Verona In 16/2007

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16 - OTTOBRE 2007 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA



Memorie di una città ricca di storia

Primo piano

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Quelli che Verona In propone in questo numero non sono solo fatti noiosamente messi in fila in un severo ordine cronologico. Sono soprattutto volti, incontri. Ora commoventi, ora duri, ora contradditori o scioccanti, ora nostalgici o suggestivi. Le variabili sfumate di una complessa umanità che ha abitato o attraversato un territorio in distanze di tempo e spazio. Come in uno di quei film a episodi che andavano di moda qualche decennio fa. È Verona che tiene insieme gli episodi. La più antica storia qui raccontata è quella dell’uomo che seppellì il suo meraviglioso tesoro di monete nella campagna di Sustinenza a Casaleone, prima di partire come soldato nella sanguinosa guerra civile tra Giulio Cesare e Pompeo. Era il 50 a.C. Il tesoro fu ritrovato a fine del XIX secolo, il che fa intuire che quell’uomo non tornò mai a casa. Siamo nel 1946, quando la guerra era da poco finita e si sperava un po’ tutti di viver meglio. Tra loro anche l’ex colonnello Clemente Dalmazzo che, smessa la divisa, decise di dedicarsi all’attività agricola. Invece in una calda notte estiva a Negrar, in località Maso, la sua vita e quella dei suoi familiari vengono interrotte in un modo che ancora oggi ci lascia increduli. Le carte, le cronache di allora restituiscono il racconto dei testimoni, le indagini, la scoperta dei colpevoli fino al processo. In quegli stessi anni, e in quelli a seguire, molte persone si ritrovavano tutte assieme a condividere una identica attesa alla stazione Porta Nuova, dopo aver passato la selezione nel vicino palazzo del Centro Emigrazione. Provenivano da ogni parte d’Italia, cercavano un lavoro per mandare i soldi a casa. Prendevano i treni diretti a Nord, andavano a lavorare nelle fabbriche della rinascente Germania Federale, che aveva bisogno di

manodopera. In quel progressivo e inarrestabile processo di industrializzazione, di spostamenti, di cambiamenti rapidi non divennero più scontate certe pratiche che avevano scandito ritualmente la vita del mondo contadino dalla nascita alla morte. Gesti comunitari, come quelli che accompagnavano l’ultimo viaggio di un caro defunto. Gesti che ci permettono di ritrovare il senso simbolico di molto agire umano, le reazioni e i significati di fronte ad un accadimento forte e destabilizzante. In Lessinia qualcuno ricorda ancora i riti legati alla festività dei morti tra ottobre e novembre che avevano come oggetto privilegiato la zucca, la stessa zucca di Hallowen che, dopo essere emigrata insieme agli uomini oltreoceano, è tornata a casa forse un po’ troppo svuotata di polpa e semi. Dal Vermont erano tornati indietro anche gli scalpellini di Sant’Ambrogio di Valpolicella. Siamo ora all’alba della prima guerra mondiale. La comunità di Sant’Ambrogio è quasi un’isola, raccolta dinamicamente attorno all’attività del marmo, attraversata da vivaci fermenti sociali. Le pagine di un diario parlano di Beniamino Vittorio, uno dei tanti del popolo degli scalpellini. Ancora storie, scorci, angoli di città nei quadri di Angelo Dall’Oca Bianca di cui, nel 2008, ricorrono i 150 anni dalla nascita. Il suo fu certo un appassionato e straordinario sguardo sulla Verona tra il finire del 1800 e i primi anni del 1900: volti, strade, vie, piazze, mercati, la vita quotidiana e poetica di una città. L’ultimo ricordo e saluto è per Luciano Pavarotti. Il viaggio nel tempo si ferma qui. Al suo debutto in Arena nell’estate del 1972. In scena il “Ballo in Maschera” di Verdi. Buona lettura.

Tracce, segni, ricordi. Ogni pagina di questo viaggio autunnale del giornale ritrova memorie della città e dei suoi dintorni. Non sono solo fatti, noiosamente messi in fila in un severo ordine cronologico. Sono soprattutto ciò che quei fatti hanno voluto dire per chi li ha vissuti. Sono volti. Incontri. Ora commoventi, ora duri, ora contradditori o scioccanti, ora nostalgici o suggestivi

Elisabetta Zampini

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Storia EMIGRAZIONE

Partivano da Verona con meta la Germania Come spesso è accaduto nella storia degli italiani, nel dopoguerra si cercò fortuna all’estero, nell’ex Paese nazista, passando dal Centro Emigrazione di Verona, frutto di un accordo italo-tedesco. L’edificio si trova in via delle Coste

di Elisabetta Zampini

Dal Centro Emigrazione vicino alla Stazione di Porta Nuova passavano ogni giorno centinaia di persone provenienti da tutta Italia, in alcuni giorni si arrivava quasi al migliaio. Qui venivano sottoposte a una selezione per verificare l’idoneità fisica, ma anche le abilità specifiche per lavorare nelle varie fabbriche tedesche

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Al di là delle Alpi c’era la possibilità di un lavoro. Da poco terminata la seconda guerra mondiale, l’Italia liberata si trovava economicamente in ginocchio. Così la gente si rimise in cammino, portò avanti la tradizione migrante del popolo italiano. Belgio, Francia, Svizzera le mete più frequentate, più tardi la Germania. Terre delle miniere, delle materie prime, delle industrie, della ricostruzione dalle macerie della guerra. La manodopera serviva in abbondanza. L’Italia, come sempre, ne aveva. Alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento si erano realizzate le migrazioni transoceaniche verso gli Stati Uniti e specialmente l’Argentina, la migrazione che la memoria collettiva più ricorda. Ma c’è poi stata un’altra ondata migratoria, minore non tanto per il numero delle persone che coinvolse quanto per la distanza più contenuta degli spostamenti. Alle navi si sostituirono i viaggi in treno, le attese alle stazioni, gli abbracci e gli ultimi saluti al fischio del capotreno. La stazione di Verona divenne ben presto un gremito luogo di partenze verso il Brennero, la Germania federale. Non solo perché nodo ferroviario importante. Nei pressi della stazione infatti era stato istituito in accordo italo-tedesco il Centro Emigrazione. Non molti a Verona lo ricordano. Eppure vi passavano ogni giorno

L’intervista con Elia Morandi in Biblioteca Civica

centinaia di persone provenienti da tutta Italia, in alcuni giorni si arrivava quasi al migliaio. Qui venivano sottoposte a una selezione per verificare l’idoneità fisica ma anche le abilità specifiche per lavorare nelle varie fabbriche tedesche. Doveva esserci davvero un via vai attorno alla stazione di Porta Nuova. Per avere un’idea della portata del fenomeno basta osservare le dimensioni dell’edificio che ospitava il Centro Emigrazione. Si trova in via delle Coste e oggi è la succursale dell’Istituto Montanari e sede dell’Istituto Nani. «La struttura è grande – spiega il dottor Elia Morandi, studioso del fenomeno migratorio italiano in Germania, con un’attenzione particolare ai lavoratori emigrati ad Amburgo –

perché doveva anche dare ospitalità, un alloggio a chi veniva a Verona per passare la selezione». Dalla fine della seconda guerra mondiale agli inizi degli anni Sessanta ad oltrepassare il confine alpino non erano solo uomini e donne del centro o sud Italia. La situazione economica del Paese era disomogenea. Zone di povertà e di sviluppo erano distribuite a macchia di leopardo. Perciò emigravano tanto dalla Sicilia quanto dal Veneto o dal Friuli Venezia Giulia. Lo scrittore Giorgio Falco in un estate di qualche anno fa si fermò alcuni giorni a Segni, un paese del Lazio, sui monti Lepini per raccogliere le storie e le memorie della gente e poi riproporle fedelmente ma con una veste lette-

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Storia

Le immagini di italiani immigrati in Germania sono tratte da: Elia Morandi, Italianer in Hamburg, tesi di dottorato pubblicata dall’Università di Amburgo nella collana Italien in Geschichte und Gegenwart

«Col viaggio pagato e tutto quanto, mi mandano a una fabbrica dalle parti di Berlino, facciamo tegole e pavimenti in legno, parquet... Il direttore di stabilimento si chiama Frankestein, io manco ci credo quando me lo dicono»

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raria. Ne è nato un racconto, Ruderi del tempo a testimone, dove il protagonista decide di emigrare in Germania e passa per Verona: “All’ufficio collocamento di Roma ci sono opuscoli, libretti che spacciano la propaganda tedesca... Allora Segni e Roma e poi Verona per le visite, tutti ci arriviamo già pronti per partire, per l’estero che chiama, le valigie tirate giù dai treni volano attraverso i finestrini...”. Viene quindi assegnata la destinazione: “Col viaggio pagato e tutto quanto, mi mandano a una fabbrica dalle parti di Berlino, facciamo tegole e pavimenti in legno, parquet... Il direttore di stabilimento si chiama Frankestein, io manco ci credo quando me lo dicono, il dottor Frankestein parla pure un poco l’italiano, solo noi là dentro siamo cinquemila dell’Italia, il Lazio, la Campania, la Sicilia e tanto Veneto che adesso uno non direbbe”. Più tardi, dopo un nuovo passaggio al Centro Emigrazione di Verona, inizia l’attività lavorativa a Wolfsburg, la città della Wolkwagen: “Siamo 4000 italiani, turni dalle 5.30 alle 14 o dalle 14 alle 22.30, straordinari quasi obbligatori, facciamo il Maggiolino e la berlina tipo Passat. Mai visti tanti Maggiolini, da averci gli incubi notturni, Maggiolini a pezzi sconsolati, poi assemblati e verniciati e collaudati e infine nei piazzali, pronti per i treni, per i camion, per le strade del mondo ancora da vedere”. Questa testimonianza fa emergere

l’alto numero di italiani che lavoravano all’estero: «Si calcola – spiega ancora Morandi – che tra il 1946 e il 1976 ci furono circa 7 milioni di espatri e contemporaneamente 4 milioni di rimpatri. Perché bisogna tener presente che le emigrazioni del secondo dopoguerra erano state concepite e vissute come transitorie. Si partiva per un certo periodo di tempo e poi si tornava. Non c’era il distacco definitivo dei viaggi di un tempo, quando con il carretto, poca roba e tutta una vita, ci si andava ad imbarcare al porto di Genova. Il lavoratore che emigrava prendeva il treno raggiungeva i paesi del Nord Europa, ci stava per un periodo a seconda del contratto di lavoro e poi tornava a casa, magari per ripartire ancora in seguito. Il tutto favorito e regolamentato dal governo italiano che cercava degli sbocchi alla manodopera in eccesso. Nel dicembre del 1955 viene stipulato un accordo bilaterale sull’emigrazione tra Italia e Germania. La Germania manda in Italia una commissione tedesca con il compito di effettuare una selezione medica e professionale di chi voleva partire. Inizialmente è a Milano, già città ponte verso altri paesi, la Francia soprattutto, poi viene trasferita a Verona e qui rimane ufficialmente fino alla fine degli anni ’80 anche se ormai la sua funzione si era esaurita molto prima». Il Centro Emigrazione di Verona era dunque un canale statale di re-

clutamento di manodopera, anche se non l’unico: «Diciamo che chi non aveva nessun aggancio di parenti o amici in Germania aveva tutto l’interesse a passare per il canale statale perché comportava diverse agevolazioni pratiche. Poi piano piano la situazione cambia in favore di altre possibilità alternative. Specialmente tra il 1961 e il 1968, quando una direttiva prevede la libera circolazione della manodopera all’interno della Comunità Europea, tanto più tra Italia e Germania considerati tra i padri fondatori della Comunità stessa». E dunque si può dire che questa massiccia mobilità di persone contribuì a creare il sentire e la rinascita della nuova Europa anche tra condizioni di lavoro spesso precarie, lotte sindacali e accoglienza non sempre calorosa dei paesi ospitanti per quanto bisognosi di quella manodopera. Rimane poi aperta tutta la controversa questione della scelta politica italiana di risolvere (allora al governo c’era De Gasperi), con tutto quel capitale umano dirottato all’estero piuttosto che utilizzato per un piano di sviluppo economico mirato in loco. Scrive sempre Giorgio Falco: “L’Italia fa un accordo con la Germania Occidentale per fornire braccia e un po’ di testa all’ industria rinascente dal nazismo. Tutti quei tedeschi in guerra vanno rimpiazzati, così come l’Italia non può tenere senza fare niente milioni di ragazzi, magari scatta nel-

