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18 - APRILE 2008 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
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Non lasciamo Shakespeare da solo
Primo piano
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Autari e Teodolinda Se la cittadina ligure di Alassio vanta una storia d’amore più antica di quella di Giulietta e Romeo, tanto che il ministero dello Sviluppo economico le ha riconosciuto il titolo di “unica città degli innamorati in Italia”, Verona non ha solo la vicenda immortalata da Shakespeare a sostegno di un primato oggi messo in discussione . Gli alassini si rifanno all’antica leggenda di Adelasia e Aleramo, che affonda le sue radici nell’anno Mille, quindi in un tempo precedente la vicenda dei due giovani a cui si ispirò il drammaturgo inglese, anche se la tragedia dei due amanti scaligeri sembra trovare riferimenti addirittura nell’antica Grecia. La notizia offre l’occasione per rispolverare un’altra curiosità amorosa, una storia quasi moderna per il suo carattere “trasnazionale”, che tocca da vicino Verona e che nella scala dei secoli si colloca precedentemente alla dinastia degli Ottoni, quindi in un tempo in cui la principessa Adelasia e il suo servo Aleramo ancora non erano nati. Siamo in Italia sul finire del VI secolo e questa è la storia di Teodolinda e Autari: lei era la figlia di Garibaldo, re cattolico di Baviera; lui il re dei Longobardi e primo duca di Verona, di fede ariana. Spieghiamo che l’arianesimo era una dottrina abbracciata da molti popoli “barbari” che contraddiceva l’idea della natura divina di Cristo, condannata come eretica dal primo Concilio di Nicea (325 d.C). Minacciati a Nord dai cattolicissimi Franchi, osteggiati a Sud dal papato, che sempre meno trovava in Bisanzio un valido punto di riferimento, i re Longobardi, per ragioni di stato, cercarono spesso di sposare donne nobili di fede
cattolica. E così cercava di fare Autari che, dopo aver tentato senza esito di unirsi alla sorella del re Franco Childeberto II, mandò ambasciatori in Baviera perché chiedessero in moglie per lui la figlia del re Garibaldo. Scrive Paolo Diacono nella sua Historiae Langobardorum, che il sovrano bavarese accolse amabilmente gli emissari, acconsentendo alle nozze. Ricevuta la notizia il re dei Longobardi non seppe resistere: va bene il matrimonio di interesse, ma la sposa doveva anche essere bella, molto bella: la cosa andava assolutamente verificata. Autari scelse tra i longobardi una scorta non molto numerosa ma formata da coraggiosi con a capo un uomo che gli era particolarmente fedele e si mise subito in marcia con loro per la Baviera nel finto ruolo di semplice ambasciatore. Quando vennero condotti davanti al re Garibaldo e quando il capo dell’ambasceria ebbe pronunciato le parole di rito, Autari, che nessuno aveva riconosciuto, si avvicinò al sovrano bavarese e disse: «Il mio signore, il re Autari, mi ha qui inviato con l’espresso comando di vedere vostra figlia, che è fidanzata a lui e che in avvenire sarà la nostra signora, affinché io possa fornirgli notizie più sicure sulla sua persona». Il re fece cercare la figlia Teodolinda e così Autari poté ammirare in silenzio quanto fosse bella e come corrispondesse ai suoi desideri «sotto ogni rapporto» come precisa Paolo Diacono, disse a Garibardo: «Poiché l’aspetto di vostra figlia ci piace moltissimo e noi ci auguriamo di averla come nostra regina, saremmo contenti che piacesse alla vostra nobiltà di avere dalla sua stessa mano una coppa di vino». Il sovrano bavarese acconsentì e la cronaca del tempo narra che la giovane, secondo le usanze, offrì prima la
Dal VI secolo una pagina di storia che tocca da vicino la nostra città. Uno dei tanti possibili percorsi culturali che non sfigurerebbe accanto ai cuoricini rossi appesi per le vie di Verona e allo spettacolo “Giulietta e Romeo”di Cocciante
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Primo piano
Vicende amorose, matrimoni e intrighi di potere hanno spesso caratterizzato la storia di Verona. Ricordiamo la macabra vicenda di Rosmunda e del longobardo Alboino ambientata nel palazzo di re Teodorico; c’è poi la storia di Adelaide, rinchiusa da Berengario II nel castello di Malcesine, liberata e poi sposata dall’imperatore Ottone I, che ispirò Gioacchino Rossini...
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coppa a colui che sembrava essere il capo, poi a Autari, non sapendo che fosse il suo fidanzato. Come questi ebbe bevuto, nell’atto di rendere la coppa, senza che nessuno se ne accorgesse, toccò con un dito la mano della principessa e con la destra le accarezzò la fronte, il naso e la guancia. Rossa per l’imbarazzo e confusa Teodolinda narrò la cosa alla sua nutrice e questa saggiamente le disse: «Se questo uomo non fosse il re in persona, e quindi il tuo fidanzato, non avrebbe mai osato toccarti. Ma per il momento teniamo la cosa segreta perché tuo padre nulla ne sappia». Gli scritti giunti fino a noi descrivono un Autari giovane, nobile nel portamento, con i capelli biondi e ricci, il viso roseo e bello per cui è facile immaginare che il gradimento fosse reciproco e che l’amore fosse di quelli a prima vista. Sulla via del ritorno, quando Autari raggiunse la frontiera con l’Italia si drizzò più che poté sul suo cavallo e con tutta la sua forza scagliò l’ascia di guerra che portava con sé contro un albero dicendo «Ecco i colpi che Autari inferisce!» e da quelle parole i bavari della scorta riconobbero con stupore che egli non era un semplice ambasciatore, ma bensì il re dei longobardi in persona. Poco tempo dopo, trovandosi Garibaldo in difficoltà per l’invasione dei Franchi, sua figlia Teodolinda fuggì in Italia e fece annunciare il suo arrivo al fidanzato Autari, che con grande apparato andò personalmente ad incontrarla proprio a Verona, dove in campum Sardis, a Nord della città, il quindici maggio del 589 furono celebrate le nozze. Ricordiamo che Verona fu conquistata da Alboino che ne fece la capitale d’Italia fino al 571, anno in cui la corte longobarda fu spostata a Pavia, altra famosa città teodicea.
Il destino anche per questi due amanti fu però tragico. Proprio a Verona, e proprio il giorno della cerimonia nuziale, avvenne infatti un episodio eccezionale: un fulmine con un fragoroso boato colpì un albero nei pressi della reggia. Un servo del duca di Torino, esperto nell’arte della divinazione, prese da parte il suo signore Agilulfo, in città per le nozze del re, spiegandogli il significato di quell’evento: «Questa donna che ora si marita con il nostro sovrano diverrà fra poco tempo tua sposa». Agilulfo minacciò il servo di fargli saltare la testa se solo avesse aggiunto dell’altro, ma questi rispose: «Sia pure, fammi tagliare la testa, ma è sicuro che questa donna è venuta nel nostro paese per essere unita a te». Lasciamo per un attimo la misteriosa profezia e riportiamo un altro fatto che lega la vicenda di Teodolinda e di Autari a Verona: un episodio miracoloso, che avvenne probabilmente nell’ottobre dello stesso anno e che viene interpretato come il segno della conversione di Autari al cattolicesimo. In quel tempo nel Veneto si ebbe una devastante inondazione «quale non era più avvenuta dai tempi di Noè» scrive Diacono, forse esagerando un po’. «Intere proprietà e beni terrieri furono ridotti a campi sassosi e fra gli animali e gli uomini vi furono morti in gran numero; le strade erano distrutte, i passaggi ostruiti e il fiume Adige, straripando, era uscito così lontano dal suo letto che nella chiesa del santo martire Zeno, che si trova davanti alle mura di Verona, l’acqua arrivava alle finestre superiori». In questo desolante panorama ci immaginiamo una chiesa allagata, cosa che miracolosamente non avvenne perché l’acqua, come scrisse più tardi anche papa Gregorio, non penetrò in nessun modo all’interno che rimase asciutto.
«Questo fatto si verificò il 17 ottobre e si ebbero lampi e tuoni di tale violenza che simili non si vedono nemmeno d’estate. Due mesi dopo gran parte di questa città bruciò completamente». Tornando alla profezia, ecco cosa avvenne. Autari dopo le nozze ebbe una figlia da Teodolinda ma dovette presto abbandonare la città di Verona per sfuggire ai Franchi che stavano scendendo la Valdadige. Il re si stabilì a Pavia, dove morì il 5 settembre del 590, probabilmente avvelenato durante una congiura di palazzo. Nella città lombarda Teodolinda fu una regina amata, governò con saggezza e sposò proprio Agilulfo. Vicende amorose, matrimoni e intrighi di potere hanno spesso caratterizzato la storia di Verona di quei tempi. Ricordiamo la macabra vicenda di Rosmunda e del longobardo Alboino, ambientata nel palazzo di re Teodorico; c’è poi la storia di Adelaide, rinchiusa da Berengario II nel castello di Malcesine, liberata e poi sposata dall’imperatore Ottone I, che ispirò Gioacchino Rossini. Anche le pene d’amore di Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio e moglie ripudiata di Carlo Magno, magistralmente narrate nell’Adelchi del Manzoni, sono il pretesto per raccontare la sconfitta dell’ultimo re longobardo a Verona e la conquista della città da parte del futuro imperatore del Sacro romano impero, nel 774. Ce n’è abbastanza per disegnare un interessante percorso culturale che non sfigurerebbe come attrattiva turistica accanto ai cuoricini rossi appesi per le vie di Verona e allo spettacolo Giulietta e Romeo di Riccardo Cocciante, anche per non lasciare Shakespeare da solo a difendersi dall’intraprendenza altrui. Giorgio Montolli
Aprile 2008
25 aprile, anniversario della Liberazione
Giustizia per le vittime del nazismo Bartolomeo Costantini
Una notizia ha di recente occupato le prime pagine dei giornali: Michael Seifert, il boia del lager di Bolzano, pagherà per i sui crimini. Estradato in Italia dal Canada dove, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, era scappato sotto altra identità, sconterà l’ergastolo che nel 2000 il Tribunale militare di Verona, presieduto da Bartolomeo Costantini, gli aveva comminato e poi confermato nei successivi gradi di giudizio. Ma per uno che viene assicurato alla giustizia, seppure dopo oltre 60 anni, molti altri criminali rimangono impuniti, e così parecchi episodi di violenza su civili e militari, perpetrati durante l’occupazione nazista in Italia, non vedranno mai un colpevole né una sentenza.
Tra i crimini rimasti senza un colpevole c’è l’assassinio del colonnello Giovanni Duca, fucilato perché si rifiutò di rivelare i nomi di antifascisti e partigiani
in VERONA
Crimini impuniti Dopo 60 anni arriva la condanna del boia di Bolzano Seifert. Nel veronese altri episodi di violenza di cui si sta perdendo la memoria Troppo tempo è passato. In molti casi infatti, a differenza di quanto avvenuto nella stessa Germania, per molti eccidi e molte stragi non è stato possibile dopo il ’45 neppure istruire il processo. Questo non solo ha favorito la latitanza dei responsabili di molte stragi, ma ha permesso la prescrizione del
di Laura Muraro – Alla fine della seconda guerra mondiale attraverso quale procedura in Italia si pensò di fare giustizia per i gravi episodi di violenza compiuti da nazisti e fascisti? «Bisogna distinguere le competenze. I tribunali militari sono competenti per i reati compiuti dai mililtari italiani nonché, per
reato o ancora ha fatto venir meno il tessuto accusatorio a causa della morte dei testimoni. Ed anche nella provincia di Verona episodi di violenza dell’esercito tedesco contro cittadini italiani sono e resteranno impuniti e addirittura se ne sta perdendo la memoria. Questa è l’amara constatazione che si ricava parlando con il presidente dell’Istituto storico della resistenza e della storia contemporanea Maurizio Zangarini, che ci spiega che molti degli incartamenti raccolti dopo la guerra non solo sono ora insufficienti per istruire processi ma spesso non permettono di ricostruire i fatti. Ma come si è potuto arrivare a questa situazione? Nell’intervista che segue ne abbiamo parlato con il Procuratore militare di Verona Bartolomeo Costantini.
quanto riguarda il codice di guerra, per i reati commessi dai nemici ai danni di italiani sia militari che civili, in particolare per quanto riguarda i cosiddetti crimini di guerra. I fascisti, le Brigate nere, non sono assimilati ai militari ma considerati civili, e pertanto i reati da loro compiuti sono di competenza della giustizia ordinaria. A questo riguardo
perciò l’indomani della guerra furono istituite delle corti straordinarie d’assise per giudicare in modo rapido i reati di collaborazionismo con i tedeschi e furono così avviate molte indagini ed emesse varie sentenze nei confronti di fascisti italiani per dare risposte di giustizia immediate ed evitare anche episodi di vendetta».
