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17 - DICEMBRE 2007 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
Primo piano
Enzo Melegari, un testimone
Nella foto di copertina: Banchetti di Santa Lucia in via Roma
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Il 10 dicembre alla Gran Guardia, in occasione della Giornata mondiale per la difesa e promozione dei diritti umani, da qualche anno veniva premiata una persona meritevole per il suo impegno a favore dell’umanità. L’iniziativa si chiamava “Verona Municipio dei Popoli” ed era stata avviata nel ricordo di Enzo Melegari, un concittadino scomparso nel 2002, a soli 54 anni, che si era distinto per il suo impegno per la pace e la giustizia. Con una delibera la Giunta comunale ha cancellato l’iniziativa che nel 2004 aveva premiato, su segnalazione del Centro Missionario Diocesano e del Movimento Laici America Latina (Mlal), la dottoressa Chiara Castellani, volontaria internazionale, missionaria laica, medico in Nicaragua e in Congo. Nel 2005 è stato premiato don Luigi Adami, parroco di San Zeno di Colognola, che condivideva con Enzo Melegari l’impegno per il pluralismo socio-culturale, politico e interecclesiale. Lo scorso anno è venuto a Verona per ricevere il premio un concittadino di fatto, per il lungo tempo passato a Verona: mons. Giancarlo Bregantini, vescovo di Locri, una figura certo non sbiadita nel panorama cattolico italiano. È stato così riconosciuto il suo impegno per dare coraggio alla sua gente contro la piaga della criminalità organizzata, la ndrangheta, che soffoca la Calabria. Uomo di parte Enzo Melegari? tanto da non essere considerato credibile e proponibile come testimone dei nostri tempi? Per chi lo ha conosciuto, e sono tanti, Enzo è veramente il rappresentante di un momento importante della vita sociale, politica ed ecclesiale di Verona. Una persona umile ma decisa che pensava, scriveva e con coerenza testimoniava con il suo stile di vita ciò in cui
credeva, tenendosi lontano dall’ostentazione e dalla pubblicità. Laureato in sociologia, sul finire degli anni Sessanta aveva scosso l’opinione pubblica la sua scelta di obiettore al servizio militare, che non era certo un modo per sottrarsi alle responsabilità verso il suo Paese, ma piuttosto per indicare che lo si può servire anche con il servizio civile. Pagò con la prigione a Peschiera questa sua convinzione: ricordo i giovani del tempo mobilitarsi davanti al carcere per fare coraggio a Enzo. Poi altri l’avrebbero seguito. Scontata la pena, Enzo parte per due anni di volontariato a Caracas, dove lavora nell’Ufficio rapporti internazionali della Confederazione generale dei liberi sindacati. Uomo di pensiero e di rigore scientifico, una volta rientrato fa confluire nell’organismo del Mlal le sue nuove competenze e la sua esperienza. Cristiano militante, preparato teologicamente, egli testimonia la sua fede nel dialogo, convinto che è nel confronto che si fa strada la verità. Aderisce al Movimento nonviolento e si riconosce nel filone culturale dei Cristiani democratici. Sposo e padre, convinto dell’importanza dell’amicizia, Enzo trova anche il tempo per continuare i suoi viaggi in America Latina dove incontra i volontari impegnati su vari fronti. Quando torna ha sempre tanti motivi di riflessione, nella convinzione che maggiori energie avrebbero dovuto essere spese per esplorare le frontiere dove nascono e si riproducono i conflitti, gli antagonismi tra gruppi, etnie, classi: lì è il posto del volontario internazionale. Siamo negli anni Novanta, al rientro da un lungo viaggio in Brasile Enzo scrive il risultato di una sua indagine sul tema-problema della cittadinanza. Nel suo libro Solidarietà al bivio si interroga sul
fondamento naturale-giuridico della cittadinanza in un mondo globalizzato, quando enormi masse di gente, di popoli diversi si muovono in cerca di lavoro. È il lavoro l’istanza prima, fondamentale, sulla quale milioni di persone fondano la loro volontà di essere riconosciuti cittadini e non il luogo di nascita, l’etnia, la cultura eccetera. Enzo Melegari aveva la forza del profeta, sapeva guardare, analizzare, ipotizzare e indicare frontiere nuove per una umanità in costante migrazione. Don Giulio Alberto Girardello Parroco di Marzana
P. S . Caro direttore, penso che la giunta comunale sia stata poco informata sulla questione. Ma un atto di umiltà può fare il miracolo. Per il bene della città e dei giovani.
Con una delibera la giunta comunale ha cancellato il premio “Verona Municipio dei Popoli” intitolato a Enzo Melegari. Un’iniziativa che nel 2004 aveva premiato anche il vescovo di Locri, mons. Bregantini, per il suo impegno contro la ‘ndrangheta. Ma chi era Enzo Melegari?
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Tradizioni DICEMBRE
L’incanto del Natale Consuetudini che un tempo costituivano il costante e commovente substrato di una piccola società umana accantonata lassù tra i monti della Lessinia
Il patrimonio di feste e di usanze si è sfaldato a contatto con il modo di pensare spregiudicato, razionale e tecnologico dei nostri giorni. Quello che abbiamo potuto sapere è stato raccolto ascoltando i montanari più vecchi Nella pagina accanto: banchetti di Santa Lucia in via Roma (Fotoservizio Silvia Andreetto)
di Piero Piazzola I miti e le credenze profondamente radicati in ogni cultura popolare rappresentano un tentativo per motivare fenomeni ed avvenimenti altrimenti inspiegabili, spesso legati allo svolgersi delle stagioni. Sono in qualche modo la misura del grande senso del mistero e della creatività della fantasia che portava l’uomo a ricorrere a cerimonie e a riti di eliminazione e di appropriazione, divenuti poi usanze tramandate di generazione in generazione. Il costume di buttare dalla finestra il primo dell’anno robe vecie o di bruciare alcuni mobili ormai inservibili, ricrea antichi rituali pagani di purificazione e di eliminazione del male. Su queste celebra-
zioni di origine pagana se ne innestarono, in un secondo tempo, altre specifiche del cristianesimo e delle ricorrenze dei suoi santi patroni. Oggi tutto questo patrimonio di feste e di usanze si è sfaldato al contatto con il modo di pensare spregiudicato, razionale e tecnologico dei nostri giorni; e quello che abbiamo potuto sapere è stato raccolto ascoltando i montanari più vecchi i quali, per restare in argomento, ci hanno parlato dei momenti più importanti e caratteristici dell’anno. Riproponiamo, dunque,nella loro veste più genuina ed autentica, un florilegio di tradizioni e di consuetudini che un tempo costituivano il costante e commovente substrato di una piccola società umana accantonata lassù tra i monti della Lessinia. Sono appunti, in certo qual modo, che riflettono usanze e consuetudini di tutta l’area cimbra dei XIII Comuni Veronesi, con qualche variante da un distretto all’altro. Santa Lussia. Nei nostri paesi di montagna la celebrazione di Santa Lucia neanche... ricorreva, per modo di dire. Non c’erano doni di Santa Lucia in montagna o, forse, solo in qualche famiglia; e se di doni si poteva parlare, si riassumevano in una corona de fighi séchi, o in una collana di nèspole, o in una manciata di stracaganasse, castagne di scarto che i nostri genitori andavano a raccattare (le famose castagne de bina) nei boschi di castani dopo che erano passati i bataóri, gli specialisti dell’abbacchiatura, quelli di Sant’Andrea di Badia. Neanche la Befana era ricono-
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sciuta da noi; semmai in qualche famiglia che si era evoluta un po’ più delle altre a causa dei periodi di svernamento del bestiame “alle Basse”. La Befana, da noi, entrava in scena per l’Epifania, perché quella era l’appuntamento con i fuochi di cui faremo cenno in altra parte di questi ricordi; ma niente... calze da noi. Semmai qualche sgàlmara. La stéla. Una settimana prima del Natale – o anche qualche giorno prima – si mettevano insieme gruppi di ragazzini che andavano in giro per le contrade con una stella infilata sopra un palo con dentro un lumicino a chiedere l’elemosina e, ovviamente, si accompagnavano con un canto natalizio e con gli auguri di rito per la scadenza prossima. Ma i gruppi più significativi di questuanti con la stella erano soprattutto i giovanotti con qualche anziano di scorta per questioni di serietà e di credibilità. Portavano anche loro una stella di cartone infilata sopra un palo, foderata di carta colorata, con dentro un lume a petrolio oppure un paio di candele. Nei nostri personali ricordi il gruppetto s’era costruita una sua singolare stella con il telaio ricavato da una fassàra da formaggio; passando di porta in porta, si cantavano alcune strofe di un canto popolare di cui le prime due dicevano: «Fati festa / o nobil gente / ch’egli è nato il ver Messia / fati festa allegramente / ch’egli è figlio di Maria. / Fati onore e cortesia al Signore Nipotente / Fati festa o nobil, gente.../.». I Cimbri, invece, cantavano nella loro lingua l’ultima
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Tradizioni PESCANDO NELLA NOTTE DEI TEMPI
25 dicembre, una data non a caso di Alessandro Norsa Anche quest’anno è arrivato il periodo di Natale. Il 21 dicembre è il primo giorno di un ciclo di date speciali nel calendario. Avviene, infatti, il solstizio d’inverno, cioè la notte più lunga ed il giorno più breve dell’anno. Dal 22 al 24 dicembre sembra, poi, che il sole nel suo moto apparente si fermi (solstitium significa “Sole fermo”). Nell’antica Roma per salutare il solstizio d’inverno venivano celebrati i saturnali, in onore del dio Saturno, protettore dell’agricoltura. I festeggiamenti duravano dal 17 al 24 dicembre ed in tale periodo si chiudevano scuole e tribunali; venivano scambiati visite e doni. Il giorno 24 si concludeva con un grande banchetto, con brindisi e scambio di auguri. Il giorno 25 era dedicato al Sole invicto: il sole sembra sul punto di essere inghiottito dalle tenebre ma invece risorge e torna a brillare, a scaldare, a riportare la vita sulla terra. Per questo motivo in parecchi riti legati a questo culto si accendevano grandi fuochi al centro di luoghi considerati spirituali. Bruno Schweizer, ricercatore bavarese che studiò le tradizioni della nostra montagna, riferisce che fino al 1902 a Giazza si era soliti accendere un falò sulle cime dei monti e dire: “Natale è acceso”. Questi riti fanno parte di tradizioni antichissime che hanno come riferimento questo periodo dell’anno: già 3600 anni fa veniva festeggiata in Persia la nascita di Mitra, figlio del Sole e Sole egli stesso. In Egitto si ricordava la nascita di Osiride e di suo figlio Oro. In Babilonia si festeggiava il dio Tammuz, unico figlio della dea Istar rappresentata con il bimbo in braccio e con una aureola di dodici stelle attorno alla testa. In Messico si festeggiava la nascita del dio Quetzalcoatl e nello Yucatan quella del dio Bacab. Anche il dio azteco Huitzilopoctli vede la luce in questo periodo, lo stesso in cui gli scandinavi festeggiavano la nascita del dio Freyr. In Grecia nasce Bacco ed in Siria Adone. Ciò per far comprendere quanto questo giorno sia sempre stato spiritualmente carico nel corso del tempo. Ma veniamo alla storia che ci appartiene
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Il Natale non è solo la sovrapposizione di una festa cattolica su credenze, miti e riti pagani, ma un insieme di profondi simbolismi spirituali che, emergendo nell’inconscio collettivo ed originando dalla storia più remota, si intrecciano nella coscienza e si perpetuano di generazione in generazione nei millenni più da vicino: con l’espandersi dell’impero romano verso Oriente, soldati e mercanti vennero a conoscenza del culto del dio Mitra, che lentamente venne introdotto a Roma. Esso fece talmente presa sulla popolazione che, nel 274 d.C., l’imperatore Aureliano lo ufficializzò. E poiché anche Mitra, come già accennato, simboleggiava il Sole, la sua festa fu sovrapposta a quella del Sole
invicto e celebrata il 25 dicembre, come già avveniva in Persia. Il suo culto in breve tempo si espanse rapidamente in gran parte dell’Impero. Si riteneva che Mitra fosse nato in una grotta e che gli fosse stato affidato dal padre Sole il compito di contrastare Ahriman, spirito maligno il cui intento sarebbe stata la distruzione del mondo. Nel 353 d.C. la Chiesa, nella figura di Papa Liberio, sostituisce il culto di Mitra con quello di Cristo. Cambiò il nome ma non la santificazione della giornata. Il Natale non è, quindi, unicamente la sovrapposizione di una festa cattolica su credenze, miti e riti pagani, ma un insieme di profondi simbolismi spirituali che, emergendo nell’inconscio collettivo ed originando dalla storia più remota, si intrecciano nella coscienza e si perpetuano di generazione in generazione nei millenni. Sogni, speranze ed aspirazione al Trascendente rimangono immutate nel cuore degli uomini, qualsiasi siano i nomi con i quali, di volta in volta, vengono chiamati.
