Verona In 19/2008

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19 - LUGLIO 2008 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA



Primo piano

Il Louvre può attendere Ora godiamoci Shakespeare

In copertina: corte della Galleria d’arte moderna Palazzo Forti, dove è in corso “ConfinInfranti. Una collezione permanente, acquisizioni 2007-1997” e “Roberto Barni. Fermi tutti. Pittura e scultura”. (Foto Ennevi)

Quando si profila un cambiamento nelle preferenze politiche dell’elettorato, verso destra o verso sinistra, taluni individui si sentono legittimati a compiere atti violenti più o meno finalizzati a un progetto politico

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VIOLENZA E POLITICA Pensavamo di scomodare qualche illustre sociologo per cercare di capire se c’è un nesso tra l’orientamento politico del Paese e la violenza proveniente dalle frange estreme della destra. Ma poi ci siamo detti che il buon senso può bastare per qualche spiegazione. Allora, per non far torto a nessuno, ci siamo ricordati degli anni di piombo, quando è vero che a governare era la DC ma è altrettanto inconfutabile che il PC la marcava stretta auspicando quel sorpasso che poi non c’è stato. Dal 1968 al 1974 ci sono stati in Italia 140 attentati, la maggior parte ascrivibili a frange estreme di sinistra. Il ragionamento serve ad evidenziare che quando si profila un cambiamento significativo nelle preferenze politiche dell’elettorato, non diretto al centro, ma verso destra o verso sinistra, in questi frangenti taluni individui sentono il clima favorevole per dare sfogo alle proprie frustrazioni, si sentono cioè legittimati a compiere atti violenti più o meno finalizzati a un progetto politico. FIGURA BARBINA Qualche mese fa lo storico dell’arte Marco Goldin invitò tutti i veronesi alla Gran Guardia per spiegare quale grande opportunità avrebbe avuto Verona nell’ospitare i capolavori del Louvre. Siamo andati anche noi e in sala c’era il pienone. Ci aspettavamo sicuramente una presentazione della mostra, ma anche qualche spiegazione sul senso da dare all’evento; volevamo ad esempio capire come esso era stato inserito in un più ampio progetto culturale, perché di questo si discuteva in città e sarebbe stato un segno di maturità affrontare l’argomento. Invece Goldin è apparso sul palco in una scenografia da mito: buio

in sala, una ragazza che suona la viola e lui tra note e luci soffuse che spiega con voce suadente i capolavori che avremmo dovuto ammirare. Una regia minimalista, con le giuste pause, studiata per stupire noi provincialotti. Poi la mostra non c’è stata e allora sì che siamo rimasti veramente tutti “di sasso”. Però nessuno ha richiamato i veronesi alla Gran Guardia per spiegare i motivi di questo colossale flop. Niente luci soffuse, niente ragazze con la viola, niente Goldin, niente videodiscorso del Sindaco. OTTIMO SHAKESPEARE Il festival Shakespeariano compie sessant’anni. E qui tanto di cappello per la qualità della proposta, per il numero delle rappresentazioni, per il tentativo di coinvolgere i cittadini con manifestazioni fuori dal teatro. Oggi la scelta degli attori è condizionata dal mezzo televisivo, nel senso che portare sul palco volti noti al grande pubblico può veramente fare la differenza in termini di presenze. Un peccato veniale che diventa un compromesso vincente se l’attore dimostra di essere bravo oltre che bello. Buona anche la collaborazione tra Comune e varie realtà che si occupano di teatro, come la Fondazione Aida (che nei mesi scorsi ha proposto uno spettacolo per bambini), il Teatro Laboratorio e la Scuola di Teatro dell’Accademia lirica di Verona. PD SE CI SEI... Il PD è un po’ fiacco. Dopo i grandi entusiasmi adesso chi ha votato da quella parte si guarda attorno e non riesce a capire cos’ha da condividere con chi gli sta a fianco e ha espresso il suo stesso voto. Nel PD si trovano infatti persone provenienti da diverse esperienze e che non hanno mai lavorato insieme. Per uscire dalla fase di stal-

lo occorrerebbe non un convegno, ma un progetto di lavoro dove siano ben definiti gli obiettivi, i tempi di verifica, i ruoli e le responsabilità di ciascuno. E il lavoro si dovrebbe svolgere non dietro le scrivanie o nelle sedi dei circoli. Il lavoro si dovrebbe svolgere in mezzo alla gente. Una prima attività, ad esempio, potrebbe essere il censimento di tutte quelle realtà che a Verona producono beni come cultura, sostegno a chi è in difficoltà, educazione, impresa ecc. Oltre alle presenze storiche, alcune sclerotizzate, ci sono espressioni nuove che andrebbero individuate e valorizzate. E, fatto il censimento, è con il contributo di questi, abituati a fare più che a dire, che andrebbe costruito un nuovo progetto politico. Nell’ordine di importanza viene poi la comunicazione, che serve a spiegare quanto si sta facendo e a confrontarsi. Ma accedere al forum presente sul sito del Partito Democratico di Verona è un po’ come addentrarsi nel deserto del Sahara. Un organo di informazione (non solo sul web, dove approda solo chi è molto convolto e dove faticano ad arrivare gli anziani) è un volano straordinario in grado di generare nuove idee e di coinvolgere le persone. Anche qui il segreto non sta nel fare un grande giornale, piuttosto un piccolo giornale, un tabloid dove anche i giovani possano avere accesso senza soggezione, magari per imparare il mestiere di giornalista (ancora un laboratorio del fare che investe sulle risorse umane). Un piccolo giornale è fondamentale perché la prospettiva è quella della crescita; un grande giornale nasce con la pretesa di essere importante ma gli manca l’autorevolezza di una storia che lo sostenga. Proprio come il PD. g.m.

