprenditori. L’Agenzia delle Entrate, utilizzando dei parametri che sono specifici per ogni tipo di realtà produttiva, determina quale dovrà essere il reddito minimo di quell’azienda, stabilendo così a priori anche le imposte minime che il titolare di partita iva dovrà pagare. Non so come si sia potuto introdurre un criterio simile di valutazione del reddito, quando secondo il Codice Civile l’impresa è un’attività per sua natura a rischio. Ritengo che la lotta all’evasione si dovrebbe fare chiedendo a certi imprenditori come fanno a permettersi beni di lusso mentre dichiarano poche migliaia di euro: barche, ville, auto non si possono nascondere e anche i conti in banca andrebbero resi trasparenti. Per aumentare il gettito fiscale sono stati inaspriti gli indicatori di normalità economica che operano all’interno degli studi di settore, colpendo la fascia più debole dei lavoratori autonomi, suscitando proteste a non finire, tanto che il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco è stato costretto a un doveroso passo indietro. Per conoscere gli effetti di questo modo di procedere basta chiedere ai commercialisti di elencare i casi di quei clienti le cui difficoltà quest’anno sono aumentate. Maria, 73 anni, da una vita vende latte in un paesino della montagna veronese. Percepisce una pensione di 600 euro al mese e l’attività le rende 10 mila euro l’anno. Pochi per il fisco, che a priori ha calcolato per i lattai cifre più alte. Maria, che integra la misera pensione rendendosi autosufficiente, chiuderà la sua piccola bottega e lo Stato dovrà pensare a mantenerla. Uno splendido esempio di come sia contemporaneamente possibile sprecare le risorse e umiliare le persone.

Tra le novità delle recenti elezioni a Verona c’è anche il crollo di Rifondazione Comunista. Alcuni militanti si chiedono come mai alla Festa in Rosso ci sia il tutto esaurito e poi, nella cabina elettorale, in troppi scordino birre e salamelle gustate d’estate sulle fresche rive dell’Adige. Avevo uno zio falegname che credeva al paradiso sovietico quando da quelle parti i dissidenti finivano nei gulag. Ma lo scusavamo, perché era buono come il pane e soprattutto era onesto e ci credeva. Il comunismo ha avuto i suoi pro e i suoi contro e anche un papa come Giovanni Paolo II ci teneva a non far confusione tra l’ideologia marxista e la sua storicizzazione, dimostrando una grande onestà intellettuale di cui oggi si sente molto il bisogno. Il partito della sinistra radicale, movimentista e pacifista, potrebbe raccogliere molto più consenso se solo si liberasse di alcuni pregiudizi. Dagli anni Novanta si assiste ad una crescita vertiginosa delle partite IVA. Uno dei motivi, ma il dato è rilevante, è che molte di queste attività imprenditoriali sono nate per far fronte ad un licenziamento o alla difficoltà a trovare un lavoro. Oggi il 95% delle aziende italiane è costituito dal solo titolare e molte sono in crisi. I dati evidenziano che ci troviamo in presenza di una categoria da tutelare, ma il messaggio che arriva da una certa sinistra radicale è sempre contro i padroni, a favore degli operai e poco importa se qualcuno, per non rimanere inoperoso, ha rinunciato all’assegno di disoccupazione tentando l’avventura dell’attività in proprio. Il rinnovamento per Rifondazione (e non solo per Rifondazione) dovrebbe passare da una rilettura della realtà per andare a verificare quali sono i nuovi settori dell’e-

Tra le novità delle recenti elezioni a Verona c’è anche il crollo di Rifondazione Comunista. Alcuni militanti si chiedono come mai alla Festa in Rosso ci sia il tutto esaurito e poi nella cabina elettorale in troppi scordino birre e salamelle gustate d’estate sulle fresche rive dell’Adige

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Primo piano

Chi vive nel campo nomadi di Boscomantico si trova inserito in un contesto legalizzato e controllato, con 42 bambini che frequentano la scuola nell’ambito di un valido processo di integrazione. Chiudere la struttura potrebbe avere due conseguenze: rivedere gli stessi bambini ai semafori e il ricorso ad atti delinquenziali per sbarcare il lunario

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marginazione e del disagio, non più identificabili in un preciso ceto sociale. Non si chiede di mutare un patrimonio di valori che si è consolidato nella lotta allo sfruttamento delle classi meno abbienti, ma di utilizzare tali valori per dare risposte a chi le cerca e non a chi ormai da tempo ha girato le spalle e vota Lega o Forza Italia. IL CAMPO NOMADI

Il campo nomadi di Boscomantico nasce grazie a una delibera dell’Amministrazione Zanotto che, dopo aver offerto ai Rom un luogo dove risiedere, ha affidato all’Opera Don Calabria il compito di seguire le problematiche connesse, in particolare l’integrazione dei bambini, anche attraverso la loro scolarizzazione. Il sindaco Tosi, come aveva promesso in campagna elettorale, farà chiudere il campo di Boscomantico e i Rom, che dipendono dal Comune per luce, acqua, gas, operatori ecc., dovranno andarsene, anche perché non esiste un contratto di affitto che li tuteli. Chi non si adegua alle regole, ad esempio commettendo reati, è bene che sia allontanato, perché viene meno il patto di fiducia che sta alla base del progetto e ne compromette l’esito. Ma non è giusto che a pagare le conseguenze degli errori di alcuni siano anche coloro che tengono un comportamento corretto: colpire tutti indiscriminatamente assomiglia troppo a un atto di intolleranza e razzismo. Da quanto ci risulta alcuni Rom già lavorano, altri sono alla ricerca di un’occupazione. E soprattutto ci sono 42 bambini che frequentano la scuola in modo più o meno assiduo. In conclusione ci pare di poter dire che la chiusura incondizionata del campo, senza la tutela e l’incentivazione dei risultati raggiunti, sarebbe una sciocchezza politica, perché il rischio è quello di trovar-

si punto e a capo: tolto il contesto di una situazione legalizzata e controllata è facile prevedere che ci ritroveremo con i bambini ai semafori e il ricorso ad atti delinquenziali per sbarcare il lunario. CAMBIA IL VESCOVO

Ogni volta che a Verona cambia il vescovo si dice che ad attenderlo c’è un compito non facile per il fatto che il clero di questa diocesi è diviso, poco incline alla collaborazione, litigioso. Sono convinto che S.E. mons. Flavio Roberto Carraro, da mite francescano, abbia particolarmente sofferto questa situazione, a tal punto da esternare più volte un palese disagio. Durante questi anni di intenso lavoro pastorale, che la gente ha ricambiato con affetto, gli appelli all’unità e alla collaborazione rivolti al clero non sono certo mancati, ma sono sempre caduti nel vuoto. In questi casi bisognerebbe sostituire le persone poco inclini al gioco di squadra con altre più adatte, perché il vescovo deve poter governare la sua diocesi e lo può fare solo ricorrendo a collaboratori capaci con cui stringere un profondo e sincero rapporto di fiducia. Questo per presentare una Chiesa unita, ma anche per costruire un rapporto stabile con enti ed istituzioni, che pure è importante nell’ambito di una missione evangelizzatrice e per la stessa tradizione culturale di una città come Verona. Infine c’è da dire che chi governa ha bisogno di consiglieri fidati, ma non sempre sono quelli che già si trovano disponibili al momento del nuovo insediamento. A volte bisogna avere il coraggio di voltare pagina, di cercare nelle periferie o dietro l’angolo dove non mancano preti onesti e intelligenti che da anni svolgono con impegno e competenza il loro servizio alla Chiesa e alla comunità. g.m.

Giugno 2007


La Resistenza a Verona Dal 1987 la città ospita l’Istituto veronese per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea, fondato dall’attuale direttore Maurizio Zangarini

L’Istituto veronese per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea ha lo scopo di fare ricerca e di produrre opere storiografiche che riguardano la realtà locale, dando voce a una molteplicità di fonti

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di Elisabetta Zampini e Irene Lucchese

La Resistenza italiana nasce dall’impegno comune di individui, partiti e movimenti che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la conseguente invasione dell’Italia da parte della Germania nazista, si oppongono agli occupanti e alla Repubblica di Salò fondata da Benito Mussolini. Tali motivi rendono questo movimento uno tra i fondamentali strumenti che hanno accompagnato il Paese nel passaggio dal regime fascista alla Repubblica. È sulla base di questa importanza che, nel 1949, Ferruccio Parri fonda a Milano l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, di cui oggi si

contano quasi 70 sezioni locali diffuse in tutta la penisola. Dal 1987 Verona è sede dell’Istituto veronese per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea, fondato dall’attuale direttore Maurizio Zangarini, docente di storia contemporanea all’ateneo scaligero. L’Istituto nasce con lo scopo di raccogliere, conservare e mettere a disposizione del pubblico il patrimonio documentario inerente la storia dell’Italia postunitaria, con particolare attenzione al periodo fascista e alla Resistenza. Naturalmente è stretto il legame con la realtà locale e, quindi, Verona è al centro dei documenti conservati in sede. Come la stessa denominazione suggerisce, l’Istituto non vuole limitare il proprio campo di indagi-

ne unicamente al periodo della Resistenza: il fine è quello di avere uno sguardo generale sulla storia italiana e fungere da luogo di raccolta per tutti quei documenti che creano tutt’ora tale storia: «Indagare solo sui 18 mesi effettivi della Resistenza non avrebbe alcun senso storiografico», commenta Zangarini, «Ogni evento storico ha delle premesse in ciò che è avvenuto prima e delle conseguenze, perciò i campi temporali di indagine si dilatano». Dallo scorso dicembre la nuova sede di via Cantarane n° 26, condivisa con Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) e Anppia (Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti), ospita l’intero archivio dell’Istituto, ancora in fase di catalogazione. A gestire il tutto sono dei volonta-

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Storia

La dotazione libraria dell’Istituto ammonta a quasi 3500 volumi, il 90% dei quali rappresenta una biblioteca unica nel territorio veronese. L’acquisizione di tutto il materiale avviene tramite prestiti o donazioni da parte sia di enti pubblici che di cittadini privati

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ri, soprattutto insegnanti che, doveri accademici permettendo, si impegnano a garantire, nel periodo scolastico, l’apertura al pubblico una mattina e tre pomeriggi la settimana. La dotazione libraria dell’Istituto ammonta a quasi 3500 volumi, il 90% dei quali rappresenta una biblioteca unica nel territorio veronese. L’acquisizione di tutto il materiale avviene tramite prestiti o donazioni da parte sia di enti pubblici che di cittadini privati: «Per noi è importante – prosegue Zangarini – raccogliere il maggior numero di documenti. Non cerchiamo necessariamente un originale. Ci basta la copia del documento. Un nostro desiderio sarebbe ampliare il repertorio di immagini, di foto. Purtroppo non ne abbiamo molte. Perciò invitiamo chiunque avesse materiale a mettersi in contatto con noi». Nell’incontro con l’età contemporanea emerge chiara la difficoltà di analisi e lettura delle fonti: «Il primo problema che si affronta», spiega il presidente, « è quello della critica: quanto c’è di vero e quanto è frutto del momento, di chi scrive, quale la valenza dei termini usati, quale la generale interpretazione delle fonti. Questa difficoltà può essere aggirata attraverso l’incrocio delle fonti, verificando cioè se più documenti descrivono in maniera simile un determinato fatto, garantendo così una certa attendibilità. Ogni parte, ad esem-

pio, tende a sottolineare l’adesione di tutto il popolo alle proprie idee. Quando si legge ciò è un campanello d’allarme di una falsificazione. È palese che nessuna parte in causa potesse avere l’assoluto appoggio di tutto le persone. È chiaramente strumento di propaganda». A ciò si aggiunge il problema della memoria personale: «L’Istituto, raccoglie numerose testimonianze di ex partigiani o altri testimoni del periodo, tutti documenti di grandissima importanza, ma a volte viziati dal punto di vista personale, dal coinvolgimento emotivo che porta a rendere assoluta la propria esperienza». Si tende cioè a generalizzare un fatto personale: «Oppure si dimentica o ci si rende protagonisti di vicende di cui si è stati solo spettatori. La memoria è un campo interessante ma difficoltoso». Eppure la memoria, nella sua umana contraddizione, rende spesso giustizia a una storia che procede troppo spesso per stereotipi. Mario Rigoni Stern ha scritto uno dei libri più significativi del dopoguerra: Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia dove memoria e storia si saldano diventando un tutt’uno. Stile d’animo e di scrittura che arriva fino all’ultimo meraviglioso libro Stagioni: uomo, memoria e andare del tempo si saldano e si mescolano diventando davvero testimonianza e sapienza di una vita. Rigoni Stern ha donato all’Istituto di Verona la relazione della Commissione di minoranza sul caso Leopoli. Si tratta di un fatto che ebbe una grande eco in Italia alla fine degli anni Ottanta e che si aprì in seguito a dichiarazioni delle au-

torità sovietiche che annunciavano di avere scoperto a Leopoli, ora Ucraina occidentale ma un tempo Polonia, alcune fosse comuni in cui sarebbero stati ritrovati i resti di duemila militari italiani (compresi generali, colonnelli e ufficiali inferiori) trucidati nel ‘43. «Venne istituita una apposita Commissione», racconta Zangarini, «con il compito di verificare di chi fosse la responsabilità di quei morti, se i tedeschi o i russi e anche Rigoni Stern venne chiamato a farne parte, in quanto superstite e testimone della campagna di Russia». Poi il caso si chiuse scagionando i tedeschi. Ma la stessa commissione si spaccò in due; una, era appunto di minoranza, nutriva ancora dubbi su una definitiva soluzione della faccenda. L’archivio dell’Istituto è davvero una galleria di sorprese, almeno per chi non si dedica al lavoro storico come prassi quotidiana. Verbali, comunicazioni, relazioni che nella nostra quotidianità appaiono dettagli di un apparato formale e burocratizzato, diventano fonti di recupero di un periodo, di un appassionante dibattito politico o sociale, di scorci di vita quotidiana. Ci sono le relazioni delle Brigate Partigiane che hanno operato nel veronese, con mappe e descrizioni di ciò che avveniva di giorno in giorno. Interessanti poi i Mattinali, resoconti giornalieri che venivano compilati e inviati ogni mattina dal Questore per tenere informate le dirigenze fasciste della situazione della città, il transito dei treni e l’arrivo di civili o militari in primis, data l’importanza, allora come oggi dello snodo ferroviario di Verona. Poi l’ordine pub-