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Tradizioni «Spesso i questuanti con la stella erano giovanotti con qualche anziano di scorta per questioni di serietà e di credibilità»
«I più piccoli stavano in braccio al nonno che raccontava le “storie” di una volta e si adoperava a far giochetti puerili, ingenui, se si vuole, ma che sotto sotto nascondevano una certa materialità, una direttiva semplice per istruire e per educare»
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strofa della celebre canta natalizia Stille Nachtt:; Hõstar nacht, hoalaghe nacht! / Asbia lachat, liab Son, / usar Helfar, dai suaze maul, / ta du scenkast biotine haute, / Cristo, ‘un gasunt in tak! (Serena notte, santa notte! / Come sorride, amato figlio, / nostro salvatore, la tua soave bocca, / poché tu doni nascendo oggi, / Cristo, della salvezza il giorno, oppure una strofetta che augurava bene e salute che diceva: “Hoaliga Nacht un Guataz Jar. Eibala gruste un luste, for alje die bo da lesan”. Le conte del nonno. Chi aveva una stua in casa (una cucina economica), che il più delle volte era costruita alla buona, con calce e mattoni refrattari, oppure possedeva un bel focolare dove bruciar la legna o, magari, il sòco (ceppo: come la socà de Nadal, rimasta famosa), da poterlo scrioltolàr (rivoltare) ogni tanto sottosopra per fargli sprizzare le sgìnse (faville), restava a casa, dopo cena, seduto attorno al focolare, con l’immancabile caregòto per il nonno, i più piccoli in braccio al nonno che raccontava le “storie” di una volta e si adoperava a far giochetti puerili, ingenui, se si vuole, ma che sotto sotto nascondevano una certa materialità, una direttiva semplice per istruire e per educare. Erano distrazioni e passatempi in attesa di un evento. E l’evento principe di fine dicembre era il
Natale, mentre quello di fine anno era la notte di San Silvestro. Ma San Silvestro, da noi, in montagna, neanche era conosciuto. Era l’ultimo dell’anno e basta, seguito, a ruota, senza fuochi d’artificio e bottiglie di spumante, dal primo dell’anno. Un bacio suggellava la partita e apriva quella nuova. Poi a letto. Un giochetto per arrivare a mezzanotte il nonno lo trovava sempre. Mentre sopra il fuoco, in una pentola, bollivano gli scarti delle patate che sarebbero andati bene poi per goernàr el mas-cio (nutrire il maiale), il nonno prendeva la mojéca (le molle), con la paléta (paletta da fuoco) stendeva uno strato di cenere sul letto del focolare, lo spianava per bene e poi cominciava a recitare una tiritera
in simultanea con i movimenti della mojéca sul tappeto della cenere. Le due punte dell’arnese, accostate l’una all’altra, tracciavano dei segni, su tre file, di dieci impronte l’una, dette péche e mentre faceva questo recitava: Cavra! / Sito cavra? / Se son cavra? / Si ghe son! / Gh’éto i corni?/ Sì che i gò / Dove i gh’eto? / Dove i gò? /Sora el col / Quanti ghe n’èto? Quanti ghe n’ò? / Faghe el conto / Trédese in ponto. Il gioco continuava ma il fuoco doveva restare comunque acceso non solo durante la notte di Natale, ma anche in quella di capodanno, perché era convinzione che la Madonna sarebbe passata da quelle case dove era rimasto acceso il fuoco per scaldare i panni al Bambino, e anche la tavola dove si era consumata la cena quella sera, doveva rimanere apparecchiata con tutti i residui del pasto. In quelle case, poi, dove la tradizione era rimasta immutata fin dai tempi antichi, sulla tavola si doveva depositare anche qualche puòto (bambolotto di pasta zuccherata, tipico della montagna veronese), regalo particolare nei piatti poveri di Santa Lucia, ma conservato anche per questa occasione, oppure una fetta di nadalìn, dolce caratteristico del Natale dei nostri monti. I foghi de la stria. Durante la notte dell’Epifania era abitudine accendere dei falò sulla sommità di
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Tradizioni «San Silvestro, da noi, in montagna, neanche era conosciuto. Era l’ultimo dell’anno e basta, seguito a ruota, senza fuochi d’artificio e bottiglie di spumante, dal primo dell’anno. Un bacio suggellava la partita e apriva quella nuova. Poi a letto»
Banchetti di Santa Lucia in Piazza Bra
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un dosso o di un monte, mentre, contemporaneamente, nei paesi vicini, si faceva altrettanto, come atto di cortesia e come segno-testimonianza di scambio-rispetto. Attorno ai falò, che la gente d’altri paesi chiamava bruijèi, ma da noi, in terra cimbra, erano detti più semplicemente fóghi de la stria, giovani e anziani si divertivano a saltare, a ballare, a far schiamazzi con le ciòche (i campani delle vacche) o con dei vecchi recipienti (i bandòti), che inizialmente contenevano petrolio da ardere nelle lucerne; i bottegai li acquistavano sui mercati della valle e poi li rivendevano come contenitori. In terra cimbra, però, era usanza accendere dei falò anche la notte di Natale sulla cima di un monte o su un ampio dosso per far sì che il falò si rendesse visibile da altri paesi delle vicine montagne. Non erano peraltro foghi de la stria, ma semplici esplosioni di allegria, di contentezza. In stala o in leto. Nelle case, finché funzionava il camino, e meglio ancora nei locali di cucina, ove si confezionavano i cibi, un certo tepore, d’inverno soprattutto, si diffondeva nello stanzone che serviva da sala da pranzo e da salotto e da altro ancora. Passata l’ondata del calduccio, si doveva per forza di cose riparare nelle stalle. Altrimenti a letto. Ecco il filò che prendeva forma e volto verso le sette di sera. Il filò, dicono i chiosatori della lingua, era «una
riunione serale che la gente dei campi effettuava scambievolmente nelle cucine o nelle stalle allo scopo di trascorrere le serate invernali e mantenere o legare rapporti d’interesse e di amicizia; insomma, una veglia rurale nelle stalle, luogo ove si filava la lana o la canapa e si andava dietro alle ragazze». Noi aggiungiamo che il filò era anche il momento e il luogo per sparlare, per dir male degli altri, per malignare, screditare chi si aveva in mira di danneggiare. Quando nelle case non c’era ancora un minimo di sistema di riscaldamento – le stufe a legna sono venute alla fine degli anni Quaranta – o abbastanza legna per ottenerlo, allora, dopo la frugale cena, ci si rifugiava al caldo naturale prodotto dalle vacche nelle stalle e, in quella occasione e in quell’ambiente, si potevano osservare donne e uomini che si industriavano a far qualcosa di utile. La stalla, dunque, diventava anche luogo di lavoro, ma nel contempo anche luogo di...“educazione”, intesa come istruzione, insegnamento, cultura. Sì anche cultura. La notte di Natale. Certe famiglie, che di boschi non ne possedevano, dovevano arrabattarsi alla meno peggio per la legna sfruttando i ceppi delle piante rimasti nei boschi e che davano segni di essere in via di disgregazione, andate a male: i sòchi o anche le sò-
che. Chi non aveva boschi suoi, concordava con qualche amico suo, che invece ne aveva ma non li teneva puliti dalle ceppaie in decomposizione, questo lavoro di sradicamento. Poi si faceva premura di trasportarli a casa dove li stivava per farli disidratare e disseccare e poi pazientemente le spaccava in pezzi ragionevoli da far bruciare sotto le pentole oppure nelle stufe. Ma una sòca speciale veniva scelta tra tutte per far bruciare la notte di Natale. Perché proprio la notte di Natale? Il ceppo, continuamente rimosso e rivoltolato perché risollevasse la fiamma, mandava su par la cappa del camino tante sdinse (faville) e si diceva che esse erano le anime del purgatorio che, in quella occasione straordinaria, il Signore chiamava a sé in Paradiso. Per far passare il tempo in attesa della mezzanotte, moltissime famiglie si buttavano avanti con i lavori, perché il dì seguente era festa e non si poteva lavorare. Preparavano allora il pasto per i maiali. Si faceva bollire, cioè, in un pentolone molto grande, le patate di scarto della raccolta autunnale che erano difettate e non facevano parte della qualità “media” che, invece, veniva religiosamente messa da parte per la semina della primavera successiva; le più grosse si vendevano oppure si tenevano in serbo per il consumo familiare. Quando il pentolone veniva ritirato dal fuoco e il contenuto scolato dall’acqua di cottura, tutti si facevano attorno ad esso per recuperare certe patatine ancora intatte o leggermente rotte, sicché il maiale che doveva essere alimentato con quella roba di scarto rischiava di restar a becco asciutto. Poi, subito dopo la mezzanotte, prima di andar a dormire, si disponevano sul tavolo, in un piatto, un po’ di caldarroste, di fichi secchi, i famosi puòti, dolci tradizionali propri del Natale o un Nadalin, altro dolce tipico dei Cimbri. Ma, intanto, mentre si attendeva che si spegnessero le luci del presepe, già si accendevano quelle di San Silvestro; san Silvestro, peraltro, da noi era un santo sconosciuto. Quella era la notte degli auguri, delle superstizioni, dei pronostici.
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Cultura PUNTI DI VISTA
Marte e Venere: due mondi, due visioni Il pensiero di alcune donne veronesi che hanno assunto percorsi intellettuali, di ricerca o di impegno pubblico e che hanno offerto dei punti di vista sulla questione del genere a partire dalla proprio osservatorio specifico
“Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere”, il best seller di John Gray continua a ricomparire in libreria, cambiando ora copertina ora formato. E raccoglie ad ogni nuova uscita, nuovi lettori. Per restare tra gli scaffali dei libri, Loredana Lipperini ha da poco pubblicato “Ancora dalla parte delle bambine”, ideale continuazione a trent’anni di distanza del famoso “Dalla parte delle bambine” di Elena Gianini Beloti. Negli Stati Uniti si è recentemente tenuto un convegno sull’educazione monogenere, a sostegno cioè dell’eliminazione delle classi miste per un migliore apprendimento.
Se c’è bisogno ancora di porsi “dalla parte delle donne” è per evidenziare la necessità del riconoscimento della presenza della donna, farne emergere gli apporti peculiari sia nel presente che nel passato, mettere in guardia da pericolose generalizzazioni
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di Elisabetta Zampini La questione del genere, il porsi dei due volti, quello maschile e quello femminile dell’umanità, interroga l’attualità e chiede risposte. La categoria di genere attraversa diversi campi del sapere, è indagata, studiata e porta talvolta a degli inediti approdi. Con premesse comuni: prendere le distanze dagli stereotipi e individuare l’interagire di uomini e donne nel farsi della società. E se c’è bisogno ancora di porsi “dalla parte delle donne” è per evidenziare la necessità del riconoscimento della presenza della donna, farne emergere gli apporti peculiari sia nel presente che nel passato, mettere in guardia da pericolose generalizzazioni. Si è voluto allora dare voce ad alcune donne che vivono o lavorano a Verona, che hanno assunto percorsi intellettuali, di ricerca o di impegno pubblico e che hanno offerto dei punti di vista sulla questione del genere a partire dalla proprio osservatorio specifico. Adriana Cavarero. «La società italiana è molto arretrata, è fortemente dominata da maschi e da vecchi. Qui resistono stereotipi maschili e femminili che la filosofia indaga e critica da almeno ottant’anni». A parlare è Adriana Cavarero, docente di filosofia politica all’ateneo veronese e fondatri-
ce della comunità filosofica femminile «Diotima». I suoi scritti sul femminismo e sulle donne del Novecento, che hanno lasciato un segno nella storia della filosofia, sono conosciuti non solo in ambito accademico. La Cavarero, senza mezzi termini, spiega: «La differenza di genere è oggetto di specifici studi filosofici che analizzano la femminilità come modo peculiare di rapportarsi al mondo e molto più adatto ad affrontare la crisi contemporanea grazie alla particolare capacità di dialogo e relazione». E prosegue: «In realtà, lo vediamo dai giornali, dalle riviste per lui e per lei, esistono degli stereotipi che si notano in maniera più marcata nella pubblicità che è in definitiva un grande specchio della società». Poi entra nel merito della scuola dove le donne tendenzialmente conseguono risultati migliori dei colleghi maschi: «Purtroppo questa marcia in più che le donne dimostrano nello studio, con maggiori laureate e con voti migliori, non si riflette poi nel mondo del lavoro dove questo è ancora governato da uomini e vecchi; un esempio eclatante è proprio l’ambiente universitario». Mimma Perbellini. Sostiene la differenza ma anche la complementarietà di genere Mimma Perbellini, assessore alla Cultura del Comune di Verona, unica componente femminile della giunta, che spiega: « Noi donne abbiamo que-
sto grande dono che è la capacità di procreare che ci rende necessariamente diverse, ma non per questo deve esserci un rapporto di forza dell’uno o dell’altro sesso. Siamo semplicemente differenti nell’approccio alla vita e ai problemi. Certo, l’ideale sarebbe che la politica ascoltasse le istanze di entrambi i generi». La Perbellini fa poi riferimento proprio al suo es-
Mimma Perbellini è assessore alla Cultura del Comune di Verona
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Cultura tuna e ricomporre i pezzi. Perché la storia di genere si pone come storia “relazionale”. La memoria e l’esperienza femminile recuperate dall’oblio vengono messe in rapporto a quelle degli uomini in una reciprocità di influenze e di interdipendenze che aiutano a rileggere in maniera più completa e vera la storia. Un’operazione di sano revisionismo.
Il filone di genere è diventato da circa vent’anni interessante campo di indagine della storiografia
sere donna in un mondo come la politica gestito quasi esclusivamente da maschi e dice: «Al mattino, quando arrivo in Comune, non è proprio nei miei pensieri il fatto che sono l’unica donna, penso solo a quello che devo fare e a farlo bene. Ma penso anche che se avessi figli piccoli, con molta probabilità non farei questo perché la politica ti porta fuori di casa dodici ore al giorno. Ciascuno fa la propria scelta, ma la sensibilità femminile porta generalmente a dare una certa priorità alla famiglia».
nere recupera anche il volto femminile della storia. Per leggere questa storia bisogna però consultare le cosiddette fonti “minori”, poco esplorate in passato. Bisogna fiutare negli archivi, ritrovare carteggi privati, diari, registri, elenchi di nomi, stampe periodiche, cataloghi, biografie, un pizzico di for-
Elena Sodini. «Durante il mio dottorato ho studiato alcune figure di donne del Risorgimento Veneto e in particolare veronese – racconta Elena Sodini, storica – scoprendo che l’attività patriottica era tutt’altro che gestita dai maschi. Anzi poteva diventare il collante dei legami familiari». Dalle sue ricerche sono emerse in particolare due figure appartenenti a una influente famiglia di Verona, entrambe molto attive nella causa dell’Unità d’Italia: Carolina Bevilacqua e la figlia Felicita, tra le fondatrici dell’Associazione Filantropica delle Donne Italiane. «La cosa strabiliante è che di loro si era perso quasi completamente il ricordo. In Biblioteca Civica e in Archivio di Stato c’è un patrimonio enorme di lettere e scritti nella maggior parte di mano femminile, proveniente dal fondo Bevilacqua. Ci sono anche poesie che per molto tempo erano state attribuite al marito di Felicita, Giuseppe La Masa, famoso garibaldino. Questo per dire che pregiudizi passati ritenevano improbabile l’attribuzione femminile di scritti di quello stile: ma la scrittura è in tutta evidenza quella di Felicita». Quando La Masa partì per la Sicilia al seguito di Garibaldi, la mo-
La storia di genere. Il filone di genere è diventato da circa vent’anni interessante campo di indagine della storiografia. Spesso l’indagine storica, avendo dalla propria parte la distanza temporale, riesce a dare una visione d’insieme dei fenomeni sociali. E perciò può offrire delle utili chiavi di lettura anche per il presente. La storia di ge-
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Cultura «Inevitabilmente in questa fase di ricerca si tende a dare rilievo al femminile, perché è stato tenuto in ombra per molto tempo e non aveva parola, ma il passo successivo sarà la sintesi. Dove il maschile e il femminile vengono entrambi recuperati verso una maggiore consapevolezza di quelli che sono i processi storici»
glie Felicita rimase a malincuore a casa ma agì a modo suo nella stessa direzione del marito: «Diventa l’informatrice degli umori di Torino nei confronti dell’evolversi dell’impresa garibaldina – prosegue la Sodini – e il 7 maggio 1860 lancia un appello sui giornali dei vari stati italiani per costituire una rete di solidarietà tra le donne in favore dei feriti della Sicilia. La risposta fu immediata e sorprendente. Sorsero comitati femminili in tante città e paesi. Raccoglievano soldi. E la risposta non veniva solo da una prevedibile rappresentanza borghese ma anche dal popolo. Nei registri delle donazioni si trovano infatti scritte le professioni di chi offriva il contributo: c’erano cameriere, cuciniere, sartine». Elena Sodini si è occupata anche delle donne che dal 1906 vennero ammesse alla Società Letteraria, dimostrando subito grande cultura e valore. Ma qual è la peculiarità che emerge dagli scritti di queste donne? «Sono passionali . Rispetto a un uomo sono più scoperte e hanno meno paura di esprimersi con i linguaggi del sentimento. Si rimane coinvolti da questi personaggi. E si sente verso di loro un debito per tutto quello che hanno fatto anche per le donne di oggi. Ed è un impegno, direi civile, ricordarle. Inevitabilmente in que-
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sta fase di ricerca si tende a dare rilievo al femminile, perché è stato tenuto in ombra per molto tempo e non aveva parola, ma il passo successivo sarà la sintesi. Dove il maschile e il femminile vengono entrambi recuperati verso una maggiore consapevolezza di quelli che sono i processi storici in un intreccio continuo tra livello pubblico e privato. Attivare, in una parola, la complessità». Corinna Albolino. La dottoressa Corinna Albolino, laureata in Filosofia e specializzata in scrittura autobiografica presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, sta tenendo presso l’Arci di Montorio un interessante “Laboratorio di Scrittura Autobiografica” al quale hanno aderito per una sorta di autoselezione naturale solo donne: «Scrivere di sé e del proprio passato è una questione di sensibilità – spiega la dottoressa – è un bisogno di raccontarsi ed esprimersi, ma anche apertura verso l’altro e la sua personale storia. Ed è proprio grazie a tutte queste caratteristiche che tale genere si adatta alla perfezione all’universo femminile, per molto tempo chiuso in rigidi schemi, senza la possibilità di una propria storia di vita. La scrittura autobiografica rappresenta, infatti, un mezzo e un metodo insostituibile per la conoscenza e la valorizzazione di se stessi, per lo sviluppo della personalità nel suo complesso. La scrittura diventa, dunque, una cura, non solo come consolazione o elaborazione di sofferenze, ma come vero esercizio di crescita, di ricostruzione della propria identità, di riscatto dalle paure e dalle insicurezze». Il racconto della memoria personale, della propria storia unica conduce verso il dialogo, l’incontro: «Nonostante il genere autobiografico trovi la sua migliore produzione nel mondo femminile, non bisogna pensare che esso comporti una separazione tra uomo e donna. La profonda conoscenza e consapevolezza di sé, la propria emancipazione e valorizzazione aiutano la comunicazione e il rapporto con gli altri, in particolar modo con l’universo maschile: accettare se stessi con i propri limiti e difetti permette di
comprendere al meglio l’altro, di vivere qualsiasi tipo di rapporto in modo più profondo e completo». Antonella Anghinoni. La parola relazione continua a ritornare e a riproporsi. Per Antonella Anghinoni, biblista e docente all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Monte Berico, la donna è “la custode della relazione”. Questo ritratto emerge dallo studio dei testi dell’Antico Testamento nei quali la studiosa ha recuperato le figure femminili dimenticate: «La Bibbia è un libro immenso. Non lo conosciamo tutto. Alcune donne sono rimaste sepolte nella polvere perché anche scomode. Raab, ad esempio, era una prostituta. Ma salvò i messaggeri che stavano per essere uccisi dal re di Gerico. Ogni donna è un storia e ha un messaggio che emerge se approfondito. Abigail con la parola salva il marito e il villaggio. C’è in queste donne
una costante. Con gesti o parole portano la pace. In nome del valore principale che è la vita». Antonella Anghinoni sta approfondendo e inseguendo i volti di queste donne della Bibbia; nasce spontaneo capire il perché e soprattutto il contributo di queste ricerche: «Spesso la distanza sia linguistica sia temporale ci impedisce di comprendere il senso del Testo. Ed è semplice individuare solo la sottomissione della donna. Invece emerge anche una sua identità nell’ottica della relazione. Le donne ricordate dalla Bibbia dicono alle donne di oggi la loro peculiare indole al dialogo. Fanno luce sull’identità profonda della donna. Ciò è importante perché si instaura una relazione con l’altro solo a partire dalla conoscenza di sé». Vale per uomini e donne. Hanno collaborato Giorgia Cozzolino e Irene Lucchese
Cultura FONDAZIONE CAMPOSTRINI
Favorire la consapevolezza critica di Irene Lucchese
La Fondazione collabora attivamente con l’Università di Verona e con altri atenei italiani, al fine di proporre le migliori competenze. Rosa Meri Palvarini sottolinea «l’inclinazione del Centro Studi ad aprirsi verso la città, a diventare una realtà aggregativa su tematiche di attualità e cultura per tutti gli interessati, con particolare riguardo ai giovani studenti»
Dal 2005 i veronesi hanno una possibilità in più per migliorare la propria cultura e incrementare il proprio sapere: festeggia, infatti, il suo secondo compleanno la Fondazione Centro Studi Campostrini. Punto di arrivo di un lungo percorso intrapreso dall’Istituto omonimo allo scopo di incidere in modo ancor più significativo nella realtà sociale veronese, la Fondazione ha carattere e finalità esclusivamente culturali. In una società contemporanea permeata dalla superficialità e dalla confusione, essa si pone l’obiettivo di favorire lo sviluppo e la crescita della consapevolezza critica ed etica del lavoro intellettuale e artistico: per fare ciò, le proposte spaziano dalla musica alle varie forme artistiche, dalla politica alla religione, dalla scienza alla filosofia. La presidente della Fondazione, la dott.ssa Rosa Meri Palvarini, sottolinea «l’inclinazione del Centro Studi ad aprirsi verso la città, a diventare una realtà aggregativa su tematiche di attualità e cultura per tutti gli interessati, con particolare riguardo ai giovani studenti». Per avvicinarsi a più utenti possibili la Fondazione offre due proposte: una di livello divulgativo, destinata ad un ampio pubblico, anche privo di una competenza specifica che si realizza con cicli di conferenze, incontri, mostre e concerti, tutti ad ingresso libero, dove ogni partecipante
ha la possibilità di esprimere e dialogare con esperti di ogni settore. La seconda proposta, invece, è dedicata a coloro che possiedo già una buona base culturale come studenti universitari, ricercatori e professori spinti dalla volontà di essere sempre aggiornati; a loro sono rivolti seminari di approfondimento. Un modello in questo senso è rappresentato dalla “Scuola estiva in Teoria Politica” voluta dalla presidente Palvarini che ritiene doveroso oggi recuperare i criteri di ragionamento necessari alla formazione di un pensiero politico più completo possibile. La Fondazione collabora attivamente con l’Università di Verona e con altri atenei italiani, al fine di proporre le migliori competenze. A livello economico, invece, essa è finanziata quasi esclusivamente dall’Istituto Campostrini ma, nonostante qualche ovvia difficoltà materiale, il Centro Studi si sta occupando anche di attività editoriale e di musica; in entrambi i casi la volontà è quella di dare spazio ad autori poco conosciuti in Italia e a generi musicali non commercializzati nel mercato odierno. La sede di via S. Maria in Organo e le risorse materiali in essa contenute sono elementi significativi del ruolo sociale che la Fondazione ha ed è decisa ad incrementare: biblioteca, emeroteca, filmoteca e la futura fonoteca sono sempre disponibili e gratuite per tutti i cittadini veronesi.