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Attualità
«Già a partire dal ’47 dalla Procura generale romana non furono più distribuiti alle varie procure territoriali competenti gli incartamenti delle denunce raccolte l’indomani della fine del conflitto. Nel 1960 gli atti vennero addirittura archiviati dal Procuratore generale militare del tempo in maniera del tutto illegittima»
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– Alla Procura militare di Verona subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale giunsero denunce di cittadini o associazioni per violenze compiute da nazisti contro civili? «La procura militare di Verona negli anni immediatamente seguenti la fine dl conflitto era stata interessata per denunce provenienti da diversi enti, ad esempio il CNLAI e i Carabinieri. Alcune inchieste quindi erano iniziate, però in seguito la Procura generale militare di Roma aveva avocato a sé tutte le indagini per i crimini di guerra compiuti da militari tedeschi». – Quali furono i motivi di questa avocatura da parte della Procura generale? «Questo avvenne inizialmente per ragionevoli esigenze di coordinamento di indagini e per la maggior facilità dell’organo centrale di ottenere la disponibilità dei tedeschi
detenuti nei campi di prigionia anglo americani». – In quel periodo la Procura di Verona ebbe comunque modo di avviare qualche indagine? «Sempre su delega di Roma si erano potuti celebrare ben pochi procedimenti, e comunque conclusisi sempre con l’archiviazione per non luogo a procedere in quanto ignoti o non rintracciabili i colpevoli. Tra questi quello per l’uccisione del colonnello Giovanni Duca (a cui è titolata la caserma di Montorio). Nell’immediato dopoguerra dei congiunti denunciarono l’episodio: ci sono infatti degli atti di indagine svolti dalla PM di Verona che però non ebbero seguito». – Ma la maggior parte degli incartamenti rimasero a Roma... «Già a partire dal ’47, e a seguire negli anni successivi, dalla Procura generale romana non furono più distribuiti alle varie procure territoriali competenti gli incartamenti
delle denunce e delle testimonianze raccolte l’indomani della fine del conflitto. Nel 1960 gli atti vennero addirittura archiviati dal Procuratore generale militare del tempo in maniera del tutto illegittima: non avrebbero potuto farlo e nemmeno trattenerli oltre la prima fase iniziale. L’episodio (il noto armadio della vergogna) scoperto nel 1994 è stato oggetto di indagine non solo da parte di due Commissioni parlamentari, ma anche, a partire dal 1996, da parte dell’organo di autogoverno della giustizia militare (Consiglio della magistratura militare) per scoprire le ragioni di quell’insabbiamento». – In questo periodo di silenzio durato fino al ’94 la PM di Verona ebbe modo di svolgere comunque indagini e processi contro nazisti? «Uno in particolare – ricorda il Procuratore – iniziato al di fuori
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Attualità della giustizia militare. La procura di Verona ha infatti un’area di competenza piuttosto vasta, che comprende sei province: Brescia, Mantova, Verona, Belluno, Bolzano e Trento. Ebbe perciò modo di accogliere il procedimento avviato precedentemente dalla Procura civile di Belluno e poi trasferitole per competenza: mi riferisco alle ritorsioni delle SS nelle valli del Biois e di Falcade. Il processo iniziato alla fine degli anni ‘70 si concluse nei primi anni anni ‘80 con la condanna all’ergastolo di un maggiore dell’ SS, reato poi estinto per la morte dell’imputato». – Dopo il ’94 quanti fascicoli del famigerato armadio della vergogna furono inviati dalla PM di Roma alla PM di Verona? Che processi furono quindi istruiti? «A Verona arrivarono dopo il ’94 circa 130 fascicoli e solo allora fu possibile avviare la maggior parte dei processi: ma i più importanti sono quelli che sono stati poi conclusi ed in particolare quelli che riguardavano il lager di Bolzano. Infatti, fra il ‘96 e il ‘99, furono celebrati dalla Procura di Verona i processi contro il comandante del lager, tenente Titho e il maresciallo Hage, successivamente archiviati. Nel ’99 scoperta grazie alla collaborazione delle autorità tedesche, l’esistenza in vita di Micheal Seifert, venne avviato il procedimento a carico dello stesso, con la richiesta dell’estradizione dal Canada, la raccolta delle testimonianze e dei verbali dei processi dell’epoca fino ad arrivare ai tre gradi di giudizio e all’estradizione del 16 febbraio scorso». – E degli altri fascicoli arrivati a Verona cosa è stato? «Dei molti processi avviati grazie al ritrovamento di questi incartamenti quasi tutti furono chiusi per archiviazione in seguito alla morte dell’indagato o perché contro ignoti o per reati estinti per prescrizione dopo 50 anni». – Qualcuno dei crimini in questione che vede il coinvolgimento di nostri concittadini o avvenuto nel veronese rimarrà quindi impunito? «Sicuramente. Si sa di un pluriomicidio con decine di morti, che si accompagnò a distruzioni ed incendi, avvenuto alle Terrazze il 26 aprile del ‘45. In quella circo-
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stanza le truppe tedesche trucidarono otto civili e ventuno soldati georgiani come ritorsione ad un’azione compiuta da tre partigiani che avevano sparato sui soldati del Terzo Reich in ritirata: il fatto non fu mai denunciato. C’è poi l’assassinio del colonnello Duca fatto prigioniero e torturato presso il comando delle SS in corso Porta Nuova poiché si rifiutava di collaborare con i tedeschi rivelando i nomi di antifascisti e partigiani, e quindi fucilato a Verona il 28 agosto 1944: il responsabile, il maggiore delle SS Kranebitter, è morto ormai da tempo...». – Che tipo di rapporto si è instaurato tra la Procura militare di Verona e le associazioni combattentistiche e partigiane? Sono state utili al fine dell’accertamento della verità? Quale è stato il loro ruolo sotto questo punto di vista? «Ebbero poco materiale a disposizione da fornire, ma la collaborazione non è mancata: contro Seifert si costituirono parte civile l’Anpi, il comune di Bolzano, la comunità ebraica». – Quello contro Seifert è quindi presumibilmente l’ultimo pro-
La sede della Procura militare di Verona
«Con molta probabilità non ci saranno altri processi dopo quello di Seifert, anche se ci sarebbe ancora da ricercare il complice, Otto Sein. Ma non si sa dove sia e se sia ancora in vita» cesso per crimini di guerra a Verona? «Con molta probabilità non ce ne saranno altri, poiché sono ormai passati oltre 60 anni… anche se ci sarebbe ancora da ricercare il complice, Otto Sein. Ma non si sa dove sia e se sia ancora in vita...». – A proposito delle responsabilità del clamoroso ritardo della giustizia, la Commissione bicamerale, incaricata, nel corso della legislatura conclusasi nel 2006, di indagare sulle cause di questo occultamento, si è alla fine divisa sulle conclusioni: leggerezze e negligenze di alcuni esponenti della magistratura per gli uni e invece pressioni politiche dettate da ra-
gioni di stato in piena guerra fredda per gli altri. Qual è la sua opinione in merito? – «Occorre sottolineare che la Commissione parlamentare (della legislatura conclusasi nel 2001) arrivò ad un’unica conclusione, così come lo stesso Consiglio superiore della magistratura militare: cioè che ci fosse una convergente responsabilità di politica e magistratura. E anche secondo me è più credibile questa versione (e i documenti e le testimonianze di politici come Taviani, Andreotti lo attesterebbero). Consideriamo, tra l’altro, che in quel periodo la Giustizia militare non aveva le garanzie di indipendenza e autonomia attuali (conseguenti alla riforma del 1981): si pensi che il Procuratore generale era nominato dall’esecutivo stesso. Non c’è da stupirsi quindi che i giudici militari fossero molto sensibili alle pressioni politiche quando il nemico era l’Urss e non più la Germania, che doveva invece entrare nel Patto atlantico. A questo si aggiunge un’altra situazione che concorse ad insabbiare i fatti: l’Italia avrebbe dovuto chiedere alla Germania la consegna dei soldati tedeschi macchiatisi di crimini contro i civili, ma nello stesso tempo da Grecia, Albania e Yugoslavia si reclamava invano l’estradizione di nostri militari colpevoli di analoghi delitti in questi territori. Con quale credibilità potevamo fare queste richieste, quando da parte nostra si faceva di tutto per non consegnare i militari italiani, spesso uomini in posizioni di comando nei territori da noi occupati?». – Quali sono i suoi sentimenti difronte a una giustizia che arriva in ritardo di oltre 60 anni? «E’ doloroso che ciò avvenga a così lunga distanza ma è importante che comunque avvenga, perché c’è sia l’esigenza di riaffermare un principio di giustizia violato e di dare un riconoscimento alle vittime e ai congiunti. E poi la condanna emessa ed eseguita assume un grande valore storico-morale di prevenzione, affinché, ricordando certi fatti assolutamente imperdonabili e i loro responsabili, episodi simili non avvengano più».
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Cultura
ZAMPINI
Quando Verona viveva La città tra Ottocento e Novecento ha vissuto momenti di particolare vivacità culturale che oggi stentano a riproporsi con formule adeguate ai tempi
Dopo il 1866, a Verona iniziò un periodo di cambiamenti, con problemi sociali, economici ma anche dinamismo imprenditoriale, scientifico ed intellettuale
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di Elisabetta Zampini Quando si pensa al concetto di “veronesità” immediatamente vengono in mente due nomi soprattutto: Angelo Dall’Oca Bianca e Berto Barbarani. Attraverso ritratti in colori e in parole i due artisti hanno infatti dato vita e voce all’anima popolare della città. E rimangono icone e punti di riferimento ancora oggi, benché il loro percorso artistico ed umano si sia svolto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Come a dire, provocatoriamente, che dopo di loro non c’è stato più interprete autentico, vivace, commosso e
partecipato delle vicende della città. I due artisti vissero in una Verona che attraversava un momento di particolare vitalità e rinnovamento che oggi stenta a riproporsi, quando non prende anzi direzioni di verso opposto. Essi sono soltanto la punta dell’iceberg di una larga schiera di personaggi che furono specchio e artefici, ciascuno nel proprio ambito specifico, dalla letteratura alle scienze, dall’impegno politico a quello sociale ed economico, di un tempo florido per la città. Il parallelo d’Oltralpe potrebbe essere la Belle Epoque rappresen-
tata con punte massime in Francia nell’ottimismo dilagante seguito alle nuove scoperte della scienza e della tecnologia: l’energia elettrica, i servizi igienici, la minore paura di affrontare le malattie e l’ignoto. L’Italia aveva ben diverse situazioni politiche ed economiche ma le idee e i sentori nuovi si diffondevano comunque, magari più lentamente, magari in mezzo a contrasti più evidenti tra nuova ricchezza e fiducia e permanenti povertà e disperazione. Nel ricordo che i turisti hanno di Verona è compresa anche una percezione d’insieme originale
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Storia É come se in quel tempo di confine tra due secoli fossero accolte a Verona tutte le sfumature e le implicazioni umane, culturali, economiche, sociali, politiche che comportavano il rinnovamento in atto e il dover affrontare nuove situazioni anche problematiche. È un tempo memorabile e significativo proprio per l’ampiezza di vedute e soprattutto per la vivacità culturale non accademica ma calata nel flusso dell’attualità
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che spesso si definisce con il termine “asburgica”. Nel senso che nella città permane traccia di quell’impostazione severamente militare che l’ha caratterizzata in maniera evidente per tutto il dominio austriaco che si concluse il 16 ottobre 1866. Per la posizione geografica strategica, infatti, Verona era un città circondata da forti, vissuta da soldati, limitata nel suo espandersi da precisi vincoli di carattere militare. Certo, l’economia veronese traeva grandi vantaggi dalla presenza davvero consistente dei soldati con tutta una serie di attività di servizio e di accoglienza che dava lavoro a molti. I militari erano indubbiamente fonte di reddito. Tuttavia era un’economia senza possibilità di sviluppo e legata alla contingenza, perciò non autonoma.
Mentre nel resto dell’Europa e nella vicina Lombardia già si avviavano, nel bene e nel male, i processi di sviluppo e di una vera e propria rivoluzione industriale. Così, dopo il 1866, a Verona iniziò un periodo di cambiamenti, con problemi sociali, economici ma anche dinamismo imprenditoriale, scientifico ed intellettuale. Convivevano insieme le vetrine illuminate e le orchestrine dei caffè, dove si esibivano gli artisti più eccentrici e le dame più maliarde, con la miseria delle campagne e la pellagra che continuava a mietere le sue vittime nonostante le ricerche mediche per debellarla fossero state intensificate anche dagli studi dello stesso Lombroso. La voglia era quella del rinnovamento, in uno spirito di intraprendenza, fiducia nel futuro e nelle possibilità umane, un ottimistico andare avanti poi bruscamente fermato dal disastro epocale della Grande Guerra. Il velocipede e la mongolfiera sono, simbolicamente, le immagini del dinamismo e della corsa verso il futuro. Molte volte si alzarono in volo i palloni aerostatici che affascinarono i veronesi. Partivano dall’arena sistemata e ripulita insieme alle Arche scaligere e ad altri luoghi della città, mentre erano iniziati gli scavi per riportare alla luce il Teatro Romano. Il velocipede fece la sua comparsa nelle strade di Verona nel 1874, incredibile con quella sua enorme ruota anteriore. Nel 1890 comin-
ciò a girare un modello di bicicletta più simile a quello che usiamo oggi e che allora si chiamava “bicicletto”. Fece così tanto successo questo nuovo mezzo di trasporto che nel 1892 il comune, sull’onda di diversi incidenti stradali tra ciclisti e pedoni, ne proibì l’uso. Decisione ferma ma ridicola, revocata non molto tempo dopo. La città cambiava volto, recuperava una memoria storica, si apriva e nuove prospettive. Poi tra il 15 e il 18 settembre 1882 l’Adige esce dagli argini, furiosamente, invade le strade e le case. È un fatto disastroso davvero di grandi dimensioni. Lo stesso re Umberto I si sentì in dovere di venire a Verona per manifestare la sua vicinanza e il suo sostegno mentre l’esercito si occupava di portare ogni tipo di aiuto e veniva indetta una lotteria nazionale per sostenere i soccorsi. La reazione positiva fu la sistemazione degli argini e la costruzione dei lungadigi. Ci fu poi la costruzione dell’acquedotto e del canale Camuzzoni, che permise l’insediamento della nuova zona industriale in Basso Acquar e che alimentava il primo impianto elettrico municipale entrato in funzione nel 1899. Anche il settore primario ricevette un nuovo impulso con l’introduzione di nuove macchine per la mietitura e trebbiatura, il miglioramento della coltivazione della vite e la fortuna del tabacco e della barbabietola da cui si svilupparono le attività degli zuccherifici.