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Opinioni CULTURA A VERONA

La veronesità? Una contraddizione che non tiene conto della storia «Auguro che l’attuale Amministrazione faccia veramente un progetto culturale per la mia amata Verona. Un progetto che sia attento al territorio e alla sua storia, nel contesto della contemporaneità che è, che lo si voglia o no, che se ne abbia paura o no, globale e globalizzante»

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di Francesco Butturini Rileggo il testo del documento del Presidente della Commissione Cultura dell’attuale Amministrazione Comunale, nella stesura definitiva del 29 gennaio. Mi sembra un esercizio esclusivamente “politico”, non nel senso attivo e positivo della parola ma nel senso più comune, quello che per un cittadino medio significa da sempre: presa del potere, ottenuta con un indiscutibile esito elettorale ampiamente spostato sul municipalismo come difesa da presunti attacchi esterni (da parte di culture, popolazioni…). Nel documento è chiara una sola posizione ed un solo principio: salvaguardare le veronesità. Il principio della veronesità. Il sottoscritto (la sua famiglia è una delle antiche famiglie veronesi), veramente non sa cosa voglia dire “veronesità”. Amo questa città, che sento mia e della gente che vi abita da ieri, l’altro ieri, o da oggi, o che verrà domani. L’amo perché è bellissima, ricca di monumenti di tutte le epoche, di tutte le storie, di tutte le vicende: è stata capitale imperiale dal VI secolo agli Scaligeri (sempre come “proprietà” di condottieri esterni: Dietrich von Bern, malamente tradotto con Teodorico da Verona, non era un veronese e gli Scaligeri nemmeno); il suo santo vescovo protettore, Zeno, non è un veronese e nemmeno i Santi Fermo e Rustico sono veronesi. Mi viene il sospetto che la veronesità sia sempre una contraddizione. E il documento di cui sopra, infatti è contraddittorio, proprio nelle assai vaghe parti progettuali, laddove parla di Verona come “polo culturale di avanguardia, di

respiro locale e internazionale”. È questo un ossimoro esplosivo, che serve solo per tappare un buco evidente che non può non essere scorto se per veronesità, chi ha scritto, ha pensato alla “Pasque veronesi” a Papà del Gnocco” agli amanti shakespeariani, all’aria del Baldo, a “se el lago fusse pocio e’l Baldo del polenta …” forse considerando il festival areniano, il festival shakespeariano o il festival del Jazz troppo recenti per far parte della veronesità. Nel documento si propone anche di ripristinare i percorsi storicoartistici inventati nel 1983 dal gruppo di “Verona tutto l’anno” (ve lo ricordate?). Elenchiamoli quei percorsi, evidenziando ancora la contraddizione tra la pretesa di fare della città il centro chiuso del mondo e una realtà storica frutto della continua contaminazione di culture diverse. Si parlava di percorso romano, quando Verona non era una città romana ma fu piuttosto conqui-

stata da Roma; percorso medievale: ma solo grazie a Longobardi e Franchi. E agli Ungari, che si fermarono sul monte Ongarine (il monte Crocetta); percorso comunale: ma una caratteristica del Comune fu proprio una prima timida apertura della città all’esterno; percorso scaligero: gli Scaligeri non erano veronesi; percorso veneziano (anche oggi fra Verona e Venezia, la Dominante, c’è qualche ruggine di troppo); percorso austriaco (!). Dov’è la veronesità? Per me sta proprio in questa globalizzazione ante-litteram che la nostra comunità ha vissuto da sempre e che una lettura delle più belle testimonianze della sua storia (da Maffei a Biancolini) dimostra sempre dinamicamente aperta, soprattutto al Nord Europa: dagli Ottoni, che qui tennero i loro placiti, ai vescovi e agli abati di quella che fu la potente abazia di San Zeno: erano germanici, fino a Napoleone.

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Opinioni

«Non aver paura del futuro e del nostro presente; non aver paura di cambiare e di camminare per le strade del mondo senza trucchi, presunzioni o illusioni, perché Verona non è l’ombelico del Mondo»

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Ancora: dov’è la veronesità di cui continuano a parlare gli estensori del documento? Non è che sia semplicemente un: “adesso che ho vinto faccio quello che voglio, senza guardare in faccia nessuno”? oppure quella filosofia del “porovecismo” che è la risposta dei veronesi alla domanda «come va?» – «da pori veci!», forse un ricordo subliminale della necessità di non alzare troppo la testa perché non te la tagliassero: Venezia, prima, e l’Austria dopo. È questa la veronesità? È il “porovecismo”? Allora sarebbe più spiccio tornare al “chi drento, drento, chi fora, fora” cioè chiudere le porte della città e tornare a far guerra, in ordine storico: ai sanbonifacesi, ai vicentini, ai padovani ecc.ecc. Una bella soluzione, non vi pare? Riconquistare territori conquistati, rifare la signoria, magari allargarla. Sto sicuramente esagerando. Per ironia. Per scherzo… Però la storia qualcosa dovrà pur insegnare anche a chi non la ricorda sempre bene: siamo passati dall’universalismo romano, alla frantumazione medievale: più anarchia generale che certezze amministrative e giuridiche; ai Comuni, alle Signorie, ai Principati, alla Repubblica di Venezia (per restare in città: non Repubblica di Verona!), agli Stati risorgimentali, all’Unione Europea. Si può sempre tornare indietro e ricominciare da capo! Credo che i silenzi del documento, che ora elencherò, nascano proprio da questa confusione di fondo che si nasconde dietro questa idea, questo principio di salvaguardia della veronesità. Nel documento non si dice nulla delle imprese culturali di Verona fino ad oggi attive o in progetto (con pregi e difetti come tutte le umane imprese). Elenchiamone alcune. Centro internazionale di fotografia degli Scavi Scaligeri (si chiude?); Museo di Storia Naturale (il secondo in Italia per importanza e antichità): rimane? se vendono Palazzo Pompei, dove lo mettiamo, in qualche scantinato dell’Agec? Ex Arsenale: promesso a un centinaio di enti vari, ultima la Cignaroli che il suo spazio l’aveva pure conquistato agli ex Magazzini Generali: una struttura splendida nel cuore della città, lasciata oggi alla più pura improvvisazione.