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Storia

A destra e sopra: il Centro Emigrazione di Verona, in via delle Coste. Oggi è la succursale dell’Istituto Montanari e sede dell’Istituto Nani

«Siamo 4000 italiani, turni dalle 5.30 alle 14 o dalle 14 alle 22.30, straordinari quasi obbligatori, facciamo il Maggiolino e la berlina tipo Passat. Mai visti tanti Maggiolini, da averci gli incubi notturni»

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la testa un accidente, il meccanismo di averci più diritti, il lavoro, la casa, un avvenire...”. L’emigrato in Germania diventava il “Gastarbeiter” (lavoratore ospite): era il lavoratore temporaneo, stagionale, quindi non membro del nuovo paese, ed il legame con la nuova terra e i suoi abitanti era transitorio, provvisorio. Quando gli emigrati arrivavano a destinazione trovavano alloggio in apposite strutture di prima accoglienza come baracche o villaggi, fuori dai centri urbani e vicino alle fabbriche: “Dormiamo dentro le baracche del villaggio italiano, il Berliner Brucke, detto così pare un teatro, cinquanta baracche in legno a due piani, riscalda-

te, divise da un corridoio centrale che termina nei bagni senza fretta, nella stanza dell’hauswart, il capocasa, bè, capocasa: capobaracca. Tutto intorno recintato... i guardiani all’entrata e in mezzo due case in muratura, distaccamento dell’ufficio del personale, di uno spaccio, di una sala da ritrovo, di una sala per la messa di domenica (Ruderi del tempo a testimone)”. L’andirivieni continuo di lavoratori tra Italia e Germania fu un dato di fatto, tuttavia molti decisero di fermarsi definitivamente nel nuovo Paese con la famiglia, per quanto la politica tedesca non favorisse questa decisione. In ogni caso era fortemente presente quella “pendolarità” emotiva per cui un poco di radici in Germania le si metteva e ci si sentiva un poco tedeschi e un poco italiani oppure alla fine nessuno dei due. La vita lavorativa, ma anche emotiva, del Gastarbeiter è conservata nel libro Arrivederci, Deutschland! del veronese Gianni Bertagnoli, pubblicato solamente in versione tedesca nel 1964 presso l’editrice Franckh di Stoccarda. Bertagnoli era emigrato nella RFT nel 1959 e la sua opera è un romanzo singolare, autobiografico con un indole al reportage sulla realtà sociale e lavorativa dell’operaio emigrato. Racconta le vicende di Rino Sorresini che, dopo la selezione attraverso la Commissione Tedesca del Centro Emigrazione, parte da Verona con un numeroso

gruppo di operai, contadini e artigiani meridionali alla volta di Poldorf, un paesino a sud della Germania. Lì viene assunto come operaio in una impresa edile, immerso da lavoratore e osservatore curioso nelle “particelle dell’economia tedesca”. Il pregio dell’opera, secondo i critici, non sta tanto nell’aspetto estetico quanto nel fatto che inaugura il filone della letteratura degli scrittori italiani in Germania, la cosiddetta “Gastarbeiterliteratur”, oggi rappresentata da nomi interessanti in produzioni letterarie bilingui o solo in italiano o in tedesco. In diverse parti d’Italia, sulla spinta di un crescente interesse verso il recupero della memoria, del patrimonio storico caratterizzante l’identità di determinate aree geografiche, sono nati o stanno nascendo, musei dedicati all’emigrazione. Raccolgono documenti, diari, foto, oggetti. Un esempio per tutti è il Museo dell’Emigrazione di Gualdo Tadino in Umbria. Forse anche Verona avrebbe bisogno di un piccolo museo della emigrazione del secondo dopoguerra verso la Germania, magari proprio nel grande edificio di via delle Coste oppure nella stazione di Porta Nuova, luogo simbolico di partenze e ritorni.

Le citazioni sono tratte da: AA.VV, I racconti del capanno a cura di Lanfranco Caminiti, Roma, Derive Approdi, 2006.

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Storia

DELITTI E MISTERI

La strage del «Maso» 28 giugno 1946. Sulle colline tra Quinzano e Montecchio, sopra Negrar, nel casolare della famiglia Dalmazzo si compie una strage che gli anziani del luogo ancora ricordano per la brutalità del crimine. Furono trucidati marito, moglie e i loro tre giovani figli

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di Cinzia Inguanta Giugno 1946, un momento importante nella storia recente, il popolo italiano è chiamato al voto per la prima volta dopo la guerra. Il referendum popolare dice no alla monarchia: l’Italia diventa una repubblica. La tensione morale e civile è al culmine e ovunque il desiderio più grande è quello di costruire un nuovo futuro, lasciando alle spalle il periodo del fascismo, della guerra, della violenza. Sicuramente era stato così anche per l’ex colonnello Clemente Dalmazzo, che nel 1943 lascia l’esercito e la nativa Dronero, in provincia di Cuneo, per trasferirsi tra le dolci colline della provincia veronese. Così l’ex militare si stabilisce insieme alla moglie, Emma Borro, e ai loro tre figli nella tenuta del commendator Luigi Rittatore, assumendo la direzione dell’azienda agricola situata in località Maso, poco distante dal centro di Negrar. 28 giugno 1946, in una notte esti-

va senza luna, con il cielo trapuntato di stelle, si compie il destino di quella famiglia. «Verso le 24 un contadino, che viveva in una casa accanto alla villa in cui abitava la famiglia Dalmazzo, udiva fragori di scoppi attribuiti a bombe a mano seguiti a breve distanza da gemiti e da invocazioni d’aiuto. Sceso con i familiari il contadino poco dopo trovava disteso a terra sotto un portico il colonnello Dalmazzo gravemente ferito e sanguinante al capo e col volto tumefatto da ripetuti colpi ricevuti. Senza entrare in villa, uno dei contadini correva a chiedere soccorso. Sul posto accorrevano immediatamente il medico condotto dott. Villani, il maresciallo dei carabinieri e il parroco, i quali entrati nella villa si trovavano di fronte ad una vera e propria strage» (L’Arena, 30 giugno 1946). Nell’ufficio del colonnello giaceva a terra morta la moglie con la fronte spaccata da un colpo di scure. In cucina, pure con la testa fracassata, ma ancora vivi giacevano i due figli maggiori del co-

lonnello; infine nella stanza da letto, rantolante si trovava il figlio minore. Mario dodici anni, Giancarlo otto anni, Guido sei anni, moriranno poco dopo il ricovero in ospedale; il padre morirà lunedì 1 luglio. Il delitto scuote profondamente l’opinione pubblica cittadina «è difficile trovare riscontro, nelle cronache della nostra provincia, di una strage così freddamente meditata e attuata con metodi tanto atroci» scrive L’Arena del primo luglio 1946. Le indagini fin dall’inizio seguono la pista della vendetta. I carabinieri trattengono per accertamenti una decina di persone tra i dipendenti dell’azienda agricola. Emergono divergenze d’interessi e disparità di vedute tra il colonnello e i propri dipendenti. Anna Salgarolo, moglie di Augusto Tommasi, autore del delitto insieme al fratello Guerrino, non può sopportare il peso di quanto sa, non riesce a cancellare dalla mente le scene della tragedia alla quale ha assisto non vista dagli assassini. Così racconta quello

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In basso e nella pagina accanto: il complesso rurale del Maso di Negrar

“È difficile trovare riscontro, nelle cronache della nostra provincia, di una strage così freddamente meditata e attuata con metodi tanto atroci” scrive L’Arena del primo luglio 1946

che non può più tacere, confessa quanto ha visto. In un primo momento i due fratelli Tommasi si trincerano dietro risposte evasive negando recisamente ogni partecipazione nella preparazione e nell’esecuzione del delitto. I due, messi davanti alle prove schiaccianti della loro colpevolezza, sono infine costretti a confessare il loro crimine. Come già avevano rilevato le prime indagini, tra il colonnello Dalmazzo ed i suoi dipendenti non correvano buoni rapporti per motivi economici e perché, in varie e troppo frequenti occasioni, erano stati asportati dai fondi, amministrati dal defunto ufficiale, prodotti e legna dai vasti boschi della tenuta. I due assassini, qualche tempo prima di compiere il delitto, ebbero violenti alterchi con il colonnello che voleva porre fine alle ruberie ed aveva deciso di tenere le chiavi del granaio comune finché i mezzadri non avessero saldato la loro parte di perdita per il furto di due buoi avvenuto due mesi prima. Il 25 giugno i due fratelli si misero d’accordo per togliere di mezzo il colonnello la sera del 28. In quella sera introdussero nella serratura del cancello un pezzetto di ferro per aver motivo di chiamare l’amministratore. Il colonnello si presentò accompagnato dalla moglie ed allora i due non osarono agire. Poco dopo l’ufficiale ritornava, questa volta da solo, con una catena ed un lucchetto e mentre tentava di far funzionare la serratura, Guerrino Tommasi gli vibrava un colpo sul capo che lo faceva immediatamente stra-

mazzare a terra. Poiché la vittima sembrava ancora viva, il fratello Augusto lo tenne fermo per permettere a Guerrino di colpire ripetutamente con un grosso chiavistello di ferro. Poi i due sollevarono il corpo dell’ufficiale e lo trasportarono nel sottoportico del fienile. Dopo questo si diressero dalla signora Dalmazzo e mentre salivano le scale della villa le chiesero le chiavi. Appena la donna fu di fronte a loro, Guerrino le sparò un colpo di rivoltella. I ragazzi si svegliano per il trambusto: invocano il nome della madre, corrono verso la stanza da cui provengono i rumori, ed incontrano il loro destino. Non c’è stata pietà nemmeno per loro. Sangue chiama sangue. È il momento in cui bisogna pensare qualcosa che giustifichi quanto è accaduto. I due nel tentativo di simulare una rapina mettono a soqquadro l’abitazione, portano via sei bombe a mano ed una lampadina tascabile. Mentre stanno creando la messa in scena che dovrebbe giustificarli, sopraggiunge la loro madre che chiama ad alta voce la nuora, Anna Salgarolo. Guerrino per intimorirla e poter uscire senza essere visto insieme al fratello, accende spegne più volte la lampadina elettrica. La donna si allontana ed i due escono dal retro dello stabile, lanciando dietro la casa le bombe a mano per simulare un assalto di malfattori armati alla villa. Augusto tornò a casa, si cambiò, gettò la tuta macchiata di sangue nel letamaio dopodiché suo padre lo mandò a suonare la campana dell’allarme. Guerrino, invece, si diresse attraverso i campi alle case coloniche vicine per invocare l’aiuto di alcune famiglie