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Storia «L’impegno che stiamo portando avanti in questo momento è la sistemazione e la catalogazione degli archivi dei partiti. Abbiamo già ricevuto quelli del Pci e del Pds e siamo in attesa di acquisire quello del Partito Repubblicano. Poi speriamo negli archivi dei sindacati»

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blico, l’andamento economico, la disponibilità dei beni di prima necessità, con un’attenzione al prezzo dei prodotti venduti al mercato di Piazza Isolo: nel settembre del ’44 il prezzo di un uovo aveva raggiunto 10,50 lire. Per finire con il resoconto degli spettacoli della sera prima. E c’erano cinema che, allora, si chiamavano «Dux» o «Vittoria» e che ora hanno cambiato nome o hanno chiuso. Davvero ogni sfumatura diventa invito alla curiosità o alla ricerca per ritrovare ciò che si è dimenticato. E la città acquista una nuova fisionomia, più ramificata, con radici profonde. «L’impegno che stiamo portando avanti in questo momento», prosegue Zangarini, «è la sistemazione e la catalogazione degli archivi dei partiti. Abbiamo già ricevuto quelli del Pci e del Pds, siamo in attesa di acquisire quello del Partito Repubblicano ma, piano piano, vogliamo raccogliere gli archivi di tutti i gruppi politici che hanno operato a Verona. Poi speriamo negli archivi dei sindacati. Ma che contributo storico possono dare questo tipo di documenti? «Ci sono i verbali delle sedute e delle discussioni che sono avvenute nelle riunioni nel corso degli anni. Fanno emergere, ad esempio, questioni sociali importanti e dibattute come tutte le azioni di sciopero nella zona della Bassa veronese. In generale contribuiscono a ricostruire, dai diversi punti di vista, l’evolversi delle dinamiche di una società locale». Non mancano poi gli scritti di personaggi certamente di spicco: I Quaderni di Berardo Taddei, abruzzese di nascita, barbiere e autodidatta. Ha lasciato testimo-

Maurizio Zangarini ha fondato l’Istituto veronese per la Storia della Resistenza

nianza degli interventi del Soccorso Rosso, organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista fondata nel 1922 con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Oppure il diario di Giovanni Domaschi, anarchico veronese, che fu condannato a 17 anni di prigione e confino. Periodo certo irrequieto dato che la sua opera si intitola significativamente: Le mie prigioni e le mie evasioni, memorie di un anarchico veronese dal carcere e dal confino fascista. Venne infine arrestato dai te-

deschi e deportato nel campo di concentramento di Dachau dove morì. L’Istituto veronese per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea ha dunque lo scopo di fare ricerca e di produrre opere storiografiche che riguardano la realtà locale, dando voce a una molteplicità di fonti, nella convinzione che l’esperienza di una comunità, di un contesto sociale circoscritto, dia un contributo fondamentale alla scrittura di una Storia quanto più completa e significativa per il presente.

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Misteri 1926-1931

L’uomo venuto dal nulla era Cannella o Bruneri? Il caso dello smemorato di Collegno appassionò l’Italia degli anni Venti. La burrascosa vicenda del misterioso individuo che perse la memoria

di Cinzia Inguanta

Il legame stabilitosi tra Giulia Cannella e lo sconosciuto, la nascita di tre figli dalla loro relazione mentre la causa per l’identificazione era ancora in corso, oltre a nutrire l’interesse morboso dell’opinione pubblica, provocarono una violenta campagna condotta in nome della moralità

La vicenda dello «smemorato di Collegno» divise per alcuni anni l’opinione pubblica italiana. Tutto ebbe inizio il 26 marzo 1926, quando a Torino fu arrestato un uomo che tentava di rubare un vaso nel cimitero israelitico. Portato in questura non aveva saputo dare le proprie generalità. Non solo, salendo le scale aveva sbattuto più volte la testa contro il muro, tentando il suicidio, come avrebbe detto in seguito. Sottoposto a una sommaria perizia medica, fu inviato al manicomio di Collegno. Dopo circa un anno, il ricoverato aveva riacquistato la salute fisica e mostrava un’indole tranquilla, ma continuava a non ricordare nulla di sé e del suo passato, perciò il direttore dell’istituto decise di far divulgare una sua foto dalla stampa. Fu così che il 6

Da sinistra a destra, Francesco Cannella, Giulia Cannella, Rita e Giuseppe Cannella, lo sconosciuto

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Domenica del corriere, febbraio 1927

febbraio 1927 la popolarissima «Domenica del Corriere» pubblicava la foto di uno sconosciuto, ritratto di profilo con questa descrizione: «Nulla egli è in condizione di dire sul proprio nome, sul paese d’origine, sulla professione. Parla correntemente l’italiano. Si rileva persona colta e distinta dell’età apparente di anni 45». Qualche giorno dopo, il 13 febbraio, un’altra fotografia dello sconosciuto era apparsa sull’ «Illustrazione del Popolo» con la sola scritta «Un ignoto». Tra le molte lettere inviate al direttore del manicomio una si era rivelata decisiva. Un certo Renzo Cannella, di Verona, aveva creduto di riconoscere nello smemorato il fratello Giulio, professore emerito di Filosofia, molto conosciuto negli ambienti cattolici, basti pensare che insieme ad Agostino Gemelli aveva fondato, nel 1909, la «Rivista di Filosofia Neoscolastica». Il «prof.» Giulio era scomparso

nel corso della Grande Guerra durante un combattimento in Macedonia, nel novembre del 1916. In seguito al commovente riconoscimento della moglie Giulia, il professore fu affidato alla famiglia. Lo sconosciuto diventa così un «resuscitato» di guerra. La sua figura, oltre ad apparire consolante e lenitiva di un dolore che aveva colpito le migliaia di famiglie dei morti e dei dispersi in battaglia, rientrava perfettamente anche in quel mito della Grande Guerra che il fascismo aveva contribuito a costruire facendone uno dei pilastri del suo «universo simbolico». La sera del 2 marzo, il colpo di scena. Arrivarono due lettere anonime, la prima alla Questura di Torino e la seconda alla Questura di Verona. Il testo delle missive era il seguente: «State attenti: la persona che si fa passare per il prof. Cannella potrebbe essere il pregiudicato Mario Bruneri». Tre giorni dopo, una lettera analoga giunse anche al vicario generale di Verona, monsignor Manzini, un tempo amico di Cannella. Le autorità giudiziarie disposero subito le indagini per individuare chi potesse essere l’autore delle lettere e quale fosse il suo scopo. Anche la famiglia Bruneri, il fratello Felice, la sorella Maria, il figlio Giuseppe, la moglie Rosa Negro e persino l’amante Camilla Ghidini, riconobbero nello smemorato il proprio congiunto: il ti-

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Misteri pografo torinese Mario Bruneri, un uomo dalla vita alquanto disordinata con una fedina penale non proprio immacolata e con qualche conto ancora in sospeso con la giustizia. Si aprì un caso giudiziario lungo e complesso che malgrado cinque processi (5 anni d’indagini, 142 deposizioni, 14 perizie) lascia ancor oggi molti interrogativi irrisolti. Non serve sostenere che ai nostri giorni un simile equivoco sarebbe impossibile, perché anche allora la scienza era in grado di accertare l’identità fisica di una persona, ma questo non fu sufficiente. Per capire quanto furono sofferte le sentenze, si pensi che in Cassazione, il 24 dicembre 1931, la Corte, che giudicava a sezioni unite (15 giudici) si spaccò in due: sette giudici individuarono lo sconosciuto in Mario Bruneri, altri sette lo identificarono come Giulio Cannella. Il presidente D’Amelio si trovò con il compito di sciogliere il nodo. E lo fece dopo aver chiesto all’allora ministro della Giustizia, Alfredo Rocco (il

La casa della famiglia Cannella angolo di Via Caprera

padre del Codice Penale), ancora tre giorni «per rivedere le carte». «Non le concedo nemmeno un’ora», gli avrebbe gridato al telefono il Guardasigilli. «Chiudiamo subito questa buffonata». D’Amelio allora entrò in Sala di Consiglio e disse «Bruneri». Così la giustizia identificò «la persona civica già ricoverata al manicomio di Collegno con il numero 44 170» in Mario Bruneri. Lo smemorato, dopo il riconoscimento in manicomio della signora Cannella, sostenne sempre fermamente di essere il prof. Giulio Cannella. Il legame stabilitosi tra Giulia Cannella e lo sconosciuto,

Confronto tra lo sconosciuto e la figlia del professor Giulio Cannella

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la nascita di tre figli dalla loro relazione mentre la causa per l’identificazione era ancora in corso, oltre a nutrire l’interesse morboso dell’opinione pubblica, provocarono una violenta campagna condotta in nome della moralità da alcuni quotidiani cattolici. Sembra però che dietro ciò si nascondessero forti interessi economici. Nella relazione fiduciaria dell’informatore di polizia «35», datata 24 gennaio 1928, si riferiva «che a favore del prof. Cannella sarebbe esistito un grosso lascito di cui egli avrebbe dovuto entrare in possesso tornando dalla guerra. In caso di morte sul campo, il lascito sarebbe passato alla Chiesa. Per questo la compagnia di Gesù alimenterebbe ora la campagna dei Bruneriani e ciò spiegherebbe l’atteggiamento contrario alla famiglia Cannella dell’Osservatore Romano e la presa di posizione per la famiglia Bruneri del Momento di Torino e di altri giornali cattolici». Scontato il suo debito con la giustizia, lo sconosciuto torna a Verona da Giulia che gli è sempre restata vicina. La famiglia Cannella visse una vita difficile, povera e molto ritirata. La realtà della miseria aveva allontanato molta gente. Restarono solo i più fedeli amici, quelli che non avevano mai dubitato. Giulia e lo smemorato decisero di trasferirsi in Brasile e così il 19 ottobre 1933 s’imbarcano sul piroscafo Conte Biancamano. Arriveranno a Rio de Janeiro il 30 ottobre. Lo smemorato anche se in Brasile non rinunciò mai alla sua battaglia, continuò a chiedere di essere pubblicamente riconosciuto per poter esistere. Il 12 dicembre 1941, a 55 anni muore a Petropolis l’uomo riconosciuto dalla giustizia italiana come Mario Bruneri.

La sua battaglia però non era finita, perché altri dopo di lui continuarono a lottare per la sua causa. Nel 1964 Beppino Cannella, figlio di Giulio, sostenne pubblicamente in una conferenza stampa che lo smemorato di Collegno identificato per Mario Bruneri, era in realtà Giulio, suo padre. Nel 1970 per la serie «Processi a porte aperte», furono mandate in onda due trasmissioni che i figli di Felice Bruneri, fratello di Mario, cercarono invano di bloccare come lesive della sua memoria. In contemporanea arrivò alla Rai la protesta firmata da trecento veronesi capeggiati da don Germano Alberti. Il 10 luglio di quell’anno il cardinale Segretario di Stato, Giovanni Benelli, in una lettera ufficiale, precisò che la Chiesa ri-

Il secolo illustrato del maggio 1931

conosceva nello sconosciuto di Collegno, non Bruneri, bensì Giulio Cannella e che pertanto i figli nati dalla coppia erano da considerarsi legittimi. Questa storia fu subito definita «pirandelliana», con essa infatti, l’identità «unica» della persona si era rivelata improvvisamente illusoria, l’«io» risultava sdoppiato nel divario tra il desiderio e il possibile, tra ciò che si vorrebbe essere e come gli altri ci vedono. L’enigma di chi fosse veramente lo smemorato, non ha mai potuto essere sciolto se non, forse, da una battuta dello stesso Pirandello: «Io sono colui che mi si crede».