E delle altre caserme militari che stanno andando in disuso: che ne faremo? le lasceremo cadere a pezzi, o le abbandoneremo ad abitanti indesiderati e indesiderabili? E delle mura scaligere, veneziane, austriache con i relativi percorsi? Di Castel San Pietro, Fondazione Cariverona permettendo, che faremo? e della sua funicolare? Per non parlare di quel ricco corredo di attività teatrali e musicali estive: dal Festival Shakespeariano al Festival Jazz, al teatro nei cortili (basta il teatro di Rapisarda tornato a Corte Molon?). Oppure tenteremo ancora avventure Louvre - Goldin, ma senza firmare contratti naturalmente? Con chi proveremo domani: con il Guggenheim? Monaco? Vienna? San Pietroburgo? Per la verità, sinceramente, auguro che il documento che ho letto sia solo un testo “politico”, nel senso che dicevo sopra e che la Commissione faccia veramente un progetto culturale per la mia amata Verona. Un progetto che sia attento al territorio e alla sua storia, nel contesto della contemporaneità che è, che lo si voglia o no, che se ne abbia paura o no, globale e globalizzante. Quindi: affidarsi alle mani di esperti operatori culturali che ci sono e vivono anche in Verona; stabilire rapporti di stretta collaborazione con l’Università e la Scuola veronese che vantano primati nazionali singolari a vari li-

velli; collaborazione anche con il Conservatorio e con l’Accademia di Belle Arti, purché si doti di uno statuto moderno, degno della sua storia più antica, ed abbia il coraggio di uscire allo scoperto con proposte operative per i giovani. Sarà anche necessario stabilire rapporti solidi con le città vicine che già hanno aperto il loro territorio al resto del mondo: Rovereto e il MART, Bolzano e il Museion, Mantova e Palazzo Te, Parma e la Pilotta, Modena e il Foro Boario, Venezia e la Biennale, Brescia, che sicuramente, con la presenza attiva di un nuovo direttore generale dei musei (quel Giorgio Cortenuova che Verona si è lasciata scappare) diventerà polo internazionale. La Fiera di Verona dovrebbe diventare un punto di raccordo e di confronto più forte e culturalmente determinato. Si dovrebbero stabilire accordi forti con i punti di comunicazione europei e mondiali: i borsini turistici che aprono le porte del grande turismo (non solo del mordi-e-fuggi) se ci sono progetti interessanti. Questa mi sembra una buona veronesità, rispettosa della storia della mia amata città. E non aver paura del futuro e del nostro presente; non aver paura di cambiare e di camminare per le strade del mondo senza trucchi, presunzioni o illusioni, perché Verona non è l’ombelico del Mondo.

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Cultura PATRIMONIO CITTADINO

Firme contro la vendita dei palazzi storici Palazzo Forti, Palazzo Pompei, Palazzo Gobetti: nonostante le volontà espresse nei lasciti il Comune vuole venderli e una delibera cambia la loro destinazione d’uso. I testamenti hanno dei punti deboli, ma attenzione: il discendente di Achille Forti potrebbe rivendicare la proprietà dell’immobile

«Verba volant... scripta etiam» Palazzo Forti doveva essere adibito a sede di una galleria d’arte moderna e dell’Accademia Cignaroli. Il conte Alessandro Pompei lasciò il palazzo al Comune, purché venisse utilizzato come museo Ecco in sintesi il valore storico e culurale del patrimonio che sarà ceduto ai privati

Nella pagina accanto: Palazzo Gobetti (con le statue) A destra: Palazzo Forti

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di Cinzia Inguanta Achille Forti il 22 agosto 1935 designava il Comune di Verona erede universale del suo patrimonio, tra cui Palazzo Forti, uno dei palazzi storici che l’Amministrazione comunale intende vendere mediante asta pubblica con un bando internazionale. Il mecenate però vincolò questo lascito a una precisa disposizione testamentaria: il palazzo doveva essere adibito a sede della Galleria d’arte moderna e dell’Accademia Cignaroli. Anche il conte Alessandro Pompei lasciò un palazzo al Comune, purché venisse utilizzato come museo. Il 17 aprile scorso il Consiglio comunale ha approvato, con 24 voti a favore e 9 contrari, la delibera relativa al cambio di destinazione d’uso di palazzo Forti (sede della Galleria d’arte moderna), dei palazzi Pompei e Gobetti (le due sedi del museo di Storia naturale) e dell’ex convento San Domenico (sede del comando di Polizia municipale), in modo da renderne possibile la vendita. Sull’iniziativa del Comune, che desta perplessità perché non rispettoso delle volontà testamentarie e perché priva i cittadini di un bene comune, abbiamo sentito il parere dell’architetto Giorgio Forti, di Giambattista Ruffo,

presidente onorario della Società Letteraria e dell’avvocato Guariente Guarienti. Giorgio Forti. «Dei palazzi che il Comune vuole vendere, dal punto di vista architettonico il più importante è sicuramente Palazzo Pompei, costruito nel ’500 da Michele Sanmicheli, uno dei pochi con tracce di affreschi di una certa importanza e che sono evidenti in una lunetta del piano nobile, dove è disegnata una vittoria alata, che contraddicono la tesi secondo la quale l’architettura rinascimentale non utilizzava

la pittura murale. Da una catalogazione delle facciate affrescate di Verona fatte tra il 1982 e il 1992 , Leonello Puppi, uno dei più grandi esperti del Sanmicheli, ha dedotto che il grande architetto rinascimentale, pur facendo parte di quella che era la cultura veneziana, di fatto recepì la cultura veronese che utilizzava la pittura murale. In ordine di importanza subito dopo viene palazzo Forti, databile attorno al XIII secolo che mantiene ancora visibile l’impianto a insula romana al piano scantinato. Ci sono tracce consistenti del

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Cultura

Da sinistra: il portone di Palazzo Gobetti, Palazzo Forti, Palazzo Pompei Qui sopra: l’ex Convento San Domenico In basso: il lascito testamentario di Achille Forti datato 22 agosto 1935

palazzo di Ezzelino da Romano, tirannico capitano del popolo che governò Verona dal 1232 al 1259. La struttura medievale ha subito nel tempo tre grossi interventi. Il primo eseguito alla metà del ‘400, dopo l’acquisto da parte degli Emilei che trasformarono l’edificio in palazzo residenziale, con locali di rappresentanza, bibliote-