di mezzadri, si spogliò della camicia e dei pantaloni insanguinati, li nascose sotto quattro cespugli, si lavò ad una fonte e sotto un’altra siepe occultò la lampadina elettrica e la rivoltella. Poi in mutande chiamò i contadini, fingendo di essersi alzato precipitosamente dal letto al suono della campana d’allarme. Tornò con loro alla villa e subito dopo rientrò nella sua abitazione, si vestì e corse ad avvertire il medico condotto e i carabinieri di Negrar. La crudeltà e la freddezza con la quale il crimine fu eseguito lasciarono sconcertati per primi gli stessi carabinieri. Guerrino Tommasi, mentre era trattenuto dalle forze dell’ordine nella stazione del Teatro Romano per gli interrogatori, ebbe a dire: «La pena di morte non c’è più. Mi daranno trentanni. Dieci vengono amnistiati e negli altri venti chissà quante amnistie verranno ancora». Al processo, il loro difensore, l’avvocato Devoto, tenta la carta della perizia psichiatrica. Guerrino aveva militato nella Guardia Nazionale Repubblicana e dopo la liberazione era stato rinchiuso alcuni mesi in un campo per detenuti politici. Ma la corte non accetta la sua richiesta, mentre si mostra più sensibile alle richieste degli accusatori. L’avvocato Cavalla, che rappresenta i parenti delle vittime, li invita a comportarsi come un chirurgo «che affonda la lama e ridona la vita». I giudici sono del suo parere, e la lama l’affondano: dopo quaranta minuti di camera di consiglio, condannano i due all’ergastolo «con isolamento diurno per quattro anni». Il pubblico applaude la sentenza. «Con lo sguardo fermo – annoterà il cronista de “L’Arena” – le due belve lasciano poco dopo l’aula».


L’ultimo viaggio Novembre, mese dei morti. Dall’olio santo alla sepoltura. Usi e costumi della nostra terra in un tempo passato, quando la morte era l’ultimo dei tre momenti più importanti della vita di una persona, dopo nascita e matrimonio

In alto: Verona, Borgo Venezia. I funerali di don Luigi Zocca, il famoso “prete delle erbe” di Sprea, morto nel 1950

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di Piero Piazzola Nel passato, tre erano i momenti più interessanti della vita di una persona, che avevano più peso anche nelle tradizioni popolari locali: la nascita, il matrimonio, la morte. Dell’ultimo atto, quello che si riferiva alla fine dell’esistenza terrena di un individuo, ecco, qui di seguito, una veloce successione dei tempi che accompagnavano il deceduto al cimitero. Quando in paese una persona si aggravava a tal punto che le condizioni di salute non lasciavano proprio più sperare in una sua possibile permanenza in vita, si chiamava il prete per ammini-

strare all’infermo gli òi santi (l’olio degli infermi) e per le preghiere della bona morte. Intanto, il campanaro del paese, con una campana sola e con dei rintocchi specifici che stabilivano già se il defunto era un uomo, una donna, un bambino e se l’uomo (o la donna) era stato confratello o consorella del SS. Sacramento, provvedeva a dar avviso, sempre con le campane, alla comunità del fatto e ad informarla per la veglia, soprattutto i familiari, i parenti e altre persone della contrada. In altre parole: suonava la campana grossa (la quinta) se era morto un uomo; la quarta se la deceduta era una donna, la prima, la più picco-

la, se era morto un bambino o un ragazzetto; facevano seguito poi altri tre brevi scampanii con tutte le campane insieme; l’avviso, ovviamente, era indirizzato a tutti i confratei e consorele, i quali, come volevano le norme statutarie della “Confraternita del Santissimo” cui erano iscritti in vita, avrebbero dovuto indossare l’abito (gli uomini portavano un camicione lungo fino al ginocchio, una cappa rossa, un cordone bianco che cingeva i fianchi e un medaglione con l’effigie del SS. Sacramento; le donne, invece, non avevano alcuna divisa) o portare speciali grosse candele con impugnatura rossa. La prima e la seconda sera, dopo il

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Tradizioni

Quando la gente, dopo le preghiere della veglia, se ne tornava a casa, restavano a “custodire” la salma due o tre persone che avevano il compito di ispezionare ogni tanto la camera in cui giaceva il deceduto, attizzare le candele e tener acceso il fuoco in cucina

Una rara immagine che mostra donne biancovestite che precedono la bara portata a spalle dalle stesse. Siamo a Campofontana e l’anno è il 1946. Due ragazze in testa al corteo portano sul capo una “ghirlanda” fatta a mano

decesso, in casa del defunto, dopo cena, si radunavano i contraenti, (la gente della contrada), i familiari, i conoscenti, i compaesani per la véja (la veglia funebre). Essa consisteva nella recita di tre Rosari consecutivi e delle sénto rèchie (cento “Requiem aeternam”), con una coda interminabile di Pater, Ave, Gloria, delle Litanie dei santi, della Madonna, di Requiem specifiche per tutti i defunti di quella famiglia, del parentado, per i benefattori della chiesa, per i parroci defunti e per altre bone intension. Prima di dar seguito alla véja vera e propria, i familiari con qualche altra persona che di solito, in paese, si prestava a questa più attività, provvedevano a lavare la salma, a rivestirla dei suoi abiti più belli (l’abito da festa o quello dello sposalizio, se ancora esisteva), a togliere ori, orecchini, catenine, anelli e altri preziosi che passavano in tacita eredità alle figlie o ai figli, a seconda che si trattasse di uomo o donna; la salma poi veniva adagiata su un letto, cui era stato tolto el stramàsso o el paión, sostituito da un paio di tavole di abete, nude e crude, ricoperte da un lenzuolo bianco. I stramassi dovevano essere tolti, perché si credeva che le péne (le piume) dei materassi contribuissero a far soffrire ulteriormente il morto e i scartòssi, col loro rumore, disturbassero le prime ore del sonno eterno. Si procurava di tenere costantemente socchiusa o aperta, a se-

conda delle stagioni, una finestra della camera, non tanto per ricambiare l’aria, quanto, invece, perché l’anima potesse liberamente entrare e uscire dal locale, finché il corpo era ancora su questa terra, perché era convinzione che fino a funerali conclusi, l’anima continuasse ad aggirarsi nei suoi ambienti e rivivere una specie di vita di passaggio. Attorno al letto, quattro candelieri e, in un angolo del locale, soprattutto durante la stagione più calda, si sistemava una fogàra o uno scaldaléto, con dentro braci vive, ricoperte da un velo di cenere, sulle quali ogni tanto si cospargeva una presa d’incenso. Quando la gente, dopo le preghiere della veglia, se ne tornava a casa, restavano a “custodire” la salma due o tre persone che avevano il compito (non sempre ritenuto piacevole) di ispezionare ogni tanto la camera in cui giaceva il deceduto, attizzare le candele e tener acceso il fuoco in cucina. Naturalmente, in non poche circostanze, accadeva che quei poveri “vigilanti”, per ammazzare il tempo, per scongiurare il naturale turbamento determinato dalla vicinanza di un “morto”, e per rilassare l’atmosfera di lutto e di dolore che regnava in quella casa, si mettessero a mangiar qualcosa che la padrona di casa provvedeva a lasciar sul tavolo in cucina; accadeva che, per tagliar l’aria funerea, parlassero del più e del meno e, soprattutto, di tutto e

di tutti, scivolando talvolta nella maldicenza e nel pettegolezzo e finissero per alzare il gomito un po’ troppo. Con le conseguenze che tutti possiamo immaginare. Dopo i riti delle quarantotto ore che precedevano il funerale, la mattina della sepoltura, arrivavano a casa della persona defunta – soprattutto nelle zone di montagna, ma anche nelle corti e nelle borgate di campagna – i portatori del morto con la “portantina”; essa era una specie di barella dipinta di nero con qualche arabesco funereo. D’inverno, quando le strade erano ingombre di neve (le gondiére), capitava che il morto fosse caricato, portantina e bara, su una slitta. E se la neve era troppo alta da non consentire l’uso della slitta, la bara veniva agganciata a un lungo palo e due portatori, dandosi il cambio, compivano l’opera. I necrofori levavano la salma e, processionalmente, la recavano a spalle fino alla chiesa parrocchiale, ogni tanto dandosi il cambio con altri volontari. Lungo tutto il percorso, la “campana da morto” con la consueta distinzione di cui s’è fatto cenno, accompagnava il corteo nel quale tutti i partecipanti pregavano seguendo o ripetendo ciò che recitava il prete subito dopo la bara. Giunti alla chiesa, la cassa e la portantina erano sollevate e deposte su un alto palco nero (el catafalco), ricoperto da un enorme drappo di velluto nero (il cosid-

Si procurava di tenere costantemente socchiusa o aperta, a seconda delle stagioni, una finestra della camera, non tanto per ricambiare l’aria, quanto, invece, perché l’anima potesse liberamente entrare e uscire dal locale

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Tradizioni

Ai funerale non partecipava, di solito, la moglie del defunto; aiutata da altre donne ella “doveva” preparare il tradizionale pranzo del morto: minestra in brodo con i figadini (fegatini) e paparèle fatte in casa, gallina lessata con crauti, verdura cotta e gli immancabili crén e pearà, seguiti da formaggio del luogo e fugassa dolce casalinga

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detto stràto), anche quello arabescato con disegni mortuari color argento. Se il “morto” era stato socio della confraternita del “Santissimo”, sopra la bara veniva disteso il suo abito da confratel (camice bianco, mantellina rossa, cingolo e medaglione); il confratèl e la consorèla, anche dopo morti, godevano di un ulteriore beneficio per la loro lunga appartenenza alla congregazione, la gratuità, cioè, dell’obito, della messa di setimo e di quella del trigesimo. Il corteo funebre, tanto quello che prima aveva accompagnato in chiesa il morto, come quello che, dopo la messa lo accompagnava al cimitero, era formato dalla croce astile in testa, accompagnata da due portatori di torce (confratelli, se si trattava di un socio), seguita poi dai ragazzini, dalle donne, dal prete e dalla bara (anch’essa portata a spalle dai confrateIli nel caso del socio defunto). Seguiva un folto stuolo di soci della compagnia e, infine, gli uomini chiudevano il corteo. A seconda che il deceduto fosse

uomo o donna, i ragazzi o le ragazze portavano le girlande (corone), preparate dalle donne nelle stalle o nelle case nelle serate precedenti. Di forma rotonda, esse venivano confezionate molto alla buona, usufruendo di materiali alÌa portata di mano e... di borsa; poggiavano su un’intelaiatura di giovani rami di piante del luogo (noselàro, in montagna; stropàro, in campagna o altro legno flessibile), abbelliti con rami di piante sempreverdi (rododendro, in montagna), e fiori di carta colorata (la carta da fiori), che si fabbricavano a mano, di sera, durante il filò nella stalla, usando ferri da calze e filo di ferro sottile. AI funerale non partecipava, di solito, la moglie del defunto, se ella era ancora viva; aiutata da altre donne della contrada e della corte o dai parenti più prossimi, ella “doveva” preparare il tradizionale e scontato pranzo del morto: minestra in brodo con i figadini (fegatini) e paparèle fatte in casa, gallina lessata con crauti, verdura cotta e gli immancabili crén e pea-

rà, seguiti da formaggio del luogo e fugassa dolce casalinga. Il tutto bagnato da abbondanti libagioni che, il più delle volte, verso sera, finivano per trasformare quella giornata, di per sé triste e malinconica, in un’occasione scandalosa, a causa di certi discorsi che andavano subito a finire sul sodo: sull’eredità. Si credeva moltissimo in una presenza ininterrotta dell’anima del defunto nelle case dopo la morte naturale, specialmente quando, per disgrazia, il defunto non si fosse potuto confessare prima di morire, e si dice che spesso le anime si “facevano sentire”,“davano i segni”, facendo rumori di notte sui solai, nei granai, in stalla, in corte, per cui i familiari ricorrevano immediatamente a benedizioni particolari e a celebrazioni di messe da morto in loro suffragio. La morte comunque, presso le popolazioni contadine della Lessinia, veniva accettata come una “fatalità”, come dice il seguente proverbio: «O che te stè ben, / o che te stè male, / o che te vè soto el cavessàle...».