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Storia
Il 14 marzo 1898 venne inaugurata la fiera internazionale Cavalli e dell’Agricoltura. L’analfabetismo era ancora molto diffuso ma l’Amministrazione della città si occupò di allargare l’offerta dell’istruzione primaria e secondaria e ampliò la Biblioteca civica. La città respirava dunque anche un notevole fervore intellettuale
Nel celebre caffè Dante i clienti potevano trovare i giornali per tutti i gusti: politici, sportivi, umoristici. Ci fu un momento in cui convissero insieme quattro quotidiani: L’Arena, L’Adige, Verona Fedele e La Nuova Arena. Su quest’ultima iniziò a scrivere Emilio Salgari. Senza dimenticare la redazione veronese de Il Gazzettino e le varie pubblicazioni satiriche
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che accompagnava il nuovo volto industriale. I caffè erano i luoghi di ritrovo e fucine di idee, c’era un interesse partecipato dai cittadini per gli accadimenti nazionali e internazionali o per le amorose vicende. Il bisogno di informazione e di dare spazio ai mille pensieri e contraddizioni di un’epoca era grande e la carta stampata soddisfaceva questo bisogno. Nel celebre caffè Dante, nell’omonima piazza, i clienti potevano trovare i giornali per tutti i gusti: politici, sportivi, umoristici. Ci fu un momento in cui convissero insieme quattro quotidiani: “L’Arena”, “L’Adige”, “Verona Fedele” e “La Nuova Arena”. Su quest’ultima iniziò a scrivere Emilio Salgari. Senza dimenticare la redazione veronese del “Gazzettino”. Non mancavano le riviste letterarie tra cui spicca il significativo esperimento de “La Ronda”. Ma la parte del leone la facevano i fogli umoristici, tanti, dalla vita più o meno breve. Erano fogli immersi nella vita cittadina, con lo sguardo e attento ai particolari, presenti ai consigli comunali, interessati alla politica e alla quotidianità. Erano pubblicazioni vigili, nel linguaggio della satira che fa ridere di cuore tenendo all’erta i cittadini. Il più famoso di tutti fu il “Can da la Scala”, al quale collaborò anche Renato Simoni prima di lasciare “L’Arena” per trasferirsi nella redazione de “Il Tempo” di Milano. Nel 1890 compare anche “Verona
del Popolo”, un settimanale (diventato nel 1902 quotidiano) che si occupava con impegno delle questioni sociali e che aprì anche un’inchiesta di denuncia sulla condizione dei ricoverati nel manicomio di San Giacomo. L’attenzione al sociale si allargava sulla situazione di povertà o sfruttamento in cui vivevano molte persone, sia nelle campagne sia in città, dove molti si erano inurbati in cerca di lavoro e sistemazione migliore diventando spesso senzatetto. E tutti, dal mondo della cultura a quello politico imprenditoriale a quello religioso, si sentivano chiamati in causa da questa urgenza. L’amministrazione comunale intervenne in modo significativo per sostenere le strutture assistenziali esistenti e nel 1891venne allestito l’asilo notturno Camploy, dove trovavano rifugio più di un centinaio di persone a notte, specialmente nei periodi invernali. Questi problemi c’erano sempre stati ma adesso diventano evidenti, sono messi in luce, si denunciano, si cercano soluzioni: si dimostra cioè un interesse. Il Veneto fu la regione che toccò i picchi più alti di emigrazione transoceanica proprio nel periodo della Belle Epoque, alla ricerca di condizioni migliori. Segno che insieme alla fiducia nel progresso conviveva un sentimento di pena e di desiderio di cambiamento anche tentando soluzioni difficili,
dolorose come lasciare il proprio paese, vendere tutto e partire. Berto Barbarani descrive nel 1896 la situazione degli emigrati nella poesia “I va in Merica”. Vi emergono le complesse e varie motivazioni che stanno alla base dell’emigrazione locale: «Fulminadi da un fraco de tempesta,/ l’erba dei prè, par ‘na metà passìa,/ brusà le vigne da la malatia/ che non lassa i vilani mai de pèsta;/ ipotecando tuto quel che resta,/... Ma a star qua, no se magna no, par dio,/ bisognerà pur farlo sto gran passo,/se l’inverno el ne capita col giasso,/pori nualtri, el ghe ne fa un desio! Drento l’Otobre, carghi de fagoti,/dopo aver dito mal de tuti i siori,/dopo aver fusilà tri quatro goti,/ co la testa sbarlota, imbriagada,/ i se da’ du struconi in tra de lori,/ e tontonando i ciapa su la strada». Quasi come risposta a queste trasformazioni sociali iniziano le ricerche sul folclore locale di Ettore Scipione Righi, Pietro Caliari e Arrigo Balladoro. Non è un caso che il recupero del patrimonio degli usi, costumi, delle musiche e danze, delle fiabe, leggende, proverbi locali avvenga in un momento di passaggio. Campagne e montagne cominciavano ad essere abbandonate dagli abitanti diretti verso le industrie che sorgevano attorno alle città o verso nuovi mondi. La transizione è percepita da questi studiosi e intellettuali unitamente al culto per il passato, al popolare di derivazione romantica e a un’esigenza di sistematizzazione di tutti i materiali. Infine la percezione che questi materiali rischiavano di andare perduti insieme con lo smembramento delle comunità di cui costituivano elemento identitario. Si ha allora l’impressione che in quel tempo di confine tra due secoli fossero accolte a Verona tutte le sfumature e le implicazioni umane, culturali, economiche, sociali, politiche che comportavano il rinnovamento in atto e il dover affrontare nuove situazioni anche problematiche. È un tempo memorabile e significativo proprio per l’ampiezza di vedute e soprattutto per la vivacità culturale non accademica ma calata nel flusso dell’attualità.
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Tradizioni DOPO L’INVERNO
Pasqua e dintorni Nel dopo Quaresima la vita delle contrade si rianimava. Era un tempo dedicato alle tradizionali pulizie pasquali, che ricordavano la necessità di purificare anche lo spirito per essere pronti a celebrare la grande festa religiosa In Lessinia a marzo era viva una tradizione tutta popolare: “Cantar marso”. Un saluto speciale alla primavera vicina, di stampo popolare, lanciato dai ragazzi con un’esplosione di suoni e canti attorno ad un falò e con l’accompagnamento dei campanacci
di Piero Piazzola
Nella fotografia in alto: Cerimonia di battesimo del 1930 con la presenza (da sinistra a destra) del sindaco, del parroco, del sacrestano, di un bambino, della comare col bimbo da battezzare, del padre e della suocera
in VERONA
Per quanto riguarda la montagna, la Lessinia in particolare, marzo nei tempi andati manteneva viva in calendario una tradizione tutta popolare: Cantar marso. Era un saluto speciale alla primavera vicina, di stampo popolare, lanciato da ragazzi e giovani con un’esplosione di suoni e canti attorno ad un falò e con l’accompagnamento sonoro dei campanacci (le ciòche). Durante le prime sere del mese i ragazzi del paese martellavano tutta la comunità con il suono di secchie e contenitori di latta (i bandòti) e di campanacci (le ciòche), scandendo mordaci filastrocche. Oggetto di queste burle erano, per lo più, i personaggi più strani: povere zitelle delle con-
trade che venivano accoppiate (nel canto) a curiosi cavalieri; spesso erano resi pubblici, senza alcun ritegno, i futuri matrimoni o le liti tra coniugi e tra morósi; oppure si denunciavano pubblicamente le fughe da casa di qualche moglie o di qualche ragazza che con i genitori non andava più d’accordo. Divisi in due gruppi distinti, su due dossi opposti, i gruppi si davano botta e risposta con un dialogo a distanza, comunemente detto “la canta”, eccone una: « Entra marso in questa sera / par maridar ‘na puta bela – Ci ela, ci non ela? – L’è la Roseta che l’è maridaréla – Ci ghe dénti par moroso? – Quel de la Piassa che l’è on bel toso – Cossa ghe dénti par dota? – ‘Na pegora morta ligà co ‘na stropa –
Cossa ghe dénti par stima? – On fero rosso e ‘na lima ». La chiassosa sarabanda andava avanti di questo passo fino alle ore piccole della notte. Nel dopo Quaresima la vita delle contrade si rianimava. La settimana che precedeva la Pasqua era dedicata alle tradizionali pulizie pasquali, anche per riflettere il motivo della purificazione spirituale che ricorreva in occasione dell’imminente festa religiosa. Si riassettavano a fondo le dimore detergendo granari, càneve, muri, cassóni (madie) e camini. Con un certo tipo di sabión, mescolato a sale e aceto, oppure con farina di polenta e aceto, si lucidavano i rami (pentole usate sul focolare); nei tempi andati v’era addirittura
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Tradizioni un ambulante, il soldamaro, che veniva saltuariamente nei paesi a vendere questo tipo di sabbia particolare. La catena del camino che reggeva le pentole, veniva trascinata lungo le strade dai bambini per scrostarla dalla fuliggine, ma anche come difesa contro strìe e anguane che, si diceva, scendevano dai camini a portar scalogna. In quest’occasione si faceva anche la tradizionale lìssia, un bucato eccezionale con acqua e cenere, molto efficace per lenzuola e biancheria; la cenere che rimaneva dalla bróa (il lissiasso, acqua bollente, satura di cenere, che si versava sopra un grosso telo, el bugaról, nel brentón, una brenta molto grande), veniva conservata gelosamente in un angolo dell’orto, perché sarebbe servita come letame; la vecchia acqua santa, che era stata conservata in casa dal Sabato santo dell’anno precedente fino a quel giorno, finiva sul fuoco e si rimpiazzava con quella nuova. I Sepolcri, che qualche anziano ricorderà ancora e che dominavano la scena del Giovedì santo, erano degli altari, riccamente addobbati di piante e lumini e ornati di fiori per l’adorazione straordinaria del Corpo di Cristo. Per capirli meglio, bisogna rifarsi alla stagione in cui, di norma, ricorre la Pasqua (fine marzo o primi d’aprile); fa ancora freddo, la natura stenta a scongelarsi. Una volta non c’erano
fiori di questa stagione e se c’erano, erano i soliti gerani conservati nelle stalle. Ma poi le donne di quei tempi non si curavano tanto di tenere vasi di fiori; c’era dell’altro ben più importante cui pensare: “la fabbrica dell’appetito”, come si usava dire; l’hobby maggiore era el cassón de la polenta (madia), che non doveva mai restar vuota. Ad ogni modo, un po’ di verde attorno al Sepolcro le donne riuscivano ugualmente ad assicurarlo. Seminavano per tempo in alcuni vasi un po’ di frumento, poi portavano i vasi nella stalla per una diecina di giorni e il frumento, a quel tepore e con quell’umidità germogliava rapidamente e cresceva in fretta, fino a una trentina di centimetri d’altezza. Il verde per il “Sepolcro” era garantito. Durante i giorni che andavano dal Giovedì santo alla mattina del Sabato santo, le campane tacevano e al loro posto si ripercuoteva il crepitar delle ràcole, (i Cimbri le chiamano snére) dal suono mesto e triste. Ogni famiglia, dove c’erano ragazzini soprattutto, aveva la sua bella ràcola oppure un aggeggio simile (ranèle, snàtare) per far fracasso. In certi paesi di matrice cimbra, più indietro nel tempo, si sostituiva il suono delle campane con quello del grolón, un arnese simile alle ràcole sistemato sul campanile; era né più né meno che una cassa di legno con delle stecche elastiche che andavano a sbat-
L’”Ultima Cena” in una formella del portale di San Zeno.
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tere sui denti di un rullo di legno provocando un rumore secco e martellante. Nei monasteri, anticamente, non avendo ancora le campane, usavano il crotalo, una serie di nacchere di dimensioni più grandi. Nelle tre serate del martedì, mercoledì e giovedì si cantavano in chiesa i Matutini, una sequenza ininterrotta di un’ora abbondante di salmi, lezioni, antifone, inni, tutti in latino, per cui chi sedeva tra i banchi non ci capiva niente. E i primi a non capirci niente erano proprio i ragazzini che arrivavano a quelle funzioni muniti della propria ràcola, perché così voleva il copione, e soprattutto perché quelle erano occasioni speciali per dar sfogo alla loro esuberanza. Quando terminava la recita dei Matutini, il parroco percuoteva il messale sull’inginocchiatoio; era quello il segnale con cui i ragazzi davano il via ad un tremendo strepito con i loro arnesi. Si diceva che ai presenti il baccano dava l’impressione di partecipare fisicamente, in veste di giudei, alla condanna a morte di Gesù. Ma il giorno seguente, al “Gloria” del Giovedì santo, con la celebrazione della Messa granda si rientrava in un’atmosfera di festa, sottolineata dai festosi suoni delle campane, dal suono di campanelli che ogni ragazzino, sempre come copione, si portava dietro per quella funzione, dallo sparo di trombini, dei mortaretti e dallo scoppio dei bussoloti col carburo. I grandi sparavano i màscoli che di solito erano residuati bellici della Prima guerra mondiale. Li caricavano con polvere nera, vi introducevano una miccia, pressavano il tutto con polvere di mattone frantumata e poi li facevano detonare. Gli scoppi col carburo, invece, erano il diversivo pasquale personale dei ragazzi che cercavano un po’ di carburo (gas di acetilene); allora lo si trovava con una certa facilità, perché i minatori che tornavano dal Belgio o dalla Francia si portavano a casa le lampade e anche un po’ di carburo; ma lo vendevano anche in certi negozi di genere. Si prendeva un bussolotto, di quelli della conserva di pomodoro di una volta, vi si praticava sul fondo un piccolo foro. Si scavava un pic-
cola buca nel terreno, vi si sputava dentro, si depositava nello sputo un tantino di carburo e poi, velocemente, vi si ribaltava sopra il bussolotto, lo si stuccava per bene con terra tutt’attorno, cercando con un dito di otturare bene il foro praticato. Poi, dopo qualche secondo, via il dito dal buco e con un fiammifero s’innescava la scarica; esplosione garantita. E anche... pericolosa. Le donne, solitamente affaccendate in casa con i bambini, uscivano a camminare con loro per la contrada, facendo attraversare la strada ai più piccoli, quasi a istruirli sui disagi che avrebbero potuto incontrare nella vita; gli uomini slegavano gli animali dalle canàole, collari di legno che li tenevano legati alle mangiatoie (grépie). La sera del Giovedì santo si celebrava una solenne processione per le vie del paese, illuminato a festa da lanterne e lumi sui davanzali (non c’era ancora la luce elettrica), con le finestre addobbate con drappi colorati, accompagnato dai Confratelli del Santissimo con le loro cappe rosse che reggevano il baldacchino o portavano le torce dorate, oppure gli stendardi. In certi paesi di pianura e di collina, la mattina del Giovedì santo, dopo lo scampanio imponente del “Gloria”, i contadini andavano a legare con delle stròpe (vimini) le piante da frutto, perché si credeva che la pianta avrebbe dato frutti più abbondanti. Il Venerdì Santo, sempre di sera, si svolgeva una processione con la Croce senza la figura del Cristo, e si cantava l’inno“Vexilla regis prodeunt”. Quelle certe croci, che si rinvengono ancora adesso in qualche crocevia dei nostri paesi, erano dette “Croci della Passione” ed erano guarnite con i simboli della passione del Signore. In alcuni paesi vigeva la tradizione di portare in processione la sera del Venerdì una croce di quel tipo. Per tale processione, anticamente, usavano come lumi sulle finestre grosse conchiglie di bogóni, piene di olio lampante, non commestibile. Il giorno di Venerdì qualche macellaio improvvisato uccideva una mucca; le parti migliori le vendeva a un commerciante della vallata; il
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Durante i giorni che andavano dal Giovedì santo alla mattina del Sabato santo, le campane tacevano e al loro posto si ripercuoteva il crepitar delle ràcole, dal suono mesto e triste. Ogni famiglia, dove c’erano ragazzini soprattutto, aveva la sua bella ràcola oppure un aggeggio simile per far fracasso Venditore di uova (Stampa A. Bertarelli, Milano)
resto, a chili e a mezzi chili, veniva ceduto a buon mercato alle famiglie del luogo per fare il brodo per la domenica per la tradizionale minestra con le taiadèle. Il giorno di Pasqua era infatti solennizzato, dopo la lunga parentesi di astinenze e digiuni della Quaresima, con un pranzo particolarmente ricco a base di taiadèle in brodo con i figadìni, di carne di manzo o di cappone con i crauti, pearà, crén, e dolci, le tipiche brassadèle, focacce molto leggere che avevano la forma del sole, simbolo appunto della bella stagione, e ne costituivano un’invitante manifestazione. L’unica nota, poco conforme alla solennità, era il vino; un vino nero che si ricavava da un’uva nera e piuttosto aspra di collina, ché a berlo, si diceva, bisognava appoggiarsi saldamente a un muro per non cadere a terra. Di mattino prestissimo, prima ancora che il sole all’orizzonte, filtrasse le nebbioline primaverili, sulla piazza, davanti alla chiesa, il sacrestano accendeva un fuoco tra due sassi posticci, con dei rami di olivo tenuti in serbo dalla festa delle Palme e i ragazzini vi aggiungevano, come consuetudine, una stèla, un pezzo di legno, mentre l‘interno del tempio era completamente buio. Poi usciva il sacerdote accompagnato dai confratelli del Santissimo e dai chierichetti, santificava il fuoco e scaldava quattro grani d’incenso a forma di chiodi e
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li infiggeva nel cero tanto da formare una croce; cerimonia che si ripete ancora adesso. Quindi partiva verso l’interno della chiesa una processione che andava a portare, via via, la luce alle candele degli altari e a tutte quelle delle ciocàre, cioè quei grandi lampadari che pendevano dalla volta della chiesa, carichi di candele che il sacrestano accendeva una ad una. Dopo una lunga sequenza di inni e di orazioni e il canto della Litanie dei Santi, aveva luogo il rinnovo dell’acqua del fonte battesimale. Dopo la funzione le donne si procuravano una bottiglietta di acqua del nuovo fonte che poi portavano a casa e versavano nelle acquasantiere ai lati dei letti oppure tenevano in serbo per la successiva benedizione pasquale delle case. Quando nell’area cimbra dei Tredici Comuni, dopo la ricorrenza della Pasqua, nasceva il primo maschietto il battesimo assumeva un carattere del tutto straordinario: quel bimbo aveva l’onore di essere battezzato con l’acqua santa consacrata il sabato santo. Per tale ricorrenza ricorreva il detto che il bambino el g’à verto el fonte oppure che el g’à rinovà el fonte. E i cerimoniali esteriori che accompagnavano l’aspetto strettamente religioso assumevano un carattere di straordinarietà. Il corteo — se si può chiamare così il gruppetto di persone che partecipava alla cerimonia — che di nor-
ma accompagnava il neonato, era costituito dal padre (mai dalla mamma), dai due padrini, dalla comare che aveva assistito al parto e da una schiera di ragazzini che puntavano solamente a ricevere i confetti e la mancéta dopo le cerimonia. V’erano tre confratelli del Santissimo in pompa magna che portavano la Croce e due torce, il sagrestano, qualche fabbriciere e qualche persona di prestigio nella vita della comunità, come il sindaco o l’amministratore comunale; il corteo era seguito da un agnellino di un paio di mesi di vita, tutto abilmente agghindato con carta da fiori e con dei campanellini al collo. L’agnello, poi, a battesimo avvenuto, lo lasciavano al parroco che procurava di sistemarlo nella sua stalla e di foraggiarlo per bene per un altro mese circa. Al momento più propizio il parroco invitava tutti coloro che avevano partecipato al battesimo, faceva cucinare l’agnello, lo accompagnava con dell’ottimo vino e tutto finiva in gloria. A cominciare dal lunedì successivo all’ottava di Pasqua, parroco e sagrestano incominciavano una settimana di impegno piuttosto pesante: la benedizione della case. Durante la messa domenicale il parroco emanava dal pulpito il calendario e gli itinerari con l’elenco dei nuclei familiari direttamente interessati a quella visita straordi-
naria. Quando il parroco partiva, lo seguiva il sacrestano con una dérla (bicollo) e due sésti da lissia per depositare le uova che ogni famiglia avrebbe donate. E quando a una famiglia toccava il suo giorno si trovavano tutti al gran completo in casa, nel locale di cucina, attorno a un tavolo su cui era stata stesa una tovaglietta, accese due candeline di quelle della Serióla, preparato un bicchiere con dell’acqua benedetta il Sabato santo e un rametto di ulivo per la benedizione. In un piatto fondo da minestra la madre deponeva delle uova di gallina, tante quante erano le persone del nucleo familiare. Il sacerdote impartiva la benedizione «alla casa e ai suoi abitanti» e il sagrestano raccoglieva le uova e le poneva nelle ceste. Al posto delle uova il parroco poneva nel piatto alcune candeline benedette il dì della Serióla, tante quanti erano i componenti della famiglia. Quella era l’occasione più appropriata anche per far celebrare delle messe per i propri defunti, di saldare eventuali ”sospesi” (leggi “quote sociali della Confraternita del Santissimo), di rimediare con denaro alla mancata consegna della legna al parroco e per definire altri piccoli debiti. Ovviamente saldi o anticipi avevano luogo in base a uova; e la primavera era la stagione più propizia e generosa nella deposizione delle uova da parte delle galline.