che, giardini, cortili, servizi ecc. Il secondo intervento è di epoca cinquecentesca; il terzo, avvenuto nel ’700, ha comportato il rifacimento del fronte principale ad opera dell’architetto Ignazio Pellegrini. Il palazzo, che ha ospitato personaggi importanti come Napoleone o Radetsky, è stato un importante luogo di incontri culturali, politici e artistici. Il pregio del lungo restauro iniziato da Magagnato, con Calcagni e Cena, ma soprattutto con Cecchini è quello di aver dato unitarietà alle stratificazioni della storia architettonica. Detto in parole semplici, questo era un palazzo nobiliare con una destinazione ad uso unifamiliare, quindi unitario e questa unitarietà verrebbe completamente svilita con la delibera del Comune che prevede il frazionamento per ottenere appartamenti e negozi. Per quanto riguarda Palazzo Gobetti Scannagatti, il cui progetto è attribuito a Gabriele Frisoni, risale al XV secolo ed è importante per il portale rinascimentale. Nel ’700 la prima ristrutturazione, seguita da altre che nel tempo

hanno visto l’aggiunta al piano attico delle finestre e di tre statue che raffigurano passato, presente e futuro, opera ottocentesca dello scultore Grazioso Spiazzi. Il Monastero di San Domenico è la struttura che oggi ospita la sede dei vigili ed è sicuramente il meno importante, anche per lo stato in cui si trova. Al di là dell’innegabile valore dei palazzi oggetto della vendita, quello che mi ha dato più fastidio e che mi ha offeso come cittadino veronese è che Palazzo Pompei e Palazzo Forti sono diventati proprietà della comunità veronese con due testamenti specifici. Il conte Alessandro Pompei lascia alla città di Verona il palazzo perché sia destinato a gallerie e musei. Achille Forti fa un testamento che lascia tutta una serie di possedimenti e lasciti in denaro all’amata Verona per ringraziarla di aver avuto fiducia in lui ed averlo nominato nella commissione dei musei civici d’arte. Oggetto della donazione sono anche una serie di quadri tra cui due importantissimi Luca Giordano, che sono al museo di

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Cultura Castelvecchio e la bellissima Meditazione di Francesco Hayes. Tutto ciò però ha un vincolo, infatti nel testamento è indicato che il piano nobile del palazzo, entro tre anni dalla sua morte, avrebbe dovuto essere adibito a galleria d’arte moderna, mentre gli altri piani avrebbero dovuto essere destinati o all’Accademia Cignaroli, o ad attività culturali ed artistiche. Con la vendita si andrebbe non solo a calpestare la volontà di due emeriti figli di Verona, ma anche a cedere due palazzi tra i più importanti dell’architettura italiana, che non riusciremo più a recuperare». Giambattista Ruffo. «Ci sono decine di proprietà del comune, perchè vendere proprio questi palazzi? Alessandro Pompei aveva stabilito che il palazzo andasse agli eredi legittimi della famiglia. Se si fosse estinta la famiglia sarebbe andato all’imperatore d’Austria con il vincolo che si occupasse delle tombe di famiglia dei Pompei. Accadde che la famiglia Pompei si estinguesse e che l’imperatore d’Austria non accettasse il vincolo, caso in cui Alessandro Pompei aveva detto che il palazzo sarebbe andato “allo comune di Verona non per farne caserme ma per farne musei o luoghi simili pubblici”. Per palazzo Forti la situazione è ancora più chiara. Dopo molto tempo il Comune cinque anni fa ha aperto la Galleria d’arte moderna, dopo 15 anni di restauro del palazzo. Sono stati spesi 15 miliardi di vecchie lire di denaro pubblico per completare i lavori e ora il Comune vuole vendere. Sotto il profilo etico e morale ci troviamo di fronte al mancato rispetto di una precisa volontà testamentaria, e aggiungo una considerazione: quale cittadino o mecenate un domani potrà lasciare ancora qualcosa ad un Comune che tratta in questo modo la volontà di donatori così illustri? La vendita dei palazzi scaligeri, e in particolar modo quella di un palazzo che ospita una collezione d’arte contemporanea, è un fatto gravissimo, come è grave l’aver approvato il cambio della sua destinazione d’uso per farne uffici e abitazioni».

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Guariente Guarienti: «Un tradimento» «La possibilità di agire nei confronti del Comune per evitare la vendita di Palazzo Forti, Palazzo Pompei e Palazzo Gobetti appare assai limitata dal punto di vista strettamente giuridico» spiega Giambattista Ruffo. «Per quanto riguarda Palazzo Pompei sono passati oltre 170 anni dalla morte del conte Alessandro e siamo ben oltre la quinta generazione, termine entro il quale si potrebbe impugnare il testamento con la motivazione che non viene rispettata la volontà del donatore. Per quanto riguarda il testamento di Achille Forti invece, siamo entro la quinta generazione e l’erede legale Augusto Forti è in vita. Questo però potrebbe non essere sufficiente, perché nel testamento non esiste una clausola che specifichi che qualora il Comune non attenda agli obblighi testamentari la proprietà dell’immobile debba tornare agli eredi legittimi. Molte associazioni cittadine, sia culturali che politiche, si stanno confrontando per cercare la strada per bloccare la delibera sul cambio di destinazione d’uso dei palazzi storici. Uno dei modi per impedire che questo avvenga potrebbe essere un referendum». Anche per l’avvocato Guariente Guarienti la prima cosa da fare per porre freno alle decisoni della maggioranza è una raccolta di firme tra i cittadini, cercando poi una via legale per far valere i propri diritti. Guarienti ritiene che «La vendita di Palazzo Forti è il tradimento della volontà di un grande benefattore veronese che lo lasciò al Comune per finalità d’arte e dimostra la sensibilità culturale di questa Amministrazione». L’architetto Giorgio Forti afferma che «Secondo gli amministratori Palazzo Pompei sarebbe vecchio e decrepito e con i soldi della sua vendita si potrebbe re-

In alto: l’architetto Giorgio Forti; qui sopra: Giambattista Ruffo

staurare l’Arsenale che è molto più importante. Rimango sconcertato di fronte a queste affermazioni e non mi spiego come non si possa capire che il primo edificio è un palazzo del Sanmicheli, mentre il secondo è solo una caserma. Anche quando si dice che la Galleria d’arte moderna sarà spostata a Castel San Pietro, definendolo un luogo più prestigioso di palazzo Forti, mi chiedo come si possa non distinguere tra quella che è la bellezza di un sito, che è panoramico rispetto alla

città, e il valore storico e culturale di palazzo Forti. Sicuramente dal punto di vista architettonico tutto va conservato e salvaguardato, ma c’è una casistica di importanza che andrebbe riconosciuta e rispettata. Penso che oltre ad una raccolta di firme tra i cittadini per contrastare la decisione degli amministratori si potrebbe organizzare una raccolta di fondi da destinarsi in parte al museo di Scienze naturali ed in parte alla Galleria d’arte moderna» (C.I.).