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Tradizioni TRACCE NELLA LESSINIA DEI CIMBRI

La festa di Halloween: cos’è, da dove viene Dietro una ricorrenza fatta rivivere per scopi commerciali scopriamo che la zucca e i riti che l’accompagnano non sono estranei alla nostra cultura

La zucca, il cui ciclo vegetativo si conclude proprio nel periodo dedicato alla commemorazione dei defunti, era il simbolo che le antiche popolazioni che abitavano anche il nostro territorio attribuivano all’anima degli estinti

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di Alessandro Norsa Tornano per dissetarsi e nutrirsi, per allontanare le malvagità o per giocare a carte. Per assistere alla Messa o recitare il rosario lungo le vie del paese. Tante sono le credenze legate al ritorno dei defunti nelle diverse zone d’Italia. Si tratta di tradizioni nate dall’idea che la vita e la morte siano comunque, sempre, inevitabilmente associate. Ma non solo: rappre-

sentano anche il modo, per i vivi, per continuare a mantenere forti legami con i propri defunti, per sentirli più vicini. Queste tradizioni si trovavano fino a poco tempo fa anche a nord della provincia di Verona, nel territorio lessinico, un tempo abitato dai cimbri. Anche se Bruno Schweizer, che condusse delle ricerche negli anni ’40 del secolo scorso, documenta che, in alcuni paesi cimbri, la ricorrenza del giorno di Ognisanti veniva festeggiata cuocendo “la minestra dei morti” (di suppa von di armel sel), erano le zucche in questo contesto le vere protagoniste di

quelle manifestazioni giocose dei bambini che caratterizzavano il periodo dei morti nella montagna veronese. La zucca, il cui ciclo vegetativo si conclude proprio nel periodo dedicato alla commemorazione dei defunti, era il simbolo che le antiche popolazioni che abitavano anche il nostro territorio attribuivano all’anima degli estinti. A tal proposito un informatore di Roverè veronese racconta: “La zucca era montata su di un bastone che il mascherato teneva in mano; un tabarro, infine, ne copriva la testa e il resto del corpo; queste mascherate venivano chiamate Lumiere”. La zucca era posta sulla testa e la persona sembrava così molto più alta del normale e il tutto le conferiva un aspetto particolarmente spettrale. Le persone che componevano il piccolo corteo “terrifico” erano generalmente tre. Gli altri due avevano dei tabarri scuri e un cappellaccio nero in testa. Non portavano una vera e propria maschera sul viso, ma potevano avere il volto dipinto (ad esempio potevano disegnarsi dei baffi) per rendersi meno riconoscibili. Si appostavano fuori dalle stalle ed aspettavano che le persone uscissero dai filò. Le prime volte che le persone vedevano questo mascheramento si spaventavano moltissimo, poi ci facevano l’abitudine. Gli intervistati ricordano, però, che anche qualche anziano,

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Tradizioni

“La zucca era montata su di un bastone che il mascherato teneva in mano; un tabarro, infine, ne copriva la testa e il resto del corpo; queste mascherate venivano chiamate Lumiere. La zucca era posta sulla testa e la persona sembrava così molto più alta del normale e il tutto le conferiva un aspetto spettrale”

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che nel tempo avrebbe dovuto essersi abituato, reagiva con una certa emotività alla loro vista. Questi scherzi venivano organizzati nei 15 giorni compresi tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre. Nel vicentino antiche tradizioni legate al periodo dei morti si sono in parte conservate: in alcuni paesi, nelle campagne intorno a Vicenza, la mattina del due novembre le donne si alzano più presto del solito e si allontanano dalla casa dopo aver rifatto i letti per bene, perché le povere anime del purgatorio possano trovarvi riposo per l’intera giornata. Altre tradizioni si stanno perdendo o sono definitivamente estinte. A ricordarle sono ormai

solo gli anziani, preziosi custodi delle tradizioni popolari e delle celebrazioni religiose di un tempo; e sono loro a riportare la memoria a quella usanza che, all’inizio del secolo scorso, portava nelle campagne dell’Alto vicentino a svuotare le zucche, dipingerle e farle assumere forma di teschi all’interno dei quali porre una candela. Dalle testimonianze del professor Terenzio Sartore di Marano, vicentino, coordinatore di un gruppo di ricerca sulla civiltà rurale, leggiamo: “Da giovane, ho sempre visto questa zucca trasformata in morto. La morte con la “suca”, detta anche “suca dei morti”, o testa da morti, era uno scherzo un po’ macabro che si fa-

ceva ai bambini o alle ragazze quando si sapeva dovevano passare di sera, soli, per qualche luogo isolato”. Sarebbe riduttivo pensare che queste espressioni popolari fossero circoscritte solo nel territorio limitrofo a Verona. Sempre nel Veneto, a Cancia, frazione di Borca nella Val del Boite, in provincia di Belluno, un altro informatore, che abbiamo intervistato sull’argomento, racconta: “Negli anni ’40, a fine ottobre i ragazzi costruivano un trepiede con sopra una zucca scavata con dentro un lumino, che poi posizionavano vicino alla strada. Si divertivano quindi ad osservare le espressioni spaventate degli automobilisti di passaggio. Il valore che i ragazzi davano a questi rituali era di “scherzo”. La zucca scavata e illuminata al suo interno da una candela rappresentava la morte”. Lo stesso informatore racconta che anche qui, come a Roverè Veronese, “il mascheramento consisteva in un mantello che copriva anche il viso per non essere riconosciuti. Questo artifizio veniva usato anche per spaventare i vecchietti per le strade, che appunto pensavano che la morte li inseguisse; a volte questi, spaventati, reagivano proprio come se si trovassero di fronte alla “Signora delle tenebre”, scappando o, se erano sprovveduti, intavolando un dialogo per chiedere perdono per i propri peccati e la salvezza della propria anima. Anche le persone che non avevano gli scuri alle finestre erano vittime prescelte del gruppo di ragazzi che si attardavano di sera per le strade a fare scherzi”. Quindi quelle che a Verona erano le Lumiere, a Vicenza era la “suca dei morti”, in altre parti del Veneto la “Suca Baruca”, ma non solo; tracce nei ricordi degli anziani di altre regioni portano a riscoprire le Lumere a Milano e la Piligréna a Lugo di Romagna. Altri esempi di zucche scavate, illuminate dall’interno ed esposte si trovano anche in Romania e in Portogallo in luoghi anticamente a contatto con popolazioni celtiche (o nelle zone limitrofe). La nostra idea è che questo genere di manifestazioni sia la rappre-

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Tradizioni sentazione di un culto dei morti di antichissime origini, riscontrabile in ogni parte del mondo (anche nella Nuova Guinea ad esempio si festeggia il ritorno dei morti) e che quella che stiamo osservando sia di derivazione celtica. Gli antichi Celti iniziavano il loro anno il 1° novembre, celebrando la fine della “stagione calda” e l’inizio della “stagione di Tenebra e Freddo”. Questa ricorrenza segnava la fine dei raccolti e l’inizio dell’inverno. I Celti erano un popolo dedito all’agricoltura e alla pastorizia, quindi la fine dell’estate assumeva una rilevanza particolare perché la vita cambiava radicalmente: le greggi erano ricondotte a valle e le persone si chiudevano nelle loro case per trascorrere al caldo le lunghe e fredde notti invernali. L’antica cultura celtica era permeata di leggende attorno alle quali ruotavano tradizioni e riti. I Celti credevano infatti che alla vigilia di ogni nuovo anno (il 31 ottobre) Samhain, Signore della Morte, Principe delle Tenebre, chiamasse a sé tutti gli spiriti dei defunti. Una leggenda riferisce che tutte le persone morte l’anno precedente sarebbero tornate sulla terra in cerca di nuovi

I Celti credevano infatti che, alla vigilia di ogni nuovo anno (il 31 ottobre), Samhain, Signore della Morte, Principe delle Tenebre, chiamasse a sé tutti gli spiriti dei defunti. Una leggenda riferisce che tutte le persone morte l’anno precedente sarebbero tornate sulla terra in cerca di nuovi corpi da possedere per l’anno successivo

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corpi da possedere per l’anno successivo. Era necessario per placare gli spiriti erranti e per ossequiare la divinità fare dei sacrifici. Si offrivano a tale scopo grano ed animali per assicurarsi la prosperità futura. La tradizione popolare riferisce che la notte di Samhain si praticavano dei riti divinatori che riguardavano le previsioni metereologiche, i matrimoni e la fortuna per l’anno venturo. Vi erano due riti: quello dell’immersione delle mele e quello dello sbucciare la mela. L’immersione delle mele era una divinazione per un matrimonio: la prima persona che avrebbe morso una mela sospesa nell’acqua si sarebbe sposata l’anno seguente. Sbucciare la mela era invece una divinazione sulla durata della vita. Più lungo era il pezzo di mela sbucciato senza romperlo, più lunga sarebbe stata la vita di chi la sbucciava. Dopo i sacrifici si festeggiava per 3 giorni, dal 31 ottobre al 2 novembre. I Celti si mascheravano con pelli di animali uccisi per esorcizzare e spaventare gli spiriti. Vestiti con queste maschere grottesche tornavano al villaggio illuminando il loro cammino con lanterne costituite da zucche intagliate, al cui interno erano poste le braci del Fuoco Sacro. Il collegamento che stiamo osservando in diverse situazioni tra frutti della terra (mele, zucche) e anime è dovuto al fatto che nelle religioni primitive il culto dei morti era collegato ai culti agrari per la fertilità della terra. Secondo questa convinzione i defunti erano sotterrati in attesa di una loro rinascita, come rinasce la pianta dalle sementi inerti interrate. Nel 400 a.C. i Celti, partendo dal proprio territorio d’origine nella regione della Oder (ex-Germania orientale), conquistarono l’Etruria Circumpadana (nord-est Italia), arrivarono ad oriente nell’attuale Romania intorno al 300 a.C. e quindi lasciarono tracce delle loro tradizioni nelle aree conquistate. Durante il primo secolo d.C. i Romani, condotti dall’Imperatore Claudio, invasero la Bretagna nel frattempo celtizzata pure essa, e vennero a contatto con que-

ste celebrazioni. Anche i Romani avevano una ricorrenza intorno al 1° novembre; infatti onoravano in quel periodo Pomona, la dea dei frutti e dei giardini. Durante questa festività si offrivano frutti (soprattutto mele) alla divinità per propiziare la fertilità futura. Con il passare dei secoli il culto di Samhain e di Pomona si unificarono e l’usanza dei sacrifici fu abbandonata: al suo posto si bruciavano effigi. La pratica di mascherarsi da fantasmi e streghe divenne parte del cerimoniale. Successivamente il cristianesimo tentò di incorporare le vecchie festività pagane dando loro una connotazione compatibile con il suo messaggio; per questo motivo, nell’835 Papa Gregorio IV spostò la festa di Tutti i Santi dal 13 maggio al 1° novembre, e l’antica festa celtica chiamata “Samhain” prese il nome di “Halloween”, che è la forma contratta di “All Hallows Even” ovvero notte o “Eve” (vigilia) di Ognissanti.