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Scienza INVENZIONI
Il motore a benzina fu l’idea di un veronese Enrico Bernardi anticipò di due mesi Karl Benz e Gottlied Dailmer. Ideò un motore a scoppio che sfruttava come combustibile il derivato del petrolio
di Alice Castellani
Alcune immagini di Bernardi con la sua automobile a tre ruote
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Nello studio della scultrice veronese Gabriella Manfrin c’è un busto dedicato a Enrico Bernardi, il genio scaligero che alla fine dell’800 inventò il primo motore a scoppio alimentato a benzina. Il busto è stato realizzato su commissione dell’ASTaV (Associazione Scienza e Tecnica a Verona), creata da appassionati di archeologia tecnica per cercare di salvaguardare il patrimonio di materiale tecnico scientifico e diffonderne la conoscenza, ma è ancora in attesa di trovare una degna collocazione. L’idea iniziale era quella di collocarlo in piazza a Quinzano, dove c’era la residenza estiva della famiglia Bernardi nel cui cortile l’inventore aveva ricavato un laboratorio. Ora sembra più probabile che il busto, progettato per essere posto su marmo rosso di Verona e arricchito da due elementi in acciaio, possa trovare posto all’Arsenale, dove potrebbe nascere un giardino dei veronesi illustri della Scienza e della Tecnica, visto anche il progetto di trasferire in questa sede il Museo delle Scienze Naturali, a cui potrebbe associarsi forse anche un Museo della Tecnica. Il progetto deve però ancora essere vagliato e approvato dal Comune e la speranza è che presto la città che ha dato i natali all’ingegnere e inventore, il cui prototipo di veicolo circolò per la prima volta nell’estate del 1884, riesca a onorare
questo genio di cui esistono numerose opere non ancora catalogate. La realizzazione della prima automobile da parte di Bernardi è comunque ricordata da una lapide posta in occasione del centenario della scoperta sulla casa di famiglia di Quinzano che recita: “In questa casa Enrico Bernardi ideò e sperimentò geniali opere della scienza e della tecnica e nel 1884 realizzò il primo veicolo con motore a benzina della storia”. Ma chi era Bernardi? E perché solo di sfuggita viene ricordato un personaggio la cui invenzione rivoluzionò il mondo? Enrico Zeno Bernardi era nato il 20 maggio 1841 da Lauro Bernardi, medico-fisico, e da Bianca Carlotti. La sua intelligenza e la sua creatività furono molto precoci visto che a dodici anni aveva già iniziato a pensare alle problematiche connesse ai veicoli in movimento e, aiutato da alcuni compagni di scuola e di giochi, aveva costruito un piccolo carro per rilevare e studiare la differenza delle traiettorie in curva delle ruote esterne e interne. Un problema affrontato in passato da Erone Alessandrino e Leonardo da Vinci, e che sarebbe stato poi risolto con l’impostazione del differenziale. Lo stesso Bernardi, nel 1896, lo avrebbe risolto con l’impostazione e la soluzione rigorosa dello sterzo singolo delle ruote direttrici di un quadriciclo. Nel 1856, quindicenne, Bernardi
presentò all’Esposizione veronese d’agricoltura industria e belle arti un modello di locomotiva e un modello di macchina a vapore fissa, da lui realizzati presso le Officine Ferroviarie di Verona inaugurate nel 1854 fuori Porta Vescovo, le prime a costruire, in numero limitato, locomotive concepite e progettate da un tecnico italiano, l’ingegner Cappelletto. E per quei due modelli, in cui per la prima volta veniva affrontato il problema della distribuzione dell’inversione del moto ad un solo eccentrico, Enrico Bernardi ottenne giustamente una menzione onorevole. Dopo gli studi nella città natale Bernardi si laureò a Padova in matematica nel 1863 e nei quattro anni successivi ricoprì, contemporaneamente gli incarichi d’assistente alle cattedre di geodesia, idrometria, meccanica razionale e fisica sperimentale. Fu poi professore di fisica e di meccanica e quindi preside dell’Istituto Tecnico di Vicenza, dove, nel 1870, compì un interessante studio sull’eclisse solare che originò l’opera Importanza di un’eclisse totale di sole (Vicenza, 1870), grazie a cui Bernardi divenne socio corrispondente all’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, di cui sarà membro effettivo nel 1878. È del 1873 un suo scritto circa il modo di utilizzare il calorico dell’ambiente per produrre lavoro, mentre già l’anno successivo presentò all’Istituto Veneto uno stu-
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Scienza
Dove collocare il busto dell’ing. Bernardi: a Quinzano, dove è nato e aveva il suo laboratorio, o in centro a Verona? Dopo le polemiche sembra probabile che l’opera della scultrice Manfrin possa trovare posto all’Arsenale, dove potrebbe nascere un giardino dei veronesi illustri della Scienza e della Tecnica
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dio su un nuovo motore a gas illuminante. Il motorino costruito da Bernardi aveva la potenza di 1/50 di KW e consumava quasi il 20% in meno dei contemporanei motori germanici, di potenza 80 volte maggiore, costruiti dagli ingegneri Langen e Otto. Nel 1878 costruì un secondo motorino a gas illuminante, con stelo dello stantuffo agente direttamente sulla manovella e non tramite dentiera e rocchetto, come negli altri motori del tempo. Queste sue ricerche furono pubblicate negli Atti dell’Istituto Veneto con il titolo Studi sopra i motori atmosferici a gas. L’anno dopo vinse la cattedra di macchine idrauliche termiche e agricole presso l’Università di Padova mentre è del 1882 il brevetto triennale, o meglio l’attestato di privativa industriale, per il “motore a scoppio a gas per le piccole industrie”, il primo brevetto relativo ad un motore a scoppio a combustione interna operante secondo un ciclo atmosferico ad azione diretta, ovvero la “Motrice PIA”, primo motore a funzionare a benzina. Il motore che Bernardi era venuto ideando e perfezionando era un monocilindrico orizzontale, capace di sviluppare due chilogrammetri il secondo alla velocità di 140 giri il minuto, che presto divennero 200 giri il minuto. Questo motore “atmosferico” possedeva organi di spinta alternativa (stantuffo e asta) molto alleggeriti (soli 150 grammi), ed era inoltre corredato di un arresto a frizione, ideato dal Bernardi e da lui chiamato “l’afferratore” oltre a possedere, rispetto agli altri motori atmosferici, una finestra, situata “al centro del fondo del cilindro motore”, capace di dar luogo a “una rapida propagazione della fiamma in tutti i sensi”. La Motrice PIA (dal no-
me della figlia) venne applicata dapprima ad una macchina per cucire, presentata nella sezione meccanica della XVII Esposizione Nazionale di Torino del 1884, e valse a Bernardi il massimo riconoscimento della sezione motori. Lo stesso anno venne applicata al triciclo giocattolo in legno del figlio Lauro, che aveva allora cinque anni e scorrazzava per le vie di Quinzano. L’idea di applicare il motore ad un velocipede, che risaliva all’italiano Giuseppe Murnigotti (titolare di un brevetto del 1879) venne a Bernardi dopo aver provato di persona il mezzo del figlio, veicolo piuttosto faticoso. Forse il fatto che il motore venne applicato al giocattolo del figlio è alla base della successiva diatriba relativa al fatto se Bernardi fosse davvero il primo inventore di una “macchina” a benzina, che lo vide contrapposto al tedesco Karl Friedrich Benz (1844-1929). Gli studi e le ricerche di Bernardi nel quadriennio 1885-89 si concentrarono sull’ideazione e la costruzione di un motore a benzina per l’autolocomozione secondo un ciclo a quattro tempi, brevettato nel 1889 con varie caratteristiche originali, tra cui il cilindromotore a camera di compressione diretta e un carburatore di benzina a livello costante grazie ad un galleggiante operante sulla valvola di presa del carburante, corredata di un dispositivo di regolazione a mano che ha precorso i moderni carburatori a getto polverizzato di benzina. Bernardi brevettò dunque una serie di dispositivi sulla meccanica interna del mo-
tore, sul suo sistema di raffreddamento e sulla trasmissione dei movimenti alle ruote e allo sterzo. Tra le sue maggiori scoperte applicative ricordiamo la postazione delle valvole di distribuzione del fluido operativo in testa al cilindro motore e con l’azionamento mediante un bilanciere e un’asta da un eccentrico mosso dall’albero motore (i cui pregi sono stati teoricamente e sperimentalmente dimostrati vari anni dopo e poi adottati dalle case costruttrici di motori automobilistici). Bernardi analizzò e discusse inoltre i vantaggi delle soluzioni quadricicle e tricicle, ritenendo dapprima preferibile la soluzione a triciclo a doppia ruota direttrice. Più tardi, in occasione della progettazione e costruzione delle sue ultime autovetture presso la Società Bernardi di Padova, preferì la soluzione a quattro ruote, con l’aggiunta del meccanismo differenziale prima superfluo. La guida era resa semplice dal regolatore di velocità del motore controllabile dal pilota, che sotto il controllo di un unico manubrio azionava i tre comandi dell’innesto, del freno e del regolatore di velocità. Successivamente brevettò un dispositivo
Il busto dedicato all’inventore di Quinzano
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Scienza Bernardi tentò la produzione di automobili ma non ebbe successo e la Società da lui fondata venne posta in liquidazione dopo aver venduto un centinaio di macchine. L’inventore veronese trovò il tempo per approfondire i rapporti di carattere tecnico con i dirigenti della Fiat, appena affacciatasi alla ribalta industriale
di comando pneumatico più semplice, grazie a un servomeccanismo ad aria compressa. Dalla minuscola motocicletta azionata con motore da 1/3 di CV realizzata per il figlio Lauro nel 1884, al motoscooter a tre ruote in fila del 1892 (ottenuto applicando alla bicicletta del figlio un carrello-appendice con il motore LAURO a fare da propulsore), alla vettura automobile a tre ruote che cominciò a circolare nel 1894, prima automobile italiana con motore a combustione interna, fu un continuo susseguirsi di geniali concezioni innovatrici per la tecnica motoristica. Nel 1894 nacque a Padova la Società Miari e Giusti per la fabbricazione industriale di motori e di vetture automobili Bernardi, trasformata poi in accomandita Miari e Giusti e quindi in Società Italiana Bernardi. La vettura Bernardi, con motore a 2,5 CV, presentava, sia nel motore sia nei meccanismi di trasmissione e guida, dispositivi originali che in parte precorsero i tempi e sono rimasti nelle costruzioni automobilistiche successive. La macchina raggiungeva i
35 Km all’ora e con questa velocità vinse le prime gare: la corsa automobilistica Torino-Asti-Alessandria, disputata il 17 luglio 1898, le valse un premio di tremila lire per il miglior tempo sul tragitto di 19 Km (9 h e 47’). Alla fine del secolo un’autovettura Bernardi percorse ben sessantamila chilometri senza dover subire radicali riparazioni, nonostante lo stato delle strade del tempo. La Società Italiana Bernardi non ebbe però successo commerciale e venne posta in liquidazione nel giugno del 1901, dopo che un centinaio d’esemplari di auto erano stati costruiti e venduti in Italia. Libero dagli impegni della sua Società, l’inventore veronese approfondì e intensificò i rapporti di carattere tecnico con i dirigenti della Fiat, appena affacciatasi alla ribalta industriale. Infatti neI 1902 incontrò a Verona Giovanni Agnelli, fondatore della fabbrica torinese che ben presto riuscì a svilupparsi su grande scala. Ma Enrico Bernardi, più che industriale, rimase per tutta la vita uno studioso. Gli ultimi dieci anni padovani, so-
prattutto dal 1910, li dedicò con passione anche ai problemi della fotografia a colori, indagando sulle tecniche di riproduzione del colore e degli effetti tridimensionali, nonché a studi ed esperimenti di aerodinamica. Dopo il ritiro dalla vita accademica, nel 1917 lasciò Padova e si stabilì a Torino. Qui morì due anni dopo, il 21 febbraio 1919, a seguito di una trombosi cerebrale. A Padova, nell’Istituto di Macchine da lui fondato presso la Facoltà di Ingegneria, un piccolo Museo ne custodisce i cimeli, le pubblicazioni, gli scritti inediti; altri cimeli sono esposti nelle sale del Museo dell’automobile a Torino, nel Museo della scienza e della tecnica “Leonardo da Vinci” di Milano, nel nuovo Museo “Nicolis” dell’Auto, della Tecnica e della Meccanica di Villafranca e presso la sede dell’Automobil Club di Verona, dove si può ammirare il prototipo della prima automobile italiana, creata da Bernardi e lasciata al Museo delle Scienze Naturali dal figlio Lauro, a cui si deve il nome del motore del primo ciclomotore azionato a benzina.