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Economia di Massimo Rimpici L’economista bengalese Muhammad Yunus ha ricevuto il Nobel per la pace nel 2006 per aver inventato nel 1974 il microcredito, concedendo piccoli prestiti ai poveri per finanziare piccoli progetti imprenditoriali o di rilancio economico individuale. Ma queste forme di sostegno economico per debolissime realtà produttive non riguardano solo soggetti i residenti in taluni villaggi bagnati dal Brahmaputra o dal Gange, ma interessano molto da vicino anche noi. Sì, noi italiani, anzi veronesi. Con un gioco di parole si può sostenere che le prime esperienze nazionali di mini aperture di credito hanno visto la luce all’ombra dell’Arena. Il progetto pilota – che si chiama Ec.Co.Mi, Economia di Condivisione e Microcredito – è nato a Verona alla fine del 2005 per iniziativa della Mag, società di mutuo soccorso. «Per la verità», spiega Loredana Aldegheri, per diciassette anni presidente ed ora consigliera di Mag Mutua, «eravamo partite anche prima sia a Verona sia a Venezia (a cura della Mag di Venezia, ndr), quando la Comunità Europea ha approvato questo progetto che aveva fra i punti programmatici anche quello di sperimentare forme di microcredito che potessero diventare non occasionali». Mentre nel Sud del mondo le difficoltà economiche lasciano spazio alle relazioni, al mutuo aiuto, in occidente la povertà diventa miseria, annichilisce gli individui che spesso sprofondano in una vera e

«E noi li finanziamo» Il progetto Ec.Co.Mi è attento alle nuove povertà del nostro territorio. L’aiuto attraverso lo strumento del microcredito

Alessio Scolfaro e Loredana Aldegheri

propria crisi esistenziale. Aver sostituito ogni relazione di scambio con il denaro, considerato mediatore unico e universale, ha impoverito le relazioni e l’assenza di denaro è diventata sinonimo di emargi-

È uno strumento che cerca di mettere in comunicazione gli individui esclusi dal mondo del credito con i protagonisti del sistema finanziario. Generalmente si rivolge alle persone troppo “ricche” per i servizi sociali (con un lavoro ed un reddito), ma troppo povere per le banche: il soggetto spesso presenta una situazione economica poco appetibile per gli istituti di credito. In questo periodo sono quarantaquattro i progetti condotti con la mediazione di Mag Verona. Gli importi variano da un minimo di seicento euro ad un massimo di ventimila euro (ma si tratta di un finanziamento ad una piccola impresa). Di questi solo una decina versano in difficoltà con restituzioni “a singhiozzo” e due sono molto critiche. La Mag accompagna, media, fa da filtro fra la persona che ha bisogno e la banca che concede il finanziamento, ma non avalla. Il cinquanta

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nazione sociale. «Il progetto Ec.co.mi», si legge nella prefazione al documento di presentazione, «nasce dalla consapevolezza che oggi nell’area del Nord Est esiste una situazione difficile che mostra, accanto ad aree di benessere e ricchezza, la presenza di sacche di nuove povertà», proprio nel cuore di una zona tradizionalmente ricca e produttiva. I protagonisti di questa realtà sono i soggetti monoreddito, gli anziani, gli espulsi dalla produzione qual-

Cos’è il microcredito per cento del prestito generalmente è garantito dalle persone che gravitano intorno al singolo che presenta la richiesta: un familiare, un amico, il datore di lavoro, un sacerdote. Le rate della restituzione sono concordate con l’interessato, ma poi è la banca, in questo caso la Popolare di Verona o la Banca di Credito Cooperativo della Valpolicella (che fanno parte della rete di relazioni del progetto Ec.co.mi. insieme alle Acli, l’Arci, la Ronda della Carità e il Comune di Verona), che eroga il prestito con tanto di tasso d’interesse e un preciso piano di rientro. Le richieste possono riguardare l’acquisto di una vettura usata per ottenere il lavoro, oppure la caparra per entrare in una casa in affitto, la somma necessaria per pagare gli arretrati del-

che anno prima della pensione, i giovani che non riescono ad uscire dal precariato, gli immigrati. «Nel nostro contesto», prosegue la Aldegheri, «vanno emergendo situazioni inedite rispetto al passato: ora vengono a bussare alla nostra porta famiglie “normali” in fortissima difficoltà. Persone, ad esempio, intorno alla cinquantina che hanno perso il lavoro in due in famiglia: da una situazione di agio si ritrovavano immersi improvvisamente in una realtà di estrema incertezza», ma soprattutto privi di una cultura e di mezzi adeguati per cercare di uscire in qualche modo da gravissime situazioni. Nel nostro quotidiano l’assenza di denaro ha completamente spiazzato gli individui in difficoltà, incapaci di trovare qualsiasi altra forma di sussistenza. Per questo il microcredito è basato su un binomio fondamentale: fare in modo che le persone escluse dal sistema creditizio tradizionale, perché in situazione di criticità, riescano – oltre che ad ottenere un piccolo prestito – a riallacciare e a ritrovare delle relazioni di aiuto, di mutuo soccorso, di accompagnamento. «Spesso lo squilibrio economico va di pari passo ad una crisi esistenziale», spiega Alessio Scolfaro, operatore di microcredito, «e quindi il lavoro che è fatto dalla Mag, l’istruttoria per favorire l’accesso al microcredito, si fonde all’altra matrice: quella di provare a riallacciare i legami spezzati dalla congiuntura negativa, coinvolgendo le associazioni del territorio e alcune strutture del Comune di Verona».

l’Agsm, piuttosto che i soldi del biglietto aereo per il ritorno in patria. Può ricorrere al microcredito l’immigrato che desidera ristrutturare la casa nel suo Paese o anche per mettere insieme il denaro per pagare gli affitti arretrati accumulatisi per un lungo periodo di non lavoro, che finalmente però è ricominciato. L’altra esperienza veneta, quella supportata da Mag Venezia, presenta delle caratteristiche molto diverse. Il numero degli interventi è simile a quello veronese, ma l’ente erogatore è Banca Etica, la quale però finanzia solo soggetti che obbligatoriamente passano dai servizi sociali del Comune. L’Istituto non rischia quasi nulla: le operazioni di microcredito sono infatti garantite da un fondo di garanzia di centocinquantamila euro istituito dai Servizi sociali del Comune di Venezia. (M.R.)

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Attualità ORIENTE

Un facile «sudoku» per imparare il cinese Il veronese Paolo Padoan ha inventato un modo semplice e divertente per apprendere il cinese. Il suo libro pubblicato in mezza Europa. Quando in Italia?

di Giorgia Cozzolino

Paolo Padoan veronese, studioso di sinologia, che da anni vive in Germania.

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Il mondo orientale gode di un certo fascino in Occidente dovuto in gran parte ai molti misteri che popolano la sua cultura. Cina e Giappone sono infatti ricchi di storia e tradizioni, gelosamente conservate anche attraverso la scrittura. Gli ideogrammi, quelle figure che a molti di noi appaiono come scarabocchi incomprensibili, sono la base della scrittura cinese e, più generale, dell’Asia. Anche in Corea e Giappone, infatti, questi caratteri, detti Hanzi, sono stati adottati ed integrati nelle lingue native e sono diventati rispettivamente Hanja e Kanji. Nella società nipponica si usano ancora il Kanji come parte integrante del proprio sistema di scrittura, invece in Corea l’utilizzo degli Hanja è diminuito fino alla totale scomparsa nella Corea del Nord. La scrittura cinese è molto complessa perché si basa su logogrammi, dove ogni simbolo rappresenta un morfema. Inizialmente i caratteri erano immagini dei loro significati, ma col tempo furono stilizzati e misure sempre più complicate furono adottate per esprimere i concetti più astratti. Oggi, la maggior parte dei caratteri contiene un elemento (il fonetico) che dà, o dava una volta, una indicazione della pronuncia, e un altro componente (il radicale) che fornisce un’indicazione del significato. Ma la so-

Amante della Cina, dove è stato diverse volte, questo steward della Lufthansa con la passione per la sinologia, ha deciso di realizzare dei particolari sudoku dove al posto dei numeri dall’1 al 9, vanno inseriti dei simboli cinesi ciascuno dei quali con un preciso significato che, se letti nell’ordine esatto, danno vita a una frase di senso compiuto miglianza pittorica con gli oggetti è stata persa con la stilizzazione. Oggi ci sono due modelli di scrittura, uno tradizionale, usato a Taiwan, e uno semplificato che è adottato in Cina continentale e a Singapore e che è stato sviluppato dal governo della Repubblica popolare cinese negli anni Cinquanta, che usa forme semplificate per molti dei caratteri più complicati. Se ciò non bastasse a rendere le lingue orientali inavvicinabili agli stranieri, è importante notare che il dizionario Zhongua Zihai elenca 85.568 caratteri, ma, nonostante l’enorme mole, ne ignora 1.500. Tuttavia quelli utilizzati di fatto sono molti di meno: per leggere un quotidiano ne bastano 3mila, mentre le persone con una buona cultura ne usano circa 5mila. È facile quindi comprendere come mai queste culture sono rimaste per secoli oscure al mondo occidentale, che pure aveva intessuto con l’Oriente importanti rapporti di scambio commerciale. Ma se per un europeo, abituato ad un alfabeto di 21 lettere, è difficile

avvicinarsi alla scrittura e alla lettura di un testo fatto di migliaia di ideogrammi, non è così scontato nemmeno per gli orientali. «Anche i bambini cinesi incontrano difficoltà nell’imparare a scrivere e a leggere», spiega Paolo Padoan, veronese, studioso di sinologia che da anni vive in Germania, «anche per loro non è facile ricordare tutti questi ideogrammi». E così, un po’ per scherzo e un po’ per passione, Padoan ha inventato un sistema per memorizzare in modo divertente e veloce gli hanzi più comuni del linguaggio quotidiano. Amante della Cina, dove è stato diverse volte, questo steward della Lufthansa con la passione per la sinologia, ha deciso di realizzare dei particolari sudoku, dove al posto dei numeri dall’1 al 9, vanno inseriti dei simboli cinesi ciascuno dei quali con un preciso significato che, se letti nell’ordine esatto, danno vita a una frase di senso compiuto. Un sistema che le stesse scuole cinesi stanno sperimentando viste le necessità di accelerare i

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Attualità

«Questo primo volume non è stato ideato solo per lo studente di cinese, ma anche per il turista e per coloro che viaggiano spesso in questo Paese per lavoro»

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processi di apprendimento scolastico. Padoan ha così, con l’aiuto di una docente di sinologia dell’Università di Berlino, Dorothee Dauber, realizzato il primo libro in tedesco composto da 72 sudoku, quattro di diversa difficoltà per ciascuna frase. «Mi sono accorto», spiega Padoan, «che dopo un po’ di tempo che non praticavo il cinese, riuscivo a leggere gli ideogrammi ma non ricordavo più come scriverli. Così ho pensato a questo sistema che si rifà alla didattica psicologica per ricordare i simboli senza perdere troppo tempo». In questo modo si impara giocando oppure si mantiene vivo il ricordo delle proprie nozioni semplicemente facendo un sudoku di tanto in tanto, un po’ come si fanno i cruciverba per tenere allenata la mente. Il libro, scritto in tedesco, sta per essere tradotto in inglese e in spagnolo e probabilmente presto vedrà anche l’interesse delle case editrici italiane. L’obiettivo, spiega Padoan, è che il libro semplifichi la vita delle persone che per lavoro o per turismo vogliono recarsi in Cina con un minimo di conoscenza. Le olimpiadi di Pechino saranno sicuramente un traino in tal senso e il volume rischia quindi di diventare un oggetto obbligatorio da tenere in valigia in vista del 2008. Il gioco, per chi si è già cimentato con un sudoku, è semplice: in una pagina viene spiegata la sequenza con cui vanno tracciati i segni di

«Grazie alla combinazione di una didattica visuale e cognitiva e un gioco di concentrazione e strategia, si facilita e si accelera il processo di apprendimento, fissando così nella memoria caratteri e frasi scritti varie volte» ogni singolo ideogramma, alcuni possono avere anche fino a 12 tratti ciascuno. L’ordine con cui ogni singolo tratto dell’henzi viene disegnato va infatti rispettato. Ogni ideogramma, o parte di esso, ha un significato: tutte le frasi del gioco sono quindi composte da 9 caratteri. Una volta che il vostro occhio si è abituato a distinguere uno dall’altro, non dovrete fare altro che vedere qual è quello mancante per ciascuna riga o colonna del diagramma e tracciarlo nel modo corretto. La difficoltà di mettere il carattere giusto nel posto esatto, in modo da completare correttamente la griglia del sudoku sposterà la vostra attenzione dalla noia di apprendere meccanicamente un carattere, alla sfida con voi stessi per completare il quadro. Divertendovi quindi ripeterete più volte lo stesso ideo-

gramma imparandolo quasi senza accorgevene. «Grazie alla combinazione di una didattica visuale e cognitiva e un gioco di concentrazione e strategia, si facilita e si accelera il processo di apprendimento, fissando così nella memoria caratteri e frasi scritti varie volte», spiega Padoan. Ma non è tutto perché l’autore ha voluto anche sottotitolare la frase con la corretta pronuncia cinese e ha scelto pensieri che possono servire a chiunque come «Quanto costa questo?», oppure «Per favore, mi porti all’hotel». E chiarisce: «Questo primo volume non è stato ideato solo per lo studente di cinese, ma dato il grande interesse che sta destando in Cina, anche per il turista e per coloro che viaggiano spesso in questo paese per lavoro, dando così la possibilità di riconoscere i caratteri fondamentali e più frequenti». Paolo Padoan ha 42 anni è sposato con una ragazza tedesca, ma ha vissuto in giro per il mondo per molti anni. Subito dopo il diploma in corrispondente in lingue estere e perito aziendale, conseguito all’istituto Einaudi di Verona, ha cominciato a viaggiare tenendo sempre viva la passione per la Cina che genitori e nonni gli avevano trasmesso. Una volta arrivato a Berlino, in un periodo in cui lavorava prevalentemente la sera, ha trovato il tempo per dedicarsi a quella che era la sua passione: lo studio della lingua e della cultura cinese.