Durante la seconda metà del ‘900, mentre in Italia con il tramonto della “civiltà contadina” stavano scomparendo, queste antichissime tradizioni rifiorivano in America, portate dagli immigrati europei, soprattutto irlandesi, legati alla propria cultura ed alla fede religiosa. La festività di Halloween, spogliata, completamente del valore propiziatorio agrario che i druidi celti conferivano al rituale (morte e rinascita della vita sulla terra), e spogliata del suo valore religioso (visita dei propri cari estinti), rientra in Europa quarant’anni dopo la sua scomparsa, prevalentemente per motivi commerciali.

Si ringraziano per la cotese collaborazione i seguenti informatori: Aldo Ridolfi, Alfeo Guerra e famiglia (area Verona e Lessinia), Madalina e Julian Ciuraru, Michela Vasiliu (Romania), Mariano Sala, Sisto De Lotto, Ambra Talamini (area del Val del Boite-Cadore).

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Personaggi Il debutto areniano di Luciano Pavarotti risale al 22 luglio 1972 con il “Ballo in maschera” di Verdi. Si presentò anche nella stagione successiva con “La Bohème” di Puccini, diretta da Peter Maag e nella “Lucia di Lamermoor”di Donizetti accanto al soprano Cristina Deutekom. Nel 1978 tornò ne “Il Trovatore” di Verdi con Katia Ricciarelli, Pietro Cappuccilli e Fiorenza Cossotto diretta da Gianandrea Gavazzeni. In questa occasione Muti stava facendo la stessa opera a Firenze e decise di venire a sentire il tenore a Verona. Al termine della “Pira”, Pavarotti “sparò” l’acuto finale, che Muti aveva eliminato perché non indicato sulla partitura da Verdi. Il pubblico dell’Arena esplose in uno scroscante e lunghissimo applauso e dopo lo spettacolo, a cena, Muti e Gavazzeni continuarono a stuzzicarsi su quell’acuto del tenore.

Ricordi in Arena Nel 1980 ultima opera in Arena fu “La Gioconda” diretta da Anton Guadagno dove tutti ricordano che l’ultima recita fu sospesa per un nubifragio. Luciano Pavarotti volle regalare al pubblico un assolo accompagnato dal pianoforte. Fu un trionfo, che lo ripagò con una bronchite, costringendolo ad annullare diversi impegni artistici. Il 25 agosto 1985 ci fu un gran Gala in suo onore diretto da Emerson Buckley con la partecipazione del soprano Rosalind Plowright. La stagione areniana del 1990 fu l’ultima occasione in cui Luciano Pavarotti cantò in Arena. La sovrintendenza di Francesco Ernani e la direzione artistica di Carlo Peducci avevano organizzato la realizazione di una “colossale” “Messa da Requiem” di G.Verdi alla quale

partecipò il World Festival Choir, composto da circa 2500 coristi provenienti da tutto il mondo, prepatati dal M°J.Jensen. Con il sostegno dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur), il coro fu insignito del titolo onorario di Ambasciatore speciale e le esecuzioni del 4 e 5 agosto furono dedicate ai quindici milioni di uomini perseguitati o cacciati dalla propria patria a causa della guerra. Alla serata del 5 agosto fu presente anche Lady D con la quale il tenore instaurò una profondissima amicizia. Il successo dello spettacolo era firmato da altri nomi di caratura internazionale: il direttore americano Lorin Maazel diresse coro e orchestra e oltre a Pavarotti cantarono il soprano americano Sharon Sweet, il mezzosoprano slavo Dolora Zajick (spesso accanto a Pavarotti in esibizioni americane) e il basso Paul Plinshka.

«Il tenorissimo» di Nicola Guerini Luciano Pavarotti nasce a Modena nel 1935. Il padre, di professione fornaio nell’esercito, ma cantante dilettante nella “Corale Gioachino

Gran Gala in Arena (1985)

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Rossini” di Modena, proietta la propria passione sul figlio, che già dall’infanzia si mostra coinvolto, utilizzando il patrimonio discografico del padre. In principio i suoi studi non sono esclusivamente musicali. Per diverso tempo, infatti, il canto rimane una passione coltivata privatamente, mentre Pavarotti è iscritto alle magistrali con lo scopo di diventare insegnante: egli, infatti, insegnerà alle elementari per due an-

ni. Nel frattempo, però, prosegue gli studi di canto con il Maestro Arrigo Pola e, quando dopo tre anni più tardi Pola andrà a lavorare in Giappone, seguirà gli studi con il Maestro Ettore Campogalliani, con il quale perfezionerà il fraseggio e la concentrazione. Nel 1961 Luciano Pavarotti vince il Concorso internazionale “Achille Peri” che segna il suo vero esordio. Lo stesso anno Pavarotti debutta al Teatro Municipale di Reggio Emilia, con la direzione di Francesco Molinari Pradelli, con “Bohéme” di G.Puccini, opera divenuta signi-

ficativa, più volte ripresa anche in tarda età, sempre nei panni di Rodolfo. Sempre nel 1961, dopo otto anni di fidanzamento Pavarotti sposa Adua Veroni. “La Boheme” gira diverse città italiane, ottenendo, per il successo, qualche scrittura all’estero. Intanto il giovane promettente tenore si cimenta nel ruolo del duca di Mantova in un’altra opera particolarmente adatta alla sua voce e che con il tempo gli permetterà di mo-


Personaggi strare una notevole sicurezza e una tecnica solidissima. Va in scena a Carpi e a Brescia ma è sotto la direzione del Maestro Tulio Serafin, al Teatro Massimo di Palermo, che ottiene un successo grandissimo e imprime una nuova significativa svolta alla sua carriera. Si aprono infatti le porte dei grandi teatri italiani, anche se all’estero, nonostante qualche scrittura prestigiosa, non viene quasi mai nominato dai critici. È sempre con “La Bohéme”, al Coven Garden Theatre di Londra, a dare risonanza al nome di Pavarotti, incrociando il suo nome con un mito di quegli anni, Giuseppe Di Stefano. Pavarotti viene chiamato infatti per alcune repliche dell’opera prima dell’acclamato tenore, ma poi Di Stefano si ammalò e Pavarotti lo sostituì. Lo sostituisce anche in teatro e anche per “Sunday Night at the Palladium”, uno spettacolo seguito da 15 milioni di inglesi. Da questo momento nasce il fenomeno Pavarotti facendolo apparire sull’intera scena mondiale. Le prime incisioni sono targate Decca Records, mentre il giovane

La Bohème al Filarmonico (1987)

Nel 1965 Luciano Pavarotti, ormai conosciuto per la sua voce straordinaria, debutta alla Scala di Milano con “La Bohéme”, dove il ruolo del tenore viene richiesto espressamente da Herbert von Karajan

La Bohème in Arena (1973)

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direttore d’orchestra Richard Bonynge gli chiederà di cantare al fianco della moglie, la straordinaria Joan Sutherland. Con lei, nel 1965, Pavarotti sbarca per la prima volta negli Stati Uniti, a Miami, dove interpreta Edgardo nella “Lucia di Lammermor” di Gaetano Donizzetti diretta da Bonynge. Anche “La Sonnambula” di Vincenzo Bellini, che debutta con successo al Coven Garden di Londra, lo vede al fianco di Sutherland. Pavarotti affronterà presto anche il ruolo di Nemorino nell’“Elisir d’amore”di G. Donizetti, in Australia, mentre la Sutherland lo affiancherà in “Traviata”di Giuseppe Verdi. Nel 1965 Luciano Pavarotti, ormai conosciuto per la sua voce straordinaria, debutta alla Scala di Milano con “La Bohéme”. É espressamente Herbert von Karajan a volerlo per quel ruolo e a richiederlo l’anno successivo per la Messa da Requiem di Verdi in Memoria di Arturo Toscanini. Del 1065-68 sono memorabili le intepretazioni dei “Capuleti e Montecchi” di Bellini con la direzione di Claudio Abbado e di uno storico “Rigoletto”

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Personaggi “Una voce tra le più grandi, simbolo di una cultura artistica alla quale guarda tutto il mondo”, così lo ricorda Francesco Ernani, oggi sovrintendente dell’Opera di Roma ed ex sovrintendente dell’Ente Lirico veronese

La Bohème al Filarmonico (1987)

PAVAROTTI IN ARENA: 1972 Ballo in Maschera 1973 La Boheme 1976 Lucia di Lammermoor 1978 Il Trovatore 1980 La Gioconda 1985 Concerto vocale strumentale 1990 Messa da Requiem PAVAROTTI AL FILARMONICO: 1979 Concerto Sinfonico 1987 La Bohème

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diretto da Gianandrea Gavazzeni. Nel 1966 Pavarotti e Sutherland tornano al Coven Garden per il debutto de “La figlia del Reggimento” di Donizetti,un’opera divenuta leggendaria sei anni dopo, quando, al Metropolitan Opera di New York, Pavarotti esegue a piena voce i nove “do di petto”, originariamente scritti per falsetto (“Pour mon ame, quel destin!), ricevendo una standing ovation che lo chiamo per 17 volte al sipario, un record storico. Intanto nel 1962 nasce la prima figlia, Lorenza, seguita nel 1964 da Cristina e infine nel 1967 da Giuliana. Nonostante il merito del suo successo vada interamente ricondotto al palcoscenico e alla musica “colta”, la continuazione della sua splendida carriera verrà segnata nelle sale d’incisione dove registrerà circa 100 album. Pavarotti è al vertice della sua scalata professionale e diviene anche un personaggio molto seguito anche dagli telespettatori, che gli assicurano, con la diretta dell’“Elisir d’amore” del 1977, l’indice d’ascolto più alto della storia delle opere trasmesse

in televisione. Nel 1980, il recital al Central Park di New York, un “Rigoletto”in forma di concerto si svolge alla presenza di oltre 200.000 persone. Dopo tutti questi successi il “tenorissimo”, nel 1981, organizzerà il triennale a Philaderphia. Continuando la sua frenetica carriera tra opera e recitals, nel 1990, insieme a Placido Domingo e Josè Carreras, Pavarotti crea il progetto “I tre Tenori”che si rivelerà vincente, sotto il profilo artistico ma indubbiamente anche economico. Vincitori di diversi Grammys e dischi d’oro e platino. L’anno seguente Pavarotti canta in un grandioso concerto nel verde del Hyde Park, a Londra, di fronte a oltre 250 mila persone: lo spettacolo viene trasmesso dal vivo in televisione in tutta Europa e negli Stati Uniti. La stessa iniziativa si ripeterà nel 1993 al Central Park, dove il pubblico supera le 500 mila persone. Il concerto seguito in televisione in tre continenti con milioni di ascoltatori, è sicuramente un momento artistici della carriera del tenore, che lo porterà ad esibirsi, nel settembre dello stesso an-