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Personaggi di Aldo Ridolfi Sottovoce, con ogni delicatezza, ma confidiamocelo: trentasei anni di vita sono davvero pochi! Se le aspettative di vita oggi fossero queste uno non farebbe in tempo a terminare l’università, a fare qualche stage all’estero che già vedrebbe la nera signora frequentare sospettosamente le sue stesse strade. Senza aver avuto il tempo di completare una ricerca, un progetto; senza aver trovato un interlocutore stabile, senza aver potuto tentare, con buone possibilità di successo, di mettere su famiglia, di avere dei figli... Sì, trentasei anni sono davvero pochi, ma le cose non sono sempre andate così.
È il 1824 quando a Tregnago, paese della Val d’Illasi, nasce Abramo Massalongo, in una casa borghese ma non lussuosa, ancora visibile in Via dei Bandi. È appena il 1860 quando la morte lo coglie a soli 36 anni. Davvero pochi. Ma se cerchiamo di rimuovere la polvere che in quasi un secolo e mezzo si è depositata sulla storia, e se srotoliamo le alterne vicende della sua esistenza, e se cerchiamo di toglierlo dai pericolosi tentacoli dell’oblio, ci accorgiamo di come era spendibile una vita brevissima a quel tempo. Da Tregnago si trasferisce a Verona dove compie gli studi superiori; si iscrive alla facoltà di medicina a Padova, ma improvvisamente una diagnosi, allora terribile, spezza l’incanto: tubercolosi! Abbandona medicina, troppo impegnativa fisicamente, studia legge e si laureerà, ma si tratta di un incidente di percorso. Abramo sente prepotente il richiamo della terra, delle grotte, delle cave. Un filo misterioso e irrazionale lo lega a quella natura che pure sembra maledirlo con una malattia che non perdona. Studia privatamente scienze naturali a Verona con il professor Manganotti che lo
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NATURALISTA
Massalongo: una vita breve ma intensa Intrattenne rapporti con scienziati di mezzo mondo che gli inviavano reperti per ottenere consulenze. Noti i suoi preziosi studi sull’ambiente della Lessinia
In alto: la casa natale di Abramo Massalongo a Tregnago in Via dei Bandi Sopra: ritratto di Abramo Massalongo, conservato nella Biblioteca Civica di Verona, Autografoteca Scolari (si ringrazia per la gentile concessione)
presenta ad un grande studioso: Roberto de Visiani, botanico di Padova, del quale Abramo diventa allievo e ospite. Inizia un rapporto bellissimo, caratterizzato da simpatia e stima reciproche. E inizia un cammino nel mondo delle scienze naturali che si concluderà solo alla morte. Eticamente intransigente, polemizza con alcuni colleghi, tra questi lo stesso suo maestro Manganotti. Intrattiene rapporti con naturalisti di mezzo mondo che gli inviano reperti per ottenere preziose consulenze; è accolto in numerose accade-
mie; settaccia la Lessinia e il Veronese, il Vicentino e il Bergamasco, raggiunge a Senigallia il professor Scarabelli; si specializza in lichenologia, in licheni fossili precisamente, e dunque ecco l’affascinante titolo di “principe della lichenologia”; si occupa dell’orso delle caverne, perciò viene chiamato “fondatore della paleontologia”; pubblica le sue opere in Italia, ma anche a Vienna, Ratisbona, Mosca e Praga. Impara a disegnare con mano fermissima e felice gli oggetti dei suoi studi. Nel 1851Abramo sposa Maria Colognato dalla quale ha cinque figli, tra questi Caro, Roberto e Orseolo. Nel 1856, con altri intellettuali veronesi, fonda la Compagnia dell’Ibis, un gruppo di amici che si ritrovano sotto i portici di San Sebastiano, presso Porta Leona, per discutere sul destino della società, così esprimendo l’intento – come chiariscono Curi e Delaini – «di divulgare, attraverso articoletti, su giornali a diffusione popolare, la grande scienza da loro posseduta e appresa nelle solenni sedute accademiche... ». Mette insieme 1500 esemplari di fossili e pretende che alla sua morte vengano affidati allo Stato italiano, negandoli, dunque, all’Austria. Tossisce, è costretto a mettersi a letto, sputa sangue, conosce benissimo il suo destino, attraversa perciò momenti di profonda malinconia; confessa all’abate Bonvicini di Bassano di dover sopportare un «immenso fardello di melanconie... » e si rammarica perché gli amici lo abbandonano per paura di essere contagiati dal suo morbo... Oggi nella protomoteca della Biblioteca Civica c’è un suo busto e sotto sta scritto “Naturalista” e nei pressi di Santa Anastasia, qui a Verona, c’è Via Abramo Massalongo e Tregnago gli ha dedicato la sua piazza più bella ... Se trentasei anni vi sembran pochi...!
Aprile 2008
Personaggi ECONOMISTA
Guido Menegazzi: l’attualità di un maestro dimenticato di Carmelo Ferlito
Il prof. Guido Menegazzi
«L’essenza dei valori finanziari è condizionata da quella dei beni economici, e l’essenza dei beni economici è condizionata da quella dei bisogni umani». Su tale considerazione si innesta tutta l’analisi economica di Menegazzi. In particolare, la moneta e l’organizzazione economica generale devono essere concepite in modo da rispettare il principio fondamentale, ovvero il primato della sfera spirituale e della persona umana sopra ogni cosa
in VERONA
Vent’anni fa, nel 1987, scompariva Guido Menegazzi, economista originario di Legnago, che fu professore universitario a Pisa e Verona. Vogliamo con queste righe sottolineare alcuni aspetti del suo pensiero, tentando, in omaggio alla ricorrenza, di strapparlo all’oblio in cui il nostro concittadino, tra i padri fondatori dell’ateneo scaligero, è stato gettato. Guido Menegazzi nasce a Legnago, in provincia di Verona, il 15 settembre del 1900. Dopo aver partecipato, giovanissimo, alla prima guerra mondiale, si laurea nel 1921 all’Università Ca’ Foscari di Venezia, divenendo in breve tempo assistente volontario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. In Cattolica sono gli anni di Padre Gemelli, il quale consente al giovane Menegazzi di perfezionare gli studi, tra il 1923 ed il 1925, a Vienna, Berlino, Londra e Parigi. All’economista veronese, dunque, non viene certo a mancare la possibilità di conoscere l’ambiente internazionale; tornato in Italia, inizia a collaborare con Alberto de’ Stefani, anch’egli veronese, primo ministro delle Finanze del governo Mussolini. Nel 1939, Menegazzi diviene professore ordinario di Politica economica e finanziaria, andando ad insegnare a Cagliari per un anno e spostandosi poi a Bari. Nel 1957 viene chiamato a Pisa, a ricoprire la cattedra che fu di Giuseppe Toniolo, mentre dal 1964 lo troviamo a Verona (sede staccata dell’ateneo patavino), dove rimane, come professore emerito, fino alla morte, avvenuta il 21 agosto 1987 Benché a qualche economista siano noti gli scritti maturi di Menegazzi, il suo pensiero economico inizia ad emergere nel secondo decennio dell’era fascista, anni in cui il regime si trova a fare i conti con gli effetti globali della crisi del 1929: è il momento in cui si compie la svolta corporativa e autarchica e la politica economica mussoliniana viene vista da molti osservatori, anche in-
ternazionali, come una possibile alternativa sia alla crisi dell’impostazione liberale tradizionale sia alla svolta rivoluzionariobolscevica maturata in Unione Sovietica. Ciò che verrà scritto dopo gli anni Trenta non muta nella sostanza le convinzioni del giovane Menegazzi, pur perfezionando i connotati formali della riflessione. Non abbiamo qui la possibilità di sviscerare nello specifico il pensiero menegazziano. Ci basterà tuttavia insistere su di un punto: la legge fondamentale dell’equilibrio economico-sociale. Inizialmente enunciata nel 1934, sarà il filo rosso di tutta l’analisi di Menegazzi. Questa la prima enunciazione del principio: «La riforma [del sistema economico] deve essere orientata secondo i principii che riconoscono e fissano una gerarchia di valori nella vita economica, basata sulla norma fondamentale: l’essenza dei valori finanziari è condizionata da quella dei beni economici, e l’essenza dei beni economici è condizionata da quella dei bisogni umani». Su tale considerazione si innesta tutta l’analisi economica di Menegazzi. In particolare, la moneta e l’organizzazione economica generale devono essere concepite in modo da rispettare il principio fondamentale, ovvero il primato della sfera spirituale e della persona umana sopra ogni cosa. I valori economici debbono essere subordinati ai valori umani e quelli finanziari essere regolati in modo tale da svolgere un’azione funzionale a quelli economici, e non viceversa. Le recenti crisi dei valori mobiliari ci fanno pensare che, forse, la lezione di chi sosteneva di portare «la Verità che mi sostiene» possa avere una pesante attualità.
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Cultura di Marta Bicego Con l’antologica dedicata a Domenico Gnoli, artista scomparso prematuramente all’età di trentasette anni, si apriva a Verona la storia espositiva della Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti. Era il novembre del 1982 e la direzione del museo civico cittadino, destinato a dare spazio e visibilità alle tendenze artistiche contemporanee, venne affidata a Giorgio Cortenova, saggista e critico d’arte affermato, giornalista e professore all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Sotto la guida di Cortenova la galleria di Volto due Mori è riuscita a tagliare l’ambito traguardo dei venticinque anni di attività, con oltre centocinquanta mostre temporanee realizzate all’interno dello storico edificio che il botanico Achille Forti nel 1937 lasciò in eredità al Comune di Verona perché ne ricavasse una struttura museale dedicata all’arte moderna. Palazzo Forti appunto, la cui ossatura originaria (rintracciabile nella cosiddetta “ala di Ezzelino da Romano”, tirannico capitano del popolo che governò la città dal 1232 fino alla sua morte avvenuta nel 1259) potrebbe essere databile al tredicesimo secolo. La struttura medievale ha subito, con il passare del tempo, alcuni interventi significativi. Il primo risale alla metà del Quattrocento quando la famiglia Emilei, originaria del feudo di Montirone nel bresciano, si trasferì a Verona e trasformò l’edificio in un palazzo residenziale con locali di rappresentanza, biblioteche, giardini, cortili interni e servizi. Il secondo intervento risale al Cinquecento; il terzo è invece di epoca settecentesca e si deve all’architetto Ignazio Pellegrini che stabilì il rifacimento del fronte principale della costruzione. Il palazzo divenne un importante crocevia di incontri culturali, politici ed artistici. Nei suoi saloni Francesco Emilei, provveditore della città, ospitò anche Napoleone I ma (per ironia della sorte) fu condannato a morte come insurrezionalista dal tribunale capeggiato proprio dallo stesso generale francese. In seguito Pie-
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GIOIELLI IN VENDITA
Palazzo Forti: donato per l’arte In venticinque anni di attività più di centocinquanta mostre sono state realizzate nell’edificio che Achille Forti nel 1937 lasciò in eredità al Comune di Verona perché ne ricavasse una struttura museale dedicata all’arte moderna. Ma ora il Comune vuole venderlo Palazzo Forti
tro Emilei, acceso carbonaro, fu costretto ad affittare i locali del piano nobile al comando granducale austriaco presieduto dal generale Radetzky. Il periodo di occupazione austriaca fu quello di maggior risonanza pubblica: la dimora fu ingrandita e prolungata fino all’attuale via Massalongo. Fu successivamente Pietro degli Emilei, al suo rientro in patria dopo un periodo di prigionia nella fortezza di Salisburgo, a vendere la proprietà nel 1854 ad lsraele Forti che ne ordinò un ampio restauro. Si arriva così al 1937 quando Achille, ultimo discendente della famiglia Forti, lasciò lo stabile in eredità al Comune di Verona perché, come da precise volontà testamentarie, lo adibisse a museo d’arte moderna. Con questi compiti l’edificio rimase aperto per poco più di un anno. In seguito agli eventi bellici fu adattato, in un primo momento, a sede dell’Accademia di Belle Arti e liceo artistico; poi, fino al 1950 circa, venne destinato ad accogliere gli uffici dell’amministrazione comunale. Nel 1966, sotto la so-
vrintendenza di Licisco Magagnato, furono intrapresi alcuni significativi lavori di restauro che riportarono alla luce le strutture medievali. Nel frattempo la sede museale, anche se solo per qualche mese, venne riaperta e quindi nuovamente chiusa (se si esclude qualche solitaria esposizione) fino agli anni Ottanta. Nel 1982 l’amministrazione comunale decise la definitiva apertura della Galleria, che venne inaugurata il 14 marzo dello stesso anno. Pur restaurato e rimaneggiato, questo luogo rappresenta un vero e proprio percorso tra epoche storiche e differenti stili architettonici. Racchiusa tra i confini del centro storico, la Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti ha sempre rappresentato un punto di collegamento significativo tra la contemporaneità e le antiche origini della città scaligera. Ed è forse per questo motivo che viene spontaneo chiedersi perché l’attuale amministrazione comunale abbia proposto di metterne in vendita le mura, affidandone le sorti ad un incerto destino. “Ho ideato mostre in cui le opere
dialogassero tra loro e il moderno si rispecchiasse dialetticamente nel contemporaneo, e questo nell’antico. L’arte è nella storia ma è al di fuori del tempo: non è idealismo, il mio, ma atto di fiducia. Nel tramonto della civiltà conserv iamocene una scheg gia”, ha scritto Cortenova nel catalogo (edito da Marsilio) che celebra i primi tre decenni di attività della Galleria. Un percorso segnato da continui studi, catalogazioni ed acquisizioni di opere d’arte. Presenta infatti un’interessante collezione permanente di artisti italiani dell’Ottocento e del primo Novecento: Francesco Hayez, Mosè Bianchi, Arturo Tosi, Giovanni Fattori, Medardo Rosso, Umberto Boccioni, Ardengo Soffici, Felice Casorati, Mario Sironi, Ottone Rosai e Mario Mafai. La raccolta si prolunga al periodo del dopoguerra, con opere astratte e informali di Emilio Vedova e Renato Birolli, fino ad arrivare alle tendenze artistiche dei giorni nostri. Ma la vocazione della Galleria Palazzo Forti è rappresentata principalmente da un’offerta espositiva di respiro internazionale, dalla quale emerge una speciale predilezione per i grandi nomi dell’arte e per tematiche capaci di attirare l’interesse del pubblico. Wassily Kandinsky, Amedeo Modigliani, René Magritte, Giorgio de Chirico, Pablo Picasso, Salvador Dalí e Joan Miró sono solo alcuni degli artisti che sono stati ospitati all’interno dei suoi spazi. Fiore all’occhiello delle molteplici opportunità proposte dalla Galleria è infine il programma didattico, rivolto sia alle scuole che al pubblico più in generale. È un tipo di didattica che si rivolge alla persona, nella quale il museo si trasforma in una occasione unica per avvicinarsi alle esperienze artistiche e riuscire a toccare con mano la modernità in tutte le sue espressioni. Partendo dal presupposto che ogni mostra racchiude in sé un valore educativo e formativo, è possibile in questo modo sfatare il falso mito dell’arte contemporanea come “difficile” da comprendere, anche se non si è esclusivamente degli addetti ai lavori.