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Sport ROLLERBLADE

Martedì da leoni sui pattini a rotelle Anche il sindaco Tosi ha provato l’ebrezza di un equilibrio precario e promette: «Ascolterò il popolo dei pattinatori per venire incontro alle loro esigenze»

di Giorgia Cozzolino Qualcuno lo ha ribattezzato un «martedì da leoni», citando un celebre film. Per qualcun altro è un appuntamento da non perdere, indipendentemente dalle partite di calcio che si trasmettono in tv; non c’è caldo o freddo che tenga, solo la pioggia li ferma e... a volte nemmeno quella. Sono i pattinatori del martedì sera, una iniziativa spontanea nata oltre dieci anni fa da un gruppo di sparuti temerari appassionati di rollerblade. Nel giro di poco tempo il passaparola li ha trasformati in un piccolo esercito che, nelle sere d’estate,

Il codice della strada vieta l’utilizzo di pattini sia sulle strade che sui marciapiedi e li confina nelle apposite piste. Ma questo rende ancora più trasgressivi, e quindi piacevoli, i raduni del martedì sera

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raggiunge numeri davvero considerevoli. Qualche anno fa ci fu un vero e proprio boom di pattinatori, tanto che si era reso necessario un team di sicurezza che, con giubbetti catarifrangenti si fermava agli incroci per far passare i più lenti e, a volte, fermare le auto. Il tutto nell’assoluta illegalità. Infatti, il codice della strada vieta l’utilizzo di pattini sia sulle strade che sui marciapiedi e li confina nelle apposite piste. All’epoca fu interpellato anche il sindaco Michela Sironi, che per qualche estate fornì una scorta motorizzata di vigili urbani per aprire e chiudere il corteo. L’iniziativa er un momento di incontro e di attrazione della città per i veronesi e per i turisti. Aziende produttrici di pattini e accessori facevano a gara per accaparrarsi un posto per la propria bancarella all’Arsenale, dove far provare a noleggio i modelli di punta. Poi, come tutte le mode del momento, la passione per i pattini calò rimanendo però ancora un nutrito punto di ritrovo per molti. Anche l’attuale sindaco, Flavio Tosi, che all’epoca era un consigliere comunale, incuriosito dall’attenzione che gravitava attorno alla particolare serata, si fece convincere dall’allora consigliere circoscrizionale, Luca Coletto, (oggi assessore all’Ambiente della Provincia, ndr) a provare l’ebbrezza delle rotelle. Mai indossati i pattini prima di allora, i due leghisti temerari,

uscirono indenni dall’esperienza, seppur riuscendo ad andare a sbattere contro ogni muro e cancellata che si presentasse loro davanti. «Mi ero divertito parecchio», confessa il sindaco, «è stato un audace esperimento. Io poi già sono spericolato di mio, ma con le dovute protezioni è stato un giro sicuro e divertente». E tradisce la volontà di sostenere una iniziativa popolare tra i giovani e anche i meno giovani affermando: «Io credo che se una rappresentanza degli interessati chiedesse appuntamento con me e con l’assessore allo sport, Sboarina, ascolteremo

le loro proposte ed esigenze», spiega, «non ricordo che creasse particolare fastidio o problemi alla cittadinanza anche perché l’ora era tarda e non si rischiava di intralciare troppo il traffico, semmai bisognerà trovare un percorso assicurativo per istituzionalizzare l’iniziativa. In fin dei conti penso possa anche essere un punto di attrazione turistica», conclude. A Parigi, una cosa simile avviene il venerdì sera. A migliaia si ritrovano sugli Camps Elisee per un giro sui pattini e anche in Francia l’iniziativa era nata da un pugno di appassionati.

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Sport di Silvia Andreetto A Verona il martedì sera per gli appassionati di Rollerblade è un giorno importante. C’è una simpatica iniziativa che va avanti ormai da anni, “Il giro del martedì”, che interessa punte di 300 pattinatori. Tutto l’anno un gruppo di entusiasti si presenta al bar dell’Arsenale alle 21 con i pattini ai piedi e questa volta ci siamo anche noi di Verona in. Ci sono già i primi pattinatori che si scaldano. Mano a mano che passano i minuti aumentano le persone sulle ruote. Esperti, maestri di pattinaggio, che per scaldarsi fanno esibizioni mozzafiato, ma anche gente comune, ragazzi che hanno imparato sbucciandosi le ginocchia, gente che si informa sul tipo di frenata da utilizzare in caso di pericolo, sulla lunghezza del tragitto da compiere, sui punti critici. Molti sono qui per la prima volta e si domandano come funziona il tutto. Scopriamo, tra le altre cose, che il giro è lungo 18 chilometri. Cerchiamo di farci un po’ coraggio, ma l’idea delle tre discese, un «pochino» difficili di cui si vocifera qualche preoccupazione la desta. Alle 21.30 in punto siamo circa un centinaio, iper attrezzati, con ginocchiere, parapolsi, gomitiere, lucette lampeggianti; alcuni, più prudenti (ma anche forse più spericolati), con il casco. Uno degli animatori, un po’ biz-

Verona In è sceso in pista zarro, con dei pattini multicolor, dà il via. Il popolo dei pattinatori si sposta verso il lungadige, direzione Borgo Trento, i più temerari sorpassano talmente veloci che neppure ce ne accorgiamo. Fin dai primi slanci ci sentiamo al sicuro: siamo circondati da gente, ma non temiamo scontri. Dopo circa 300 metri abbiamo già parlato con una decina di sconosciuti. Età media trent’anni, ma ci sono quindicenni e sessantenni. Senti la forza del gruppo fin da subito, c’è sempre qualcuno che si ferma ad aspettare nei punti critici: incroci, semafori, discese. A circa metà di Lungadige Attiraglio una nuova fermata. Avevamo la sensazione di essere gli ultimi della fila, ma una volta fermi scopriamo che ci sono ancora molte persone che arrancano nelle retrovie. Ripartiamo insieme e ancora i più veloci scompaiono in avanti. Percorriamo via Santini e poi via Mameli. Una lieve agitazione si fa sentire quando ci avvertono di una brutta discesa nel tratto di strada che collega via Santini a via Mameli. Un ragazzo ci tranquillizza, dice di lasciarci andare, di rilassarci. Rallentiamo con la tipica frenata a «T» e ci rendiamo conto che il problema è facilmente gestibile. C’è un piccolo gruppo che viene da Mantova per la prima volta, sono tutti allegri e spensierati. Ci ri-

troviamo al semaforo di Via Mameli, all’altezza della pizzeria Cà Trentina e ci dirigiamo verso San Giorgio. Una breve salita e via sul Ponte Pietra. Un ragazzo ci spiega che questo è il punto più critico, perché passata la prima metà del ponte c’è una discesa e bisogna star attenti a curvare subito dopo, altrimenti si rischia di finire contro le auto parcheggiate di fronte. Ci vede titubanti e si offre di aiutarci a scendere. Ci aggrappiamo e riusciamo a passare anche questo ostacolo. Ormai ci sentiamo pronti ad affrontare qualsiasi difficoltà. Proseguendo in via Sant’Anastasia ci si sente allegri e spensierati, come una classe in gita scolastica. La gente si ferma curiosa a guardare, le auto rallentano, a volte chi è al volante si mostra infastidito. Eccoci in Piazza Erbe dove c’è una breve sosta. Ci raccontano che spesso in quel punto alcuni animatori fanno uno spettacolo improvvisato. Cinque, dieci minuti di sosta e ripartiamo. Ponte navi, direzione Porta Vescovo. In via XX settembre l’asfalto è liscio e c’è pochissimo traffico, alcuni pattinatori ne approfittano per sciogliersi, andare un po’ all’indietro, fare qualche piccola acrobazia. Si torna verso il centro. Un ragazzo sui trentacinque racconta agli amici: «Una volta stavo con un tipa che odiava

pattinare. A un certo punto mi ha detto “scegli, o me o i pattini” e ho capito che non c’era futuro». Ci ridiamo sopra e capiamo che non è solo uno sport per chi lo pratica, ma qualcosa di più. Un altro ci dice di essere tornato dalle ferie proprio il martedì per non perdersi il giro con i pattini e che ripartirà il giorno dopo. Arrivati in via Mazzini, quasi in fondo al gruppo, persi in mezzo ai vari racconti, ecco “il trenino”. In quel punto infatti, fino a piazza Bra, generalmente i pattinatori si uniscono e formano un serpentello, cercando di schivare le secchiate di acqua che a volte arrivano da parte di qualche cittadino che non apprezza l’iniziativa. Si sente il rumore dei pattini che sul liston di Piazza Bra semi vuoto, crea una particolare suggestione. Passato l’orologio della Bra, andiamo in Corso Porta Nuova verso il quartiere Valverde e da li torniamo verso San Zeno facendo un tratto di Corso Porta Palio. Il percorso è quasi giunto al termine, i chilometri cominciano a farsi sentire. Arriviamo all’Arsenale alle 23.25, stanchi da non sentire più le gambe, ma felici. Chi si cambia, chi indossa le scarpe, e qualcuno beve una bibita per premiarsi della fatica. Per due ore ci si sente parte di un gruppo, indifferentemente dall’età, dalle idee, lontani dai problemi e dai pensieri di tutti i giorni. Ci si aiuta, ci si sostiene e si prosegue fino alla meta finale.

15 Il popolo dei pattinatori si riposa in Piazza Erbe


Sport

Non solo rollerblade... Pattinaggio artistico a rotelle: uno sport di gioie e sacrifici Il pattinaggio non è solo rollerblade. Vi è un ramo di questo sport assolutamente ignorato dai più. Si tratta del pattinaggio artistico a rotelle. Verona è stata la patria di tante campionesse a livello nazionale e internazionale. Uno sport duro e difficile, fatto di quotidiani allenamenti e tanti sacrifici, ma non essendo classificato tra gli sport olimpici, come il «fratello maggiore» su ghiaccio, non è nemmeno più classificabile tra le discipline minori ed è praticamente un’attività in via d’estinzione, nonostante la sua bellezza e le sue difficoltà. La mancanza di palestre adeguate ha fatto chiudere diverse società scaligere, altre si sono fuse per far fronte alle difficoltà e quelle che rimangono sono in una lotta perenne per accaparrarsi le poche strutture rimaste in città e in provincia, in orari spesso assurdi e a costi proibitivi. La vecchia «buca» di via Galliano, una storica piscina adattata decine di anni fa con dei corrimano alle pareti, era la valvola di sfogo per gli allenamenti in assenza di pioggia. Oggi, la mancanza cronica di manutenzione, ha trasformato quella pista in un cumulo di sassolini, buche e muschio che, di fatto, ne impediscono l’utilizzo. Solo recentemente la struttura di via Santini è stata coperta e dà un po’ di respiro ad alcune società. Altre si allenano da sempre nelle palestre ricavate sotto le tribune dello stadio Bentegodi, stanze lunghe e strette intervallate da pilastri di cemento, che servono per l’allenamento invernale, quando proprio all’aperto non si può andare. Anche il palazzetto dello sport è stato concesso a una società, ma con il contagocce e con tante polemiche sull’ipotetico logorio del parquet a causa delle ruote. Non rimane che migrare fuori città, alle tensostrutture di Vigasio e Castel d’Azzano. Anche qui in orari che poco si conciliano con l’attività giovanile e a costi esorbitanti. «Faccio pattinaggio artistico a rotelle da 15 anni», racconta Serena Mazzo di vent’anni, «e questo sport si è molto modificato ultimamente. Purtroppo molte società hanno dovuto chiudere per mancanza non solo di atleti, ma anche e soprattutto di strutture, sia coperte che non, adeguate e di sovvenzioni da parte del comune o di enti. È uno sport che non «porta denaro», per cui a nessuno interessa pubblicizzarlo. Le poche palestre che ci sono, inoltre, hanno un costo spropositato per ragazze che spesso pagano tutto autonomamente. È comunque un peccato perché è un’attività molto armoniosa e adatta fin dalla tenera età». Dello stesso parere è anche Giorgia Cavalleri, 19 anni, che spiega: «Pattino da diversi anni e mi accorgo che questo sport è sempre meno considerato. Le strutture sono inesistenti, di tanto in tanto qualcuno propone la costruzione di una pista regolamentare al coperto, ovviamente mai costruita. A Verona, ma anche a livello nazionale, il pattinaggio artistico è uno sport secondario, non se ne sente mai parlare, non si vedono mai gare, manifestazioni, spettacoli alla televisione. Molti bambini e ragazzi iniziano questo sport ma, anche a causa della scarsa organizzazione sono costretti ad abbandonarlo». Aggiunge infatti: «A causa delle sedi lontane, i genitori devono, oltre che accompagnare i propri figli, anche aspettare la fine dell’intero allenamento perché un ritorno a casa sarebbe sconveniente».