Rosa Meri Palvarini
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Cultura di Oreste Mario Dall’Argine Mentre si fa sera e la città rigurgita il suo traffico di fine giornata entriamo nel palazzo della Curia di Verona. Il silenzio che avvolge questo ambiente è quasi irreale, in contrasto con il mondo appena lasciato. Attraversiamo lo spazioso cortile e saliamo il severo scalone che porta alle stanze vescovili. Monsignor Giuseppe Zenti ci accoglie gentilmente, con semplicità nel suo studio. Il suo porgersi personale è in tutte le forme colloquiale; anche nel movimento delle mani che accompagnano le parole. Dopo queste prime impressioni si profilerà nel corso dell’incontro la figura di un prete linearmente legato alla sua cultura, alla sua formazione spirituale, alle sue esperienze di uomo di Chiesa. Nel rispetto di quella che ci pare la sensibilità di questo vescovo, non procediamo con domande e risposte, ma con un normale colloquio. Ricordiamo quanto egli disse nella sua omelia di saluto alla diocesi di Verona, il giorno del suo ingresso. «Lasciatemi fare il vescovo», erano state le sue parole. Si tratta di un’affermazione molto forte a sottolineare l’indipendenza della Chiesa, nell’esercizio della sua autorità e della sua libertà. E infatti mons. Zenti ci spiega che l’autorità, per essere esercitata in modo organico, non deve essere mortificata da mille compromessi. Se Dio ha bisogno degli uomini, come titolava un grande e vecchio film del regista cattolico francese Cayatte, ancor di più i suoi pastori hanno bisogno della solidarietà chiara e non implosiva di tutti i credenti. E questo lo si legge anche in quell’altra frase pronunciata da mons. Zenti, sempre nella stessa omelia, quando, rivolgendosi ai sacerdoti, disse: «Voglio conoscervi uno ad uno». Questo concetto dell’aiuto ai vescovi lo aveva toccato anche don Milani, naturalmente con quelle caratteristiche espressive che a volte creavano apprensione in un lettore credente: «Non vi è voglia di dire al vescovo ciò che si pensa… è più comodo trattarlo con i
in VERONA
A colloquio con il vescovo Giuseppe Zenti «Noi uomini di Chiesa non possiamo improvvisare. Dobbiamo pensare e ripensare a quello che diremo ma poi quando è il momento di parlare dobbiamo farlo con chiarezza»
Mons. Giuseppe Zenti
soliti dorati guanti di menzogna che danno modo a lui e a noi di vivere senza seccature». (Pensieri e parole di Don Milani, Ed. Paoline 2007). In questi primi mesi di episcopato a Verona mons. Zenti lo abbiamo visto spesso fra la gente, nelle cerimonie ufficiali, in eventi importanti per la città. Quando si riposa eccellenza? «Mi riposo quando dormo» è la risposta accompagnata da un sorriso. E subito aggiunge: «Soprattutto bisogna trovare il tempo per ascoltare». Ma anche per comunicare, viene subito da pensare, visto che stiamo parlando di un prete che negli
stereotipi del linguaggio comune è definito come “vescovo mediatico”. «Bisogna recuperare il senso del ragionare» ci spiega, evidenziando quanto siano importanti attenzione e riflessione. «Noi uomini di Chiesa non possiamo improvvisare. Dobbiamo pensare e ripensare a quello che diremo ma poi quando è il momento di parlare dobbiamo farlo con chiarezza. Non è infatti possibile che ogni volta che diciamo qualcosa siamo superati da tutto ciò che ci circonda. A volte, quando viaggio, anche in automobile, se mi spunta improvvisamente un pensiero nuovo, mi fermo e lo
annoto, perché ogni pensiero che fugge è un’occasione persa per comunicare». A proposito di comunicazione, capita che nella Messa la “predica” diventi un momento di apatia partecipativa, perché non sempre il sacerdote dimostra di avere la preparazione e l’esperienza per dare indicazioni non astratte su come orientarsi nella quotidianità. «L’omelia è il momento più difficile per il prete» spiega il vescovo «perché è quello dove egli svela la sua personalità, la sua religiosità, ma soprattutto la sua presenza nella comunità. Ci vuole impeto, passione, partecipazione e non parole senza contenuti. In questo campo a nulla serve la vuota retorica dei grandi oratori». Citiamo un’altra esortazione fatta dal presule durante l’omelia del suo ingresso: «Ciascuno stia al suo posto», aveva detto mons. Zenti, che spiega come sia necessario «tornare a un rapporto dove cattolici e laici pongano fine a quella contrapposizione che da tanti anni tiene avvinghiati gli italiani, paralizzando il confronto, il dibattito culturale e politico, come ho ricordato nella mia lettera al Presidente della Repubblica». Chiediamo al vescovo come abbia ritrovato la sua città, Verona, dove per tanti anni ha esercitato il ministero e dopo l’esperienza come pastore a Vittorio Veneto. «Mi pare una città frammentata» spiega mons. Zenti. «La società civile sembra divisa in blocchi, vedo tanti singoli percorsi separati e non un lungo scorrere insieme, come quello di un fiume verso il mare con una navigazione comune, evitando insieme quegli ostacoli che si frappongono alla fratellanza, alla comunità di intenti, alla tolleranza (a volte comprensibilmente difficile), all’accoglienza, alla valorizzazione di una grande storia civile e culturale». È giunto il momento di congedarci e lo facciamo con uno scambio di auguri per il Natale. Tornando nel caos cittadino ci accorgiamo che nonostante i tanti impegni della giornata mons. Zenti non ha mai dato uno sguardo impaziente all’orologio.
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Storia DELITTI E MISTERI
L’omicidio Strapparava Correva l’anno 1949. La donna fu trovata senza testa nel Canale Camuzzoni. Faticosamente si risalì all’identità della vittima orribilmente straziata da un ex maresciallo della Marina accecato dalla gelosia. La uccise per non perderla
di Cinzia Inguanta L’Arena del 7 maggio 1949 riporta, in seconda pagina, la scoperta di alcuni resti del cadavere di una donna fatta a pezzi. Alcune parti anatomiche (il tronco e gli arti inferiori) sono ritrovate dentro una valigia di cartone marrone, legata con del filo di ferro, e in una cesta
da imballaggio nelle acque del canale Camuzzoni, nei pressi della centrale elettrica di Borgo Roma. Non è possibile identificare il cadavere perché mancano la testa e le braccia, si sa solamente che la vittima era bionda. I cronisti si sbizzarriscono in una ridda di ipotesi riguardo alla possibile identità della donna. Gli investigatori si af-
Canale Camuzzoni, Centrale elettrica di Borgo Roma. In questo tratto del canale, in una valigia, vengono rinvenuti i primi resti della Strapparava
Ponte di Borgo Milano sul Canale Camuzzoni, da qui Marchese gettò in acqua la valigia con il tronco e le gambe della vittima
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fidano alla perizia necroscopica, eseguita da uno specialista di Padova, il prof. Soprana, per acquisire elementi utili riguardo all’identità della poveretta. Chi ha ucciso o quantomeno chi ha sezionato il cadavere aveva una buona conoscenza dell’anatomia, i tagli sono stati eseguiti con una lama molto tagliente in direzione delle varie giunture. C’è un testimone: il 6 maggio poco prima di mezzogiorno si trovava in Borgo Milano, nei pressi del canal Camuzzoni e vide un individuo che reggeva una grossa cesta sul manubrio della bicicletta. Il ciclista si fermò all’altezza del terzo ponte; tolse la cesta dal manubrio e, deposta la bicicletta, la gettò nelle acque del canale. “Balzò quindi in sella e si allontanò velocemente. Poteva avere 35 o 40 anni e aveva un fare circospetto che attirò l’attenzione del testimone il quale lo rincorse per un buon tratto di strada” (L’Arena 8 maggio 1949). Il 10 maggio, sempre nel canal Camuzzoni vengono ritrovate le braccia di quella che per i veronesi è diventata “la donna tagliata a pezzi”. Erano racchiuse in un tascapane militare che era stato appesantito da un grosso mattone. Più volte, in questo primo periodo d’indagine, l’autorità giudiziaria fa appello alla cittadinanza per cercare di acquisire indizi utili. Qualche giorno più tardi alcune donne riconoscono il cadavere: si tratta di Guglielmina Strapparava. La vittima, conosciuta come Memi, era una donna di 52 anni, originaria di Udine, abitava in Via Valverde al civico 81, ed era scomparsa da qualche giorno. Per vivere faceva l’affittacamere, sembra che duran-
te la guerra avesse guadagnato il denaro che era poi servito all’acquisto dell’appartamento – pensione svolgendo il mestiere più antico del mondo. Ad ogni modo era una persona gentile e benvoluta nel vicinato. Una telefonata anonima denuncia il suo convivente, Alessandro Marchese come l’autore dell’efferato delitto. Era il 13 maggio quando L’Arena dava notizia di questo, ma il caso era tutt’altro che risolto ed avrebbe tenuto tutta l’Italia con il fiato sospeso ancora per lungo tempo. Alessandro Marchese, 47 anni, è un ex maresciallo di marina della repubblica di Salò, che ha avuto problemi con la legge per il suo passato politico. Nativo di Cerro sul Tanaro, in provincia di Asti, si trasferisce in giovane età con la famiglia a Genova dove vivono la moglie, dalla quale non si è mai separato, ed i tre figli, uno dei quali allievo della scuola di polizia di Caserta. Nel 1945 il Marchese, in seguito a guai giudiziari trova rifugio e protezione a Verona dove viene assunto nell’officina meccanica San Zeno di Goffredo Cabianca, uno zio della moglie. Per Cabianca svolge lavori di poco conto, piccoli servizi, giusto quello che basta per una stentata sopravvivenza. Conosce la Strapparava, mettendo un annuncio per cuori solitari sul giornale. In seguito a quell’annuncio nel ’47 inizia la loro relazione amorosa. Una relazione tempestosa, come raccontano gli affittuari della Strapparava, Giuseppe Cordioli cameriere all’albergo Trieste ed un maresciallo dei carabinieri con la moglie. A volte l’uomo è violento con la
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donna, è geloso, l’accusa di avere altre relazioni, di essere una poco di buono. La Memi ha un amico “un buon consigliere”, probabilmente un ex innamorato: Stefano Denaro. I due si vedono spesso e Alessandro Marchese non vede la cosa di buon occhio. Denaro è originario di Canicattì, è un impiegato delle ferrovie dello stato ed è un ex infermiere; la moglie è morta in un ospedale psichiatrico nel 1947, anche lui ha tre figli uno dei quali frequenta un corso per infermieri. Alessandro Marchese in un primo momento nega tutto, afferma che la Memi è partita per andare a trovare i nipoti a Udine, ma a Udine la donna non è mai arrivata e i parenti non hanno sue notizie da oltre dieci anni. L’accusato ritratta, dà un’altra versione dei fatti, ma anche questa non regge ai riscontri degli investigatori. Alla fine confessa il delitto dicendo di aver ucciso in un eccesso di gelosia, di aver avuto un complice per l’occultamento del cadavere. Entra così in scena Stefano Denaro, che era amico della coppia. Denaro lo avrebbe aiutato, sezionando il cadavere, facendo sparire la testa, fornendo la segatura per pulire il pavimento della cucina di Via Valverde nella quale Guglielmina è stata fatta a pezzi. Dal carcere Denaro si dichiara innocente. Nei giorni che avevano preceduto il delitto i due avevano litigato piuttosto violentemente, per poi riconciliarsi e spesso erano stati visti insieme in alcune osterie della città. Era tutta una macchinazione del Marchese per vendicarsi dell’uomo che riteneva avesse una relazione con la sua Memi? Da Genova arriva il fratello di Marchese che provvede a finanziare la difesa assumendo l’avvocato Devoto. La famiglia di Denaro è costretta a trasferirsi, i suoi figli non possono più continuare a vivere nell’appartamento di Via S. Maria in Organo, sono oggetto di troppe e malevole attenzioni da parte dei vicini. Stefano Denaro è difeso dall’avvocato De Luca. Anche i nipoti della Strapparava sono arrivati da Udine per recarsi sulla tomba della zia e per occuparsi dell’eredità della donna che oltre all’appartamento di Via Valverde comprendeva un conto bancario di 49 000 lire.
in VERONA
Gli investigatori ascoltano molti testimoni cercando di ricostruire i fatti, il movente, di farsi un’idea della personalità della vittima e dei due uomini accusati del delitto. Ai fini dell’indagine è molto importante il ritrovamento della testa e “dopo aver battuto tutte le strade possibili e dato che tanto il Marchese quanto il Denaro non si decidono a confessare il luogo dove la testa è stata nascosta, la Polizia accetta anche l’opera dei radioestesisti” (L’Arena 25 maggio 1949). In quegli anni, accadeva con una certa frequenza che ci si rivolgesse a questi sensitivi nel tentativo di avere indizi sui soldati che non erano tornati dalla guerra. Finalmente a metà giugno Alessandro Marchese, durante un interrogatorio durato sei ore, rende una piena confessione dei fatti al giudice istruttore, il dott. Dassisti. Ha ucciso accecato dalla gelosia, dalla paura di perdere l’unica cosa che possedeva: Memi. Memi che, oltre ad amarlo e accudirlo, pagava i suoi conti, sopportava le sue botte e taceva perché forse pensava di non poter meritare di meglio. Ha accusato di complicità Stefano Denaro per vendicarsi dell’uomo che riteneva essere la causa del disamoramento della donna. Dopo la follia ha agito con tutta la freddezza e la consapevolezza che sono necessari per sezionare un corpo, sfigurarne il volto per far sì che non si potesse riconoscere la vittima nemmeno in caso di ritrovamento, ed infine occultare il tutto. Questa confessione, insieme alla testimonianza di un collega, scagionano completamente Stefano Denaro, mentre l’ex marinaio, oltre ai reati di cui si è confessato autore, assassinio, vilipendio di cadavere, dissezione e occultamento dello stesso, dovrà rispondere anche del reato di calunnia. Gli inquirenti, però, non chiudono l’istruttoria con la confessione del Marchese, non essendo del tutto convinti riguardo al movente. Supponevano infatti, che questo in realtà, potesse essere di carattere economico: l’assassino non navigava in buone acque e non si erano ritrovati due libretti di risparmio ed alcuni oggetti d’oro della defunta. A fine giu-
Osteria di via Valverde, vicina alla pensione della Strapparava, frequentata dal Marchese.