no, all’ombra della Torre Eiffel a Parigi. Pavarotti va ricordato anche per la sperimentazione del “Pavarotti & Friends”(1992-2003) dove la contaminazione di generi musicali diversi e la partecipazione di artisti pop e rock di fama internazionale ne hanno garantito il successo, tutto a scopo benefico verso azioni umanitarie. Nel 1993 e 1994 Pavarotti torna a cantare al Metropolitan di New York con “I Lombardi alla prima crociata”, debutta in “Pagliacci” di Leoncavallo e organizzerà un Gala per festeggiare i primi 25 anni di carriera. Nell’agosto 1994 conosce la sua futura compagna e moglie Nicoletta Mantovani. Il 1995 vede Pavarotti impegnato in una lunga tournée in Cile, Perù, Uruguay e Messico, mentre nel 1996 debutta con “Andrea Chénier” sempre al Metropolital di New York e canta in coppia con Mirella Freni alle celebrazioni torinesi per il centenario dell’opera “La Bohéme”. Nel 1997 riprende “Turandot” al Metropolitan, nel 2000 canta all’Opera di Roma per il centenario di “Tosca” e nel 2001, ancora al Metropolitan, riporta in scena “Aida”. Viene invitato a cantare in occasione del funerale di una sua carissima amica: la principessa Diana, morta nell’incidente del 31 agosto 1997. Egli però commosso declina l’invito. Nel 2004 organizzerà un addio ufficiale alle scene e, solo eccezionalmente canterà per la cerimonia di apertura dei giochi olimpici invernali 2006. Nel luglio 2006 viene operato urgentemente in un ospedale di New York per l’asportazione di un tumore maligno al pancreas. Per la convalescenza si trasferisce presso la sua villa di Modena lottando con tenacia contro il cancro che lo spene all’età di 71 anni, il 6 settembre 2007. Nel settembre 2007 Pavarotti riceve il Premio per L’Eccellenza nella Cultura, assegnato dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. “Una voce tra le più grandi, simbolo di una cultura artistica alla quale guarda tutto il mondo”, così lo ricorda Francesco Ernani, oggi sovrintendente dell’Opera di Roma ed ex sovrintendente dell’Ente Lirico veronese.

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Personaggi

Nel 2008 i 150 anni dalla nascita dell’artista veronese

Angelo Dall’Oca Bianca «Istituisco mio erede universale il Comune di Verona. Ciò faccio per attestare alla mia città l’infinito amore che ho sempre nutrito per essa»

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di Marzia Sgarbi “Nomino ed istituisco mio erede universale il Comune di Verona. Ciò faccio per attestare alla mia città l’infinito amore che ho sempre nutrito per essa e quale riconoscente omaggio alla dolce ispirazione che la sua incomparabile bellezza e la bontà del suo popolo hanno dato alla mia Arte...”. Sono parole di Angelo Dall’Oca Bianca, un testamento dal valore sia giuridico che spirituale che racchiude l’intero senso di una vita umana e artistica vissuta a Verona e per Verona. Indiscusso personaggio del panorama culturale della città tra i secoli XIX e XX, il Dall’Oca Bianca nasce nel 1858; dopo una prima giovinezza piuttosto turbolenta si dedica interamente all’arte, seguendo i corsi dell’Acca-

demia Cignaroli e ottenendo apprezzamenti e riconoscimenti sin dalle prime esposizioni; espone con successo nelle più grandi città italiane e all’estero, trattato dai critici come il più brillante rappresentante della cultura artistica veronese dai tempi di Paolo Caliari; miete trent’anni di consensi destinati ad interrompersi nel 1912, anno di una contestata mostra personale a Venezia che vede la sua arte accusata di aver ormai segnato il tempo. Il pittore, che con i suoi quadri ha portato fama e immagini di Verona fuori dai confini italiani ed europei, si ritira ora in una sorta di sdegnoso isolamento, rifiutando di partecipare ad altre mostre pur continuando a dipingere nell’intimità impenetrabile del suo studio, battagliando per difendere la “vecchia Ve-

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rona minacciata dal progresso civile”. I contemporanei, che mai smisero di amarlo, lo ricordano passeggiare per l’amata Verona, cappello bianco d’estate e mantella scura d’inverno, figura legata anche esteriormente a quell’Ottocento in cui ne risulta fondamentalmente radicata l’anima artistica, pittore che sembra fondersi con il proprio quadro, divenendo potenzialmente anch’egli parte di quella città che è il centro di tutte le sue opere; il Dall’Oca Bianca ama il mondo che rappresenta nei suoi dipinti, lo conosce, lo vive: è il pittore di Verona e della sua gente, delle sue strade, dei suoi mercati, degli amici illustri quali Simeoni e Barbarani e degli umili, delle lavandaie, della spensierata giovinezza e dell’amara solitudine della vecchiaia, dei co-

lori e degli umori di un secolo al tramonto. È il pittore di Piazza delle Erbe, soggetto di tanti suoi quadri e in un certo senso simbolo del suo legame con la città: per la sua salvaguardia intraprende una vittoriosa battaglia iniziata nel 1902 e durata ben diciassette anni contro la pubblica amministrazione cittadina, accusata di volerne un rinnovamento architettonico che ne avrebbe compromesso per sempre la monumentale storicità; l’isolamento artistico del pittore non assume mai, quindi, la connotazione di isolamento culturale, il Dall’Oca rimane ben calato nella realtà della sua Verona, sia questa da intendersi come la città dei monumenti o come la città della gente. Il Villaggio che porta il suo nome lo testimonia: Angelo Dall’Oca Bianca, che da sempre culla il so-

gno di poter dare una casa anche ai più poveri, nel 1937 dona il ricavato della vendita di un dipinto intitolato Ave Maria agli abitanti di quelle Casematte che nell’arco di due anni saranno sostituite proprio dal Villaggio, costruito dal Comune di Verona grazie ai suoi fondi e ampliato in seguito al suo lascito testamentario, dimostrazione che, anche negli anni successivi alle grandi esposizioni, egli non dipinge mai veramente “per sé solo”, come afferma in un moto d’orgoglio, ma dipinge ancora per Verona. Si spegne nel 1942 nella sua abitazione, dopo aver richiesto all’erede Comune di Verona di raccogliere le sue più importanti opere in una luminosa galleria cittadina e di essere tumulato nel centro di quel Villaggio che egli ama al punto da chiamare “mio”.

Sopra: Angelo Dall’Oca Bianca, Primavera in Piazza delle Erbe. 18901891, olio su tela. Collezione privata



Territorio SUSTINENZA-CASALEONE

Seppellisce il suo tesoro e se ne va in guerra Duemila anni dopo ritrovano le sue monete Il ritrovamento del primo ripostiglio risale esattamente al 24 febbraio 1888, quando alcuni contadini, che lavoravano nei terreni della nobile famiglia Romanin Jacur in località Borghesana, trovarono, nel punto detto l’argine del Cavriolo, un’olla di terracotta a poca profondità, contenente antiche e sconosciute monete

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di Stefano Vicentini Un abitante del contado di Bastione San Michele saluta la sua terra, non sapendo che si tratta di un addio, donandole un segreto da custodire gelosamente. Corre l’anno 50 avanti Cristo ed avviene la chiamata alle armi per partecipare alla guerra civile tra Giulio Cesare e Pompeo, uno scontro fratricida che comincia al limes del Rubicone, al confine nord con la Gallia Cisalpina. Quel possidente terriero, che s’appresta a diventare soldato, non tornerà più, ma sa che la terra è una mater che saprà custodire a lungo le sue sostanze. Sotterra, infatti, in due diversi ripostigli, col piglio di chi vuole sottrarlo ad ogni trafugamento dimezzandone il pericolo, un quantitativo ingente di monete del periodo repubblicano di Roma. Il posto è strategico, sufficientemente lontano dalle direttrici del traffico d’allora, la via tra Mantua e Ateste (Mantova/Este) e quella per Hostilia (Ostiglia). Un piccolo Eldorado di oltre 2000 anni fa, dunque, localizzato tra le strade della pianura basso-veronese, l’antica terra di Carpanea che oggi le carte geografiche identificano con la tenuta di Borghesana, sulla riva sinistra del fiume Tartaro, nella frazione Sustinenza di Casaleone: la proprietà è privata ma lasciata ancora all’aperta campagna, così da rappresentare

un sito ottimo per lo studio come ager ben conservato, ricostruendo i segni della centuriazione romana. Tra questi appezzamenti sono state ritrovate in due bottini ben 2051 monete, denari e quinari che coprono un arco cronologico che va tra il 206, periodo della seconda guerra punica, e l’età cesariana. Il “tesoret-

to” – così chiamato perché diviso in due – è stato scoperto a distanza di diversi secoli, ed è una grande fortuna averlo oggi a disposizione per capire meglio il Veneto in età romana approfondendo gli studi di storia, archeologia, economia, numismatica, società, cultura e religione. Il ritrovamento del primo ripostiglio

Alcune monete del “Tesoretto” ora conservate al Museo di Castelvecchio

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Un’altra anfora con 1028 monete fu rinvenuta il 20 aprile 1901 in un punto vicino al precedente. Recentemente, nel marzo 2003, queste sono state a loro volta donate dagli eredi Romanin Jacur di Padova al Museo di Castelvecchio, che ora possiede tutti i 2051 denari e quinari repubblicani

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risale esattamente al 24 febbraio 1888, quando alcuni contadini ,che lavoravano nei terreni della nobile famiglia Romanin Jacur in località Borghesana, trovarono, nel punto detto l’argine del Cavriolo, un’olla di terracotta a poca profondità, contenente antiche e sconosciute monete. Ne trattò allora, in un articolo sulla “Provincia di Mantova”, l’archeologo mantovano Attilio Portioli che mosse un vivo interesse tra gli studiosi. Il sindaco di Casaleone, Giovanni Battista Bertoli (1811-1895), medico oculista e possidente terriero, concordò coi proprietari Emanuele, Leone e Michelangelo Romanin Jacur – personalità collegate ai rami influenti della finanza ebraica e rilevanti nel ceto agrario scaligero – la donazione del ritrovato monetale al Museo Civico di Verona. Un’altra anfora con 1028 monete fu rinvenuta il 20 aprile 1901, ancora nel corso di attività in campagna, in un punto vicino al precedente. Recentemente, nel marzo 2003, queste sono state a loro volta donate dagli eredi Romanin Jacur di Padova al Museo di Castelvecchio, che ora possiede tutti i 2051 denari e quinari repubblicani. Completata l’acquisizione del tesoretto delle due giare di Sustinenza-Casaleone da parte del museo scaligero, è subito iniziata una profonda opera di esame, che va ben oltre gli accertamenti d’inventario, della dr.ssa Denise Modonesi, curatrice della sezione Numismatica, sulla scia delle ricerche del professor Giovanni Gorini dell’Università di Padova, responsabile per la Regione della catalogazione e pubblicazione del patrimonio monetale veneto. Lo studio per catalogare il tesoretto ha avuto come fonte il Roman Republican Coinage (1974) di M.H. Crawford. Dalle monete d’argento si viene a ricomporre il tessuto di uno splendido periodo della potenza romana, nel confronto con la cultura greca. Ne è testimonianza la raffigurazione sui tondi di divinità pre-olimpiche e olimpi-

che, l’assimilazione dei culti laziali, l’excursus dalle mitiche origini di Roma alla formazione di un robusto Stato sulle fondamenta delle virtù morali (ad esempio virtus, concordia, pietas). Una sfida per lo studioso è l’identificazione della figura sul soldo, in una ricca varietà di possibilità: così emergono tra i preolimpici Saturno/Crono, Cibele “madre degli dei” e il dio sabino Sole, tra gli dei olimpici Giove, i Dioscuri e Giunone sospita (salvatrice), Apollo, Nettuno, Diana, Venere, Minerva. Emblema dell’età aurea di Roma è senz’altro la cornucopia, il corno colmo di frutti che è metafora dell’abbondanza di sostanze e dell’ottimismo all’indomani delle guerre puniche. Nel periodo del secondo conflitto contro Cartagine, lo stato romano emette il primo denario, ovvero un nominale d’argento raffigurante davanti la personificazione di Roma e dietro i Dioscuri, i due figli di Giove: dalle due facce evidentemente si evince che Roma intende intraprendere un cammino d’autonomia nella propria identità ma riconosce nel contempo l’innesto nelle radici della spiritualità greca. Vi sono dunque varie sollecitazioni da questo patrimonio per gli studi. La collezione numismatica di Castelvecchio si è veramente arricchita nel 2003, oltre a produrre un’interessante esposizione del ritrovato denaro repubblicano nell’aprile 2004, nella sala civica del Comune di Casaleone per interessamento del sindaco Gabriele Ambrosi. Tra le promesse fatte dall’allora amministrazione comunale di Verona c’è stata quella di dedicare una parte dei piani superiori dell’Arsenale, conclusi i restauri, a queste monete, che verrebbero così illuminate in maniera permanente. Inoltre, si sta attualmente svolgendo uno studio rigoroso e dettagliato per pervenire ad una più completa definizione dell’intero tesoretto, come caratteristiche tecniche ed effettivo valore storico.