Aprile 2008
Cultura RIFLESSIONI
La crisi della parrocchia Alcune voci profetiche del passato sono state ignorate. La Chiesa ha le sue responsabilità. Occorre recuperare il valore della povertà intesa come essenzialità di Rino Breoni È ritornato in libreria un volumetto che ripropone due celebri scritti di don Primo Mazzolari: “Lettera sulla parrocchia/invito alla discussione” e “La parrocchia”. Il primo scritto, per ammissione dello stesso autore, non ha avuto riscontri, il secondo è stato guardato con sospetto. L’edizione critica, curata dal prof. Maurilio Guasco, introduce l’opera nel contesto ecclesiale e sociale del tempo. Gli scritti mazzolariani sono datati: 1936 e 1957. L’interesse per realtà come la parrocchia, connotava il periodo storico e le reazioni al messaggio che veniva da un paese della bassa padana, stavano ad indicare che alcune realtà sembravano intoccabili. Riflettervi, annotare, sollevare dubbi, poteva ingenerare reazioni opposte: la noncuranza, come nel caso del primo scritto o il sospetto come nel caso del secondo. Dopo aver letto le pagine appassionate di un uomo il quale per la parrocchia ha speso tutte le sue energie, ritenendola suo primo impegno ministeriale, realizzazione della sua vocazione umana, cristiana e sacerdotale, viene spontaneo un interrogativo e nascono molte perplessità sulla condizione attuale delle nostre parrocchie. Venticinque anni di servizio in due parrocchie diverse tra loro geograficamente, ambientalmente, con stratificazioni sociali altrettanto diverse, con tradizioni e respiri cristiani quali si possono viver ed attuare in un centro storico ed in una zona assolutamente singolare con i caratteri del quartiere vero e proprio, mi hanno consentito di trovare nelle pagine mazzolariane il vento della profezia e l’intuizione profonda di una intelligenza pastorale che coglie quanto è essenziale ed ineludibile perché la parrocchia possa resistere ai mutamenti storici, comportamentali, sociali ed altro. Non servono tante argomentazioni per dire che è definitivamente tramontata, anche nei paesi, l’identificazione tra “comunità parrocchiale” e territorio. È sufficiente considerare la sproporzione tra abitanti e praticanti per prendere atto che la parrocchia
in VERONA
intesa come piccolo gruppo di credenti, sta al territorio come l’evangelico lievito sta alla pasta. Ma a questo punto incalzano altri problemi, perché il territorio come tale ed i suoi abitanti, pur verificando un rarefarsi dei legami con la comunità cristiana, conserva tuttavia l’eco di una prassi, di una consuetudine religiosa che continua a chiedere alla parrocchia riti, gesti, funzioni, celebrazioni sacre col rischio, non molto ipotetico, che venga considerata come un’agenzia distributrice di azioni religiose. Che queste poi nascano da una sensibilità di fede piuttosto che da un vago sentimento religioso, a volte superstizioso, è tutto da dimostrare. Se ci si chiede il perché di questa situazione, la parrocchia stessa può esserne chiamata in causa come responsabile, almeno in parte, per aver dato attenzione, spazio, energie ad ambiti di vita non strettamente legati alle sue coordinate essenziali che sono l’educazione alla fede, l’esperienza liturgica e la carità, vissuta come attenzione vicendevole ai poveri, ai cosidetti lontani. La ricreazione, lo sport, il turismo spirituale, cose pure rispettabilissime e di qualche utilità, hanno di fatto assorbito energie a tutti i livelli, sottraendole talvolta a finalità tutt’altro che marginali. La parrocchia vive oggi una crisi di identità. Stupisce che le voci profetiche che già si alzavano molti decenni or sono con modalità ed in ambienti assolutamente diversi (si pensi oltre che a Mazzolari, anche a Milani) siano state disattese, ignorate, guardate male e talvolta ritenute anche espressioni di scarso amore della Chiesa. La parrocchia ha subito e sta subendo i contraccolpi dell’inesorabile processo di secolarizzazione. Una società che si costruisce aldifuori di riferimenti religiosi e culturali pone evidente l’interrogativo sul significato stesso di una realtà come un piccolo gruppo di persone credenti e impegnate in un annuncio come quello del Vangelo di Gesù Cristo. L’evidente interrogativo si coniuga con l’altrettanto evidente condizione di minoranza dei cristiani, per secoli mentalmente abituati ad
essere maggioranza e a ritenere la società civile realtà coincidente con le misure della loro esperienza religiosa. Personalmente considero il fenomeno dei cosidetti “movimenti” come espressione di una ricerca di quanto la parrocchia non ha saputo dare, ma anche come espressione di una ricerca di presenza numericamente consistente, capace di affrontare il momento storico uscendo dall’irrilevanza. Il discorso si fa difficile, perché cristianamente parlando, la rilevanza dell’esperienza cristiana non dipende affatto o esclusivamente dal numero ma dall’azione dello Spirito che anima la comunità dei credenti. Ed è a questo punto che, preso atto della non coincidenza fra territorio e parrocchia, si pone quasi drammaticamente l’importanza che essa potrebbe assumere vivendo la propria esperienza tra i cosidetti “lontani”. Quando il Concilio Ecumenico Vaticano II ci avvertiva che le gioie, le speranze e le angoscie dei cristiani e non v’è nulla di genuinamente umano che sia ad essi estraneo (GS 1), sostanzialmente ci avvertiva che quanto può sembrare il fallimento di una realtà come la parrocchia, può rivelarsi invece l’occasione più vera per mostrarne la sua verità e la sua importanza. Vivendo l’esperienza dell’uomo d’oggi, condividendone le disperazioni, le tensioni, le ansie, la parrocchia può diventare riferimento di speranza, attraverso la chiarezza della proposta evangelica, la leggibilità della vita di quanti in essa si riconoscono. Tutto questo impone un mutamento di ottica, un mutamento di linguaggio per comunicare, la capacità di incrociare l’uomo contemporaneo per ripetergli in una crescente verità le parole di Pietro e di Giovanni allo storpio del Tempio “Non abbiamo né oro né argento ma quello che abbiamo lo diamo a te: in nome di Cristo alzati e cammina”. Ricuperare quello che pare un luogo comune, cioè la “povertà”, guardata come essenzialità e libertà da compromissioni mondane, può significare il ricupero anche della necessità e della verità di questa tanto discussa “parrocchia”.
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Cultura TEATRO
Dante in dialetto «In mèso a ‘na stradela che fasso da ‘na vita, sòn scapussà in una vècia marmìta...» Silveria Gonzato ha iniziato nelle scuole, per favorire l’integrazione dei ragazzi diversamente abili. Nei suoi lavori la regista mette l’ironia al primo posto
di Irene Lucchese
Sopra: Silveria Gonzato In basso: gli attori della compagnia “I Dialettanti” mentre rappresentano “Quel mato de Orlando”
I testi della compagnia “I Dialettanti” non sono da considerarsi traduzioni dei grandi classici, ma opere ricche di fantasia e comicità che, in ogni caso, mantengono lo spirito originale del capolavoro da cui prendono spunto
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“In mèso a ‘na stradela che fasso da ‘na vita, sòn scapussà in una vècia marmìta: ò fato ‘n rebaltòn e ò batù el sarvèl, ò serà i òci e me sòn trovà in ciel”. Inferno, 1° Canto delle Divina Commedia di Dante Alighieri. Dialetto veronese per la più nota opera in lingua volgare toscana. È quello che si è inventata Silveria Gonzato, autrice veronese di testi in dialetto e da otto anni regista degli spettacoli della compagnia teatrale “I Dialettanti”. Nata nel Duemila in occasione di un breve corso di dialetto, la compagnia è composta da una ventina di persone che hanno iniziato a mettere in scena le opere della professoressa Gonzato. E hanno esordito proprio con La Comèdia del domìla, rifacimento comico e attualizzato dell’opera di Dante. I lavori della signora Gonzato non sono da considerarsi traduzioni dei grandi classici, ma opere ricche di fantasia e comicità che, in ogni caso, mantengono lo spirito originale del capolavoro da cui prendono spunto, come i sempre richiesti Quel mato de Orlando e I Promessi Spaìsi. Per rendere più vicine al pubblico le grandi opere letterarie, l’autrice mostra una grande originalità nei contenuti, soprattutto con richiami all’attualità. Così, ad esempio, per L’Inferno del domìla la scrittrice ha avuto l’idea di cambiare peccati e pene per adattarli alla nostra realtà: si trovano, infatti, inquinatori, razzisti, corruttori, spacciatori di droga, mercanti d’armi, tutti traghettati da Caronte e puniti da diavoli.
Questa curiosa iniziativa ha una storia più lunga, risalente ad una quindicina di anni fa. La Gonzato è stata per molti anni un’insegnante di lingua francese. Si è poi dedicata agli alunni diversamente abili e proprio per loro ha voluto creare un diverso metodo di integrazione. È qui che sviluppa l’idea di portare in scena i classici della letteratura, aggiungendo la particolarità del dialetto: in questo modo è riuscita a mettere sullo stesso piano tutti gli alunni, accomunati dalla difficoltà di leggere e imparare a memoria versi in dialetto veronese. Nate quindi per il mondo della scuola, le sue opere sono successivamente state adattate per rappresentazioni teatrali e un pubblico adulto, ma hanno sempre mantenuto una grande comicità e totale assenza di volgarità. «Ora che è cambiato il target di riferimento» spiega la Gonzato «ho aggiunto qualche doppio senso, niente di più di ciò che si usa nella vita quotidiana, ma rigorosamente mai parolacce né volgarità di alcun genere, tant’è che tuttora gli spettacoli sono molto apprezzati da bambini, giovani e adulti». In relazione alla lingua utilizzata, la Gonzato spiega: «Pur avendo totale rispetto e ricordo amorevole
verso il dialetto del passato, lo scopo del mio lavoro è la comunicazione e quindi è fondamentale farsi capire da tutti». Per questo il dialetto usato è quello contemporaneo, comunemente parlato oggi nella città scaligera. «Scrivere in dialetto non è affatto semplice», afferma l’autrice. «Essendo laureata in Lingue e Letterature Straniere, ritengo fondamentali le regole grammaticali, per cui non mi sono improvvisata scrittrice dialettale ma ho studiato a approfondito la mia conoscenza in materia». La Gonzato ritiene fondamentale non prendersi troppo sul serio quando ci si avvicina a scrittori di immenso talento, per i quali l’autrice ha un enorme rispetto; «sarebbe impossibile farne una imitazione», dichiara, «quindi meglio mettersi in discussione, far capire al pubblico che si tratta comunque di un gioco». Con ragazzini come protagonisti prima, e con attori non più giovanissimi oggi, la regista non può che mettere l’ironia al primo posto, creando per ogni personaggio originale una caricatura, alla quale tutto è concesso: non sarà allora così strano vedere un Ulisse o un Amleto dodicenne né una Lucia Mondella quasi sessantenne.