Piazza Pozza nei pressi dell’officina meccanica in cui lavorava il Marchese.
L’officina di Goffredo Cabianca, in cui lavorava l’assassino, nel vicoletto cieco di piazza Pozza.
gno, durante un’approfondita pulizia dell’appartamento, sono rinvenuti, nello stanzino in cui dormiva Giuseppe Cordioli, affittuario della vittima, i due libretti intestati alla Strapparava, uno con un deposito di 50 mila lire e l’altro di 10 mila. Sembra cadere il movente del furto. Il 7 aprile 1951 prendeva il via il processo più importante e atteso della Corte d’Assise, in cui furono giudicati l’ex maresciallo di marina Alessandro Marchese e il ferroviere Stefano Denaro. Il 10 aprile si concluse la vicenda pena-
le di Alessandro Marchese con una condanna a 30 anni di reclusione, mentre Stefano Denaro fu assolto con formula piena da ogni accusa. Così commenta il fatto L’Arena dell’11 aprile 1951: “Si conclude così una tragica pagina della cronaca veronese; l’autore di uno dei più tremendi e impressionanti delitti del nostro tempo, comincia la sua espiazione. La giustizia, che è amministrata dagli uomini ma si ispira a concetti che attingono alle ragioni supreme dello spirito, lo ha raggiunto e lo ha punito”.
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Storia I RISCHI DI UN MESTIERE ANTICO
A Bernardina Ferrarese tagliarono il naso Storia di una prostituta veronese dei primi anni del ’500, quando il meretricio si esercitava negli arcovoli dell’Arena e chi faceva questo mestiere era regolarmente registrato. Era ricca e potente e forse per questo fece una fine orribile
Come al giorno d’oggi, pure nel passato il “mestiere più antico del mondo” fu oggetto di interventi da parte delle autorità pubbliche della nostra città, che alternarono periodi di indifferenza a momenti di rigore e repressione
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di Laura Muraro Il tema delle “crociate contro le lucciole” ha occupato spesso, durante l’estate scorsa, le pagine dei quotidiani nazionali e locali in seguito ad alcuni provvedimenti presi anche dalla nuova Giunta comunale di Verona. E così come al giorno d’oggi, pure nel passato il “mestiere più antico del mondo” fu oggetto di interventi da parte delle autorità pubbliche della nostra città, che alternarono periodi di indifferenza a momenti di rigore e repressione. Dalle cronache dei secoli scorsi emerge in particolare la storia controversa di una famosa meretrice veronese vissuta nel XVI secolo, Bernardina Ferrarese, e delle sue “allieve-schiave” che avevano addirittura dai nove ai quindici anni. Si sa con sufficiente certezza che a quell’epoca molte prostitute veronesi esercitavano la loro professione nel cuore della città: a San Pietro Incarnario, a San Niccolò, a sant’ Andrea e ancora sotto gli arcovoli dell’Arena, così come è testimoniato da T. Folengo nel Baldus (VIII 522-524). L’anfiteatro romano infatti era da alcuni secoli la forzata residenza delle prostitute, dove queste erano state relegate in seguito a disposizioni contenute negli statuti albertini (Alberto delle Scala) del 1276 che recitavano “Item ordinamus quod nulla meretrix pu-
blica vel ruffiana stare et habitare debeat in civitate Verone vel burgis, excepto quod possint stare in Arena”(cfr.Gli statuti veronesi del 1276...a cura di G. Sandri vol.1. Venezia 1940). Qui erano rimaste fino alla fine del XV secolo, fin tanto che, a causa della continua asportazione di pietre per la costruzione di edifici, era stato possibile trovarvi riparo. Ma in qualche arcovolo, ancora abitabile, alcune prostitute vissero fino al 1535 quando furono allontanate d’autorità per dar luogo successivamente al restauro dell’Arena. Un illustre letterato e politico del ‘500 è testimone e protagonista di ciò: Niccolò Machiavelli in una lettera del 1509 a Luigi Guicciardini racconta dell’avventura occorsagli a Verona con una meretrice «in una casa che è più di mezza sottoterra, né vi si vede lume se non per l’uscio» e che, secondo Luigi Messedaglia in Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, non può che essere un arcovolo dell’Arena. Inoltre la condizione delle prostitute e il loro mestiere erano noti a tal punto alle autorità che queste donne figuravano nell’estimo di Verona con la chiara qualifica di meretrix. Proprio per questo motivo sconcerta la fine crudele e l’accanimento subito da una di loro, la più famosa e forse la più ricca,
Bernardina Ferrerese, la cui vicenda è stata oggetto dell’attenzione delle cronache sia del tempo sia dei secoli successivi e che hanno dato vita a due differenti versioni relativamente alle cause e alle conseguenze dell’intervento delle autorità contro di lei. La versione che più a lungo ha avuto credito presso gli storici delle cose veronesi è quella di Placido Piccoli, cancelliere del 1735 che, nella prefazione all’inventario dei documenti patrimoniali della S. Casa della Misericordia, individuava in «danno, scandalo ed empietà» i motivi per cui le autorità veneziane nel 1515 emanarono un pubblico decreto con il quale l’«iniqua femina Bernardina Ferrarese... fu... arrestata, punita e tronca il naso, maltrattata così dal popolo che dopo essere stata condotta in ludibrio per la città, et alla fine ricoverata semivivendo nell’ospedale di Pietà ivi disperatamente morì...». Fu in seguito a questi fatti poi che «alcune allieve della sua (di Bernardina) brutale dottrina... furono espulse dalla città, se si eccettuano quelle poche che, guaste del mal francese, furono da alcuni pii uomini accolte, rincorate e soccorse... ». Tra questi uomini di buon cuore si cita lo spadaio Giacopo Antonio Ferrari, d’origine mantovana che «due di queste mal concie donne ricoverò sotto i portici di Santa Agnese» (dove oggi si tro-
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Storia Molte prostitute veronesi lavoravano nel cuore della città: a San Pietro Incarnario, a San Niccolò, a Sant’Andrea e ancora sotto gli arcovoli dell’Arena
Sono due le versioni relativamente alle cause e alle conseguenze dell’intervento delle autorità contro Bernardina...
in VERONA
va palazzo Barbieri, un tempo c’erano la chiesetta di santa Agnese e successivamente l’ospedale della Misericordia ndr) così da far fiorire «atti di carità dove inanzi spiravano sordidezze e brutture». Dopo qualche mese lo spadaio mantovano non era più solo nella sua opera e così grazie anche agli aiuti economici di altri «pietosi compagni» le povere donne furono spostate proprio nelle case difronte alla chiesa, dove prima viveva Bernardina. Fu quello il primo nucleo quindi dell’Ospedale S. Casa della Misericordia fondato il 3 marzo dello stesso anno per «ricovero e asilo delli incurabili». Come si vede da una vicenda di abbruttimento e degrado sarebbe nata una nobile iniziativa di solidarietà e di dedizione al prossimo in difficoltà. Se non che Gian Paolo Marchi, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Verona, nel suo saggio “La vera storia della Bernardina Ferrarese” dice che «il tradizionale racconto merita di essere guardato con un certo sospetto». Dalla lettura infatti di un’altra fonte storiografica, una breve cronaca inedita di un anonimo veronese del ‘500, emerge infatti una storia diversa. Innanzitutto le vicende sono ambientate non nel 1515 ma nel 1507, quando Berardina Ferrarese, «la quale era stata una bella vacha et ha regnato molti anni in gran richeza, et tuto de meretricio l’aveva acquistato», tra l’altro comprando giovani ragazze che costringeva alla prostituzione e al furto, venne arrestata su ordine del magnifico Podestà, messa alla corda e processata. Ma alle autorità ciò non bastava, come sottolinea l’autore («tamen l’era de volontà del magnifico Podestà e parte della corte la morisse...») che ne vollero appunto la morte. E così, letta in piazza dei Signori pubblicamente la sentenza, la donna fu trasportata su un carro legata ad un palo e condannata, oltre al pubblico ludibrio «a torno la piaza Grande per Corso a la Brà», a sevizie di ogni genere che l’anonimo descrive con macabra precisione: ad essere «molto ben
L’ala dell’Arena e il sito destinato in un progetto cinquecentesco a Locus Postriboli, in una stampa ottocentesca
Grazie allo spadaio Giacopo Antonio Ferrari, di origine mantovana, da una vicenda di abbrutimento e degrado sarebbe nata una nobile iniziativa di solidarietà frustà... bolata su la faza et le spale in cinque loghi... et ultimate li fosse cavato un occhio et tajato el naso». La morte sopraggiunse qualche giorno dopo nell’ospedale di Pietà, presso il quale era stata portata ormai in fin di vita. La cronaca racconta poi come
anche la sua sepoltura fu tormentata e avvolta nella leggenda: «il suo corpo, rifiutato dalla terra della Rena, nella quale era stato sepolto, una volta fu trovato appeso alla inferriata di una casa di un’altra meretrice veronese, un’altra volta in cima alla Rena e da ultimo presso l’Adige dove infine fu gettato e sparì». Ma come mai tanto accanimento e tanta crudeltà contro una semplice prostituta? Quali erano le vere ragioni che avevano spinto il Podestà e la corte a volere la morte di Bernardina, che esercitava come tante altre avevano fatto e continuarono a fare? I motivi, secondo lo scritto del prof. Marchi sono ben altri e non certo di carattere morale ma fi-
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Storia
«La più potente e la più ricca delle cortigiane del tempo: forse proprio per questo non figura nell’elenco dei contribuenti cittadini, come invece altre meretrici veronesi. E questa invidiabile fortuna accumulata aveva spinto le autorità veneziane a volerne la morte così da potersene accaparrare parte dei beni per poi venderli a favore del fisco»
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nanziario: Bernardina Ferrarese, come testimonia peraltro la cronaca del ‘500, era ricchissima e viveva in un lusso sfrenato. L’anonimo autore veronese favoleggia sui suoi beni parlando di «vestimenti de oro e, de arzento... richeze e zoie assai; mobili de casa senza mesura, fornita de coltre de cremesi, de veludo negro et cum balzane a torno a torno, coltrine de sede e raci et altri fornimenti da letto estimati un precio innumerebile... più di tremila ducati... una bella casa de lì presso Sanct’Agnese... tace anelli pironi... Animali in casa d’ogne sorte: can zentili forse 30 de sorte, volpe, cunelli, oseletti... su una carola adornatissima si faceva far vento le sue garzone...». Era quindi secondo il docente universitario veronese «la più potente e la più ricca delle cortigiane del tempo: forse proprio per questo non figura nell’elenco dei contribuenti cittadini» come invece altre meretrici veronesi. E questa invidiabile fortuna accumulata aveva spinto le autorità veneziane a volerne la morte così
da potersene accaparrare parte dei beni per poi venderli a favore del fisco. Però non solo le cause ma anche le conseguenze di questa triste vicenda sono, secondo Marchi, molto meno nobili e moralmente edificanti di quanto invece aveva detto il Piccoli. Infatti ad ostacolare i piani dei Rettori veneziani arrivò l’ospedale di Pietà, dove Bernardina era morta senza fare testamento, e al quale per statuto sarebbe dovuta andare l’intera eredità. Ne nacque perciò un contenzioso legale che venne successivamente concluso (come risulta dall’Archivio del Comune, reg. 16, f.56 v) con l’intervento salomonico del doge che stabilì che la controversia si fermasse sulle posizioni raggiunte: all’ospedale andava tutta l’eredità ad eccezione dei beni già incamerati e venduti (forse) dalle autorità veneziane per pagare le tasse.
La Bra con, sulla sinistra, la sede della Casa della Misericordia
Le immagini sono state gentilmente concesse dalla Biblioteca Civica Comunale
Dicembre 2007
LA CULTURA ITALIANA FRA LE DUE GRANDI GUERRE DEL
‘900
Seminario di studio 24-25 Gennaio 2008
Verona in collaborazione con: Biblioteca Civica – Sala Farinati Circolo Ufficiali del Presidio di Castelvecchio
CON IL PATROCINIO DEL COMUNE DI VERONA
La cultura italiana fra le due grandi guerre del ’900
La cultura italiana fra le due grandi guerre del ‘900 Il Seminario di Studio si propone, articolandosi in una serie di relazioni specifiche, di proiezioni cinematografiche, di materiale documentaristico di esaminare e approfondire il mondo della cultura italiana nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale fino all’inizio della seconda. Non vi è chi non veda come il mondo culturale italiano, ma anche quello europeo in tutto il suo insieme, abbia attraversato in questo periodo difficile e traumatico un passaggio contrastato, contraddittorio, ma anche pieno di fermenti. Il viaggio della cultura italiana con le sue nuove tendenze e con l’affacciarsi di nuovi protagonisti aveva avuto già inizio prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Dal pensiero uscito dai fermenti nazionalisti ai preludi del futurismo, dai movimenti letterari che fanno capo a Prezzolini, Papini e a tutta la cultura fiorentina a quella mitteleuropea di Svevo, Stuparic e altri; dal pensiero gobetiano a quello di Gramsci, da Croce a Gentile, da Spirito a D’Annunzio e Pirandello; attraverso queste figure assieme a quelle di altri autori e pensatori quali Cecchi, Bacchelli, Saba, Ungaretti, Quasimodo, Moravia, Vittorini, Pavese, Montale, Brancati, Pannunzio – e in certi casi perfino Bottai – si può costruire un itinerario che ci consenta di approfondire situazioni ambientali, ideologiche, politiche e personali influenti sulla vita della cultura italiana. La prima giornata, come dicevamo, sarà dedicata a una serie di relazioni specifiche, preparatorie alla relazione finale che avrà come il titolo “La seduzione del potere, la macchina del consenso” (Dall’appoggio sistematico all’industria cinematografica, alla creazione dell’EIAR: (Ente italiano Audizioni Radiofoniche); dall’istituzione del Centro Sperimentale di Cinematografia, alla costruzione di Cinecittà e alla nascita dell’Istituto LUCE; dai Littoriali della cultura fino alla concentrata influenza sul mondo accademico, sul mondo dell’informazione e sulle imprese editoriali). La seconda giornata sarà dedicata alla cinematografia italiana dal ’20 al ’45, dai “telefoni bianchi” alle prime
avvisaglie del neorealismo che avrebbe caratterizzato la cinematografia italiana del secondo dopo guerra; con espresso riferimento ai giovani registi Rossellini, Comencini, Castellani, Blasetti, Lattuada Emmer e altri. Vorremmo insomma raggiungere, o tentare di raggiungere, la descrizione di un paesaggio disegnato da personaggi e da protagonisti attorno ai quali ancora si discute; vorremmo cercare di penetrare nella sua completezza il mondo della cultura italiana nella complessa realtà fascista dove, sotto la maschera immobile del regime, si agitavano, assieme a tanti compromessi, diversi tentativi di rinnovamento e di apertura ad una cultura supernazionale. Dagli intellettuali, dagli ideologi, dagli scrittori che scelsero o subirono un esilio duro e sofferto, a coloro che vivendo in Italia cercarono più o meno coerentemente di vivere e creare un mondo intellettuale adeguato e preparatorio di nuovi tempi. Gli intenti di questo seminario, che può essere considerato estremamente ambizioso, sono quelli relativi a un tentativo di approfondimento e di ricerca che ha come principali destinatari soprattutto i giovani di questa nuova generazione, molto spesso disinformati sul periodo che noi desideriamo esaminare. L’iniziativa voluta dall’Associazione Culturale Domus Scaligera, con la collaborazione culturale specifica della Biblioteca Civica (anche per la valorizzazione della sua nuova struttura) e del Circolo Ufficiali di Castelvecchio per la parte logistica, cinematografica ed espositiva, ha naturalmente richiesto quegli interventi e quei patrocini istituzionali, la collaborazione di altre associazioni culturali, che certo contribuiscono a confermare la serietà dell’impegno culturale. Le relazioni e gli interventi saranno affidati a persone del mondo culturale veronese e italiano, tenendo conto del valore e dello spessore degli argomenti che dovranno essere programmati da un costituendo comitato promotore.