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A Verona, ma anche a livello nazionale, il pattinaggio artistico è uno sport secondario, non se ne sente mai parlare, non si vedono mai gare, manifestazioni, spettacoli alla televisione

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Cultura IL PERSONAGGIO

Walter, il filosofo della comicità Nato a Verona nel 1921, Walter Chiari era un attore che scherzava con la sacralità del Teatro. In televisione, da solo, inquadrato in primo piano «forava» lo schermo e arrivava agli spettatori con una comunicabilità insuperabile

Fu uno dei primi attori italiani a partecipare al famoso Carosello. Fino ad alcuni anni fa, grazie ad alcuni suoi amici di Verona, nell’anniversario della morte, veniva celebrata una messa nella Chiesa di S. Zenetto

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di Oreste Mario dall’Argine Walter Chiari fu uno dei primi attori italiani a partecipare al famoso Carosello; un po’ per soldi, ma anche perché questo piccolo teatrino faceva parte della professione. Fino ad alcuni anni fa, grazie ad alcuni suoi amici di Verona, città dove era nato nel 1924, nell’anniversario della morte (avvenuta il 20 dicembre del 1991 a Milano), veniva celebrata una messa nella Chiesa di S. Zenetto: eravamo in pochi, ci contavamo sulle dita di una mano, a ricordare quell’eterno ragazzo dagli occhi scuri e profondi. A Walter la vita andava stretta. Come stretto per lui era il palcoscenico, un set cinematografico,

lo spazio di uno show di un varietà televisivo. È improprio definirlo “comico”, perché come diceva lo stravagante giornalista, ma profondo conoscitore di uomini, Giancarlo Fusco, Walter aveva commesso un solo peccato, quello di recitare in Italia: in Francia sarebbe stato alla pari di un mito come Maurice Chevalier. Walter Annichiarico, in arte Chiari era soprattutto un attore. Catalogato fra i comici, perché in Italia esiste un’incerta satira scritta, ma ahimè, la satira teatrale è una somma di volgarità e insipienza. Definire Walter come il Flaiano del Teatro Italiano non è certamente un’eresia, anche se certi pseudo critici e certi pseudo

intrattenitori possono gridare allo scandalo. Era un attore che scherzava con la sacralità del Teatro. Indispettiva gli autori che gli stavano accanto e che si sforzavano di rincorrere le sue improvvise ispirazioni che alcuni definirono “catilinarie” teatrali. Era un uomo, un personaggio particolare, perché avrebbe voluto che la vita non avesse spazi temporali, che i palcoscenici fossero piazze, il cinema e la televisione immensi schermi per entrare nella vita della gente. Non sopportava i copioni già confezionati; non riusciva, specie nel cinema, a sopportare le gerarchie tradizionali di registi, attori e produttori; rispettava però le persone con un senso di umanità raro nell’ambiente nel quale viveva. Quando con Visconti fece il suo film più importante «Bellissima», con quella donna e attrice straordinaria che fu Anna Magnani, raccontava che quando entrava sul set si sentiva come un ragazzo al suo primo giorno di scuola. Visconti creò un Chiari non solo diverso, lontano dagli schemi consueti del palcoscenico, ma ne fece la fotografia perfetta di una figura tipica delle troupe cinematografiche italiane: il furbastro che spacciandosi per amico del regista o del produttore insegue fini maldestri e anche inqua-

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Cultura Aveva il fiuto della platea che lo seguiva, per cui le sue battute non erano mai scontate, uscivano dalla sua incredibile capacità inventiva, senza spocchia e senza la forzata ricerca dell’applauso Visconti creò un Chiari non solo diverso, lontano dagli schemi consueti del palcoscenico, ma ne fece la fotografia perfetta di una figura tipica delle troupe cinematografiche italiane: il furbastro che spacciandosi per amico del regista o del produttore insegue fini maldestri e anche inqualificabili; l’amorale italiano tipico di un mondo dove c’è spazio per la mediocrità e l’ingannevole furbizia

Nelle foto a lato: Walter Chiari con Franca Valeri in Luv di Murray Schisgal. Con Lucia Bosè nel 1954, sul set del film Vacanze d'amore. Con Ava Gardner, suo grande amore, nel 1956. Con Ugo Tognazzi nel film Femmine di lusso del 1960. Chiari con il pechinese di Un mandarino per Teo. Walter e Rascel in La strana coppia. Con Delia Scala in Buonanotte Bettina. Il cast di Un mandarino per Teo, da sinistra: Alberto Bonucci, Sandra Mondaini, Walter Chiari, Ave Ninchi, Riccardo Billi

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lificabili; l’amorale italiano tipico di un mondo dove c’è spazio per la mediocrità e l’ingannevole furbizia. Le altre sue apparizioni cinematografiche ridussero la sua figura ad un manichino costretto in una comicità tradizionale e senza creatività. Anche la sua fisicità, che faceva parte determinante della sua presenza, era costretta da schemi vecchi e senza significato. In televisione, da solo, inquadrato in primo piano, «forava» lo schermo e arrivava agli spettatori con una comunicabilità insuperabile. Chi ricorda il suo monologo del sommergibilista, non può non riconoscere le sue doti di grande attore. La sua intelligenza non lo portava mai fuori misura, non gli consentiva di ricorrere agli stupidi doppi sensi ma soprattutto gli impediva la volgarità. Attorno al suo personaggio si potrebbe costruire una sociologia del “riso”, tanto la sua figura è stata emblematica di una strategia del comico quanto enciclopedica del ridere o del far ridere. «Fra costanti e variabili», scrive luigi Malerba, «è difficile stabilire una morfologia del riso. Eppure anche il ridere ha le sue frasi, i suoi ritmi, forse una sua grammatica e una sua sintassi». Mago insuperabile della passerella, intratteneva gli spettatori come il primo della classe. Aveva questo aspetto di buon ragazzo di famiglia al quale anche le più severi madri avrebbero dato in sposa le loro figlie. Lavorò quasi sempre con una “spalla”, Carlo Campanini, che gli fu sempre amico, anche in momenti difficili fino ad essergli fratello nel sopportare astuzie e

fragilità umane e teatrali. La loro imitazione dei fratelli De Rege resta un esempio di grande teatro legato ai cannovacci della Commedia dell’arte, intelligentemente adattati per nuovi tempi e un nuovo pubblico. Pubblico che lui amava e rispettava; aveva il fiuto della platea che lo seguiva, per cui le sue battute non erano mai scontate, uscivano dalla sua incredibile capacità inventiva, senza spocchia e senza la forzata ricerca dell’applauso. Chiamato a presentare divi del piccolo schermo o a sostenerli in apparizioni difficili, sapeva trascinarli nella sua satira e nella sua irridente umanità. Solo con Mina mostrò sempre un tenero e affettuoso rispetto, perché per lui era la più grande cantante del mondo, ma soprattutto, come era solito dire «una vera donna». Il suo rapporto con le donne è stato spesso motivo di favola e di invenzioni giornalistiche; in realtà egli conquistò donne grandi e famosissime con il rispetto della loro femminilità. La sua avventura più grande, se così si può chiamare, la visse con Ava Gardner, che a tutti sembrava irraggiungibile. Per essa Walter gioì e soffrì al di

là di ogni misura; soffrì per non poter far capire a questa donna bellissima quanto l’amore sia più grande della vita stessa. Con Ava Gardner si telefonavano da ogni parte del mondo, occupando l’apparecchio per ore per le quali il suo impresario, Elio Gigante impazziva per pagarne i conti. Fra i tanti pregi, esemplari la sua lealtà e la sua fedeltà alle amicizie, e i molti difetti, uno su tutti prevaleva: l’abitudine costante al ritardo negli appuntamenti. Per lui l’orologio, il giorno e la notte non esistevano e quindi gli appuntamenti erano pure formalità, invenzioni dei suoi impresari. Ecco perché a Walter, il tempo, lo spazio stavano stretti; il suo mondo, la sua vita non potevano sopportare confini o schemi prefabbricati. Correva sempre, lavorava scatenato, girando film, recitando in teatro, raggiungendo la sua donna di turno tutto in una giornata. La sua vita era ed è stata una giostra continua, senza posa e senza respiro. Il suo amico Campanini diceva: «Walter non dorme mai se non quando non pensa». Pensava la vita, il teatro, l’amore, la gioia, la sofferenza e anche la cattiveria umana quando questa lo colpì duramente.

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Spettacoli Sono tre gli anniversari della lirica che toccano da vicino Verona. Si tratta dei 50 anni dalla morte di Beniamino Gigli, i 60 anni dal debutto della «divina» Maria Callas, e i trent’anni di attività di Leo Nucci. Tre personaggi tanto diversi quanto originali e inimitabili che hanno segnato con vigore la storia della lirica. Bocche cucite però in Fondazione Arena sulle attività in programma per ricordare questi tre anniversari. Di certo, visto che Leo Nucci è impegnato in questa stagione areniana sia nel Nabucco che nel Trovatore, sarà omaggiato di un premio alla carriera o qualcosa di simile, ma dalla dirigenza dell’ente non trapela nulla di ufficiale. Per quanto riguarda la Callas, il suo debutto in Arena del 2 agosto 1947 con la Gioconda segnò l’inizio della sua travolgente carriera, nonché del suo travagliato matrimonio con l’imprenditore veronese Giovanni Battista Meneghini, certo non passerà sotto silenzio. I veronesi non possono infatti dimenticare gli anni in cui la «divina» calcava le scene areniane: memorabile fu la sua Turandot del 1948, e poi il suo maggiore trionfo internazionale con la Traviata nel ’52, con Aida e Trovatore nel 1953. Quella che secondo molti è stata la più grande cantante lirica del Novecento, non solo ha trovato a Verona il suo primo importante palcoscenico, ma nella città di Giulietta trovò anche il suo primo grande amore. L’aveva voluta in città l’allora direttore artistico dell’arena, Giovanni Zenatello, che incantato dalla sua voce le aveva offerto il ruolo principe nell’opera di Amilcare Ponchielli, diretta da Tullio Serafin con la regia di Augusto Cardi, ruolo che la Callas tornò a recitare, sempre in arena, nel 1952, questa volta diretta da Antonio Votto, per la regia di Riccardo Moresco. L’ultima volta che la «divina» cantò nel maggiore anfiteatro veronese fu nel 1954: interpretava Margherita in Mefistofele, ancora diretta da Votto per la regia di Herbert Graf. Bisogna andare più indietro negli archivi areniani per trovare le tracce del tenore di Recanati Be-

in VERONA

TRE ANNIVERSARI

Maria Callas, Beniamino Gigli e Leo Nucci

Leo Nucci all’Arena in “Pagliacci”. Sotto: Maria Callas in “Gioconda”

niamino Gigli. Anche lui debuttò nella Gioconda di Ponchielli. Il suo ruolo era quello di Enzo e lo recitò per la prima volta al teatro sociale di Rovigo nel 1914. Ma Verona dovette attendere il 12 agosto del 1929 per vederlo nel ruolo di Lionello in Marta di Friedrich con Flotow. Furono solo due le date dell’opera in cartellone quell’estate, ma le cronache ricordano che furono serate di

beneficenza per la «Colonia Raggio di Sole» e che furono segnate da una straordinaria affluenza di pubblico che «invade il palcoscenico, sulle gradinate, oltre i limiti di sicurezza». Negli anni successivi, Gigli è ancora protagonista della scena areniana con L’Africana di Meyerbeer dove interpreta Vasco de Gama (1932), nella Gioconda e in Andrea Chénier nel 1934. L’ultima sua eccezionale rappresentazione scaligera, a soli sette anni dalla morte, è registrata nel 1950, quando interpreta Don Alvaro ne La forza del destino, diretto da Oliviero De Fabritiis, per la regia di Carlo Piccinato. Nel 1990 però, Verona per ricordarlo gli dedica un concerto di tenori. Il direttore Anton Guadagno dirige cantanti del calibro di Pietro Ballo, Carlo Bergonzi, Franco Bonisolli, Alberto Cupido, Peter Dvorsky, Salvatore Fisichella, Emil Ivanov, Mario Malagnini, Gianfranco Pastine, Vincenzo Scuderi, José Sempere, Anatoly Solovianenko, Giorgio Tieppo e Nunzio Todisco. Pochi sanno che Leo Nucci, oggi considerato il maggior baritono in carriera, prima del debutto internazionale, nel 1978, alla Royal Opera House Covent Garden di Londra, interpretò Mercuzio in Romeo e Giulietta di Charles Gounod, diretta da Michel Plasson e con la regia di Gianfranco de Bosio, all’arena di Verona nel 1977. L’anno seguente fu Sharless in Madama Butterfly e solo dieci anni dopo tornò in arena per festeggiare i 75 ani di vita musicale dell’arena insieme a Josè Carreras. Ma è con il 69° festival areniano, nel 1991, che il rapporto con il teatro veronese diventa stabile per Leo Nucci. Da allora, con una superba interpretazione di Rigoletto, il baritono Bolognese, calca le scene dell’anfiteatro scaligero tutti gli anni interpretando le più belle opere e i ruoli più prestigiosi, da I Pagliacci al Nabucco, dal Barbiere di Siviglia all’Aida, dalla Traviata a Macbeth. Nel 1994 duetta con Placido Domingo in una serata in onore del grande tenore, dove si esibisce in Jago del primo atto di Otello, in Marcello nel terzo atto della Bohème e in Amonasro nel terzo atto di Aida.