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Cultura CREDITO

Il Monte di pietà L’onore della fondazione spetta a fra’ Michele da Aqui, francescano dei Minori osservanti. Bresciano di origine, nell’agosto del 1490 si trovava a Verona

I Monti di pietà furono la soluzione ad un duplice ordine di fenomeni: la rinnovata vivacità economica che coinvolge l’Europa occidentale a partire dall’XI secolo e il ricorso ai prestiti usurari. L’attività di prestito e raccolta dei pegni si svolgeva nei locali dell’Arte della Lana, le cosiddette “Sgarzerie”, e attualmente è ancora osservabile la struttura esterna dietro la Torre del Gardello

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di Carmelo Ferlito Il contesto. A partire dalla seconda metà del Quattrocento inizia a diffondersi nella penisola italiana, ma poi anche oltre le Alpi, una nuova istituzione bancaria: i Monti di pietà. Essi vengono a porsi come la soluzione a un duplice ordine di fenomeni: la rinnovata vivacità economica che coinvolge l’Europa occidentale a partire dall’XI secolo da un lato, e il ricorso ai prestiti usurari, ebraici ma non solo, dall’altro. Lo sviluppo dei commerci e dell’economia in generale, seguito all’epoca delle crociate, aveva infatti trascinato nella fase di ascesa tutte le attività produttive, comprese l’artigianato cittadino e l’agricoltura. In ambito cristiano la necessità di nuove forme del credito si scontrava con la secolare condanna del prestito diffusa dai predicatori, a partire dalle Sacre Scritture e dalla riscoperta del pensiero di Aristotele, ancorato al concetto di sterilità del denaro. In questo contesto furono i francescani osservanti a lanciare una nuova istituzione: i Monti di pietà. Campione della predicazione in questo senso fu il beato Bernardino da Feltre. L’idea era molto semplice: si trattava di banchi di pegno, su modello degli omologhi ebraici, gestiti con la richiesta di un tasso di interesse oscillante tra il 4 ed il 6%, giustificato non come prezzo del denaro ma come sostegno alle necessarie spese per la vita del banco stesso. Il dibattito in seno alla Chiesa fu piuttosto aspro e contrappose i francescani ai domenicani e agli

agostiniani, arroccati su posizioni rigoriste. Il via libera all’istituzione giunse però nel 1515, con una bolla di Papa Leone X che autorizzava i nuovi banchi. L’onore della fondazione del Monte di pietà a Verona spetta a fra Michele da Aqui, francescano dei minori osservanti. Bresciano di origine, nell’agosto del 1490 si trovava a Verona, probabilmente in occasione delle feste di S. Lorenzo e dell’Assunta; avendo egli esperienza in tema di Monti di pietà, la reggenza cittadina gli permise di scriverne i Capitoli e lo invitò a partecipare alle sedute consiliari aventi attinenza con la nascente istituzione “caritatevole”. I veronesi si dimostrarono entusiasti della sua predicazione e chiesero, ottenendo, che fra Michele restasse in città per la Quaresima successiva, concedendogli poi la cittadinanza onoraria il 25 settembre 1490. La decisione per far partire l’istituzione del Monte di pietà venne presa in seno al Consiglio il 17 agosto 1490, in una seduta in cui fra Michele infiammò i presenti e il Podestà, Gerolamo Leoni, patrocinò la causa come sua. I Capitoli istitutivi furono approvati in seguito a una grande processione in cui vennero raccolti i primi capitali. L’esistenza ancora oggi in Verona di “Piazzetta Monte”, dove è collocata una sede di Unicredit, ci illumina sull’ubicazione originaria della banca di pegno. L’attività di prestito e raccolta dei pegni fu situata nei locali dell’Arte della Lana, le cosiddette “Sgarzerie”, e attualmente è

ancora osservabile la struttura esterna di quello che fu il Monte di pietà; per la precisione, esso era situato dietro la Torre del Gardello, tra Corso Portoni Borsari, Vicolo-Piazzetta-Volto Monte e Corte Sgarzerie; i locali di base saranno ampliati solo nel 1759, in seguito all’accresciuto movimento delle massarie. Le regole originarie prevedevano la presenza di una sessione (una sorta di consiglio di amministrazione) di dodici persone, di un massaro deputato ai prestiti e di pochi altri funzionari, tutti obbligati a prestare servizio gratuitamente. Anche l’erogazione del denaro doveva avvenire a titolo gratuito. Tuttavia il successo del banco (entusiasti erano i commenti dei Rettori veneziani tra Cinque e Seicento) fu tale da far iniziare subito una serie di riforme istituzionali che culminarono nella grande revisione statutaria del 1574. Essa delineava le caratteristiche fondamentali che avrebbero retto il funzionamento del banco fino al sacco delle truppe napoleoniche del 1797. Anzitutto, il prestito gratuito veniva ad assumere un ruolo marginale, affiancato da una attività bancaria vera e propria, divisa in due rami: una sezione del monte accoglieva pegni composti da oggetti preziosi di vario genere (massaria agli ori), mentre un’altra accettava tutto il resto (massaria ai mobili). In ogni momento, per ognuna delle branche d’attività, operavano un massaro per i prestiti ed uno per le riscossioni. Il tasso di interesse si attestava sul 6%. Per finanziare i prestiti, inol-