La cultura italiana fra le due grandi guerre del ’900
PROGRAMMA DI SVOLGIMENTO DEL SEMINARIO DI STUDIO 24 Gennaio 2008 – Biblioteca Civica di Verona Sala Farinati, ore 10.00 I lavori saranno preceduti dalla relazione introduttiva “Da Croce a Gentile”, per toccare, con una serie di altri interventi affidati a studiosi del tema del Convegno, l’industria culturale in Italia, il percorso della letteratura italiana, l’orientamento del teatro e del cinema, le arti, la scienza; per esaminare nel dettaglio l’organicità di un consenso e del formarsi di una prima fronda al regime. La prima giornata si concluderà con una relazione sul tema “La seduzione del potere e la macchina del consenso”.
25 Gennaio 2008 – Circolo Ufficiali del Presidio di Castelvecchio Salone d’onore, ore 10.00 Giornata non stop dedicata alla proiezione di film e documentari relativi all’epoca oggetto del Seminario di Studio (in collaborazione con il Cineclub Verona). I film e i «Con la sua retorica stregonesca plagia un popolo intero, lo disabitua all’esercizio della democrazia e ne ottiene un consenso acritico ed enfatico, senza basi reali, tanto che alla fine viene deposto dai suoi stessi seguaci… Il tribunale della storia ha condannato Mussolini senza alcuna possibilità di riabilitazione. Ma al di là della condanna c’è l’uomo, … un’arrivista pragmatico che voleva comandare,…che riesce a diventare il padrone d’Italia e che dichiara guerra a mezzo mondo; c’è un astuto manipolatore di folle e un grande comunicatore che, dal balcone o attraverso i mass-media riesce a trasformare uomini comuni in piccoli super uomini in camicia nera, i protagonisti, ma anche in automi e vittime». Antonio Spinosa, “Mussolini” «C’è modo e modo di assistere allo spettacolo della storia: da un palco di proscenio, da una poltrona di prima fila… Ma anche da un buco di serratura, essendo chiusi dentro o chiusi fuori (che è in pratica, lo stesso)». Giovanni Giudici, “Eresia della Sera”
La cultura italiana fra le due grandi guerre del ’900
LA SEDUZIONE DEL POTERE LA MACCHINA DEL CONSENSO pavese moravia brancati vittorini soldati montanelli pancrazi cecchi mascagni giordano de chirico piacentini silone levi alvaro calamandrei gentile volpe croce valitutti d’amico simoni gobetti enaudi pivano marinetti d’annunzio fabbri blasetti forzano rossellini moretti comisso longanesi pannunzio spadolini albertini ungaretti mila prezzolini papini quasimodo ojetti vergani jemolo marchesi zavattini sem benelli montale laterza mondadori fermi caffè plebe buzzati gadda saba guttuso marotta salvemini russo pighi pratolini fortini calvino mosca bontempelli cardarelli bacchelli gandolfi gramsci sarfatti bonaiuti sereni campanile gemelli visconti valeri migliorini soffici vassalli piovene mazzolari fortini longo de pisis asinetti chiarini aristarco chiarelli chiaromonte amendola alicata bonaiuti toscanini pizzetti barilli tozzi borgese zanzotto angioletti argan argentieri asor rosa baldacci barzini bo bobbio bertolucci petrolini tommaselli bernari bigiaretti bodini sereni penna fellini siciliano manacorda borsa sapegno momigliano deledda rebora campana govoni puccini gozzano corazzini pavolini serra roversi sanguinetti slataper volponi montale palazzeschi jovine lucini luzi de benedetti de robertis cassola bassani salvatorelli pende fermi comencini latuada de sica guareschi gatto geymonat giacometti giannini ginzburg labriola lombardo – radice lussu maccari marconi malerba manzù martini michetti abbiati modigliani morandi morante morlotti monelli pampaloni pancrazi parise pintor silva manzoni d’amico bragaglia rosselli rosso di san secondo sanesi savigno scarfoglio sinisgalli spagnoletti sturzo gonella tecchi treccani vigorelli perosi luzzato galimberti dalla torre la pira guerra personè purificato volpicelli frediani valori vedovato lilli fucini calcagno malagodi cibotto lamberti sorrentini montessori d’urso ansaldo furst sbarbaro pizzetti dursi laiolo stuparich romano marinuzzi
de sabata
castellani volpi preda beltrami dudovich jacovitti pavese moravia brancati vittorini soldati montanelli pancrazi cecchi mascagni giordano de chirico piacentini silone levi alvaro calamandrei gentile volpe croce valitutti d’amico simoni gobetti enaudi pivano marinetti d’annunzio fabbri blasetti forzano rossellini moretti comisso longanesi pannunzio spadolini albertini ungaretti mila prezzolini papini quasimodo ojetti vergani jemolo marchesi zavattini sem benelli montale laterza mondadori fermi caffè plebe buzzati gadda saba guttuso marotta
salvemini russo pighi pratolini fortini calvino mosca
bontempelli cardarelli bacchelli gandolfi gramsci sarfatti bonaiuti sereni campanile gemelli visconti valeri migliorini soffici vassalli piovene mazzolari fortini longo de pisis asinetti chiarini aristarco chiarelli chiaromonte amendola alicata bonaiuti toscanini pizzetti barilli tozzi borgese zanzotto angioletti argan argentieri asor rosa baldacci barzini bo bobbio bertolucci petrolini tommaselli bernari bigiaretti bodini sereni penna fellini siciliano manacorda borsa sapegno momigliano deledda rebora campana govoni puccini gozzano
Storia IL RINASCIMENTO A VERONA
Il tempo in cui nelle case si faceva buona musica Verona nel ’500 diventa un centro d’irradiazione culturale fra i maggiori d’Italia. Sono gli anni del massimo splendore della Cappella musicale della cattedrale. Nasce l’Accademia Filarmonica e proliferano i ridotti
di Nicola Guerini Palazzo del Sammicheli situato nell’attuale corso Cavour. Al suo interno i Bevilacqua organizzarono un ridotto musicale di altissimo livello
in VERONA
Il Rinascimento rappresenta la fioritura e il forte miglioramento del livello professionale dell’ambiente musicale di Verona. Il clima culturale infatti richiama nella no-
stra città musici e maestri provenienti oltre che da diversi centri italiani anche dall’area francese e fiamminga. Al culmine del suo splendore cinquecentesco c’è la Cappella musicale della cattedrale con la presenza di maestri del calibro di Jachet Berchem, fiammingo, e il veronese Vincenzo Ruffo, formatosi nella Scuola degli Accoliti. Egli fu prima insegnante e poi maestro di cappella dal 1550 al 1563, anno in cui fu trasferito a Milano per volere del cardinale Carlo Borromeo che in Ruffo riconosceva lo stile di una polifonia sacra “riformata” secondo i nuovi parametri del Concilio di Trento. Alla scuola di Vincenzo Ruffo si formarono altri musicisti molto importanti come Marc’Antonio Ingegnieri (a sua volta maestro di Claudio Monteverdi a Cremona) e Gio. Matteo Asola, in seguito alla guida della Cappella della nostra cattedrale (1590-91). L’ambiente veronese non è fecondo solo nell’ambito della musica sacra ma trova prestigio e soddisfazione anche nella produzione profana: Verona infatti diventa un centro culturale d’irradiazione fra i maggiori d’Italia. L’Accademia Filarmonica, sorta l’1 maggio 1543 dalla fusione della già preesistente Filarmonica con l’Accademia Incatenata (alle due citate si unirà nel 1564 una terza detta “alla Vittoria”), diviene in quel periodo il canale preferenziale per la circolazione del reperto-
rio madrigalistico e centro di confluenza di questa produzione. Sono numerose le raccolte dedicate alla “Nobile e virtuosa Accademia d’i Signori filarmonici veronesi”: da quella del fiammingo Giovan Nasco (1548) alle produzioni di Jaches de Wert, di Ingegneri, Luca Marenzio e molti altri illustri compositori. I rapporti fra gli Accademici e la Cappella della cattedrale divennero intensi e sempre più stretti. Ricordiamo infatti che spesso gli Accademici collaborarono con i musici del Duomo nelle solennità maggiori e soprattutto per la cerimonia che si tiene il primo maggio, data della fondazione dell’Accademia. Sono frequenti i musicisti che furono impegnati contemporaneamente alle dipendenze delle due istituzioni: Vincenzo Ruffo fu attivo dal 1551 al 52 presso la Cappella del Duomo oltre a ricoprire l’incarico di “Mastro Musicale dell’Accademia”. Nello stesso periodo la cultura cittadina si sviluppava anche al di fuori delle istituzioni più importanti facendo fiorire ritrovi artistici di stampo intellettuale soprattutto nei salotti dei palazzi nobiliari di Verona. Nella seconda metà del Cinquecento spicca a Verona la figura del conte Mario Bevilacqua per la fama di mecenate dell’arte, del collezionismo, ottimo intenditore d’arte e grande appassionato di musica. Si ha notizia che già nel 1543 la casa Bevilacqua ospitasse “una
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Storia Il conte Mario Bevilacqua organizzò un ridotto musicale stipendiando buoni musicisti ed acquistando numerosi strumenti. Vi furono a Verona altri ridotti privati come quello dei Ridolfi, di Giovanni Severino, dei Giusti, di Alessandro Lafranchino, di Alfonso Morando, i quali mostravano una tendenza evolutiva nel gusto musicale ma nessuno superava il Bevilacqua nello splendore, il livello artistico e nelle finalità culturali
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accolita “ di cultori della musica. Il nobile veronese infatti, nel palazzo del Sammicheli situato nell’attuale corso Cavour, organizzò un ridotto (sede di un circolo) musicale stipendiando buoni musicisti ed acquistando numerosi strumenti. Vi furono a Verona altri ridotti privati come quello dei Ridolfi, di Giovanni Severino, dei Giusti, di Alessandro Lafranchino, di Alfonso Morando, i quali mostravano una tendenza evolutiva nel gusto musicale ma nessuno superava il Bevilacqua nello splendore, il livello artistico e le finalità culturali. Il conte fu membro e padre dell’Accademia Filarmonica e poi anche “Accademico forastiero aggregato” dell’Olimpico di Vicenza. Il luogo del ridotto, la biblioteca e la galleria, nella quale il conte aveva raccolto straordinari tesori, formavano un’ottimo stimolo offerto al godimento alla Bellezza. Le prime stampe dedicate al conte Bevilacqua segnano il periodo in cui il ridotto crebbe, diventato splendido dopo che il mecenate, avuta l’eredità del fratello Camillo, lo arredò sontuosamente, acquistò strumenti musicali e stipendiò i musicisti. Nel 1582 uscivano nelle stampe di Angelo Gardano i “Madrigali di Paolo Masnelli Veronese, Organista nel Ridotto di Musica dell’Illustri Signori Bevilacqua”. Queste pagine erano dedicate “ai Virtuosissimi Musici dell’honoratissimo Ridotto”. Fra questi Virtuosissimi eccelleva Sebastiano Pigna che Gabriele Martinengo, dedicando due anni prima al Bevilacqua i Madrigali a 5 voci lodava con queste parole: “Madrigali uditi nel suo onoratissimo Ridotto di Musica... da quei virtuosissimi che li canteranno e sopra tutti da M. Sebastiano Pigna mio amicissimo”. Apprezzamento confermato poi da Leone Leoni nel Quarto Libro de Madrigali a 5 voci (1598). Sono pochissimi i dati in archivio che possano fornire un’immagine soddisfacente della fama del Ridotto Bevilacqua nel panorama della musica, certamente il più celebre d’Italia nel ‘500. Di grande importanza è la quantità di opere dedicate al conte Mario “amico e protettore della Musica e de’ Musici” da Orazio Vecchi, Orlando di
Il conte Mario Bevilacqua
Lasso a Filippo de Monte e Luca Marenzio. Tra i “virtuosissimi Musici dell’honoratissimo ridotto” troviamo anche il giovane accolico Stefano Bernardi (1575-1637) che porterà al massimo prestigio l’attività della Cappella del Duomo. Con lui infatti la cappella fu tra le prime ad aderire alle nuove sensibilità della polifonia sacra in stile “policorale concertato” di matrice veneziana con i maestri G. M. Asola e I. Baccusi che ricoprirono la carica fra il 1598 e il 1608. Con Bernardi il complesso della Cappella si arricchì, oltre all’organo, di altri strumenti come il cornetto, il violino e il trombone. Il suo profilo biografico e professionale si arricchisce anche con il ruolo di cantore dal 1602 al 1607 e con quello di “Maestro delle Musiche” presso l’Accademia Filarmonica. Alla morte del conte Mario Bevilacqua (1 agosto 1593) le volontà del testamento non furono tutte rispettate: gli strumenti, circa ottanta, ad eccezione dell’organo, del regale e di alcune viole, furono ceduti con i libri a don Giovanni Battista Peretti, intimo e factotum del conte, a saldo di un suo debito, nonostante fossero destinati alla Filarmonica. Successivamente il nipote del Bevilacqua, il conte Alessandro, fu musicista sensibile e riaprì il ridotto coltivando l’attività culturale lasciata dallo zio. Come già accennato prima l’ambiente culturale era così stimolante che anche in altre case facoltose veronesi era possibile trovare un ridotto dove circolava la cultura del tempo e dove musicisti e letterati di grido si incontravano. Un doveroso cenno merita Paolo Naldi che nella sua casa in contra-
da S.Stefano teneva un ridotto musicale. Verso la metà del ’500 la famiglia Serego risulta essere una tra le maggiori casate del patriziato veronere. Nel 1558 il conte Marc’Antonio Serego stipendiava un “maestro Bastian (Bormino) cantor” di anni 40. Il Serego fu “padre” della Filarmonica nel 1577 e insieme a “D. Julio Peregrino” segnò l’unione fra questa con l’Accademia “alla Vittoria”. Anche il figlio, Giordano fu sensibilissimo alla musica e proprio per le nozze il musicista Paolo Bellasio gli dedicò nel 1591 i Madrigali a 3, a 4, a 5, a 6, a 7 e a 8 voci. Presso il palazzo del conte Agostino Giusti (suocero del conte Mario Bevilacqua) nel 1584 fu inaugurato un “ridotto letterario”. Marc’Antonio Ingegneri, dedicandogli il Quarto libro dei madrigali a cinque voci (1584) ne attestava la grande competenza e stima. Di sicuro interesse è il clima culturale che si respirarava anche in casa di Pellegrino Ridolfi: i documenti riportano infatti che il 23 marzo 1543 si riunirono “parte de li nob. Academici philarmonici et cossì de l’Incatenati” per “far union perfeta de Tutte due dite academie”. Il giovane Leone Leoni nel 1598 gli dedicò il suo Quarto libro dei madrigali a cinque voci, ricordando “il suo nobilissimo ridutto un Museo, anzi Parnaso”, retto dal Mag. Sig. Sebastiano Pigna musico eccellentissimo”. La ricca produzione di musiche polifoniche, monodiche e in stile concertato fiorita a cavallo tra i secoli XVI e XVII, dimostra la vivacità culturale che confluiva a Verona attraverso le sue istituzioni armoniche conferendole una posizione di assoluto interesse nel panorama musicale del tempo che solo la grave calamità della peste nelle sua violenta decimazione del 1630 ne modificò il profilo. Non mancarono però episodi di rilievo, come il passaggio in città de Maria Maddalena granduchessa di Toscana e arciduchessa d’Austria nell’ottobre del 1631, in cui le autorità cittadine offrirono un sontuoso banchetto con musiche adatte, mentre musiche sacre e solenni furono eseguite la mattina seguente, durante la messa celebrata in S. Anastasia.