Cultura POESIA
Barbarani, poeta muto La celebrazione più consona ad un artista, la diffusione delle sue opere, è preclusa al cantore della veronesità: in forza al contratto firmato nel 1921 con la Mondadori i suoi versi non vengono pubblicati dal 1986
di Marzia Sgarbi Poeta veronese e non, genericamente, poeta dialettale veneto. L’anima poetica del Barbarani potrebbe essere riassunta così, nella sola parola veronese, senza che questo dimensionarla al solo contesto cittadino ne sminuisca la portata; si può forse dire che non ci sarebbe stato Barbarani senza Verona, ma non perché Verona è la città dove il poeta è nato e cresciuto. La città natale è qualcosa di più, è il primo e principale argomento della sua poetica, è l’oggetto di tante sue liriche, è lo sfondo su cui si muovono i personaggi cantati, è il luogo in cui si trovano i monumenti celebrati, è l’origine delle tradizioni fatte rivivere dai suoi versi; le notissime poesie su San Zeno e la ricorrenza di Santa Lucia sono chiari esempi in tal senso. È la sua vita ed è la sua poesia e si sa quanto spesso per un poeta le due cose coincidano. Barbarani inizia presto a scrivere della sua città: risalgono al 1892, ai vent’anni del poeta, le prime poesie pubblicate sul periodico umoristico cittadino Can da la Scala; nel 1895 ha inizio la sua collaborazione come cronista per il quotidiano L’Adige, dove ha modo di conoscere Antonio Libretti che cura e fa pubblicare El rosario del cor, la sua prima opera poetica. Negli anni in cui lavora come cronista Barbarani ha modo di entrare in contatto con gli strati più umili della società e ad essi si avvicina con tutta la sensibilità e la delicatezza che traspaiono dalla raccolta I Pitochi, dove, cantando i poveri di Verona, canta in realtà
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anche i poveri di tutto il mondo perché la poesia sa trascendere i luoghi e i tempi. Le sue opere varcano il confine di Verona nel 1900: in quell’anno viene invitato a leggere a Milano alcune delle sue poesie e a riproporle successivamente anche in altre città italiane insieme a poeti dialettali quali Gaetano Crespi e Trilussa; ma il 1900 è anche l’anno in cui viene pubblicato il primo Canzoniere Veronese, una summa delle sue più recenti raccolte ma anche una summa delle tematiche a lui più care: la primavera, l’amore, la malinconia strisciante che sembra seguire l’alternarsi delle stagioni, la varietà delle vicende umane. Per trent’anni, a partire dal 1902, Barbarani collabora con il quotidiano regionale Il Gazzettino, per il quale scrive non solo articoli di cronaca ma anche resoconti di viaggio e bozzetti in generale che saranno riuniti in un volume a parte nel 1942. Poeta e giornalista, quindi, ma anche personalità attiva nella vita culturale veronese: con l’amico Angelo Dall’Oca Bianca, illustratore delle copertine di alcune sue opere, ad esempio, conduce una battaglia contro l’amministrazione cittadina per la tutela della storicità di Piazza delle Erbe. Ma Barbarani è legato all’amico pittore anche dalla profonda sensibilità alla causa degli umili di Verona: pochi anni dopo la costruzione del Villaggio Dall’Oca Bianca viene, infatti, costituita la Fondazione Berto Barbarani, originata da una pubblica sottoscrizione cui concorsero oltre 5000 veronesi, avente lo scopo di offrire educazione
ed istruzione ai figli dei poveri di Verona. Ai Canzonieri del 1911 e del 1922 fa seguito nel 1937 L’autunno del poeta, la quarta e ultima raccolta, dove, nella parziale ripresa dei temi delle sue prime poesie, si possono intuire i segni di quell’isolamento artistico che caratterizza la sua maturità artistica. Nel 1940 il ministero per la Cultura popolare, quale pubblico riconoscimento al valore della sua arte, attribuisce al poeta un vitalizio che gli consente di trascorrere senza preoccupazioni economiche gli ultimi anni, funestati però dalla guerra e dalla perdita degli affetti più cari: l’amico Dall’Oca Bianca, il nipote caduto in Russia e la moglie. Barbarani muore di malattia nel gennaio 1945 nella sua Verona, dove è ritornato dopo essere sfollato a Soave. Recentemente la città ha commemorato il poeta con l’erezione, a margine della tanto amata Piazza delle Erbe, di una statua bronzea che lo raffigura rivolto verso il centro della piazza stessa, quasi verso la statua di Madonna Verona, l’ipostasi della città tanto celebrata nelle sue poesie. Ma è la celebrazione forse più consona ad un poeta, la diffusione delle sue opere, che al Barbarani è preclusa: in forza al contratto firmato nel 1921 dal poeta con la Mondadori, infatti, i suoi versi non vengono pubblicati dal 1986 poiché il Barbarani è ritenuto dall’editore che ne detiene l’esclusiva un poeta di nicchia. In questo caso la veronesità del Barbarani, più che la sua peculiarità, è diventata il suo limite. Berto Barbarani in Piazza delle Erbe
Cultura MUSICA
Salieri: da Legnago alla corte di Vienna Accadde negli anni intorno al 1790 che Mozart, allora all’apice della notorietà, accusasse Salieri di plagio e della volontà di attentare alla sua vita
Direttore d'orchestra e compositore di musica sacra, classica e lirica, il musicista legnaghese fu tra i fondatori del Conservatorio di Vienna (1817) ed ebbe fra gli allievi una schiera di nomi illustri, fra cui Beethoven
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di Nicola Guerini Antonio Salieri nacque il 18 agosto 1750 a Legnago, centro agricolo sull’Adige che, in epoca risorgimentale, divenne una delle piazzeforti del Quadrilatero Austriaco, in una casa di cui è rimasto solo l’arco della porta, oggi incorporato nel Museo Fioroni, dedicato in parte alla memoria del Maestro. Poco più che adolescente Salieri intraprese lo studio del violino con il fratello Francesco, allievo di Giuseppe Tartini, e del clavicembalo con G.Simoni, organista della città. All’età di 15 anni si recò a Venezia sotto la protezione della famiglia Mocenigo, presso la scuola di S.Marco, dove fu allievo di F. Pacini per il canto e G.B. Pascetti per la composizione. Proprio a Venezia incontrò Leopold Gassmann, maestro della cappella imperiale, il quale lo condusse con sé a Vienna trattandolo come un figlio fino alla propria morte e dandogli la conoscenza della cultura letteraria tedesca, latina e francese, oltre che un’ottima istruzione musicale. Introdotto a corte, ormai noto come compositore di musica sacra, dal 1769 diresse le prove d’opera del Teatro di corte viennese e nel 1770 esordì come operista con “Le donne letterate” che, rappresentate alla presenza di Gluck, gli valsero la sua stima. Salieri, che a Venezia aveva conosciuto Metastasio e Haydn, del quale fu molto amico, nella sua vi-
ta viaggiò molto per seguire le rappresentazioni delle sue molte opere abitando per qualche tempo anche a Parigi dove conobbe Gluck, Piccinni ed Hasse. Il 10 ottobre 1774 sposò Teresa Helfersdorfer e l’unione, a dispetto di qualche chiacchiera successiva, fu felice e allietata da otto figli. Morto Gassmann nel 1774, Salieri gli succedette nella prestigiosa carica di compositore di corte e di direttore d’orchestra del Teatro imperiale e i successi ottenuti dalle sue opere teatrali lo portarono all’interessamento dei teatri italiani che lo invitarono a Milano, Venezia, Roma e Napoli. Ebbe così inizio una carriera per certi versi sfolgorante che lo avrebbe portato a diventare Maestro di cappella alla corte asburgica (sia pure per un breve periodo, dal 1778 al 1790, poiché a tale carica preferì quella di compositore ed insegnante di corte). Dopo il felice debutto della prima opera si aggiunse il successo dell’Armida del 1771, alla quale fece seguito il lavoro che lo avrebbe consacrato nel panorama musicale dell’epoca, l’“Europa riconosciuta”, commissionatagli dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria e che fu destinata all’inaugurazione, il 3 agosto del 1778, del Nuovo Regio Ducal Teatro (l’attuale Teatro alla Scala) fatto erigere a Milano (ricordiamo che la medesima opera ha salutato il 7 dicembre 2004 la riapertura del teatro scaligero dopo un lungo lavoro di restauro).
Fra le sue trentanove composizioni per il teatro si ricordano: La Scuola de’ gelosi (1778), Der Rauchfangkehrer (1781), Les Danaïdes (1784, attribuita in un primo tempo allo stesso Gluck), Tarare (1787), La grotta di Trofonio, Eraclito e Democrito, Axur, re d’Ormus (1788), Palmira, Regina di Persia (1795), Falstaff o sia Le tre burle (1799, tema tratto da Le allegre comari di Windsor di Shakespeare che sarà poi ripreso da Giuseppe Verdi per il suo Falstaff). Fra le composizioni strumentali spiccano invece due concerti per pianoforte e orchestra ed un concerto per organo scritti nel 1773, un concerto per flauto, oboe e orchestra del 1774, un insieme di ventisei variazioni su La Follia di Spagna (1815) e le numerose serenate. Quando il maestro della cappella di corte G.Bonno si ritirò, Salieri prese il suo posto e lasciata l’attività di direttore del teatro continuò, con l’assunzione al trono di Leopordo II, a ricoprire l’incarico di compositore di corte e di vicepresidente della Tonkunstler-Società, di cui diresse i concerti fino al 1818. Membro di diverse società tedesche e francesi (associé étranger dell’Istitut, dal 1806; correspondant étranger del Conservatorio di Parigi, cavaliere della Legion d’Honneur nel 1815, membro dell’Académie Royale des Beaux Arts), nel 50° anniversario delle sue attività viennesi gli vennero
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Cultura
Antonio Salieri
L’attività artistica di Salieri è oggi rivalutata. È importante ricordare che, dopo la distruzione del 1945, il Teatro Filarmonico di Verona riprese la sua stagione nel 1975 proprio con il “Falstaff ” di Antonio Salieri diretto dal Maestro Sergio Failoni. Nel Teatro Salieri di Legnago è attiva invece una Fondazione culturale anch’essa intitolata al nome del compositore dove si svolge regolarmente il “Festival Antonio Salieri”
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tributate grandi onorificenze e fu decorato con la Civil-Ehrenmedaille d’oro. All’attività di composizione affiancò quella, stimatissima, di insegnante: fu tra i fondatori del Conservatorio di Vienna (1817) ed ebbe fra gli allievi una schiera di nomi illustri, fra cui Beethoven (che gli dedicò le tre sonate per violino e pianoforte Op.12, e compose 10 variazioni per pianoforte su un’aria del Falstaff), J.N. Hummel, Liszt, Meyerbeer, C.G. Reissiger, F. Schubert, J.H. Stuntz, F.X. Sussmayr. Fra i suoi pupilli vi fu anche uno dei figli dello stesso Mozart, Franz Xaver Wolfgang, mentre fra gli allievi di canto, numerosissimi, ricordiamo Caterina Cavalieri, la principessa E. di Wurttemberg, Fortunata Fianchetti. Lasciò erede della sua ricca biblioteca musicale la TonkunstlerSocietà, che la donò a sua volta alla Biblioteca Nazionale di Vienna. Nel 1821 le condizioni mentali di Salieri, già scosse da quando aveva perduto l’unico figlio (1805) e la moglie (1807), si aggravarono an-
che per una malattia agli occhi; nel 1823 la sua mente fu completamente offuscata, tanto che l’anno successivo fu mandato in pensione (a pieno stipendio). Questa circostanza portò inevitabilmente all’attenzione la sua presunta relazione con Mozart in quanto, proprio durante il suo periodo di ricovero, il compositore si sarebbe autoaccusato della morte del grande compositore salisburghese. Secondo voci calunniose diffuse nel sec XIX, risultate poi infondate, Salieri avrebbe tramato contro Mozart provocandone la morte con il veleno. Antonio Salieri morì a Vienna il 7 maggio 1825. Fu sepolto nel Matzleinsdorfer Friedhof e le sue spoglie vennero poi trasferite al Zentralfriedhof (Cimitero Maggiore) di Vienna. Al suo funerale Schubert – suo allievo prediletto – diresse il Requiem in Do minore che lo stesso Salieri aveva scritto diverso tempo prima (nel 1804) per la propria morte. Il suo monumento funebre è ornato da una iscrizione composta da un
suo allievo, Joseph Weigl: Riposa in pace! Non coperta di polvere l’eternità ti è riservata. Riposa in pace! In eterne armonie si è dissolto il tuo spirito. Egli ha espresso se stesso in note incantevoli, ora è salpato verso l’eterna bellezza. L’attività artistica di Salieri ha visto e vede riconosciuta in tempi recenti una rivalutazione. È importante ricordare che, dopo la distruzione del 1945, il Teatro Filarmonico di Verona riprese la sua stagione nel 1975 proprio con il “Falstaff ” di Antonio Salieri diretto dal M° Sergio Failoni. Nel Teatro Salieri di Legnago (VR), sua città natale, è attiva invece una Fondazione culturale anch’essa intitolata al nome del compositore dove si svolge regolarmente il “Festival Antonio Salieri”. Nell’ambito di questa manifestazione si è tenuta nell’autunno 2004 la prima rappresentazione in epoca moderna di una sua rara opera, “Il ricco d’un giorno”, scritta su testo del librettista principe del “rivale” Mozart, Lorenzo Da Ponte.
MUSICALMENTE La leggenda Mozart-Salieri di Nicola Guerini Accadde negli anni intorno al 1790 che Mozart, allora all’apice della notorietà, accusasse Salieri – allora in calo della notorietà – di plagio e della volontà di attentare alla sua vita. Secondo lo storico Alexander Wheelock Thayer i sospetti di Mozart potrebbero essere stati determinati da un episodio accaduto una decina di anni prima quando il compositore salisburghese si vide sottrarre da Salieri il ruolo di insegnante di musica della principessa del Württemberg. L’anno seguente, Mozart non riuscì a farsi nominare neppure insegnante di piano della principessa. Quando poi le sue Nozze di Figaro registrarono al debutto il negativo giudizio sia del pubblico che dell’imperatore in persona, il compositore accusò del fallimento Salieri, reo di averne boicottato l’esecuzione (“Salieri e i suoi accoliti muoverebbero cielo e terra pur di farlo cadere”, commenterà il padre di Mozart, Leopold, riferendosi al primo – ma solo temporaneo, come dimostrerà il susseguente successo dell’opera – insuccesso del figlio). In realtà a quell’epoca Salieri era impegnato in Francia per la rappresentazione della sua opera Les
Horaces il che fa pensare come gli sarebbe stato difficile determinare da tale distanza il successo o l’insuccesso di un’opera. Molto più probabilmente – sempre stando a Thayer – ad istigare Mozart contro Salieri potrebbe essere stato Giovanni Battista Casti, rivale del poeta di corte Lorenzo da Ponte, autore del libretto di Figaro. Una conferma indiretta di quanto la diatriba Mozart-Salieri possa essere stata più che altro un caso montato ad arte, viene dal fatto che quando – nel 1788 – quest’ultimo venne chiamato alla carica di Kapellmeister, anziché proporre per l’occasione un’opera propria preferì curare l’allestimento di una riedizione delle stesse Nozze di Figaro. Nel corso dei decenni nacque e si diffuse la leggenda secondo la quale Mozart sarebbe stato avvelenato per gelosia da Salieri. Questa diceria, priva di fondamento, ha ispirato diversi artisti nel corso dei secoli. Il poeta e scrittore russo Alexandr Sergeevic Puskin credette a queste voci, e nel 1830 scrisse Mozart e Salieri (precedentemente intitolato Invidia), un brevissimo dramma in versi in cui un Salieri roso dalla gelosia commissiona all’odiato rivale Mozart un Requiem, con l’intento di rubarglielo una volta avvelenato e spacciarlo per suo. In merito all’opera di Puskin si è detto: «Se Salieri non ha ucciso Mozart, di sicuro Puskin ha ucciso Salieri».