Giovanni Battista Bertoli (1811-1895), sindaco di Casaleone, concordò coi proprietari del terreno dove furono ritrovate le prime monete la donazione al Museo Civico di Verona

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Territorio Forte San Marco, sulla dorsale Ovest della Valdadige

VAL D’ADIGE

I nostri forti Dal territorio di Rivoli fino a Camporengo. Ma anche Cavaion, Pastrengo, Castelnuovo, fino alla Lombardia. Sono i luoghi di aspre battaglie, dove gli eserciti si organizzarono per resistere al nemico

Le vicende della Prima Guerra d’Indipendenza costrinsero gli Austriaci a fortificare con opere fisse la zona di Rivoli, Ceraino, Pastrengo, partendo dal 1849 e fino al 1852 con il Forte di Rivoli, utilizzando l’opera degli abili scalpellini e lapicidi della zona

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di Marco Comencini Il territorio compreso tra lo sbocco della Val dell’Adige e gli anfiteatri morenici di Rivoli e del lago di Garda ha avuto fin dai tempi antichi un ruolo importante dal punto di vista strategico, perché attraversato dalla via di transito tra il nord e la pianura Padana e perché risultava fortificato naturalmente dalla morfologia geologica. Anche nel medioevo e fino al XVIII secolo, questa via di transito assunse una grande importanza per gli eserciti che scendevano dalla Val dell’Adige attraversando il territorio di Rivoli, fino a Camporengo e poi per Cavaion, Pastrengo e Castelnuovo per dirigersi verso la Lombardia.

Questa via fu utilizzata in senso inverso anche da Napoleone nella campagna d’Italia del 1796 e durante la battaglia di Rivoli del 14 e 15 gennaio 1797 che vide la sconfitta austriaca. Nel 1798-99 gli austriaci costruirono due campi trincerati ad ovest di Rivoli e sui colli tra Pastrengo e Bussolengo con trincee e terrapieni per difendersi da attacchi francesi verso Verona e verso la Val d’Adige, che furono occupati per breve tempo anche dai francesi nel marzo del 1799. Le vicende della Prima Guerra d’Indipendenza con i piemontesi che occuparono in parte questi territori, costrinsero gli Austriaci a fortificare con opere fisse la zona di Rivoli-Ceraino-Pastrengo,

partendo dal 1849 e fino al 1852 con il Forte di Rivoli, e dal 1860 al 1862 con Pastrengo, utilizzando l’opera degli abili scalpellini e lapicidi della zona. Tra il 1849 e il 1852 per proteggere la strada per il Brennero e lo sbocco della Val d’Adige gli Austriaci crearono la Piazza di sbarramento di Rivoli-Ceraino con la costruzione di quattro forti, la Chiusa Veneta, il Forte Ceraino e il Mollinary a Monte di S. Ambrogio vennero collocati a destra dell’Adige e il Forte Rivoli a sinistra Adige sul Monte Castello. Il progetto delle opere venne svolto dall’Ufficio delle Fortificazioni di Verona, che tenne conto sia della posizione geografica, della morfologia del territorio e delle

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Territorio Il Forte Monte, chiamato Forte Mollinary in onore del generale austriaco Anton Von Mollinary, è stato edificato tra il 1849 ed il 1852 su un ripiano ad ovest del paese di Monte nel Comune di S. Ambrogio

Il forte di Monte

esperienze maturate nelle precedenti campagne militari. I forti erano volumetrie assai complesse nella distribuzione ed organizzazione interna degli spazi imposta da precisi criteri di alloggiamento, protezione dei soldati, di dislocamento dei depositi di vario genere e delle possibilità operative nel momento del combattimento. Nei forti si riscontra una lavorazione precisa ed accurata delle pietre delle quali erano costituite le murature interne ed esterne; i criteri progettuali militari l’accurata direzione dei lavori e forse anche il desiderio di raggiungere un perfezionismo che andava oltre le pure necessità belliche ha portato a ritrovare ancora oggi esempi costruttivi mai rilevati in altre costruzioni. Anche nelle opere fortificate minori, l’uso della pietra è quanto mai esteso per il contenimento del terreno nelle trincee e nei posti di vedetta, nelle feritoie e per il posizionamento di armi, fucili e mitragliatrici; per la costruzione dei depositi di vario genere, per il ricovero dei soldati a ridosso della prima linea. Tutti i quattro forti furono costruiti su terreno roccioso appartenente ai calcari oolitici del

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Dogger e del Lias superiore (Ceraino e Rivoli) e Rosso Ammonitico del Malm (Monte). Le quattro fortificazioni erano molto vicine tra loro a circa 800/900 metri di distanza, e tale vicinanza permetteva l’incrocio di tiro di artiglieria tra forte e forte con il risultato di una migliore difesa dello sbocco della Valdadige. Il Forte Chiusa Veneta venne costruito tra il 1849 ed il 1851 alla quota di 115m. s.l.m., come sbarramento della strada del Brennero in riva all’Adige, collocato sul posto di un fortilizio esistente già in epoca veneziana. Si trattava di un parallelepipedo a due piani con pianta rettangolare, costituito da casamatte con batterie sui due piani rivolte sia a nord come a sud ed una caponiera semicilindrica verso il fiume, mentre una muratura apposita era destinata alla fucileria. Il Forte Monte, chiamato Forte Mollinary in onore del generale austriaco Anton Von Mollinary, è stato edificato tra il 1849 ed il 1852 su un ripiano ad ovest del paese di Monte nel Comune di S. Ambrogio, ad una quota di 410 mt. s.l.m., interamente realizzato

con conci di pietra in Rosso Ammonitico, con pianta irregolare adattata alla conformazione del terreno costituito da due livelli distinti. L’accesso al forte avviene attraverso un portale bugnato, ora parzialmente demolito, che era protetto sul lato ad est contro il monte, da un fossato intagliato nella viva roccia, con un ponte levatoio che permetteva l’accesso al forte stesso. Dopo l’ingresso troviamo il cortile al livello inferiore dal quale era possibile vedere tutta la valle verso Sud, invece il lato ad ovest presentava il ridotto con le cannoniere in casamatte su due piani. Al piano superiore troviamo un ampio piazzale che poteva accogliere alcuni pezzi di artiglieria allo scoperto, protetti però dal parapetto in pietra. Diversi locali erano destinati alla guarnigione che arrivava ad un centinaio di uomini. Il Forte Mollinary (Forte Monte) aveva il compito di battere il fondovalle della Chiusa, parte dell’anfiteatro di Rivoli e la zona a sud, incrociando il proprio tiro con il Forte di Rivoli e con quello della Chiusa, ed è collegato con l’abitato di Ceraino tramite una strada militare di circa 2 Km di

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Territorio Anche nelle opere fortificate minori l’uso della pietra è quanto mai esteso per il contenimento del terreno nelle trincee e nei posti di vedetta, nelle feritoie e per il posizionamento di armi, fucili e mitragliatrici...

lunghezza, realizzata scavando sul fianco roccioso del monte Pastello e costituita da sedici tornanti sostenuti da pregevoli muri di sostegno in pietra, dai quali è possibile vedere oltre il sottostante abitato di Ceraino, anche il Fiume Adige, l’anfiteatro morenico ed i Forti S. Marco e Rivoli. Il Forte Ceraino fu intitolato al luogotenente feldmaresciallo Johann von Hlavaty (1788-1870) come riconoscimento per la sua attività di architetto militare (diresse anche la costruzione di numerosi forti di Verona e della cinta muraria) ed è stato costruito sempre tra il 1850 ed il 1851, su un piccolo ripiano del Monte Pastello a quota 326m. s.l.m., realizzato anch’esso con conci in pietra di Rosso Ammonitico. Il forte è dotato di una recinzione esterna, che racchiude a nord le cannoniere in casamatta protette da uno strato di terra battuta di spessore oltre due metri, mentre a sud di trova il ridotto a forma di parallelepipedo. All’interno vi sono grandi cisterne per l’acqua piovana raccolta con un ingegnoso sistema di canalizzazioni e pozzetti dalla coperture e dai piazzali interni. Pregevoli e ben studiati sono alcuni particolari architettonici, come ad esempio le cannoniere, le scale interne, i corridoi, i magazzini ecc. Il forte era armato con una quindicina di bocche da fuoco e doveva battere la Val Lagarina verso

Il forte di Ceraino

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Forte Monte. Particolare muratura con conci in rosso ammonitico

Dolcè, il monte S. Marco ed una parte dell’anfiteatro di Rivoli, incrociando il suo tiro con i forti di Rivoli e di Monte. Dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia del 1866, il confine con l’Austria era stato portato ai margini settentrionali della Lessinia, pressappoco lungo il ciglio dove l’altopiano precipita nella Val d’Adige e nella Val di Ronchi. Tuttavia appena 20/25 Km in linea d’aria separavano gli austriaci da Verona; pur trattandosi di terreno montuoso e quindi adatto alla difesa, era ben poca cosa nel caso di un efficace attacco del nemico, per proteggere le città pedemontane di Verona e Vicenza, raggiunte le quali le forze impe-

riali avrebbero avuto la pianura padana a portata di mano. Lo Stato Maggiore Italiano predispose ed attuò una serie di interventi per la difesa dei nuovi confini. I forti costruiti dagli austriaci a cavallo dell’Adige, a Rivoli e Ceraino, furono rimodernati ed adattati con l’inversione di tiro verso nord, mentre il forte di Monte e quello della Chiusa non subirono modifiche; quest’ultimo in verità per la sua particolare posizione era stato progettato per una difesa sia verso nord che verso sud. Tra il 1884 e il 1913 venne completata e ulteriormente potenziata la difesa dello sbocco della Val d’Adige con la costruzione di altri 5 forti: la Tagliata di Incanale di Rivoli sulla strada a destra del fiume, nei pressi di Canale, Forte S. Marco sulla dorsale ad ovest della Val d’Adige, Cima Grande a Naole nel territorio di Caprino e Forte Masua a nord del Monte Pastello sull’altopiano lessinico nel territorio di Fumane, che completavano così il sistema difensivo della “Linea delle Alpi”. Le vicende politiche nell’ambito delle relazioni tra gli stati europei, relazioni che progressivamente si deteriorarono in misura allarmante, convinsero lo Stato Maggiore a potenziare la difesa della Lessinia, così furono realizzati altri due forti; uno sul Monte Tesoro presso Fane e l’altro sul Monte S. Viola vicino ad Azzago.