Dicembre 2007
Storia LA GUERRA DELLE BANDIERE
Policarpo Scarabello: martire o terrorista? 4 novembre 1920. Durante la guerra delle bandiere fascisti e socialisti si scontrano in città. Una bomba a mano che il parlamentare Scarabello tiene in tasca esplode dilaniandolo. A lui la giunta del sindaco Gozzi dedicò una via
I socialisti si barricano in Comune. Da fuori i fascisti tentano di forzare l’ingresso posteriore. Non si sa bene quale esponente di quale gruppo spara il primo colpo di rivoltella contro l’avversario, sta di fatto che nel giro di pochissimi minuti si consuma la tragedia
in VERONA
di Massimo Rimpici Forse il sindaco Tosi e la giunta di Verona non lo sanno, ma con la dedica di una via a Nicola Pasetto (25 voti favorevoli e 10 contrari nella seduta del primo agosto 2007), deputato del Msi e poi di Alleanza nazionale, hanno compiuto una sorta di par condicio. Sì perché nel lontano 5 marzo del 1979, la Giunta del sindaco Renato Gozzi aveva deciso di intitolare una via anche a Policarpo Scarabello: esponente dell’ala massimalista del Partito Socialista Italiano. Come mai il sindaco Gozzi (insieme alla Giunta di centro-sinistra) hanno preso quella decisione? E chi era, cosa ha fatto il deputato socialista? La motivazione si è persa, purtroppo, nei depositi polverosi e male organizzati dell’Ufficio Toponomastica del Comune di Verona. L’unica cosa che si riesce a conoscere è la composizione dell’allora Commissione comunale di Toponomastica guidata dal presidente geometra Delio Dalle Pezze, e composta anche dal professor Gino Beltramini, da Corradino Corsini, dal professor Alberto De Mori e da Giorgio Forneron che nelle sedute del 3 novembre e del 19 dicembre 1978 hanno espresso parere favorevole all’attribuzione ad alcune aree di circolazione ben identificate determinati topònimi, fra i quali risul-
Policarpo Scarabello
ta quello appunto di via Policarpo Scarabello “1883-1920 – recita la descrizione – da via S.Marco 71 a nuova strada del PRG”. Risaliamo a quel tragico 4 novembre del 1920 (anniversario della vittoria e della fine della prima guerra mondiale) quando in circostanze non ancora del tutto limpide il deputato socialista perde la vita a causa dell’esplosione di una bomba a mano. I fatti raccontano della battaglia – tutta ideologica – innestata da quella che passerà alla storia come la “guerra delle bandiere” all’indomani della vittoria socialista alle elezioni municipali e pro-
vinciali: per i socialisti il tricolore con al centro lo stemma della monarchia rappresentava “l’Italia dei pescecani, quattro anni di guerra e di odio selvaggio tra proletari fratelli per difendere gli interessi del capitalismo”. I fascisti invece, proprio in occasione della ricorrenza del 4 novembre, fecero opera di propaganda affinché quella bandiera venisse esposta su tutti i balconi e le finestre della città. Per tutta risposta i socialisti – che guidavano, come si è detto, il Consiglio comunale e provinciale della città – fecero issare sugli edifici pubblici le bandiere rosse. È una delle prime volte che i rappresentanti del neonato movimento fascista veronese (sostenuto e osannato dal quotidiano locale L’Arena, guidato dal direttore – fascista della prima ora – Giovanni Cenzato) prendono l’iniziativa e il giorno della ricorrenza, il 4 novembre 1920 appunto, armi in pugno si dirigono in piazza Brà decisi ad ammainare l’odiato vessillo rosso dal pennone del Municipio. I socialisti si barricano in Comune. Da fuori i fascisti tentano di forzare l’ingresso posteriore. Non si sa bene quale esponente di quale gruppo spara il primo colpo di
L’“episodio Scarabello” lascerà un segno indelebile nella storia della città. Ad esso si fa risalire l’avvio e il decollo del ventennio fascista veronese
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Storia 6 novembre 1920. Una rara immagine dei funerali di Policarpo Scarabello. Piazza Bra è gremita di gente
Tra le ipotesi anche quella sostenuta dalla figlia Factma secondo cui la bomba in Municipio l’aveva portata un giovane al quale Scarabello decise di requisirla per timore che questi non fosse in grado di maneggiarla. Nel riporla nella propria tasca l’ordigno era esploso
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rivoltella contro l’avversario, sta di fatto che nel giro di pochissimi minuti si consuma la tragedia: esplode una bomba a mano e muore dilaniato dalla stessa il parlamentare veronese Policarpo Scarabello. Inizialmente i socialisti gridano all’assassinio, successivamente – anche a seguito della testimonianza di un vigile urbano presente sulla scena della disgrazia – la versione ufficiale sostiene che la bomba si trovasse nelle tasche dell’esponente socialista e che nell’atto di gettarla contro i fascisti che si trovavano nel cortile sbatte contro lo stipite della finestra ed esplode. Questa versione dei fatti però verrà contestata sessant’anni più tardi dalla famiglia di Scarabello e soprattutto dalla figlia più giovane dell’onorevole, Factma. La quale riporta la versione di Giuseppe Mondini, amico fraterno di Scarabello, che il giorno della tragedia era proprio accanto al parlamentare socialista. Mondini – per la cronaca – raccoglierà ed esaudirà le ultime volontà espresse dal suo amico Policarpo «ti raccomando la mia famiglia»: sposerà infatti la vedova di Scarabello, Myriam Dal Palù ed accudirà ai suoi tre figli. Per tornare a quel maledetto 4 novembre, Mondini sosterrà per bocca della figliastra Factma che la bomba in Municipio l’aveva portata un giovane al quale Sca-
rabello decide di requisirla per timore che questi non fosse in grado di maneggiarla. Nel riporla nella propria tasca l’ordigno esplode. A sostegno di questa tesi Factma Scarabello consegna al giornalista de L’Arena che raccoglie l’intervista una foto della sala del Municipio con la chiazza di sangue di suo padre causata dall’esplosione. A differenza di quanto riportato dai testimoni precedentemente, il sangue si trova al centro della sala e non vicino allo stipite della finestra dalla quale – secondo l’ex squadrista Bruno Zeni – Scarabello tentò, senza riuscirci, di lanciare la bomba a mano contro gli avversari politici. Ancora oggi gli storici non hanno fatto piena luce sulla dinamica degli eventi e pertanto permangono entrambe le diverse versione dei fatti. Ad onor del vero bisognerebbe però aggiungere un ultimo particolare relativo all’ordigno: si tratterebbe infatti di una bomba a mano di marca “Sipe” che all’epoca – per esplodere – era stata dotata di sistema di accensione a frizione su capocchia infiammabile. In buona sostanza – accidentalmente o meno – per esplodere la bomba avrebbe avuto bisogno di essere accesa dalla miccia presente nella parte superiore della granata. Resta fondamentale il ruolo politico (non solo veronese) svolto
dal socialista Policarpo Scarabello nell’arco delle sua breve esistenza. Fu uno degli esponenti di spicco del partito e da sempre sorvegliato speciale della polizia “regia”. La sua carriera politica parte molto presto: in un primo momento come redattore del settimanale La Semente, quindi come collaboratore di Umanità Nuova. In seguito si distinguerà come presidente della Cooperativa tipografica della Casa del Popolo di Verona e dell’Azienda elettrica comunale. Ferroviere, durante la sua permanenza a Lucca fonda la Camera del Lavoro di quella città e diventa presidente della locale Cooperativa ferroviaria. L’“episodio Scarabello”, almeno per Verona, lascerà comunque un segno indelebile ed inequivocabile nella storia della città. Ad esso si fa risalire l’avvio e il decollo del ventennio fascista veronese. Scrive Maurizio Zangarini, presidente dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza, nel suo libro Verona Fascista: “...forse i fascisti avevano bisogno proprio di questo, di quel colpo di fortuna che, mostrandoli per una volta innocenti del sangue sparso, ne sottolineasse, esaltandoli, i tanto conclamati fondamenti democratici... Sta di fatto che si può far data da quel momento per seguire lo sviluppo del fascio e della nascita a Verona delle sezioni locali...”.
Dicembre 2007
Personaggi ANNIVERSARIO
Renato Simoni e i 60 anni dell’Estate Teatrale Veronese Gli spettacoli al Teatro Romano iniziarono nel giugno del 1948 con Romeo and Juliet di Shakespeare. Simoni, Barbarani e Dall’Oca Bianca: un trio che esaltò Verona nella sua bellezza e nella sua storia
Simoni si formò alla scuola di quel giornalismo veneto che tante firme diede alla carta stampata, alla letteratura, alla poesia; egli aveva della cronaca il rispetto e la concezione della base dell’informazione
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di Oreste Mario Dall’Argine Nel 1948 il Teatro alla Scala di Milano, propose a Renato Simoni la regia del Barbiere di Siviglia di Rossini. La notizia rimbalzò a Verona e il sindaco di allora, Aldo Fedeli, pensò con altri amici di proporre al loro concittadino la trasposizione dell’opera in Arena; ma Simoni, pur nel rispetto della proposta, disse che non avrebbe mai accettato l’idea di essere regista di un’opera lirica «di prosa, sì!». Così la sera del 26 giugno del 1948, alla presenza del capo dello Stato Luigi Einaudi, con il capolavoro shakespeariano Romeo and Juliet, per la sua regia e come protagonisti Giorgio De Lullo e Edda Albertini nacque quell’Estate Teatrale Veronese che doveva affermarsi negli anni seguenti come grande e unico Festival Shakespeariano italiano con il contributo e la partecipazione dei più grandi attori e registi italiani e internazionali. Simoni nasce a Verona nel 1875 e muore a Milano nel 1952. Teatrante nel senso nobile della parola, e nello stesso senso galantuomo nella vita e nella professione, studioso colto e mai chiuso all’aprirsi di nuovi sipari, fu amico rispettato e rispettoso del lavoro di tutti i teatranti che ascoltò e frequentò dalla sua poltrona di critico e dalla sua scrivania del Corriere della Sera. È stato con Barbara-
ni e Dall’Oca Bianca un protagonista di quel trio che esaltò Verona nella sua bellezza e nella sua storia, insegnando ai veronesi stessi come amare e rispettare la loro città. “Il teatro per Simoni aveva i colori e gli umori del suo dialetto, la luce dei suoi cieli veneti: la scrittura, il modo di porgere – fatto di grazia e di malizia, liquido e attento, con l’aggettivo sempre aderente in punta di penna – fanno di lui un maestro di stile… La conoscenza, diciamo la parola, la cultura – profonda, minuziosa fino al dettaglio – non pesava mai ma filtrava fra le righe come filo prezioso per un arazzo che aveva sempre una personale nota cromatica. Più che “criticare” Simoni amava rivivere e far rivivere la fatica della creazione…”. (Mario Bonetti - Cara gente di Teatro). Il mondo teatrale italiano deve tanto a Simoni, così come molti protagonisti dell’universo scenico sono legati al suo nome per l’attenzione e umana passione di maestro nascosto che Simoni donò loro. Valga per tutti, anche per stare in tempi relativamente vicini, la parte, spesso misconosciuta, che ebbe nella nascita e nei successi del Piccolo Teatro di Milano. Quando nel 1948 due giovani, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, decisero, dopo un avventuroso sopralluogo a un edificio semi distrutto in Via Rovello a Milano, che in quel posto sarebbe nato un
teatro, prima di recarsi dal sindaco di allora Antonio Greppi, vollero parlare con Simoni. L’ormai anziano critico ascoltò con attenzione l’appassionata perorazione dei due giovanotti senza mai interromperli; alla fine, usando il suo dialetto veronese, disse: «Guardate ragazzi, in teatro ne ho viste tante, ma come questa, di pazzie una sola, la vostra». Grassi e Strehler avevano così compreso di avere dalla loro parte una voce importante e lasciarono Simoni ai suoi pensieri. Pensieri che si tramutarono in aiuti concreti con interventi decisi e determinanti presso l’Amministrazione comunale e le altre istituzioni. Così quando il 15 maggio 1947 Il Piccolo di Milano debuttò con L’albergo dei Poveri di Gorkj, con un successo imprevedibile, siglato dalla recensione firmata R.S. sul Corriere della sera del giorno dopo, a chi gli chiedeva commenti e pareri su questa avventura teatrale, Simoni diceva «Sti putei qua, stò Grassi, stò Strehler i farà strada, te lo digo mi». Ma Paolo Grassi, che non era certamente uomo da abbandonarsi a cerimoniosi sentimentalismi, quando nel 1953 Brecht venne a Milano alla prima del suo capolavoro L’Opera da Tre Soldi, gli disse: «Questo risultato ha un protagonista lontano, Renato Simoni». Formatosi alla scuola di quel giornalismo veneto che tante firme diede alla nostra carta stam-
Dicembre 2007
Personaggi La sua poltrona a teatro era il suo banco di scuola e mai pensò di salire in cattedra; capiva e conosceva la fatica quotidiana dell’attore, dal protagonista all’ultima comparsa e per questo non usò mai nelle sue cronache quelle espressioni di volgare dileggio che vanno di moda per stroncare autori e attori. Scriveva per il pubblico, così come aveva imparato a scrivere le cronache quando era giovane praticante
pata, alla nostra letteratura, alla nostra poesia; cronista, egli aveva della cronaca il rispetto e la concezione della base dell’informazione. Tanto che volle sempre che le sue famose critiche teatrali fossero chiamate “cronache”. Come critico ebbe sempre la percezione dei limiti e del rispetto che uno spettatore, pur privilegiato come lui, doveva avere verso il palcoscenico, l’autore e gli attori. La sua poltrona a teatro era il suo banco di scuola e mai pensò di salire in cattedra; capiva e conosceva la fatica quotidiana dell’attore, dal protagonista all’ultima comparsa e per questo non usò mai nelle sue cronache quegli apprezzamenti o quelle espressioni di volgare dileggio che oggi, pur nelle scarsissime recensioni teatrali, pseudo critici intellettuali usano offensivamente per stroncare autori e attori. Scriveva per il pubblico, così come aveva imparato a scrivere le cronache quando era giovane praticante. Preciso, dettagliato fino alla conta degli applausi e delle disapprovazioni e delle loro durate, non
Renato Simoni
tralasciava di nominare alcun interprete, porgendo a ognuno un aggettivo appropriato. Ripudiò sempre la sbrigativa formula “Bravi gli altri”, che concludeva, d’uso, le consuete critiche teatrali. Le sue cronache avevano regole e argini precisi soffriva per i così detti fiaschi, anche se questi fanno parte naturale della vita del teatro; ma Simoni, che nella sua esperienza fu anche un serio autore, non avrebbe mai voluto vedere cadere morta una foglia su un palcoscenico. Sapeva seguire l’avvenimento scenico senza dimenticare o trascurare l’atteggiamento, gli uomini e le reazioni del pubblico. Con molti grandi e anche attori minori ebbe profonde amicizie donando loro con generosità consigli e suggerimenti. Principe della critica con D’Amico, anzi riformatore delle cronache teatrali, il suo amore per il teatro lo riversò anche nelle sue creazioni; nelle sue creature protagoniste delle commedie che molti supponenti studiosi spesso hanno relegato nel repertorio del vernacolo veneto, mentre erano
dense di grande dignità, di ricchezza umana e saggezza teatrale. A proposito di Simoni autore scrive Giuseppe Brugnoli: “Renato Simoni fu a suo modo un innovatore;… svolgendo insieme un’opera accorta di ripulitura del linguaggio da tanti solecismi vernacoli che da Goldoni in poi avevano trasformato prima le maschere in personaggi, poi questi in macchiette. Dopo un secolo, si può dire che Simoni fu l’ultimo commediografo del teatro veneto… La Vedova (1902), Carlo Gozzi (1908), Tramonto (1906), Congedo (1910), Il Matrimonio di Casanova (1910) sono quelle sue creazioni che gli consentono di stare nel Pantheon del teatro italiano del primo ‘900”. Scrisse tanto altro: Piccola storia di Arlecchino e c. (1946), Uomini e cose di ieri (1952), Trent’anni di cronaca drammatica, a cura di Lucio Ridenti, che iniziata nel 1952 fu completata nel 1960, per citare le realizzazioni più importanti. Collaborò alla stesura dei testi della Turandot di Puccini e a Madame Saint Genes di Giordano. Legato al suo nome è anche il giornale La Tradotta, che nella prima guerra mondiale redigeva al fronte con altre preziose firme con le stellette. Fu anche regista di prosa, preciso, attento, mai dissacratore e da questa sua vocazione nacque, quasi per caso, l’idea delle magnifiche notti shakespeariane in riva all’Adige, nello spazio del Teatro Romano. Simoni muore mentre nella sua città natale si prepara la messa in scena del Sogno di una notte di mezza estate, al Giardino Giusti. All’invito rivoltogli dagli organizzatori perché assistesse alla prima, con un cuore ormai divenuto povero di battiti, si scusò con essi e con Verona con queste ultime parole «Sono tormentato dal respiro difficile. Ogni movimento mi spossa. Scusatemi. Mai l’anima mia si è così protesa verso Verona in questi anni di memoria e di addio». Lo vediamo, ancora seduto sulla sua poltrona di teatro, salutarci così con le ultime battute del congedo: «Bisogna che ve veda tanto, tuti, per portar via più che posso de vualtri…».