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Musica

Toscanini, grande genio della musica di Nicola Guerini «Arturo Toscanini, uno degli immortali della nostra epoca, non è più». È questa la notizia che la mattina del 16 gennaio 1957 sveglia una New York fredda e nevosa. Il maestro si era spento nella sua casa di Riverdale all’età di quasi novant’anni. La sua lunga vita ha inizio a Parma, il 25 marzo 1867. Il padre sarto, la madre cucitrice, Arturo cresce tra cupi silenzi e accesi litigi. Il padre, infatti, è un ex garibaldino, che preferisce intrattenersi con gli amici davanti a un bicchiere di buon vino, piuttosto che confezionare abiti o aiutare la moglie Paola. Se i coniugi Toscanini non sembrano accorgersi dell’interesse che il figlio nutre per la musica, non tarda a notarlo la maestra Vernoni, che si offre per dare lezioni gratuite di solfeggio e pianoforte al bambino. A nove anni Arturo Toscanini è ammesso al conservatorio di Parma. Lo strumento assegnato al giovane talento è il violoncello e Arturo comincia a farsi notare, non solo dagli insegnanti, ma anche dai compagni che gli affibbiano il soprannome di «genio» e «forbicione», per il suo senso critico. Il 21 luglio 1885 Arturo si diploma in violoncello e pianoforte con il massimo dei voti. Ha le idee chiare e preferisce eseguire la musica piuttosto che comporla; studiarla, capirla, farla propria, per poi tra-

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smetterla al pubblico. Fresco di conservatorio, firma un contratto come violoncellista per una stagione d’opera italiana in Brasile. Il giovanotto che sbarca a San Paolo dimostra più dei suoi diciotto anni. Lo sguardo serio, a tratti accigliato, non lascia trasparire nessuna emozione. Dimessosi il direttore d’orchestra, perché accolto freddamente dalla critica, a sostituirlo è chiamato lui, Arturo Toscanini, che dopo la recita di Aida viene acclamato da un pubblico scrosciante di applausi e richieste di bis. Gli onori e la gloria, però, li lascia oltreoceano, perché, al suo rientro in Italia, lo aspettano i teatri di provincia e la vita da girovago.Vive a Milano in una piccola casa al numero 16 di via San Vito che dividerà con i genitori e le due sorelle. Il padre trova lavoro come tagliatore ai grandi magazzini Fratelli Bocconi (ribattezzati Rinascente dopo l’incendio che li distrugge), ma a provvedere alla famiglia, non senza sacrifici, è Arturo. Nel frattempo Giuseppe Verdi è intento nei preparativi del suo Otello, che andrà in scena alla Scala. Il giovanotto di Parma non si fa certo sfuggire l’occasione di suonare per il Maestro, così non esita a farsi scritturare come secondo violoncello. Se Verdi mostra subito un occhio di riguardo per quel ragazzo dall’aria rigida e severa, il direttore d’or-

chestra lo multa spesso per la scarsa considerazione che mostra nei suoi confronti e verso il soprano che impersona Desdemona. I soldi scarseggiano e, nella nuova sistemazione di via Torino, la famiglia Toscanini si offre di prendere gente in pensione, a condizione che gli ospiti amino la musica. Arturo dirige una stagione d’opera al Dal Verme e poi al teatro Carcano, suscitando le prime polemiche tra i palchettisti, a cui chiede di rispettare l’orario d’inizio dello spettacolo, abituati come sono ad entrare in sala quando preferiscono. Durante la sua attività al Teatro Regio di Torino aveva avuto occasione di dirigere alcune “prime” di portata storica: la “prima assoluta” della Bohéme di Giacomo Puccini (1896) e, nello stesso anno, la “prima italiana” del Crepuscolo degli Dei di Richard Wagner. Intanto la Scala attraversava un periodo di crisi: la stagione 1897-1898 fu cancellata per motivi economici e sull’ingresso principale del celebre teatro venne affisso un cartello con scritto «Chiuso per la morte del sentimento artistico, del buon senso, del decoro cittadino». A risollevare le sorti di uno dei simboli di Milano ci pensò il trentunenne Arturo Toscanini, affiancato da un docile quanto astuto ingegnere di Ferrara, Giulio GattiCasazza, a cui è affidata la parte amministrativa. I due vanno molto d’accordo, anche perché il Maestro

si riserva l’ultima parola sulla scelta di cantanti e orchestrali, sul numero di prove che devono precedere uno spettacolo e sulla data della prima. Quella che Toscanini mette in atto alla Scala è una vera e propria rivoluzione dei costumi: luci spente in sala, sipario che si chiude al centro al posto di quello calato dall’alto, ingresso vietato ai ritardatari, niente bis e niente cappelli per le signore in platea. Arriva persino a negare al duca Uberto Visconti di Modrone, uno dei maggiori finanziatori del teatro, la possibilità di salire sul palcoscenico. Più che un direttore, insomma, un dittatore, che non esita a dichiarare guerra alla Milano bene. Molta stampa lo critica, dedicandogli articoli come «Le prodezze di Barbableu», in cui si scrive «Toscanini, il fortunato campagnolo portato dal cieco caso all’onore del trionfo, è l’assoluta rovina finanziaria ed artistica della Scala». Nel 1901 muore Giuseppe Verdi e il 27 febbraio Toscanini dirige il Va’ pensiero sulla scalinata del Cimitero Monumentale, mentre la salma veniva portata alla Casa di Riposo dei musicisti. Quel suo primo periodo alla Scala, durato dal 1889 al 1903 e ripreso poi dal 1906 al 1908, fu segnato da memorabili rappresentazioni di opere di Verdi e di Wagner, ma anche della “prima per l’Italia” del Pellèas et Mèlisande di Debussy (1908). Alcuni screzi, però, di na-

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TEATRO STABILE DEL VENETO “CARLO GOLDONI” COMUNE DI VICENZA

6 0° CICLO SPETTACOLI CLASSICI 2007 TEATRO OLIMPICO direzione artistica Luca De Fusco

FILOTTETE di Sofocle, traduzione Angelo Tonelli con Pino Micol regia Giuseppe Marini produzione Società per Attori dal 27 al 30 settembre 2007

ONE MAN "Tell-Tale Heart" di Edgar Allan Poe e "Actor" di Steven Berkoff recital di Stefan Berkoff (in lingua inglese) 5 e 6 ottobre 2007

ELETTRA di Sofocle, traduzione Caterina Barone con Lina Sastri regia Luca De Fusco coproduzione Teatro Stabile del Veneto Teatro Stabile di Catania il 16, 17, 19, 20 e 21 ottobre 2007

PREMIO ETI – GLI OLIMPICI DEL TEATRO Cerimonia di consegna della Vª edizione Venerdì 14 settembre 2007


Musica tura economica con Uberto Visconti di Modrone, insieme all’insofferenza per i bis, spinsero il Maestro ad allontanarsi dalla scena, durante la rappresentazione del “Ballo in maschera”, dichiarando di essere stato colpito da un’emorragia. Nel 1908, il segretario del Metropolitan di New York è a Milano per la firma dei contratti di Toscanini e Gatti-Casazza: Otto Kahn, presidente del più importante teatro d’opera americano, vuole l’ingegnere come direttore per la stagione successiva; questi accetta ponendo come unica condizione l’avere con sé il maestro. Al termine della guerra (1918) Toscanini volle procurare al Teatro alla Scala, insieme ad altri illuminati milanesi, nuova autonomia e splendore artistico. Il periodo durò dal 1921 al 1929 e segnò l’apogeo del gran teatro milanese, oltre, forse, che il culmine della carriera toscaniniana. La Scala irraggiò sul mondo artistico, come un faro, la luce del melodramma. Numerose ed importanti “prime assolute” furono dirette dal Maestro, fra cui Debora e Jaele di Pizzetti (1924), il postumo Nerone di Boito (1924) e la postuma Turandot di Puccini (1926); il repertorio dominò con interpretazioni di grande qualità e possiamo dire che da quel momento la Scala divenne un “teatro a repertorio”. Oltre alla vasta programmazione sinfonica Toscanini accostò, come artisti d’eguale grandezza, Verdi con Wagner, in un periodo in cui a chi gridava “Wagner, non Verdi” c’era chi rispondeva “Verdi, non Wagner”. Toscanini propose, ed impose la formula “Verdi e Wagner” dimostrando, con letture memorabili, la fondatezza della qualità dei due compositori. Venne il momento, però, in cui egli lasciò la Scala; vennero gli anni in cui si astenne dal dirigere in Italia, per ragioni di stampo politico. A New York gli avrebbero costituito un’orchestra apposta, tutta sua; poi egli dirigeva in Europa, a Bayreuth (unico direttore non tedesco, invitato fino ad allora nel tempio wagneriano), quindi a Salisburgo e a Lucerna. Se durante la grande guerra Toscanini fu impegnato all’Arena di Milano, così come al fronte, in una serie di concerti a favore dei soldati,

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4 aprile1954, l’ultima direzione di Toscanini alla Carnegie Hall di New York

piuttosto che dei profughi, nel 1931 venne coinvolto in uno spiacevole incidente che lo costringe all’esilio: il rifiuto di eseguire la Marcia Reale e “Giovinezza!”al Comunale di Bologna davanti ai gerarchi fascisti. Nel secondo dopoguerra è una Milano sventrata e piegata quella in cui torna l’ormai anziano Toscanini. La sua casa in via Durini venne messa a disposizione dei bisognosi, mentre lui trascorreva, nella villa di Ripalta Guerina, i giorni che ancora lo separavano dall’atteso ritorno alla Scala. L’11 maggio 1946, la bacchetta del Maestro volteggia nell’aria riempiendo il teatro con le com-

moventi note del Nabucco. I milanesi, che non trovarono posto in sala, invasero la piazza e le strade vicine, ascoltando la musica attraverso gli altoparlanti. Il taciturno e caratteriale maestro, dopo aver dedicato la vita a sentire la musica, si rifugiò a New York, tra l’affetto dei suoi figli e il 4 aprile del 1954, alla Carnegie Hall di New York, Toscanini diresse il suo ultimo concerto. Nessuno fra i presenti sapeva della decisione irrevocabilmente presa per evitarne l’emozione. Quando il Maestro invece si abbandonò al gesto, fissato dalla fotografia, tutti pensarono ad

un’improvvisa amnesia. Scese dal podio e gli sfuggì la bacchetta di mano. Un professore dell’orchestra la raccolse, gliela porse. Toscanini si avviò all’uscita, come se non avesse visto. Durante il Capodanno del 1957 ebbe un cedimento improvviso e solo dopo nove crisi d’emorragia celebrale la sua formidabile fibra cedette. Di lì a due mesi avrebbe compiuto novant’anni. La salma fu portata in aereo in Italia e il 18 febbraio fu traslata al Cimitero Monumentale di Milano. Il carro con il feretro fu fatto sostare sotto il portico della Scala; la piazza era colma di gente e così la Galleria e le vie adiacenti. Il portone del teatro era spalancato. Erano le undici del mattino. L’orchestra era disposta sul palcoscenico e Victor De Sabata, che dal 1953 non dirigeva più, salì sul podio per intonare la “Marcia funebre” dell’Eroica di Beethoven. La musica si diffuse nella piazza attraverso gli altoparlanti mentre tutta la Milano che lo aveva amato ascoltava commossa in silenzioso raccoglimento.

MUSICALMENTE Il carattere Toscanini di Nicola Guerini «Se quando dirigo c’è qualcosa che non va’, è perché io non ho capito bene l’autore. Tutta colpa mia! Chi pensa che Mozart, Beethoven, Wagner, Verdi abbiano sbagliato e siano da correggere, è un imbecille. Bisogna studiare, capire meglio. I grandi non hanno scritto la musica per far fare bella figura a me. Sono io che devo far fare loro bella figura, rivelandoli come sono, avvicinando più che posso me e l’orchestra ad essi, di modo che non passi neppure un filo d’aria. Il direttore non deve creare, deve eseguire, Umiltà, fedeltà chiarezza... umiltà. Ecco le sue doti!... è tanto semplice eseguire la musica com’è scritta!». Tutte le leggende sul cattivo carattere di Toscanini nascono dal suo comportamento durante la concertazione e sono fiorite su realtà ben precise. Per esempio il Maestro provava più volte i passaggi «pericolosi» per l’orchestra, controllando l’equilibrio delle diverse sonorità e le rilevanze ritmiche. La sua caparbia fedeltà alla musica, come una cosa sacra a cui dedicare la vita, il suo orecchio sensibilissimo, l’incredibile capacità mnemonica e la costante ricerca del «bel suono» hanno fatto di lui un

interprete pignolo ed esigentissimo: «Noi siamo democratici», disse una volta ai suoi orchestrali, «ma in arte siamo aristocratici». Durante una storica prova del Don Giovanni di Strauss con l’orchestra della Scala (3 settembre 1949) i ripetuti tentativi di correzione portarono Toscanini ad un’irruente esplosione: «Ma questa non è l’orchestra della Scala! Sembra una di quelle vecchie orchestre in cui la metà dormono e la metà leggono il giornale!». Poi, dopo qualche ripetizione, venne l’approvazione: «Ecco adesso abbiam fatto bene!» spiegando: «Signori, io voglio tutto da voi, così come io do tutto!». Ad un tratto però grida indignato e l’accento parmigiano si fa sentire: «Ma ve’! C’è della gente qui che mi ruba le note! Non sono ancora sordo sapete!». Spezza e getta via la bacchetta e smette di dirigere. È inferocito. Poi si calma, e fa ripetere il punto incriminato, due, quattro, dieci volte fino ad essere soddisfatto. «Ma lei Maestro, si rende conto di essere il direttore più grande del mondo?», qualcuno una volta gli chiese e lui, dopo un breve silenzio, rispose: «Io grande? Ma che cosa è grande? Io non faccio altro che eseguire. Grandi sono Beethoven, Wagner, Verdi e gli altri. Io.. non sono che un umile loro interprete».

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Mostre vagheggiato, in parte ricordato. Ma non per questo meno attuale. Aperta fino al 9 settembre nel Museo Ken Damy.