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Cultura

I Monti non furono un esempio di attività etica perché versavano elemosine, ma perché facevano banca senza fare usura. Su questo punto abbiamo ancora molto da imparare

tre, al Monte veniva concesso di accogliere depositi, remunerati al 4 o al 5% a seconda delle possibilità di riscatto. La struttura, operante al mattino, nel primo pomeriggio e nelle ore serali (dalle 20 alle 22 o dalle 21 alle 23, a seconda della stagione), era composta di circa quaranta funzionari: oltre alla sessione e ai massari, si trovano notai, cancellieri, contabili, stimatori, banditori d’asta per i pegni non riscossi, diversi operatori per la gestione dei pegni (cattapegni, legapegni, scrittori delle cartoline, cucitori delle medesime, …). Tutti ben remunerati, tant’è che, nel corso del Settecento, quella per i salari viene ad essere la seconda voce di spesa, immediatamente dopo l’erogazione di interessi passivi. A segnare uno spartiacque nella vita del Monte fu il 1630, anno in cui si verificò nei locali del banco un incendio, causato da un appestato, che distrusse la maggiorparte dei pegni custoditi. Iniziò un periodo di difficoltà dalla

quale l’istituzione uscì solo all’inizio del XVIII secolo, quando si ebbe l’avvio di una nuova fase di espansione e forse del miglior secolo di attività per il banco francescano (a partire dal 1750 venivano accolti circa 200 mila pegni ogni anno). Altre caratteristiche del Monte di pietà atesino vanno sottolineate. Anzitutto, la partecipazione, insieme ad altri luoghi pii della città, ad un sistema di welfare integrato, gestito dal patriziato cittadino e rivolto alle fasce più deboli della popolazione. Ancora, le tecniche contabili: a partire dal 1756 i monti di pietà della Terraferma veneta (erano circa 70) vennero investiti dall’autorità veneziana dell’obbligo di registrazione con il sistema della partita doppia; si tratta di un esempio di diffusione uniforme nell’ambito dell’amministrazione para-pubblica di una tecnica amministrativa raffinata. Inoltre, la gestione: i francescani, benché attivi nella promozione dei Monti di pietà, non ebbero

quasi mai parte nella gestione degli stessi, che invece vennero affidati ai ceti dirigenti locali. Infine, la questione del business etico: tale caratteristica non va ricercata nella dispensa di elemosine obbligatorie a fine esercizio. Piuttosto, è il modo stesso di fare banca che viene a configurarsi come etico in sé: viene richiesto un tasso di interesse del 5 o del 6%, a fronte di un erogazione di interessi sui depositi del 4%. Uno spread di tassi del 2%, qui sta l’eticità dell’attività dei Monti di pietà. A ciò bisognerebbe pensare anche oggi quando si parla di etica degli affari: non alla devoluzione residuale di esigue somme a favore di qualche pia causa, ma ad un modo di fare business che abbia in sé le caratteristiche per essere considerato tale. Lo ripetiamo: i Monti non furono un esempio di attività etica perché versavano elemosine, ma perché facevano banca senza fare usura. Su questo punto abbiamo ancora molto da imparare.

In alto: l’entrata del Monte di Pietà di Verona, in Piazzetta Monte, attuale sede di Unicredito e un dettaglio decorativo della corte A sinistra: Bernardin da Feltre, storico promotore dei Monti di Pietà A destra: una targa del 1660, nella corte del Monte di Pietà di Verona, riguardante la punizione di un massaro fraudolento

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PERSONAGGI

Giuseppe Silvestri di Giuseppe Brugnoli La recente presentazione alla Libreria Rinascita, in occasione del 25 aprile, del libro di Giuseppe Silvestri “Albergo agli Scalzi”, pubblicato in nuova edizione per iniziativa della nipote Antonella, ripropone la figura e l’opera di questo personaggio non secondario del giornalismo e della cultura veronesi, che si trovò a interpretare un ruolo di primo piano in uno dei periodi più difficili della nostra storia patria e anche locale, dal 25 luglio del 1943, caduta del fascismo, al 25 aprile 1945, Liberazione, con la presenza al suo interno di un’altra data memorabile, l’8 settembre 1943, armistizio dell’Italia e occupazione di quasi l’intera penisola da parte dell’esercito tedesco. Di questo periodo Silvestri fu protagonista, prima perché nei quaranta giorni del governo Badoglio fu direttore responsabile de “L’Arena”, nominato quasi a furor di redazione dopo la scomparsa di tutti i giornalisti di fede fascista, poi perché, in seguito agli articoli di fondo da lui scritti e inneggianti alla nuova libertà, con qualche aggettivo pesante nei confronti del regime appena scomparso, al ritorno al potere del nuovo fascismo repubblicano fu condannato dal tribunale speciale per i delitti contro lo Stato, e rinchiuso nelle carceri agli Scalzi. Proprio nell’ex convento francescano, dove, avendo vissuto a immediato contatto con i membri del Gran Consiglio del fascismo che avevano determinato la caduta di Mussolini (e che poi furono condannati e giustiziati a Verona), e avendo assistito da spettatore privilegiato all’impresa dei partigiani veronesi che assaltarono il carcere per liberare il sindacalista antifascista Roveda, ebbe ampia materia per questo suo secondo importante libro, “Albergo agli Scalzi”. Disse Maurizio Zangarini, direttore dell’Istituto veronese per la storia della resistenza, in quell’incontro alla Libreria Rinascita, che questo libro del Silvestri rimane ancora oggi, a tanti anni di distanza, la più fedele e obiettiva ricostruzione dei fatti che portarono prima alla cattura e quindi al processo e all’uccisione dei membri del Gran Consiglio, e dei risvolti che si ebbero soprattutto con la ricerca dei “Diari” che avrebbero dovuto assicurare la vita di Galeazzo Ciano, e che molti dei

in VERONA

«Se gli uomini in camicia nera presto mancheranno, lo spirito del fascismo perdurerà. Per spirito del fascismo noi intendiamo la disonestà, l’arrivismo, i facili guadagni, l’opportunismo, il timore del rischio e il terrore della morte, l’egoismo e la mancanza di dignità, l’insincerità e la mafia, il protezionismo e il nepotismo. Quando noi avremo abbattuto tutti questi colossali nemici, allora soltanto avremo eliminato lo spirito del fascismo» memorialisti che di questi eventi si interessarono sui giornali e con libri attinsero a piene mani ai ricordi e alla puntuale analisi del Silvestri. A noi invece piace sottolineare come Giuseppe Silvestri, che fu insigne e quasi paradigmatico rappresentante di quella borghesia agraria che accompagnò e spesso finanziò la nascita e il crescere del fascismo, ne fu fiero oppositore per le sue convinzioni liberali, un liberalismo che discendeva direttamente da Benedetto Croce, che del primo libro del Silvestri, “La Valpolicella” fu il più famoso non solo lettore ma anche lodatore. Così che l’antifascismo di Silvestri, che parte da posizioni conservatrici che per alcuni aspetti possono anche essere definite reazionarie, tanto egli fu tetragono a qualsiasi novità che turbasse l’ordine dell’ ancien régime in cui credeva, sfociò quasi naturalmente in una militanza politica che lo portò, da primo direttore del quotidiano cittadino nel momento della riconquistata libertà, a subire con il ritorno del fascismo repubblicano una condanna a dieci anni di reclusione, che egli in parte scontò nell’ “albergo agli Scalzi” che dà il titolo al suo libro. Il quale tuttavia, scritto nel primo dopoguerra ancora infuocato dalle vendette che caratterizzarono sanguinosamente quel periodo,