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Personaggi UN GRANDE URBANISTA DEL ’900
Ha creato i luoghi di Giulietta e Romeo Antonio Avena dedicò la sua vita alla valorizzazione dei monumenti cittadini. Grazie a lui sono nati gli spazi dove collocare la tragedia di Shakespeare
Intorno agli anni Trenta Avena fece restaurare i palazzi scaligeri e l’Arco dei Gavi, i cui resti giacevano dall’epoca napoleonica negli arcovoli dell’Arena
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di Alice Castellani Uno dei grandi protagonisti della Verona culturale del primo Novecento (morì il 9 ottobre 1961) fu Antonio Avena, urbanista “esile ma non fragile, tutto spirito, vivacità ed intelligenza” che dedicò tutta la sua lunga vita (era nato a Verona il 23 maggio 1882) allo studio ed alla valorizzazione dei monumenti cittadini e della provincia. Apparteneva ad una famiglia di commercianti che lo battezzarono Antonio Benvenuto Angelo Santo, ma rimase orfano di padre a soli sei anni. Unico maschio della sua numerosa famiglia, gli fu data la possibilità di studiare e, precocissimo, fu iscritto in terza elementare. Si laureò poi in lettere a Padova con approfonditi studi sul Petrarca ed
iniziò la sua carriera dapprima insegnando nelle scuole cittadine e quindi come vicebibliotecario della Civica di Verona, divenendo poi bibliotecario, per passare infine, nel 1915, alla direzione dei Musei e delle Gallerie comunali (che mantenne fino al 1955). Inizialmente rivolse i suoi interessi a letteratura e filologia, poi alla museologia veronese e alle raccolte d’arte del Museo Civico, che allora raccoglieva, a Palazzo Pompei, tutte le collezioni archeologiche, artistiche e naturalistiche del Comune, cui dedicò alcuni importanti studi. Fu proprio lui a convincere l’Amministrazione della necessità di trasferire in apposita e degna sede le collezioni d’arte, di pittura e scultura in primis, divenute patrimonio della città, quelle delle chiese
soppresse dal demanio e i molti capolavori di diverse raccolte private, come quella del Monga, del Bernasconi e dello stesso Pompei. A lui si deve dunque, tra il 1924 e il 1926, il riscatto di Castelvecchio, destinato da caserma a sede di uno dei più prestigiosi musei civici del Nord Italia, restaurato su progetto d’altri ma da lui stesso arredato “in stile”, con finestre, fontane, portali etc. giunti da palazzi veronesi distrutti. In seguito diede vita al Museo Archeologico al Teatro Romano, di cui proseguì gli scavi, e creò la Galleria d’Arte moderna ed il Museo del Risorgimento, presso il settecentesco Palazzo Emilei donato al Comune. Intorno agli anni Trenta fece restaurare i palazzi scaligeri, ora sede di Amministrazione Provinciale e Prefettura, e l’Arco dei Gavi, i cui resti giacevano dall’epoca napoleonica negli arcovoli dell’Arena. Nel 1930 partecipò anche ad un particolare allestimento, allora ritenuto ardito e rivoluzionario, delle scenografie del Boris, abolendo le limitazioni del palcoscenico e creando “scene plastiche” che potevano spostarsi su piani inclinati. Suoi anche alcuni progetti, solo in parte realizzati, per la sistemazione a parco pubblico dei bastioni di Verona, da abbellire con vecchi dispositivi bellici, e il recupero delle preziose vesti di sete orientali, di gran valore storico e documentale, di Cangrande dalla sua tomba. Ad Avena si devono anche una quantità di pubblicazioni
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Personaggi
Tra il 1924 e il 1926, ottenne il riscatto di Castelvecchio, destinato da caserma a sede di uno dei più prestigiosi musei civici del Nord Italia. Diede vita al Museo Archeologico al Teatro Romano, di cui proseguì gli scavi, creò la Galleria d’Arte moderna e il Museo del Risorgimento, presso il settecentesco Palazzo Emilei donato al Comune
in VERONA
su aspetti e problemi dell’arte veronese: alcune centinaia di titoli fra volumi, saggi, articoli e altro. Ma forse il progetto che meglio lo rappresenta e che merita di essere scandagliato più a fondo per la sua profonda lungimiranza è quello che dedicò, in tempi ben lontani dall’attuale turismo di massa, alla sistemazione delle cosiddette Tomba di Giulietta e Casa di Giulietta, con annesso “storico” balcone. È grazie ad Antonio Avena che i visitatori da ogni dove possono oggi trovare a Verona dei luoghi da ammirare e dove collocare la tragedia dell’eroina immortalata da Shakespeare, altamente scenografici e suggestivi seppur poco rispettosi della verità storica. Già dalle prime stesure, e poi nella più celebre versione shakespeariana, la tragedia di Giulietta e Romeo e del loro infelice amore ambienta i suoi momenti chiave in due luoghi precisi: Casa Capuleti, teatro della festa che vede il primo incontro tra i due giovani delle nobili famiglie nemiche, lo scoccare del colpo di fulmine e il romantico colloquio al balcone e, non meno rilevante, la tomba di famiglia dei Capuleti, dove tutta Verona accompagna il feretro di Giulietta che si fa credere morta per evitare il matrimonio combinatole dal padre, ignaro delle nozze già avvenute con Romeo. Ovvero il luogo dove il dramma trova il suo compimento: la morte per veleno di Romeo, ignaro della messinscena, e il finale suicidio di Giulietta che si pugnala sul corpo dell’amato. Se casa Capuleti trovò posto in un edificio duecentesco sito a metà della centralissima Via Cappello, la tomba di Giulietta, così come la conosciamo oggi, risale al 1937, quando Avena decise di dare un nuovo volto al luogo identificato come sede della sepoltura della bella Giulietta, collocandola tra le mura dell’antico ex convento di San Francesco al Corso, appena fuori da quelle mura oltre le quali, per l’esiliato Romeo, “non c’è più nulla all’infuori del purgatorio, della tortura e dell’inferno stesso”. Nell’orto dell’ex convento giaceva, forse da secoli e soggetto alle intemperie, un antico sarcofago di marmo rosso, un avello forse d’età romana, privo di coperchio e completamente vuoto, identificato co-
me tomba di Giulietta già a inizio Ottocento e meta di pellegrinaggio d’illustri visitatori, come Madame de Stael, George Byron, Maria Luisa d’Austria (vedova di Napoleone), Antoine Claude Valéry, Heinrich Heine, Alfred de Musset e altri. Il convento era allora delle Franceschine, che aprivano “un cancello sgangherato” per mostrare a chi ne aveva sentito parlare il sarcofago di Giulietta, che poco impressionò Charles Dickens, che lo raccontò in Pictures from Italy (1846). Già dal 1932 Avena meditava di dar vita ad un museo shakespeariano, per celebrare la leggen-
finitiva alla trasformazione del luogo che accoglieva la tomba di Giulietta: il soggiorno a Verona della troupe della Metro Goldwin Mayer, il colosso cinematografico statunitense, alla ricerca di ambientazioni ideali per un nuovo colossal su Giulietta e Romeo. Avena divenne subito il consulente dei cineasti americani, che pur prendendo spunto dal soggiorno sulle rive dell’Adige decisero di creare una città di scenografie del tutto fantastica per il film firmato dalla regia di George Cukor, con protagonisti Norma Shearer (Giulietta), Leslie Howard (Ro-
da che dava fama a Verona, cosa testimoniata dallo statuto di una mai nata “Società del museo Giulietta e Romeo”, che doveva – recita la bozza dello stesso Avena – “raccogliere, conservare, esporre ed illustrare in uno speciale museo tutto quanto nel campo delle lettere, dei costumi, e delle arti belle ha avuto ed abbia riferimento alla leggendaria vicenda degli amori di Giulietta Capuleti e Romeo Montecchi”. Secondo le intenzioni di Avena, il Comune avrebbe affidato all’associazione sia le case sia la tomba degli innamorati, e la società se ne sarebbe assunta “la piena e diligente manutenzione, coll’apertura al pubblico (gratuita in certi giorni della settimana) e coll’illustrazione gratuita periodica del museo mediante conferenze, lezioni, concorsi storici, letture e simili”, reinvestendo tutti i proventi nel museo. Di quel progetto non se ne fece nulla e qualche anno dopo fu un altro importante evento a dare la spinta de-
meo) e John Barrymore (Mercuzio). Fu sull’onda dello straordinario successo della pellicola (uscita nel 1936) che Avena, immaginando un imminente e grandioso afflusso di turisti a Verona, tutti alla ricerca dei luoghi così ben descritti nel film, decise di dare al sarcofago una cornice di maggiore suggestione, visto che la scena finale del doppio suicidio nel film non si svolgeva nel chiostro del convento ma in una cripta. E così Avena ottenne dalla Soprintendenza l’autorizzazione per realizzare un nuovo e più degno accesso al chiostro, e trasferì la tomba – come scrisse Alfredo Barbacci, allora Soprintendente – “in due vani sotterranei d’ignota destinazione, probabilmente cantina, camuffati a imitazione di cripta”. E così il mito fu trasformato in una realtà che conta oggi su un numero incalcolabile di visitatori da tutto il mondo, quasi sempre compresa nei classici tour di visita a Verona.
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La Carta della Lombardia di G. Pisato
TERRITORIO
Quando non c’era il navigatore satellitare Nella Carta del Pisato è rappresentato anche il territorio veronese. Un disegno straordinario tracciato da una prospettiva aerea. Ma siamo solo nel 1400
La vecchia cartografia non c’è più! Scompaiono il profilo dell’isola del tesoro stampata nelle prime pagine del racconto di Stevenson e la “Pianta delle montagne di San Nicola” che fa da apparato illustrativo al Bàrnabo delle montagne di Buzzati
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di Aldo Ridolfi Straordinario! Imposti la via, il numero civico, la città e come per incanto arrivi dalla zia Maria che ti aspetta da tempo, da tanto di quel tempo che hai perfino dimenticato la strada. Una voce non più fredda e metallica ti guida con dolcezza; su un piccolo schermo immagini in continuo movimento disegnano per te complessi raccordi, infinite periferie, tangenziali trafficatissime. Mentre guidi, un senso di grande serenità invade il tuo essere, ma, devi ammetterlo, se ne va anche quel poco (o tanto) di avventura e di incertezza che consultare una carta stradale portava con sé.
La vecchia cartografia non c’è più! L’ultimo sogno di inguaribili romantici sembra stia definitivamente svanendo! Scompaiono il profilo dell’isola del tesoro stampata nelle prime pagine del racconto di Stevenson e la “Pianta delle montagne di San Nicola” che fa da apparato illustrativo al Bàrnabo delle montagne, storia raccontata con un fil di voce, quasi sussurrando, da Dino Buzzati. E poi, com’è e dov’è la cartografia vecchissima, quella, addirittura, del 1400! Quella conservata negli archivi, così lontana, così diversa dalla nostra! Quella venuta alla luce quando disegnatori, spesso ignoti, tentavano, incatenati alla terra, di vedere, utopia delle utopie, il mondo dall’alto!
A quelle altezze è certo salito anche Giovanni Pisato, l’autore della “Carta della Lombardia”, un documento straordinario conservato nella Biblioteca comunale di Treviso. Si chiama, appunto, “Carta della Lombardia”, ma vi è rappresentato anche buona parte del veronese. Giovanni Pisato, per dipingerla, si è idealmente sollevato in volo e per lungo tempo ha osservato la terra tra le Alpi e il Po. Ne ha tratto un disegno originale, unico nella sua evidente forzatura. Ovunque fiumi larghi quanto il Nilo, castelli, impressionanti cortine di mura, torri imponenti, merlature, vessilli dei Visconti e della Serenissima, ponti in legno e in mattoni.
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La campagna appare come fagocitata dall’incastellamento; aratri, erpici e falci sembrano banditi a vantaggio di una visione militare che fa del castello l’essenza stessa di tutta la Terra
Carta del Pisato-Peschiera
in VERONA
La campagna appare come fagocitata dall’incastellamento; aratri, erpici e falci sembrano banditi a vantaggio di una visione militare che fa del castello l’essenza stessa di tutta la Terra. Visibilissima è l’imponente muraglia tra “Vila Francha” e “Valezo”, il Serraglio, opera di origine scaligera; a nord della città, con sottile e minuta grafia a caratteri semigotici, compare il toponimo “Val polexela”, e, nell’estremità in basso (cioè a est), ci sono Soave e “Chaldiero” con i loro manieri. “Lignago” emerge nitidissimo nella pianura e un ponte gigantesco lo collega a Porto. La fortezza di Peschiera supera per imponenza la stessa città di Verona. Il Garda, “orribilmente” deformato, accorciato, deturpato (ma non sono, questi, giudizi cartografici) pullula di barche, come gli altri laghi prealpini; lungo la sua riva occidentale emergono nitidissimi Lazise e Garda; oltre la linea delle colline e ai piedi del Baldo scende lineare l’Adige, quasi non ti accorgi della Chiusa, topos diventato poi irrinunciabile. E l’Adige avvolge Verona in un abbraccio che non è quello a noi caro: Pisato trasforma e simbolizza Verona. Ci penserà il giovane Marin Sanuto, però, 43 anni dopo, nel suo Itinerario (che sta per comparire nelle librerie curato dall’Associazione Terzo millennio di Montagnana e accompagnato da un apparato cartografico che definire straordinario è dir poco) a descrivere la città in termini pregni di pragmatico realismo; dice: «Castel Vecchio si trova vicino alla Cittadella. Ha otto torri e due fortezze con soccorsi, si entra attraverso un ponte ad una arcata che attraversa l’Adige. Sono di stanza due castellani, uno per fortezza». Resterebbe da dire, come fanno i geografi di professione, dell’orientamento della “Carta”, della sua scala, della sua funzione. Il nord non è in alto, ma a destra di chi guarda, dalla parte del collo dell’animale che ha fornito la pergamena. La scala è intuitiva e anzi il restringersi del supporto pergamenaceo sulla nostra sinistra ha indotto il Pisato a cambiare scala in corso d’opera. La
Carta del Pisato-Peschiera
Ovunque fiumi larghi quanto il Nilo, castelli, impressionanti cortine di mura, torri imponenti, merlature, vessilli dei Visconti e della Serenissima, ponti in legno e in mattoni
Carta del Pisato-Verona
Territorio
funzione della carta non è certo assimilabile al navigatore satellitare, mira piuttosto a informare lo stratega, a fornire ai centri di potere, alla stanza dei bottoni, il teatro entro il quale la realtà tutta si muove. La mappa diventa strumento del potere, perciò il re del Portogallo puniva con il taglio della testa chi fosse stato colto a portare mappe all’estero; perciò le carte venivano conservate in bauli chiusi a tre mandate. Una cartografia estesa a tutti, come avviene oggi con il navigatore satellitare, non era certo nell’ordine delle cose. Anche le carte geografiche hanno una storia, come ce l’hanno, una storia, gli uomini – e ne capiamo bene la ragione – e gli oggetti, talvolta inspiegabilmente inseparabili, di cui l’uomo si circonda. Una storia, dunque, ce l’ha anche la carta detta del Pisato. La figura del suo compilatore è avvolto dall’oscurità, la sua biografia ci è sconosciuta, ma la sua opera è sopravvissuta. La mappa, adempiuta la sua missione, militare o civile che fosse, è stata poi riposta in locali polverosi, in armadi zeppi di documenti a condividere spazi con tarli voraci. Ha supera-
to la forza disgregatrice del tempo, ha avuto fortuna, è lentamente invecchiata,… finchè Mario Baratta, geografo a cavallo di Otto e Novecento, a Treviso, ha potuto studiarla. Ecco come lo studioso racconta questo incontro avvenuto nel 1913: «La carta che forma oggetto del presente studio è di proprietà del chiarissimo sig. prof. Luigi Bailo, il benemerito fondatore della Biblioteca-Archivio e del Museo di Treviso: alla di lui squisita liberalità e gentilezza io debbo la possibilità di averla potuta con tanto agio consultare». Altri tempi, altre emozioni, ma, ad ogni modo, la carta è ancora là, ben protetta e visibile, in ottima riproduzione, a tutti. Oggi, grazie a un rinnovato interesse, la Lombardia di Giovanni Pisato, anno del Signore 1440, può esibire ad un pubblico vasto e attento la straordinaria sfilata dei suoi manieri, la dubbia geometria dei suoi fiumi, l’enigmatica presenza degli alberi isolati, in una parola il suo intramontabile fascino. Si ringrazia per la gentile disponibilità il dott. Gianluigi Perino della Biblioteca Comunale di Treviso
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STUDIO
e
DITORIALE Giorgio Montoll i
LA DIFFERENZA NEL FARE LE COSE.