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Territorio

SANT’AMBROGIO DI VALPOLICELLA

L’uomo e la pietra. Storie di scalpellini Grazie al diario di un’anziana testimone e con l’aiuto degli storici ecco riemergere dal passato le vicende dei tagliapietre della Valpolicella Quella di Marcella è una storia familiare emblematica di un’epoca e di una regione

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di Massimo Rimpici C’è un “popolo” – uno dei tanti – che ha abitato le contrade della provincia veronese. È “gente” che ha vissuto in una piccola regione, una porzione del territorio veronese, un angolo della Valpolicella, nel Comune di Sant’Ambrogio: il popolo degli scalpellini. Lo spunto a trattare, ad indagare questo “ceppo”, viene da un non-libro, una pubblicazione non ufficiale, un testo “mai scritto” ma che c’è,

esiste ed è leggibile: quasi un diario. È stato redatto di recente dalla mano tremolante e leggera di una ottantanovenne, protagonista di quei territori e di quelle epoche. Si perché qui si va a ritroso nel tempo, fino al primo Novecento. Il testo è soprattutto il frutto di un lavoro amorevolmente sollecitato e accompagnato da una nipote verso la propria zia. Un affetto intenso e profondo, suggellato, oltre dal fatto di portare lo stesso cognome, dal destino (e dalle usanze

dell’epoca) di chiamarsi con lo stesso nome: Marcella. Per comodità e per scelta inizieremo ad esplorare il periodo più recente, ma la storia dei tagliapietre di Sant’Ambrogio si perde nella notte dei tempi: è noto a tutti che il monumento più celebre di Verona, l’Arena, fu costruito con il materiale di escavazione (marmo “rosso scuro intenso”) proveniente dai bacini lapidei di quella zona della Valpolicella. Prenderemo a prestito la storia

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Territorio della famiglia di Marcella per rievocare un periodo, un territorio, una stirpe. È una storia familiare emblematica di un’epoca e di una regione. Il papà di Marcella, Beniamino Vittorio, è figlio d’arte: il padre era anch’egli uno scalpellino. Lui, Beniamino, rimasto orfano molto presto, come parecchi suoi coetanei inizia a lavorare già all’età di dieci anni (1893). Ha la fortuna però – rara in quel periodo – di frequentare contemporaneamente la scuola d’arte. Il ragazzo è sveglio, intelligente, impara presto e diventa a breve l’allievo prediletto del suo insegnante: il professor Romeo Cristiani dell’Accademia Cignaroli di Verona, distaccato alla Scuola d’Arte di Sant’Ambrogio due volte la settimana. Quando però anche il padre muore, Beniamino è costretto a lasciare il laboratorio veronese e a tornare in Valpolicella. Siamo agli inizi del nuovo secolo e non è uno dei periodi migliori per il comparto marmifero. La crisi del settore mette in ginocchio Sant’Ambrogio. Molti “spezzamonte” sono costretti a emigrare. A differenza dei comuni limitrofi (Marano, San Pietro in Cariano, Pescantina, Fumane, Negrar) che vivono essenzialmente di agricoltura, gli ambrogiani sono fra i pochi in quegli anni che riescono a sbarcare il lunario lavorando in un settore a cavallo fra l’artigianato e l’industria. La fatica è notevole (i primi telai idraulici verranno introdotti solo alla fine del 1800), la silicosi un’insidia sempre presente (bisognerà aspettare la seconda metà degli anni Trenta per vedere all’opera gli impianti di ventilazione), le condizioni di lavoro sono molto difficili (il martello pneumatico vedrà la luce parecchi anni dopo, in America) e la divisione fra la classe che ottiene le concessioni di sfruttamento delle cave e quella che lavora a segare il marmo si accentua. I lavoratori sono spinti ad organizzarsi per aiutarsi fra loro e per cercare di ottenere migliori condizioni di lavoro. Questo sarà uno dei motivi (l’altro lo vedremo fra poco) per cui risulterà, quella di Sant’Ambrogio, una società molto più “politicizzata” di altre. È qui che si svilupperan-

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no le prime lotte di inizio secolo fra classe imprenditoriale e lavoratori ma anche fra fazioni “rosse”, di ispirazione socialista e “bianche”, di ispirazione cattolica, nate all’ombra del campanile e che in contrapposizione alle prime rifiutano lo scontro fra “padronato e proletariato” ponendosi come obbiettivo la promozione di una comunità “di amici e fratelli e non di sfruttati e sfruttatori”. La crisi – si diceva prima – costringerà diversi scalpellini a emigrare e Beniamino parte, insieme ad almeno un’altra ventina di ambrogiani: è il 1904. La meta – neanche a dirlo – è l’America, ma anche il Brasile e l’Argentina saranno “terre di conquista” dei marmisti italiani. Prima Quincy, nel Massachussetts, quindi Barre, nel Vermont, capitale del granito grigio (la cui polvere mieterà centinaia di vite umane). La lontananza dai propri luoghi d’origine, le incomprensioni a causa della diversa cultura e della diversa lingua, le frustrazioni di emigrante, spingono ancor di più gli scalpellini a fare gruppo, a sostenersi l’un l’altro: è il seme della mutualità che qui trova terreno fertile e cresce, ma che offrirà i suoi frutti migliori in seguito, una volta rientrati in patria. Quella regione, il Vermont – racconta nel suo “Diario” Enrico Deaglio (“Formidabili quegli anni. In Vermont” – settembre 2005) diventa la capitale mondiale del granito ad opera soprattutto di “un politico rapace e lungimirante”, un tale Redfield Proctor. Già ministro della Guerra a Washington, Proctor “...fa arrivare la ferrovia nell’allora lontanissimo Vermont per trasportare i suoi blocchi di marmo che altrimenti non avrebbero avuto mercato viaggiando trainati dai carri alla velocità di poche miglia al giorno”. Successivamente vide bene di procurarsi la migliore mano d’opera in quei luoghi dove già esisteva una tradizione estrattiva. Sbarcò in Europa: Saragozza e Santander in Spagna, Aberdeen in Scozia, Carrara e varesotto in Italia e convinse – con salari inimmaginabili per quella epoca nelle terre natie – centinaia di lavoratori ad emigrare. “Da Verona, da Viggiù, da Carrara – scrive Dea-

Le preare (cave) ai piedi dell'abitato di San Giorgio (1900)

Il laboratorio Bozzini in contrada Piazza, a Sant'Ambrogio

Monumento di Boston (USA) realizzato dal veronese Noè Fiorato

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Territorio glio – nei primi dieci anni del Novecento circa quattromila italiani emigrarono a Barre”. E aggiunge: “...se di Carrara si conosce la perdurante tradizione e il mito anarchico, più curioso è scoprire che anche gli scalpellini lombardi e veneti che emigrarono avevano socialismo e anarchia nel sangue...”: protagonisti dei primi scioperi e fondatori delle prime leghe dopo l’unità d’Italia. A farla da padrone, a Barre, furono proprio gli anarchici italiani, che scacciarono dalla città preti e poliziotti. In virtù di questa tradizione, ancora oggi Barre è sotto controllo dell’FBI. Per diversi osservatori e commentatori, taluni moderni “black bloc” provengono proprio da lì. Da Paterson, nel New Jersey, arriverà invece Gaetano Bresci, quando il 29 luglio 1900 ucciderà il re Umberto I a Monza, su decisione della cellula anarchica del famoso Luigi Galleani, ricercato dalle polizie di mezzo mondo (sempre a lui verrà attribuita la responsabilità dell’attentato al presidente americano John MacKinley, ferito mortalmente dal polacco Leon Czolgosz) e quindi in fuga verso il Canada, poi rientrato negli Stati Uniti e stabilitosi a Barre, non lontano dal confine.

Scalpellini dell'Unione Marmisti

Il nostro Beniamino Vittorio non resisterà molto a Barre. Farà in tempo a conoscere – e a sposare in America – Gisella Conchieri, da Brescia, dalla quale – per il momento – avrà la primogenita, Marcella appunto e Libera, di nove mesi più piccola. All’età di ventitré anni, sposato e con due figlie, Beniamino tornerà nella sua Valpolicella. Resosi conto delle precarie condizioni di vita e di lavoro nel suo paese “...insieme a Giovanni Piatti, insegnante presso la Scuola d’Arte – riporta il libro di Pierpaolo Brugnoli, Massimo Donasi & alii “Sant’Ambrogio in Valpolicella e i suoi marmi”, scritto per conto del

Comune e del Centro di Documentazione per la Storia della Valpolicella – ebbe l’idea di creare a Sant’Ambrogio una cooperativa di marmisti”. Successivamente (1911) da una costola del sindacato cattolico sorgerà anche l’Unione dei lavoratori marmisti. Il primato in termini di previdenza e assistenza deve però essere riconosciuto a don Lorenzo Bernardi, arciprete di Sant’Ambrogio, che all’inizio del secolo (1900) si inventa la Società di Mutuo Soccorso tra operai: un piccolo contributo mensile sarà sufficiente a garantire un sussidio giornaliero in caso di malattia. Allo scoppio del primo conflitto mondiale Beniamino partirà per la guerra arruolato nel corpo degli Alpini e ci resterà per quattro lunghi anni: svolgerà il servizio nei teatri operativi del Monte Grappa, del Cadore, dell’Adamello. Terminato il conflitto ritornerà a casa e troverà diversi compagni ed amici rientrati definitivamente dal Vermont. Con loro riuscirà a dare un impronta particolare all’impresa del marmo a Sant’Ambrogio: “...non solo all’avanguardia dal punto di vista tecnico-artistico ma fondato sul lavoro comune e su quei principi di solidarietà e di uguaglianza conosciuti attraverso i contatti con il socialismo dell’emigrazione internazionale”. Nel 1920 Vittorio Beniamino Cecchini – papà dell’architetto verone-

se Libero – verrà eletto sindaco del Comune di Sant’Ambrogio. Da primo cittadino farà costruire le scuole elementari nelle cinque frazioni “e una strada d’accesso alle cave di Monte...”. Per le sue idee, nel dicembre del 1922 sarà costretto dai fascisti – dopo continue minacce – a rassegnare le dimissioni da sindaco. Nello stesso giorno – data alle fiamme dagli squadristi – vedrà la sua casa bruciare. Anche il circolo ricreativo La Fratellanza subirà la stessa sorte. I sicari risparmieranno solo la Cooperativa Piatti, motore dell’economia locale e consegnata alla direzione dell’ex sindaco nel 1925. Beniamino Vittorio Cecchini resterà alla guida della Piatti fino alla fine della sua esistenza: 26 gennaio 1960. Tratto dal libro Sant’Ambrogio in Valpolicella e i suoi marmi di Pierpaolo Brugnoli, Massimo Donasi & alii – Comune di Sant’Ambrogio – anno 2003. Altre fonti: Formidabili quegli anni. In Vermont di Enrico Deaglio – dal Diario, settembre 2005. Diario, 20 luglio 2000 – 21 agosto 2002 di Marcella Cecchini.

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N° 16/ottobre 2007 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona

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