MOSTRE IN CITTÀ Estate tempo non solo di spettacoli ma anche di mostre nella città scaligera. È ormai al termine (29 luglio) Il settimo Splendore. La modernità della malinconia che dal 25 marzo ha visto a Palazzo della Ragione duecento capolavori di Botticelli, Giorgione, Rosso Fiorentino e ancora El Greco, Tintoretto, Caravaggio fino a Michelangelo. Ingresso gratuito per la mostra itinerante, fino ad ottobre, che l’Associazione Rivela ha organizzato per la Provincia di Verona con Cézanne. L’espressione di quel che esiste è un compito infinito, dove emerge tutto il realismo dell’artista francese e la sua biografia. Fino a settembre al Museo Scavi Scaligeri, tutti i giorni sarà possibile ammirare l’archivio dello Studio Tommasoli in Oltre l’Argento dove si trova la storia, l’architettura, gli eventi e la gente di Verona attraverso un secolo di scatti fotografici. Per gli amanti della storia in esposizione al Teatro Romano, fino ad ottobre, Antichi Vasi di Bronzo dal V al I Sec. A.C. Chi vuole godere di una passeggiata esclusiva può gustarsi sulle mura di Castelvecchio le installazioni artistiche di Herbert Hamak: 18 lastre lunghe 4 metri poste a cavallo delle merlature e realizzate in resina e pigmento blu. Termina il 30 ottobre. La scarpetta di Venere, in via S. Fermo 4, accoglie la personale di Alice Castellani Immaginario urbano, città tra sogno e realtà fino al 31 luglio. La mostra, ad ingresso libero, è la riflessione personale dell’artista sulla città creata grazie alla pittura e a nuovi esperimenti. Saranno numerose le installazioni che prenderanno vita nella cornice dell’Ex-arsenale austroungarico dal 7 al 15 luglio, per l’occasione trasformata in ArTsenale. Esporranno le loro opere Gennaro Mungivera, Luca Bronzato, Marco Crivelli, Francesca Amato Arragon, Creativesouls, Andrea Dorigatti, Sergio Davarda e Nicola Degianpietro. L’entrata a offerta libera, sarà devoluta ad Amici di Pio Onlus per

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Gea Casolaro Permanente Presenza (Rovereto) Il Comando Regionale TrentinoAlto Adige Della Guardia di Finanza celebra il 233° anno dalla sua fondazione, con un’esposizione che vuole valorizzare l’impegno del Corpo nella vita civile italiana. All’artista romana Gea Casolaro, è stato affidato il compito di documentare, con il suo attento “occhio fotografico” e la sua indubbia vocazione alla lettura dei fenomeni più interessanti della vita sociale, il lavoro quotidianamente svolto dalla Guardia di Finanza. Al Mart, fino al 23 settembre. 52a Esposizione Internazionale d’Arte – Pensa con I sensi – Senti con la mente. L’arte al presente (Ve) Si è aperta il 10 giugno e si concluderà il 21 novembre, la 52° Esposizione Internazionale d’Arte curata da Robert Storr. La mostra centrale (alle Corderie e parte delle Artiglierie dell’Arsenale e nel Padiglione Italia ai Giardini) presenta un centinaio di artisti provenienti da tutto il mondo con opere, anche site specific, e nuove produzioni. Completano l’esposizione le 76 partecipazioni nazionali e i 34 eventi collaterali che allestiscono proprie creazioni anche nel centro storico cittadino. il finanziamento di un Centro Infantile nelle Ande Ecuadoregne. Occasione speciale anche per gli artisti emergenti che potranno portare all’ArTsenale il proprio book (amicidiopio.org).

MOSTRE FUORI CITTÀ a cura di M. Grazia Tornisiello Fulvio Pendini I volti di Padova (Pd) Fino al 4 novembre il Comune di Padova celebra Il centenario Della nascita di Fulvio Pendini con una personale, allestita nei Musei Civici agli Eremitani. Un’occasione, sia per ricordare,

approfondire e riscoprire un artista che per mezzo secolo è stato protagonista della scena culturale cittadina e nazionale, sia per ripercorrere gli anni cruciali compresi tra le mostre sindacali degli anni Trenta e lo scoppio delle neo-avanguardie degli anni sessanta. Clinio Giorgio Biavati Altis, il mito impuro (Bs) Da non perdere la mostra di Biaviati che indaga sul “feminino”, sulla sensibilità sottintesa, sulla bellezza. Nelle sue immagini la figura della donna è centrale e tutto ruota intorno a questa presenza. È un mondo immaginato,

Il tempo nelle Icone Russe (Vi) Chiuderà I battenti il 19 agosto, nelle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari, la minimostra “Raffigurare Il Tempo. Le icone dei mesi nella tradizione russa”, quarto appuntamento della rassegna denominata “Oriente Occidente”, la serie di piccole esposizioni proposte gratuitamente e allestite con cadenza periodica al piano terreno delle Gallerie. Nove icone russe cosiddette menologiche che potrebbero essere considerate icone-calendario, in quanto ciascuna raffigura i santi e le feste liturgiche celebrate all’interno di uno o più mesi dell’anno.

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IMPARARE A VIVERE MEGLIO

A volte la maleducazione è l’anticamera della delinquenza di Alessandro Norsa L’ultima volta che ho sentito dire da qualcuno: «Lei è un maleducato» era il 1976. A pronunciare la frase fu una signora anziana che aveva visto sottrarsi la possibilità di sedersi da un uomo di media età in un autobus affollato. Ricordo che al tempo questo tipo di situazione era un fatto abbastanza eclatante, che normalmente provocava il dissenso generale e molto spesso l’imbarazzo dell’interessato. Gli episodi di inciviltà e sopruso si sono nel frattempo via via moltiplicati. Mosso da questo argomento ripenso alle parole «estinte», che avevano un senso regolatore di un vivere civile e riguardoso: signorilità, pudore, cortesia, rispetto; la perdita dell’uso delle parole significa che si è perduto anche il comportamento collegato. Mentre un tempo ci si poteva aspettare un comportamento più o meno educato da alcune persone rispetto ad altre, attualmente la maleducazione sembra dilagare ed essere un comportamento comune a tutte le età e a tutti i livelli sociali: uomini, donne, bambini, operai e dirigenti. Non c’è neppure un luogo rappresentativo di questo mal costume: può essere alla fermata del bus o nella sala d’aspetto del dottore, ma anche alla posta o al supermercato, ma il luogo principe in assoluto della maleducazione è la strada. Esempio dell’altro giorno che mi ha lasciato un certo senso di stupore, ma allo stesso tempo di riflessione e forse di preoccupazione: una signora che ha tagliato la strada ad un altro automobilista, il quale vistosi a mal partito ha frenato bruscamente il mezzo e, forse per lo spavento, ha suonato il clacson; dall’altra parte la signora accelerando ha iniziato a suonare all’impazzata facendo dei gestacci ben poco signorili. Credo che questo tipo di atteggiamento sia così diffuso e notorio che i limiti della maleducazione si siano spostati oltre il

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L’educazione e l’attenzione al prossimo non solo hanno un senso normativo e sono un segno di civiltà, ma cautelano e garantiscono a volte anche la salute o la salvezza delle persone. Il problema di fondo è che il concetto di maleducazione è strettamente legato al suo opposto: l’educazione; ma se mancano dei buoni agenti educativi manca di riflesso anche il suo prodotto concetto stesso, fondendosi con i segnali da una parte della delinquenza, dall’altra delle difficoltà psicologiche. Infatti, parlando proprio della situazione di prima, un amico mi ha citato a suo dire un altro esempio di maleducazione che riguardava un passante che stava per essere investito sul marciapiedi che stava attraversando. In questo caso, a mio avviso, non ci troviamo di fronte ad un esempio di mancanza di educazione ma di una azione delinquenziale o para delinquenziale. Se siete stupiti delle mie parole, potete pensare che in una situazione solo un po’ più marcata di questa, è rimasta vittima una ragazza uccisa nella metropolitana dalla punta di un ombrello. Il non pensare alle conseguenze delle proprie azioni porta poi a dire, come poi è avvenuto nella situazione appena descritta, «mi dispiace, non volevo... ». L’educazione e l’attenzione al prossimo, allora, non solo hanno un senso normativo e sono un segno di civiltà, ma cautelano e garantiscono a volte anche la salute o la salvezza delle persone. Se cediamo il posto in autobus ad un anziano forse evitiamo che si rompa un fe-

more cadendo, se spegniamo il cellulare in un Ospedale evitiamo che si possa ad esempio compromettere il buon funzionamento delle apparecchiature elettromedicali. Il problema di fondo è che il concetto di maleducazione è strettamente legato al suo opposto: l’educazione; ma se mancano dei buoni agenti educativi manca di riflesso anche il suo prodotto. Credo che molte responsabilità siano da imputare al nuovo modello di famiglia. Dai dati che posso ricavare anche dal mio lavoro proprio con questa utenza, il numero di persone che dedicano, per motivi di lavoro o personali, parecchio tempo fuori dalle mura domestiche lasciano maggiormente soli i figli, o nel migliore dei casi con i nonni. Se non c’è nessuno che si prende cura dei figli non c’è possibilità di trasmettere regole ed il senso dei limiti tra il comportamento accettabile e quello non opportuno. Se manca qualcuno che determini che un atteggiamento è non rispettoso o superficiale o addirittura dannoso, se manca l’idea dell’imbarazzo di fronte alle proprie scorrettezze, vuol dire che manca il senso del limite e questo è fatto grave perché predispone sia al comportamento incivile che a quello delinquenziale e a quello patologico. La scuola non può sostituire la famiglia in questo compito, e i nonni per diversi motivi non possono prendere il posto dei genitori. Il problema si aggrava col passare delle generazioni, poiché se un comportamento non viene appreso non può essere trasmesso; per cui se viene saltata l’educazione di una generazione, quella successiva si trova senza un bagaglio culturale e normativo da trasmettere. La maleducazione significa perdita di valori portanti, e questo è un conto che la nuova società fondata sul denaro sta pagando. La maleducazione è la frontiera della nuova inciviltà.

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I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA

Mario Pigozzi, dalla prigionia all’arte di Giuseppe Brugnoli Era un uomo di poche parole, Mario Pigozzi, schivo e riservato, e parlare di lui, a tre anni dalla sua improvvisa scomparsa, probabilmente non gli fa nessun piacere. Ma la sua figura merita di essere ricordata come un’icona di quel mondo ormai quasi definitivamente scomparso che gli fu sommamente caro, e in cui nacque e visse in una solitudine che pareva austera, con il suo carattere rude e talvolta scontroso, ma che invece era rallegrata, oltre che dalla presenza di una moglie tenera ed affettuosa, da una vasta cerchia di amicizie di gente quasi tutta come lui, con cui condivideva soprattutto il suo grande amore per la montagna. Non la montagna delle alte cime e delle imponenti spedizioni per scalare le vette famose, ma una montagna semplice e accessibile, domestica e quasi casalinga, qual è la Lessinia: in fondo, è rimasta la montagna vera, non oppressa e devastata da un turismo massiccio e invadente, come le vallate pettinate e cartolinesche che paiono allineate su un bancone di supermarket, ma meta di escursioni un po’ selvatiche di corto raggio e di soggiorni riposanti, in cui il contatto con la natura agreste e i suoi scarsi abitatori non è un modo di dire obsoleto, ma una onesta ancorché modesta esperienza quotidiana. Dal suo mutismo difficilmente perforabile, da cui usciva con antichi motti proverbiali e ficcanti e ironiche notazioni di costume, Pigozzi si era liberato negli ultimi tempi della sua vita, che non fu lunga ma sempre laboriosa, avendo scritto, con il consueto pudore e l’ormai costituzionale asciuttezza, un piccolo libro, pubblicato a sue spese, “Liberi!”, che raccontava le vicende della sua prima giovinezza, quando, alpino della Julia, resistette nella caserma di Bolzano agli attacchi dei tedeschi subito dopo l’8 settembre 1943. Fu ferito, fatto prigioniero, portato a Mauthausen, quindi in altri campi di internamento e, dopo il 25 aprile 1945, trasferito da un ospedale militare all’altro e sottoposto ad una serie di difficili interventi chirurgici. Potè tornare a casa solo dopo sette anni dalla Liberazione, nel 1952, dichiarato grande invalido di guerra.

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Quel libro ha pagine bellissime, di intensa e contenuta commozione, soprattutto nel ricordo degli amici e dei commilitoni caduti o morti di stenti durante la lunga prigionia. Mai una parola di condanna, in una prosa disadorna, senza alcun orpello stilistico, e per questo tanto più efficace, con passaggi narrativi di rara sobrietà, che richiamano alla mente esempi più illustri di scrittori che proprio da similari vicende di quel periodo difficile e arduo trassero motivo per libri di grande successo. Se è vero che «Se questo è un uomo» di Primo Levi riassume in maniera esemplare le sofferenze degli ebrei rinchiusi nei campi di eliminazione, e se «Il sergente nella neve» di Mario Rigoni Stern e «Centomila gavette di ghiaccio» di Giulio Bedeschi costituiscono il racconto esemplare della tragica ritirata di Russia, si può affermare che questa testimonianza di prima mano portata in un libro di scarsissima diffusione, perché affidato da Pigozzi ad una ristretta cerchia di amici, è un documento unico per la memoria di una tragica epopea ancora quasi sconosciuta, come quella delle centinaia di migliaia di militari italiani internati dalla Germania dopo l’8 settembre, i quali non avevano neppure lo status giuridico riconosciuto ai prigionieri di guerra dalle convezioni internazionali, e non ebbero nessun riconoscimento dopo la Liberazione. Anche solo con il titolo che egli volle dargli, “Liberi!” è un inno alla libertà, non soltanto quella che egli amava nei liberi spazi della sua montagna, ma anche e soprattutto quella libertà morale, fatta di profondi convincimenti nei principi fondanti della società civile, che egli professava. “Liberi!” Mario Pigozzi lo portava e lo illustrava nelle scuole della vallata dell’Alpone e in altre zone, dovunque lo richiedessero, ed era molto soddisfatto di questo ultimo impegno della sua vita, come diceva e come poi fu. Riteneva importante richiamare la coscienza civile nei ragazzi di oggi, che negli effimeri miraggi del consumismo stanno perdendo gli antichi valori sui quali si è stabilita per secoli, nella sobrietà, nella schiettezza, nell’amore per le cose vere, l’antica civiltà delle nostre terre. La sua vita fu piena di interessi culturali.