è scritto con la serenità che attiene allo storico più che con la passione civile che appartiene a chi nella lotta politica e militare è stato coinvolto. Una sola piccola notazione rivela la presa di distanza del Silvestri da una delle parti, quella fascista, di cui narra in prima persona, quasi impassibile testimone, le vicende nel periodo più fosco della sua fosca decadenza, ed è quasi un vezzo, continuamente ripetuto: quando gli occorre di parlare del capo del fascismo, e degli interventi di Mussolini prima e dopo la condanna e l’esecuzione di Ciano e degli altri gerarchi, egli usa un appellativo che era venuto in uso durante il ventennio, ma ogni volta lo mette tra virgolette: il “duce”, quasi a sottolinearne che egli, Giuseppe Silvestri, non lo aveva mai riconosciuto come un condottiero dell’Italia. Ma c’è invece un altro passo in cui Giuseppe Silvestri esprime con più compiutezza il suo giudizio morale sul fascismo e la sua epoca. È quando, nella seconda edizione di “Albergo agli Scalzi” rievocando l’impresa di un gruppo di partigiani per la liberazione dal carcere del sindacalista Giovanni Roveda, si sofferma, traendo le notizie da un libro pubblicato nel 1957 da Berto Perotti, sulla figura di Lorenzo Fava, “studente universitario ricco di ingegno e di estro poetico”, che gravemente ferito durante l’azione e lasciato per morto, venne poi torturato dai fascisti e infine fucilato dai nazisti a Forte Procolo, senza che da lui uscisse una parola sui suoi compagni nella spedizione. Scrive Giuseppe Silvestri:“Come presentisse la sua tragica fine, pochi giorni prima dell’impresa degli Scalzi, Lorenzo Fava scrisse questa specie di testamento spirituale, che fu trovato con altri documenti in un suo segreto nascondiglio, e che suona come un’amara previsione dei tempi futuri: «I mali più gravi sono in noi. Se gli uomini in camicia nera presto mancheranno, lo spirito del fascismo perdurerà. Per spirito del fascismo noi intendiamo la disonestà, l’arrivismo, i facili guadagni, l’opportunismo, il timore del rischio e il terrore della morte, l’egoismo e la mancanza di dignità, l’insincerità e la mafia, il protezionismo e il nepotismo. Quando noi avremo abbattuto tutti questi colossali nemici, allora soltanto avremo eliminato lo spirito del fascismo». Non c’è bisogno di commenti.

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RIFLESSIONI

Moralità... e moralità di Rino Breoni Abate in San Zeno Ero stato invitato dal parroco a parlare ad un gruppo di genitori in un paese che si distende sulla statale undici. L’incontro serale s’era prolungato per una vivace conversazione con i presenti e al termine mi si era rivolto l’invito a prendere un caffé in canonica. Non è sempre facile incontrarci tra noi preti e la conversazione col parroco mi ha fatto perdere cognizione del tempo. Lasciai la canonica verso mezzanotte. Sulla statale che mi riportava a Verona non c’era molto traffico e in verità guidavo cercando di mormorare a fior di labbra la salmodìa di Compieta. All’altezza di Bosco di Sona l’auto davanti a me rallenta in modo imprevisto costringendomi a frenare, mentro chi mi segue rischia di tamponarmi. Un momento di sconcerto, superato immediatamente dalla percezione che qualcuno si era fermato a conversare con una donna, disponibile ad un dialogo corporeo rimunerato. Ho respirato a fondo e ripreso la strada quasi sorridendo al pensiero che se fosse avvenuto un tamponamento sarei diventato oggetto di titoli vistosi: «L’abate di San Zeno sulla statale undici...». E dire che avevo solo fretta di tornare a casa, di riposare: la mia sveglia suona puntuale poco dopo le cinque del mattino! Il ricordo di quell’episodio si è rinnovato quando ho letto di progetti elaborati in diverse città per togliere dalla strada questo penoso mercato, definito offesa alla moralità. Non c’è dubbio che il fenomeno abbia assunto dimensioni inquietanti, supportato dalla malavita e che sia fonte di ricchezze che portano il peso della dignità avvilita di tante donne, di adolescenti finite sulla strada per i più diversi motivi, suggestionate o ingannate, pressate tante volte dalla necessità di guadagnare. Ho ancora negli occhi il volto rigato dal pianto di una mia giovane allieva finita in questo triste commercio e che mi diceva l’interiore reazione e rifiuto la prima volta in cui si era sentita un oggetto alla mercé di un ricco professionista. Gli argomenti, i risvolti umani e psicologici, sociali e sanitari di questo traffico indegno porterebbero lontano, e d’altra parte