Redazione e impaginazione di libri e giornali Comunicati stampa Progetti editoriali
045.592695 - 320.4209663 Lungadige Re Teodorico, 10 - 37129 Verona
Territorio di Stefano Vicentini Una frotta di vocianti ragazzini solleva un polverone per inseguire un rudimentale pallone; un gruppetto spinge con la forza delle gambe la giostrina del “passo volante” formata da un palo con anelli di metallo agganciati; le coppie che giocano a carte si sfidano a motti nei tiri incrociati degli sguardi; i nuovi arrivati ammassano le biciclette all’entrata e s’uniscono ai giochi, oppure corrono alle prove di una funzione religiosa o del teatro. Tu chiamale se vuoi, emozioni; dice una vecchia canzone. Certo, divertimenti d’altri tempi, quando l’oratorio era tra gli ambienti più protettivi della sana educazione giovanile, della genuinità dei rapporti umani, della salvaguardia di care tradizioni come la festa del santo patrono. Negli anni Sessanta ci sono stati il cambio di sede – in via Frattini, a due passi dal Duomo di San Martino –, l’allargamento delle dimensioni e la nuova denominazione “Centro giovanile Salus”. Ma, se la nostalgia porta con sé etimologicamente un ricordare vivo e persistente, come riandare affettivo ai luoghi del passato, il vecchio ricreatorio del Salus, pur non esistendo più dietro l’ex chiesetta della Disciplina (oggi chiesa dell’Assunta) nell’allora viale Regina Margherita (oggi viale dei Caduti), non deve comunque considerarsi morto bensì vivo per
Il vecchio Salus
in VERONA
LEGNAGO
Tanti ricordi per il ricreatorio del vecchio Salus Con la ristrutturazione se n’è andata una pagina di storia, ancora viva nel cuore di chi rimane testimone vie misteriose conosciute dal cuore. Vitale cioè nel ricordo di chi l’ha vissuto ed è ancora vivo, tra i pochi rimangono i sacerdoti don Mario Gatti, don Walter Soave e don Vasco Grella, più o meno vicini a una veneranda età; immortalato nelle pagine della storia cittadina ma soprattutto celebrato ogni anno nella giornata degli “Amici del Salus”, nella settimana del vecchio patrono San Luigi Gonzaga. Chiaramente questo ritrovo è stato longevo per la fervida organizzazione dei protagonisti d’allora uniti al sacerdote don Walter Soave, tra cui molti compianti illustri legnaghesi: l’ex giornalista Rai Giovanni Vicentini, il professore d’economia nonché direttore di banca Gino Barbieri, il preside del Liceo classico Cotta
Rodolfo Verga, il direttore dell’associazione scuole materne Tarcisio Verdolin, i dirigenti dell’ospedale Antonio Alfredo Tognetti e Luigi Zanferrari, l’attivissimo Piero Mantovani... Ma molti più nomi sarebbero da citare come protagonisti del vecchio Salus: ad esempio i calciatori d’altri tempi di serie A Ezio Meneghello, Guido Tavellin e il nazionale Pierluigi Cera (ex Verona e Cagliari negli anni Sessanta) o i vari Campara, Scodellari, Marchetto, Sandrini, Facchin della squadra di calcio del Legnago; oppure i componenti dilettanti di teatro della Filodrammatica dagli anni Venti in poi come Gatti, Veronese, Giusti, Pretto, Cecco, Avanzi, Golo, Bardellini, Rebecchi, Maestrello, Stello, Perazzoli, Maccapan, Fortunati, Ercole, Zorzan,
Chiavegato, Giacometti, Bolzon, Marangoni, Poletti, Polo, Caltran, Turati; o infine i sacerdoti, monsignor Davide De Massari (rettore dal 1880 al 1925), mons. Fortunato Bonetti (parroco dal 1925 al 1945), mons. Luigi Bosio, mons. Giuseppe Mantovani, mons. Pietro Rossetti, don Tacchella, don Zamperioli, don Cordioli, don Piva, don Bertelli, don Saccomani, don Terraroli, don Turco. Sono pochi ma significativi gli scatti fotografici che rimangono di questi ex ragazzi del Salus, immortalati in posa solitamente come folto gruppo attorno al sacerdote. L’interesse è legato alla possibilità di ricostruire dall’elenco dei cognomi varie genealogie delle famiglie di Legnago, nell’importante momento storico dei primi decenni del Novecento dove non era forte l’emigrazione dal paese. L’oratorio, con accanto la “ceseta” della Disciplina e il vecchio “ginnasietto” – attivo negli anni ‘30-’40 – ha letteralmente allevato generazioni di giovani legnaghesi in quanto luogo unico di aggregazione e viva ospitalità, grazie alle felici attività formative promosse. L’immagine più cara conservata rimane quella della festa del “Triduo di San Luigi” nel 1930 nel cortile del Salus, con un gruppo numeroso di ragazzi che sta seguendo le direttive della cerimonia. I “buteleti” sono dunque ordinati, trasformati per l’occasione in chierichetti, con un’atmosfera di compostezza per il ri-
Triduo di San Luigi (1930)
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Territorio
Don Walter Soave
spetto religioso che sostituisce il silenzio allo zufolio dei giochi. La grande forza dell’oratorio stava probabilmente in questo, a detta di chi l’ha sinceramente vissuto: la capacità d’unire la formazione fisica a quella dello spirito, le attività di svago con quelle più pratiche, gli angoli del gioco vicino alla chiesetta, alla biblioteca, al teatrino, al bar e al magazzino. Il ginnasietto, poi, era un’occasione formativa più che unica per quei tempi, assolutamente carenti di scuole: c’erano tre classi e gli insegnanti erano proprio i sacerdoti, cosicché allora era ben distinta l’austerità dei parroci, alcuni molto distaccati dalla gioventù, dall’affabilità dei curati che spesso si sollevavano la veste per calciare qualche pallone nel nugolo di ragazzini. Qualcuno ha chiamato questa vita legnaghese col nome di “Mondo Piccolo” in ricordo delle vivide immagini consegnate dal Don Camillo di Guareschi. Ancora più divertenti sono i ricordi delle feste di carnevale, dove ognuno si arrangiava veramente come poteva in fatto di vestirsi in maschera, creando le più buffe apparizioni al ricreatorio. Tra gli aneddoti, si racconta che proprio nel carnevale del 1957 sia nata, come straordinaria intuizione, la maschera di Lematho, poi diventata tipica del carnevale di Mezza Quaresima di Legnago, con l’arrivo in parrocchia di un roboante elicottero americano per una festa di grande apparato, mai vista prima. Erano gli ultimi fuochi d’effetto legati alla vita di parrocchia, che meno di un decennio dopo presentava il progetto e realizzava in breve tempo una struttura ben più grande, il nuovo Salus, in un’altra zona del centro. Per alcuni ragazzi era una “beffa”, come il titolo di una commedia tra le più fortunate del vecchio Salus, andata in scena nel settem-
in VERONA
bre 1941; per altri era il “segno dei tempi” per un paese che ormai stava per diventare una cittadina con ben oltre i diecimila abitanti. Nessuna notizia poi, negli anni a seguire, del vecchio ricreatorio, non più esistente per la destituzione d’importanza accompagnata alla vendita degli spazi ai privati; unico relitto la chiesa, ma col nuovo nome dell’Assunta e, quindi, una nuova patrona, lasciata al degrado per anni, fino al restauro dell’edificio sacro concluso nei primi anni Novanta. Naturalmente non si è salvato più nulla, né gli ambienti né il vissuto del vecchio centro; il nuovo Salus non si è portato dietro tradizioni come la corsa dei sacchi, la gara delle pignatte, le marmore o i giochi nelle sale della “trea” o della mora, ma si è identificato in nuovi impianti come il campo di basket, la sala coi videogiochi e il biliardo, l’angolo della tv e, oggi, del computer. A proposito della televisione, quando arrivò nel vecchio ricreatorio ci fu un’euforia paragonabile ad un evento nazionale, tanto da far partire un ciclo di conferenze per capire il nuovo mondo inaugurato dall’originale novità. Ma un’ultima voce di ideale testimone potrebbe ricordare la parte opposta della medaglia: non tutto, infatti, era bello e spensierato, tanto che il soffitto degli ambienti spesso faceva filtrare l’acqua, ovunque arrivavano correnti d’aria che favorivano i reumatismi, il riscaldamento in inverno si otteneva da un bidone di due quintali di segatura schiacciata col bastone e bruciata. Per questi ed altri problemi, per esempio, nei primi anni Cinquanta è stato demolito il vecchio teatro perché giudicato pericoloso. Insomma si è consumato un requiem, anche se confortano negli ultimi tempi le rievocazioni delle tradizioni passate, tipiche anche dell’oratorio, come la gara delle contrade o i giochi d’un tempo, non solo in provincia ma anche in città, com’è l’evento del “Tocatì” a Verona. Certo che nelle generazioni passate rimane un certo velo di malinconia. Caro oratorio, come diceva una vecchia canzone di Vecchioni “forse non lo sai ma pure questo è amore”.
In memoria di Rino Argento La morte di un amico toglie irremissibilmente un po’ di vita anche a noi. Soprattutto se è un amico d’infanzia, che viveva da tantissimi anni in un paese affacciato sull’Oceano Pacifico, presso Los Angeles, ma che da quell’osservatorio cosi lontano e defilato seguiva giorno per giorno, attraverso “L’Arena” in internet e le frequenti email, quanto stava succedendo a Verona, prodigandosi di giudizi, critiche, pareri, consigli, deprecazioni, apprezzamenti e magari anche invettive. Secondo la classica psicologia dell’emigrato, il quale, come cantava Joséphine Backer, ha “deux amours, mon pays et Paris”, diventata qui tutta l’America, di cui Rino Argento, partito più di cinquant’anni fa con una borsa di studio universitaria e tornato soltanto con brevi escursioni affolate di incontri, che avevano quasi il carattere di ispezioni, aveva sposato non soltanto usi e costumi, ma anche la mentalità efficentista, che contrastava fieramente con l’altra metà di lui che continuava a rimpiangere lo s-cianco e la pastisada de caval. Così che le sue lettere agli amici veronesi, in gran parte scout del Verona X di cui era stato uno dei più entusiasti iniziatori, e che avrebbe dovuto rivedere per il centenario dello scautismo se non fosse stato improvvisamente bloccato da una insufficienza renale che lo costringeva alla dialisi, erano sempre un affascinante mix di quella profonda nostalgia che i portoghesi chiamano “saudade” e di una combattiva rivendicazione del progresso tecnico e scientifico ma anche disinvoltamente sociale degli States nel confronto con gli impacci e le esitazioni della sua Verona. È morto improvvisamente e velocemente, quasi rispettando un suo costume esistenziale che lo vedeva insofferente di ogni indugio, mentre stava preparando un suo ennesimo viaggio a Verona e nelle e-mail agli amici chiedeva che gli fissassero un luogo dove sottomettersi alla dialisi. Dalla moglie Cecilia, dopo una commovente e-mail che racconta con pudore le sue ultime ore e il suo espresso desiderio di non essere sottoposto ad accanimento terapeutico, arriva il classico “santino”, che non è, come si usa da noi, una foto in bianco e nero, più nero che bianco, di tanti anni prima con le date dell’inizio e della fine, ma un colorato e grazioso pieghevole denso di piccole fotografie quasi tutte a colori, che raccontano per immagini la sua vita intensa e laboriosa, dall’infanzia, fino agli ultimi giorni. Il che è un modo bello per far ricordare festevolmente ai parenti e gli amici una persona cara, definita quasi shakespearianamente “Un gentiluomo di Verona”, lungo un’esistenza descritta come “una vita meravigliosa” che parte dalle prime foto della sua infanzia e si conclude con le foto di lui che tiene in braccio il nipotino Dante. Nel momento del distacco, doloroso anche per una gentile signora come Cecilia che nella sua letterina accompagnatoria dice che “morì molto in pace con il rosario tra le mani”, è significativo che, al posto dei malinconici e, appunto, funerei “santini” in uso dalle nostre parti egli sia stato accompagnato in quest’ultimo suo viaggio, dopo i tanti che egli ha fatto di qua e di là dall’Atlantico, con questo florilegio di immagini felici. E a noi viene in mente quella parte dell’antico salmo che spesso si recita nei funerali, e che, nel momento dell’ultimo addio e del dolore che lo accompagna, pare oggi a noi, increduli o quasi, piuttosto anacronistico. Dice pressappoco: “La tua anima trascorrerà qua e là, come la scintilla nella stoppia”. Forse, l’amico Rino liberato dal peso della carne farà proprio così. Qualche volta, lo sentiremo vicino. Giuseppe Brugnoli
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Zibaldone IL TEATRO DELLE EMOZIONDI ALESSANDRO NORSA
Galleria Massella (si trova inVia Dietro Filippini, 11/13) presenta la mostra di pittura di Alessandro Norsa“Il Teatro delle Emozioni”. Dal 1 Dicembre 2007 al 4 Gennaio 2008.
Il titolo della mostra“Il teatro delle emozioni” è la sintesi del percorso di vita professionale e personale del pittore, che intende rappresentare con queste opere la sua dedizione all'animo umano con le sue ricchezze, emozioni e sentimenti. Il suo studio delle antiche forme
carnevalesche lo ha portato alle origini del teatro italiano e l'interesse per questa materia ha ridestato una sua antica passione per la recitazione e la scena rappresentativa. Da un punto di vista stilistico si ispira ad alcuni principi della Psicologia Sperimentale. Due sono i fenomeni di riferimento: la presenza amodale, per la quale la persona è spinta a credere di poter ricavare, data la sua esperienza, la forma dalle parti rappresentate nel campo percettivo e il IX principio diWertheimer o principio della buona forma, che prevede che la persona possa unire più facilmente forme separate che costituiscono nel loro insieme un oggetto unico. In queste opere, emozioni e scienza, testa e cuore, razionalità e sentimento possono parlare un unico linguaggio: quello dell'arte.
UN BUSTO IN RICORDO DI MANUEL FIORITO
Al capitano Manuel Fiorito, morto in Afghanistan nella valle del Musay il 5 maggio 2006, è stato dedicato un busto, opera dell’artista Gabriella Manfrin, che sarà collocato al Circolo Ufficiali, presidio di Castelvecchio. Nato a Verona il 13 febbraio 1979, Fiorito aveva conseguito la Laurea in “Scienze Strategiche” nell’agosto 2003 presso la Scuola di Applicazione in Torino. Il 13 marzo 2006 si era laureato in “Scienze politiche” presso l’Università degli studi di Trieste. Ha partecipato all’Operazione Joint Enterprise” in Kosovo. Vari i suoi incarichi, tra cui il servizio all’Estero presso ITALFOR XII, per l’Operazione ISAF IX in Afghanistan nel contingente italiano.
ro di Roberto P. che ovviamente teme la stitichezza più della tosse e dei dolori reumatici. E si ride delle vicende umane e lavorative in genere: tipo il “gratta e vinci” che suggerisce uno “srotola e vinci” capace di incrementare le vendite o la fabbricazione di nuove carte igieniche con i colori sociali di importanti squadre di calcio per la gioia, sostengono gli ideatori, delle tifoserie avversarie. Ci sono poi risvolti amari, come il licenziamento finale. Ma il fatto che Roberto P. resti nel “giro” e si ritrovi a spandere letame in un’azienda agricola fa rinascere il sorriso.
in VERONA
Giornale di attualità e cultura Direttore
LA VERA STORIA SENZA VELI DI ROBERTO P. COLLAUDATORE DI CARTA IGIENICA
Non poteva non essere ambientato in un’azienda leader del settore igienico-cartario il romanzo umoristico La vera storia, senza veli, di Roberto P., collaudatore di carta igienica di Enrico Linaria uscito per le Edizioni Aurora, pagg. 128, 12 euro. L’azienda, vista la comicità della storia, sembra quella di Fantozzi versione 2007 mentre il protagonista ha qualcosa del Marcovaldo di Calvino e richiama (quando tutti se la prendono con lui perché non ha fatto bene il collaudo) il buon Malaussène, il “capro espiatorio” nei romanzi di Pennac. Si ride del lavo-
Giorgio Montolli g.mont@libero.it Redazione
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N° 17/dicembre 2007 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.
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Dicembre 2007
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