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Cultura PITTURA
L’Art Brut di Carlo Zinelli Un talento scoperto grazie all’Atelier di pittura creato dallo scultore scozzese Michael Noble e dal professor Mario Marini all’interno dell’Ospedale psichiatrico di San Giacomo alla Tomba di Verona
di Alice Castellani
A nove anni lasciò definitivamente la scuola e fu ospitato presso una famiglia contadina di Palazzina a cui iniziò a sorvegliare il bestiame, trascorrendo gran parte dell’infanzia con loro come “fameio”
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Fu grazie all’Atelier di pittura creato dallo scultore scozzese Michael Noble e dal professor Mario Marini all’interno dell’Ospedale psichiatrico di San Giacomo alla Tomba di Verona che Carlo Zinelli scoprì il suo talento. Entrato definitivamente in ospedale con una diagnosi di schizofrenia paranoide nell’aprile del 1947, dopo anni di frequenti ricoveri legati ai suoi scoppi di aggressività e crisi di panico – curati con elettroshock e trattamenti di insulina –, Carlo Zinelli divenne uno tra i più interessanti rappresentanti dell’Art Brut, apprezzato a livello internazionale. Nato a San Giovanni Lupatoto, in provincia di Verona, il 2 luglio 1916 da una famiglia di carpentieri, era il sesto di sette figli e rimase orfano di madre a soli tre anni. La sua infanzia non fu certo facile, tanto che frequentò per tre volte la prima elementare, perché sistematicamente tra marzo e aprile veniva ritirato dalla scuola per essere impiegato nei lavori dei campi. A nove anni lasciò definitivamente la scuola, e fu ospitato presso una famiglia contadina di Palazzina a cui iniziò a sorvegliare il bestiame, trascorrendo gran parte dell’infanzia con loro come “fameio”. Nel 1934 si trasferì a Verona andando a lavorare presso il Macello Comunale. Terminato il servizio militare si arruolò nel Battaglione
Oggi lo si annovera tra i pittori di fama internazionale, una delle figure di spicco nel panorama artistico del ‘900 le cui opere si trovano nei musei di tutto il mondo. Per capire la sua arte si deve prima di tutto affondare dentro se stessi Trento dell’11° Reggimento del corpo degli Alpini e nel 1939 si imbarcò a Napoli come “volontario” nella guerra di Spagna. L’esperienza della guerra, per quanto breve, lo segnerà per tutta
la vita. Rimpatriato dopo soli due mesi con gravi turbe psichiche, Zinelli venne presto riformato e cominciò il suo calvario dentro e fuori dall’ospedale, fino al ricovero definitivo che lo allontanò sempre più dal mondo. La svolta arrivò dopo dieci anni trascorsi come uno qualunque dei malati, nel 1957, con l’avvio della prima esperienza italiana di Art Therapy – che la letteratura scientifica giudica capace di indurre miglioramenti nella realizzazione interpersonale, nelle capacità sociali, e, per certi versi, anche nello stato mentale – voluta da Noble e Marini, grazie alla quale Zinelli trovò il mezzo per esprimere la sua personalità. Carlo Zinelli divenne certamente un grande artista ma forse, senza la sua malattia, non avrebbe mai pensato di cominciare a dipingere e di trovare nella pittura il modo per essere “libero” di esprimersi, tanto che nel suo caso si può dire che “la terapia dell’arte ha vinto sulla terapia della medicina”. Oggi lo si annovera tra i pittori di fama internazionale, una delle figure di spicco nel panorama artistico del ‘900 le cui opere si trovano nei musei di tutto il mondo. Già prima dell’inizio dei seminari di Art Therapy, all’interno dell’ospedale alcuni infermieri avevano notato la sua spontanea tendenza a disegnare su muri e sassi. Tra i venti pazienti che parteciparono attivamente all’esperienza artisti-
Aprile 2008
Cultura Agli inizi degli anni ‘60 grazie all’interessamento dello psichiatra Vittorino Andreoli, che era giunto ancora studente all’ospedale psichiatrico di Verona, i lavori di Zinelli erano stati presentati alle avanguardie che ricercavano “l’arte vera”, non mediata dall’appartenenza alla cultura ufficiale
Nelle immagini alcune opere di Carlo Zinelli
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ca dell’atelier, il talento di Carlo fu quello che emerse con maggiore evidenza e Michel Noble, lo scultore ideatore dell’iniziativa, ottenne per lui e gli altri dell’atelier anche il permesso di uscire temporaneamente dalla struttura ospedaliera. La produzione dell’atelier suscitò ben presto un generale interesse, tanto che fu lo scrittore Dino Buzzati a presentare la prima mostra collettiva presso la Galleria “La cornice” di Verona, nel 1957, cui ne seguirono molte altre, con il duplice scopo di finanziare l’attività dell’atelier e di far conoscere questi lavori fuori città e all’estero. Nel 1963 Carlo Zinelli fu l’unico italiano ad esporre le sue opere nella mostra dal titolo “Insania Pingens”, organizzata alla Kunstallen di Berna. Agli inizi degli anni ‘60 grazie all’interessamento dello psichiatra Vittorino Andreoli, che era giunto ancora studente all’ospedale psichiatrico di Verona, i suoi lavori erano stati presentati alle avanguardie che ricercavano “l’arte vera”, non mediata dall’appartenenza alla cultura ufficiale. Andreoli si era infatti rivolto all’artista Jean Dubuffet – che aveva creato con Breton ed altri esponenti surrealisti e dada la “Compagnie de l’Art Brut” – perché visionasse l’opera di Carlo ed esprimesse un giudizio. Già dai primi decenni del Novecento, con lo sviluppo delle teorie psicoanalitiche e delle avanguardie artistico-letterarie legate ai temi dell’inconscio, del sogno, del superamento dell’oggettivismo e del naturalismo, era avvenuto l’incontro fra l’arte accademica e quella dei manicomi, con l’arte dei folli che in certi casi diventava addirittura un parametro per giudicare l’arte moderna. Questo gruppo di geniali intellettuali teorizzavano la necessità per l’arte di tornare alle origini, riconoscendo nell’arte dei primitivi, dei bambini e dei folli l’esempio a cui ispirarsi. Ma inizialmente Dubuffet non era convinto dell’effettiva “libertà” culturale del lavoro di Zinelli, comunque caratterizzato da armonia di forme e colori. Solo conoscendo meglio la sua storia di vita si convinse della spontanea genialità “non culturale” del pit-
tore veronese. Nel 1966 Andreoli scrisse la prima monografia dedicata a Carlo nei Cahiers de l’Art Brut ma nel 1969, con lo spostamento nel nuovo manicomio di Marzana, l’ispirazione e l’incisività di Zinelli subirono un calo, anche se proseguì la sua investigazione grafica e pittorica tramite l’uso di forme di testo e nuove tecniche. L’esaurirsi della vena creativa negli ultimi anni di vita si lega all’istituzionalizzazione dell’atelier avvenuta nella nuova sede e alla perdita delle precedenti relazioni, con una conseguente inibizione delle facoltà immaginative ed espositive di quella che era stata una forma d’arte totale, capace di coinvolgere segno, colore, parola e suono a creare un linguaggio vero e proprio, per Sergio Marinelli costituito da “una civiltà figurativa individuale”. Zinelli morì nel gennaio del 1974 per una semplice broncopolmonite. La sua opera è costellata dal numero 4, dal valore sacro-simbolico difficilmente interpretabile ma che certamente assume una valenza ritmica, quasi un elemento ordinatore di tutto il sistema linguistico usato dall’artista. Nella prima fase della sua produzione troviamo allo stato minimo tutti gli elementi che verranno in seguito investigati e combinati, a formare gli elementi del suo vocabolario espressivo. In una seconda fase Zinelli acquisisce una maggiore destrezza di segno e una capacità straordinaria di usare il colore, sia sullo sfondo che nelle figure. In un terzo periodo compare la presenza decisa della scrittura quale elemento grafico-decora-
tivo mentre nell’ultimo si registra un passaggio dal bianco e nero al grafico descrittivo e a nuove sperimentazioni pittoriche. I suoi quadri raccontano per associazioni tematiche e con un linguaggio reinventato, criptico e affascinante, la sua vita e i suoi misteri, con una vena poetica che deriva dal suo mettere tutto se stesso nella narrazione di sé. Zinelli ci parla della sua vita con un originale e unico sistema semantico, che pur trae i suoi elementi dal vocabolario universale comune – cioè da quel caos primigenio che ha in sé il potenziale sviluppo di ogni successivo linguaggio – vista la mancanza di condizionamento culturale e la pulsione creativa allo stato originario della sua pittura. Così per capire la sua arte si deve prima di tutto affondare dentro se stessi, abbandonarsi alla primigenia capacità percettiva, alla memoria arcaica, alla tensione verso la conoscenza. E l’unica cosa da fare è guardare, come disse una volta Zinelli a un giornalista, che lo incalzava perché gli spiegasse il significato di un suo quadro esposto ad una mostra a Milano: «se non te si cretino, guarda!». Vi invitiamo allora a visitare la Fondazione Culturale Carlo Zinelli a San Giovanni Lupatoto (nel Palazzo Municipale in via Roma 18) per vedere da vicino le sue opere, caratterizzate sì dalle tipiche espressioni della produzione schizofrenica (l’horror vacui, la stereotipia, la tendenza all’ordine, alla reiterazione), ma pure da canoni puramente pittorici come la serialità, il rigore e l’armonia compositiva e cromatica.
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Territorio LEGNAGO
Una grande scommessa a favore della salute L’ospedale di Legnago ha un bacino di utenza di 153 mila abitanti e conta 1750 dipendenti. Il settimanale Panorama lo ha classificato il migliore nosocomio italiano. La prima pietra fu posata 40 anni fa dal senatore Guido Gonella
Negli anni Sessanta il paese di Legnago aveva una vocazione prevalentemente agricola ed un tessuto di piccole-medie aziende che davano occupazione. La costruzione dell’ospedale ha avuto un effetto dirompente nel nuovo orientamento del territorio
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La cartina del territorio dell’ULSS 21
di Stefano Vicentini Ospedale, ospizio, osteria, ostello, hotel: una famiglia allargata, etimologicamente parlando, quella dei luoghi adibiti all’ospitalità. Se però si evidenzia un altro punto di vista, collegato ad esempio alla capacità ricettiva o ai posti di lavoro che offre, ecco che la prima della classe senz’ombra di dubbio è “l’istituzione ospedaliera”, proprio come ente sanitario socioassistenziale riconosciuto dalla comunità civile. L’ospedale di Legnago ha raggiunto il quarantesimo anno dalla sua fondazione (è stato inaugurato nel 1968), presentandosi così una valida occasione per valutarne il cammino di sviluppo e prendere atto delle varie modificazioni che sono positivamente intervenute nella genetica del territorio basso veronese. Bisogna, appunto, partire dalle radici storiche, cioè ricordare che negli anni Sessanta il paese di Legnago aveva una vocazione prevalentemente agricola ed un tessuto di piccole-medie aziende che davano occupazione. L’avvento della costruzione dell’ospedale in questo senso ha avuto un effetto dirompente nel nuovo orientamento del territorio: polo d’attrazione per molti posti di lavoro ma anche, nello specifico qualitativo, per l’inserimento di professionisti sanitari ed amministrativi. Inoltre, le dimensioni rilevanti della primiti-
va struttura, la cui posa della prima pietra fu fatta nientemeno che dal senatore Guido Gonella di fronte ad uno straordinario concorso di autorità, hanno fatto capire fin da subito l’apertura di nuovi orizzonti: l’ospedale non solo per Legnago ma per tutti i comuni della Bassa, ossia per una fetta rilevante di popolazione. In quest’ottica sono arrivate presto nuove tappe di progresso: altri ospedali affiliati alla sede centrale, i distretti socio-sanitari, una vasta pluralità di mezzi e risorse umane a disposizione. Oggi l’ente, collegato alla Regione Veneto, ha assunto il nome di “Azienda Ulss 21” e si presenta con una carta d’identità di tutto rispetto: comprende 25 Comuni per un bacino d’uten-
za di 153.000 abitanti, di cui il 20 per cento oltre i 65 anni; s’identifica in un presidio dislocato su tre sedi – Legnago, Bovolone, Zevio – con circa 500 posti letto; possiede punti sanità a Porto di Legnago, Cerea, Nogara, Bovolone e Zevio; s’avvale di oltre 1750 dipendenti. Sono numeri importanti per un ospedale di provincia, ma prima di tutto viene la qualità dell’erogazione sanitaria, i cui risultati sono soddisfacenti. “Benvenuti nell’oasi della sanità che funziona”: a confermarlo è il titolo dato dal settimanale Panorama qualche anno fa ad un’inchiesta giornalistica sull’ospedale del basso veronese, classificandolo il migliore d’Italia.
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Territorio
Sopra: la posa della prima pietra dell’ospedale di Legnago nel 1966 In basso: la stuttura ospedaliera negli anni ’90
Quindi un fiore all’occhiello per infondere ottimismo all’anniversario dei 40 anni, in controtendenza con altre sedi ospedaliere italiane tuttora nel mirino dei mass media per lo stato di precarietà in cui versano. Ma per approdare a tali traguardi naturalmente si è investito molto, si è puntato ad una progressiva specializzazione e separazione dei settori, creando una struttura veramente complessa e labirintica. Solo osservando il passaggio, pochi anni fa, dalla responsabilità d’un solo presidente a ben quattro direttori con precise competenze – generale, amministrativo, sanitario e sociale – si capisce che la gestione nel tempo è diventata più manageriale. Se poi si aggiungono, ad esempio, i dipartimenti ospedalieri, i vari distretti socio-sanitari sul territorio, i legami coi centri d’assistenza Ceod e le case di riposo, la conferenza dei sindaci o al-
È stato il direttore Angelo Campedelli, venuto improvvisamente a mancare due anni fa, ad inaugurare la parte anteriore profondamente rinnovata dell’ospedale, che ufficialmente dal 2003 si chiama “Ospedale Mater Salutis” cuni servizi logistici, ci si rende conto come l’ospedale odierno abbia un’identità assai diversa da quella d’un tempo, con un numero elevato di professionisti che comporta inevitabilmente l’attenzione prioritaria alle spese e al bi-
lancio. Alcuni direttori hanno seguito costruzioni e restauri, aperture di reparti e nomine di primari, inaugurazioni ma anche problemi di tagli alle spese. Un ampio vissuto che in otto lustri ha coinvolto circa una dozzina di massimi dirigenti, dai legnaghesi Luigi Zanferrari e Antonio Alfredo Tognetti, artefici del primo nucleo importante dell’ospedale, ai politici Carlo Alberto Faustini e Loris Vesentini, ai direttori degli ultimi anni Michele Romano, Giuseppe Castellarin, Angelo Campedelli, Mario Favazza e recentemente, dal gennaio scorso, Daniela Carraro, prima donna alla guida dell’Ulss 21. È stato Campedelli, venuto improvvisamente a mancare due anni fa nel pieno delle sue funzioni dirigenziali, ad inaugurare la parte anteriore profondamente rinnovata del nosocomio di Legnago, che ufficialmente dal 2003 si chiama “Ospedale Mater Salutis” col taglio del nastro del presidente della Regione Veneto Giancarlo Galan. Dalla carta d’identità alla qualità delle sue attività quotidiane: diverse letture trasversali si potrebbero fare per delineare l’ospedale, dalla quantità delle prestazioni effettuate ad alcuni successi di interventi speciali che molti medici senz’altro annoverano tra i ricordi più vivi della loro storia; oppure il cammino “silenzioso” ma eccezionale del passaggio sanitario da macchinari primitivi a mezzi all’avanguardia, o quello
dell’avvento di sofisticati computer al posto del vecchio sistema meccanografico. Per documentare le novità d’una così grande azienda sono sorti, negli ultimi anni, il servizio Urp per le relazioni dell’ente col pubblico, il Tribunale dei diritti del malato e dell’anziano per aiutare le categorie deboli, l’Ufficio stampa per i rapporti coi mass media. Ma merita d’essere ricordato anche il corso di laurea per la formazione degli infermieri (rinnovando la vecchia scuola infermieri, chiusa per un lungo periodo) per dare speranza ai giovani che s’aprono alla professione sanitaria con l’Università di Medicina di Verona. Le più importanti scommesse, insomma, restano quelle di sempre: una sanità a servizio del cittadino superando le tante problematiche che ne limitino l’efficienza. Lo diceva recentemente il famoso oncologo, già ministro della sanità, Umberto Veronesi: nel rapporto col paziente, ossia nel capire e nel cercare di soddisfare la sua domanda di salute, si misurerà nel futuro prossimo la validità dell’ospedale. Proprio il motivo per cui è nato storicamente l’“hospitale”.
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