Amico e sodale dello scultore Mario Salazzari, fu partecipe attivo di una cerchia di artisti che intorno a lui si era quasi naturalmente formata, e fu collaboratore di Bertin da Cogolo nell’ispirare e seguire molte delle sue collaborazioni, così che gli venne spontaneo provarsi anche nella scultura; così realizzò incidendole pazientemente in legni diversi un’ampia serie di riproduzioni delle famose “colonnette” che un tempo segnavano i crocicchi dei sentieri sull’Alta Lessinia, e molte delle quali poi sparirono sottratte dall’incuria e dalla disattenzione. Oggi, il nipote Guido, anch’egli artista e pittore, autore tra l’altro di splendidi paesaggi tra il sogno e la realtà delle alte terre lessiniche, ne ha fatto una completa catalogazione, che ha interessato anche ricerche universitarie. Ma di lui rimane anche una serie preziosa di documentari, che con grande rigore tecnico e animati da una sottile poesia raccontano la «Flora alpina della Lessinia», il «Museo dei fossili di Bolca», «La carbonaia», da lui ricostruita secondo le antiche tecniche per poterne ritrarre il ritmo della lavorazione, «Il maglio» che riproduce in movimento l’ultima pressa idraulica ancora in attività nell’alta val di Ronchi, e decine di altri film sempre dedicati alle sue montagne, oltre ad una serie su «La storia di Verona» con immagini inedite commentate da insigni studiosi e cattedratici, che la sua morte ha lasciato interrotta all’ultimo film. Fu anche, oltre che regista e coscienzioso montaggista della prima televisione veronese, Televerona, alla quale dedicò la sua opera fino al suo assorbimento in Rete 4, fondatore e direttore per un decennio del Filmfestival della Lessinia, ora ospitato a Cerro, al quale volle dare fin dalla prima edizione un’impronta nettamente scientifica, lontana dalle facili riprese di feste devozionali paesane, e che proprio per questo assunse validità e fama a livello internazionale, richiamando opere in concorso dall’intera Europa. Fu insomma, nonostante le profonde ferite di cui portava l’indelebile segno, e che mai egli rammentò, un uomo vivo e attivo, di cui è grato ricordare l’opera e conservare la memoria, perché la sua amicizia era schietta e serena.

Giugno 2007


Viaggiare PERÙ

A Machu Picchu il mito si fonde con la storia Se la zona di Cuzco conserva i più affascinanti resti della civiltà Inca, la parte nord del Paese sta promuovendo il recupero delle vestigia di popolazioni che si erano insediate ancor prima in questa regione

di Michele Domaschio Cosa c’entra il Perù con tangentopoli? La risposta a un quesito tanto assurdo la si può trovare, anzi vedere, nel bel mezzo della popolosa capitale del paese sudamericano, Lima. Basta alzare lo sguardo, e ci si trova di fronte a una chilometrica metropolitana di superficie, sostenuta da piloni di cemento che la mantengono sospesa a una trentina di metri dal suolo. Peccato che l’opera non sia mai stata terminata e così, di punto in bianco, il serpentone di cemento finisce nel nulla: «Questo è un bel regalo dell’Italia, di Bettino Craxi», mi spiega l’amico che mi accompagna nelle mie peregrinazioni transoceaniche. «Craxi era amico di Alan Garcia, il nostro primo ministro all’inizio degli anni Novanta. Ora Alan Garcia è stato rieletto, mentre a Craxi non è andata altrettanto bene, abbiamo saputo... comunque, una grande impresa italiana aveva iniziato a costruire questo treno, poi però c’è stato un casino, lì da voi, e Craxi non l’abbiamo più visto e l’impresa pure. E noi stiamo ancora aspettando...». Aspettare, da queste parti del mondo, è più un’arte che una virtù. Specialmente all’aeroporto di Lima, dove arrivano e partono tutti i voli che collegano le varie città del paese: segno tangibile della volontà di garantire anche in questo modo il controllo capillare sul territorio, perché chiunque sia in grado d’im-

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possessarsi della capitale sarà poi, immediatamente, il caudillo dell’intera nazione. Ma il Perù conosciuto e amato da milioni di turisti non è certo quello del traffico caotico e convulso di Lima: il vero polo d’attrazione è costituito dalle vestigia della civiltà Inca, e in particolare dalle affascinanti rovine della città di Machu Picchu. Questo insediamento, scoperto quasi per caso nel 1911 da un gruppo di archeologi (in realtà alla ricerca di Vilcabamba, l’ultima roccaforte Inca), si trova a circa 2.600 metri di quota. Il percorso per arrivare alla “montagna vecchia” (questo il significato del termine “machu picchu” nell’idioma quechua) è di per sé affascinante: i viaggiatori più coraggiosi affrontano le fatiche dell’Inca trail (sette

giorni di trekking nella foresta, esposti alle intemperie e al rischio di venire assaliti e depredati da scaltri malviventi, desiderosi di collaudare le ultime novità high tech, gentilmente portate sin lì da ignari gringos scarpinatori), ma per i più compassati c’è comunque di che divertirsi. Il campo base per l’escursione è, infatti, l’antica capitale del regno Inca, ovvero Cuzco: questa città, ancor oggi fiorente, si trova a 3.300 metri sul livello del mare, ed è bene cercare di acclimatarsi, riposando per qualche ora, prima d’intraprendere qualsiasi sforzo. Per accelerare questo processo è bene uniformarsi agli usi e costumi locali, quindi sorseggiare diverse tazze di mate de coca, l’infuso preparato con le foglie della nota pianticella. Una volta sconfitto il soroche (co-

me si chiama da queste parti il mal d’altura) si può prendere il trenino che lascia Cuzco alle prime luci dell’alba e si dirige verso il paesino di Aguas Calientes: nei primi chilometri del percorso, il convoglio deve affrontare un’erta molto ripida, quindi – con grande stupore e qualche timore per i passeggeri – un po’ avanza, un po’ retrocede, al fine di prendere la rincorsa ed avere lo slancio necessario per inerpicarsi. Se questo spavento non è bastato, da Aguas Calientes ci si deve imbarcare su autobus navetta che fanno la spola con il punto d’ingresso dell’area di Machu Picchu: i guidatori di questi mezzi sfrecciano per una strada tortuosa, poco più larga di un sentiero nel bel mezzo della vegetazione, e pare che godano come pazzi a sfiorarsi quando s’incrociano – general-

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Viaggiare

Machu Picchu

mente a ridosso di qualche tornante, o a pochi centimetri dal ciglio della strada che li separa da uno strapiombo di circa un centinaio di metri. Vale la pena affrontare tutte queste peripezie? Quando si sbuca dalla vegetazione e ci si trova davanti allo spettacolo della città incaica, tutte le fatiche e le paure svaniscono d’incanto. D’improvviso, ci si sente parte della storia e della mitologia, che in questi luoghi si fondono senza soluzione di continuità. Come è stato possibile costruire questi templi, questi rudimentali ma precisissimi osservatori astronomici – viene da chiedersi inevitabilmente di fronte a tale meraviglia – se non con l’aiuto di qualche divinità? Qui, dove i sacerdoti usavano l’intihuatana, il «palo che cattura il sole», ovvero il cilindro di pietra posizionato perfettamente per poter prevedere l’arrivo dei solstizi, è presumibile che la popolazione vivesse un reale connubio tra l’umano e il divino, tra le forze della terra, quelle del cielo e quelle del sottosuolo (secondo la tripartizione della cosmogonia incaica). Eppure, proprio nel momento del massimo splendore del regno Inca, arrivato a dominare tutta la parte occidentale del continente sudamericano alla fine del XV secolo, l’avvento brutale dei conquistadores pose fine a una delle civiltà più raffinate comparse sulla terra: ma anche questo avvenimento, secondo la ricostruzione dei frammenti rinvenuti in alcuni monumenti funerari Inca, era stato previsto dai saggi, come l’arrivo di un nuovo, eclatante solstizio. Ai moderni visitatori resta la possi-

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bilità di apprezzare, almeno in parte, il ricordo degli insediamenti umani succedutisi in questi luoghi: se la zona di Cuzco, infatti, conserva i più affascinanti resti della civiltà Inca, la parte nord del Paese sta promuovendo il recupero delle vestigia di popolazioni che si erano insediate ancor prima in questa regione. È il caso, ad esempio, delle Tombe Reali di Sipàn, risalenti al terzo secolo dopo Cristo, oggi visibili nel modernissimo museo di Lambayeque (nei dintorni di Chiclayo, 600 chilometri a nord della capitale): l’edificio ove è esposto questo preziosissimo manufatto è stato inaugurato nel 2002, sotto la presidenza del chino, ovvero del discusso primo ministro Fujimori (attualmente rifugiato in Cile, poiché processato e condannato in patria) e riprende le forme dell’antico monumento funerario, con la struttura a piramide che emerge solo parzialmente fuori terra. Per ritemprarsi da tutte queste visite culturali, niente di meglio che una bella scorpacciata di frutta tropicale: lucuma, zapote, chirimoya, granadilla, maracuya, e chi più me ha più ne metta, sono una vera festa di sapori – e vitamine – tutte a disposizione per pochi soles (la moneta locale, che vale circa un quarto di euro). Per chi ha l’appetito un po’ più robusto, la cucina locale propone il ceviche ovvero pesce marinato nel limone e servito con profluvi di aglio, cipolla e peperoncino; sempre che non si preferisca la carne di un saporitissimo cuy (ahimè, sì, il nostro tenerissimo – in tutti i sensi – porcellino d’India). Resta giusto il tempo di sorseggiare

un delizioso pisco sour (il cocktail nazionale a base di acquavite distillata in loco, con l’aggiunta di succo di limone, ghiaccio, bianco d’uovo, sciroppo di liquirizia e una spruzzatina di cannella) ed è già tempo di rimettersi in viaggio per ammirare un po’ di folklore locale: una pelea de gallos, ad esempio, ovvero i cruenti combattimenti dove i pennuti si sfidano al centro di arene allestite nei circoli, nei bar o nelle case private dei quartieri più malfamati. Lo spettacolo, emozionante quanto brutale, romantico quanto desolante, è spesso costituito più dalle urla degli scommettitori che dalle evoluzioni dei galli: qui si trova gente disposta a giocarsi in una serata lo stipendio di un mese, e anche di più. Tanto, domani si comincerà nuovamente ad aspettare, che arrivi un nuovo lavoro o qualche altro conquistador, pronto a comprarsi a poco prezzo le bellezze di un paese così affascinante. LA COMBI ASESINA La prima volta che sono salito su una “combi asesina” ho notato solamente l’affollamento di gente, la quantità di pacchi e borse della spesa che quasi nascondevano alla vista due anziane signore, il rumore assordante del motore e la rapidità del ragazzo che ritirava l’obolo per la corsa. La “combi” è in effetti il mezzo di trasporto forse più economico per muoversi a Lima: si tratta di furgoncini da 15, 20 posti al massimo che percorrono un tragitto prefissato, scritto sulle fiancate arrugginite di mezzi che hanno affrontato migliaia di chilometri in mezzo al traffico pazzesco di una città che conta ben otto milioni di abitanti. Di particolare, tuttavia, vi è il fatto che l’autista può deviare parzialmente, a richiesta, dal percorso prestabilito: le due poverette di cui dicevo poc’anzi, subissate di merce riuscirono, ad esempio, a farsi lasciare a pochi passi da casa versando un extra per il disturbo (il resto della comitiva non pensò nemmeno lontanamente di protestare per l’accaduto, un po’ perché «oggi a te, domani a me», un po’ per gli sguardi minacciosi del conducente). L’altro aspetto surreale dell’affrontare un viaggio su questi trabiccoli l’ho capito solo dopo alcuni chilo-

metri di strada. Quasi ad ogni fermata, infatti, si vede stazionare un omino munito di tabella e matita, che si avvicina con fare concitato all’autista del pulmino: questi, come colto da un raptus, a malapena consente a chi deve scendere di farlo, quindi impreca qualche maledizione e pigia il piede sull’acceleratore, ripartendo come un pazzo. Quello a cui ho assistito, e di cui sono stato ignaro protagonista, altro non è che un esempio di deregulation del trasporto pubblico urbano: detto in parole più semplici, le “combi” sono autoveicoli di proprietà dei singoli autisti, che cercano di accaparrarsi i clienti gareggiando come emuli di Schumacher per le strade della capitale (alle fermate – come ai box della Formula 1 – gli addetti comunicano il ritardo sul concorrente che precede, per cui si cerca di colmare il distacco e superarlo prima di giungere alla sosta successiva, zigzagando ferocemente e compiendo manovre al confine tra la violazione del codice stradale e quello penale). Dato l’alto numero di incidenti mortali causati, gli abitanti di Lima hanno affettuosamente ribattezzato questi mezzi di trasporto “combi asesina”...

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N° 15/giugno 2007 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.

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