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sono convinto che parlarne diventi quasi un alibi per ignorare altri aspetti della convivenza sociale, che pure costituiscono una eguale offesa alla moralità. Non credo difficile stabilire i motivi per cui la prostituzione, il suo esercizio sulle strade, il suo dilagare legato alla malavita catalizza l’attenzione e spesso la esclusivizza, negandola ad altri aspetti di vita del nostro momento storico. Non è neppure difficile convenire che questo esercizio discutibile della sessualità umana darebbe ben diversi risultati se la stessa attenzione preoccupata si rivolgesse ai clienti di queste donne. Anni or sono un grande quotidiano si era fatto promotore di una raccolta di firme per togliere dalle strade della città lo sconcertante mercato. Un’associazione umanitaria, tramite i suoi volontari, si preoccupò di annotare i numeri di targa delle automobili che nella notte si fermavano con le prostitute, pattuendo l’incontro. Risalendo ai propietari della autovetture, molti risultavano firmatari dell’iniziativa di bonifica. Pare che sia stato Solone a formulare le prime leggi di regolamentazione di questo antico mestiere. Sono considerazioni che nulla vogliono togliere alla necessità di intervento perché la convivenza sociale non venga offesa, soprattutto nei suoi membi più indifesi quali sono i giovani. Mi sono infatti domandato se non esistano altri attentati alla moralità pubblica. Come uomo di Chiesa non posso evitare il ricorso al decalogo e trovo che due dei dieci comandamenti, il sesto e il nono, riguardano la vita sessuale ma ho anche la sensazione che il settimo e l’ottavo raccolgano minore attenzione. Eppure il divieto di rubare e di mentire riguardano aspetti non trascurabili della pacifica convivenza fra gli uomini. Socialmente la violazione di questi due comandamenti ha conseguenze nefaste, che però non vengono sottolineate con la stessa enfasi con cui si ritiene un’offesa alla pubblica moralità il mercato del sesso. Una retata di prostitute viene evidenziata in maniera diversa da notizie che ci riferiscono di imbrogli e truffe a livello economico. Professionisti che nell’esercizio del loro lavoro sono coinvolti in scandali gravissimi e con ricadute pesanti sulle persone rivoltesi

a loro non sono additati come responsabili di offesa alla pubblica moralità. Capitali portati all’estero, sottratti alla vita imprenditoriale, non costituiscono motivo di grande scandalo quando non divengano il motivo per indicare i responsabili come furbi. Forse è necessario rivisitare il significato stesso delle parole ed accordarsi sul significato attribuito al termine moralità. Quando una legge consente un falso in bilancio, la falsità viene intaccata nel suo stesso significato e la moralità apprende distinzioni pericolose al punto che la menzogna viene rimproverata a un bambino che racconta bugie ma non scandalizza più di tanto se viene invece introdotta in un bilancio aziendale. Certamente oggi gli studi di teologia morale sono cambiati, ma un tempo noi giovani studenti ci scherzavamo: un intero anno di studio sul settimo comandamento “non rubare”, tanto lavoro sul codice civile, nella parte relativa ai contratti, per poi concludere che nessuno confessava di rubare. Mille sotterfugi, come la compensazione occulta, pacificano le coscienze ma rimangono palesi violazioni di un ordine morale, capaci di alterare i criteri di valutazione di quanto è bene e di quanto è male. Non esistono bugie positive, né esistono appropriazioni indebite che si possono ritenere moralmente accettabili. Attenta al tessuto sociale chi vende il proprio corpo, anche in modo manifestamente sfacciato, ma la moralità pubblica è offesa e disorientata anche dalla menzogna che talvolta è pure istituzionalizzata e dal furto anche se orpellato di eufemismi e termini sofisticati. Come meravigliarsi che una giovane generazione gestisca con eccessiva disinvoltura la propria sessualità e neppure sia sfiorata dal sospetto che l’ambiguità e la menzogna, che l’estorsione e la violenza del bullismo siano altrettante forme di immoralità? Dove e come può affinare una coscienza, quando le cattedre che dovrebbero condurre a maturazione morale mandano messaggi sconcertanti? Ripuliamo pure le strade dal mercato dei corpi ma preoccupiamoci di ripulire altri settori di vita, palesemente ed egualmente offensivi della pubblica moralità.

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Cultura AMERICANATE

Quando Buffalo Bill fece tappa a Verona Il selvaggio e lontano occidente americano si presentò alle genti venete nei primi anni del ’900 con il Wild West Show dell’eroe sterminatore di indiani

I primi mesi del 1906 per i veronesi furono carichi di emozioni: i giornali di Verona avevano appena finito di annunciare la visita del re Vittorio Emanuele III, preparando il terreno per l’arrivo del Colonnello Cody

in VERONA

di Alessandro Norsa Forse non tutti sanno che lo pseudonimo di Buffalo Bill cela il vero nome del colonnello americano William Frederick Cody (18461917), che con la sua vita avventurosa e spericolata seppe creare attorno alla sua persona un mito. Cody, che lavorò da giovane come corriere del Pony Express, esploratore del generale Custer, fu combattente nella Guerra Civile, cacciatore di bisonti per sfamare gli operai che costruivano la linea ferroviaria dal Kansas al Pacifico. Propio per la sua grande abilità nel cacciare i bufali divenne famoso in tutto il mondo col soprannome di Buffalo Bill. Celebre nel suo Paese dopo aver ucciso in battaglia il capo indiano Toro Alto, fu l’eroe d’una serie di romanzi popolari e interpretò se stesso a teatro. Dopo essere stato deputato nel Nebraska, nel 1883 fondò assieme all’attore drammatico Nate Salsbury il famoso Wild West Show, una specie di circo nel quale si esibivano “cowboys”, indiani (fra cui il famoso Toro Seduto) e tiratori scelti. Dopo essersi esibito con successo in America, Buffalo Bill fece una tournée trionfale in Europa; nel 1887 fu a Londra, dove al suo spettacolo assistette persino la Regina Vittoria. Il Wild West Show venne in Italia due volte, rispettivamente nella seconda tournée europea, del 1890 (dove venne ricevuto dal Papa assieme ad alcuni

pellerossa del seguito), e nella terza tournèe, quella del 1906. Nello stesso anno, nel mese di marzo, il Wild West Show del colonnello Cody, nel corso della sua tournée europea, iniziata a Parigi, fece scalo a Genova, prima tappa italiana. Il programma prevedeva la Liguria, il Piemonte, la Toscana, l’Emilia, l’Umbria, le Marche e, dopo ancora due tappe in Emilia Romagna e una più lunga permanenza in Lombardia, finalmente il Veneto. Il Wild West Show, era uno spettacolo con 500 cavalli e 800 uomini (per trasportare tutta la troupe erano necessari cinque treni spe-

ciali); era uno show durante il quale si potevano ammirare le prodezze dei cow-boys. La Gazzetta del Popolo descrive così la scena: «Gli sguardi della folla si rivolsero con curiosità vivissima sulle pelli-rosse, le quali fecero il loro ingresso galoppando vertiginosamente intorno alla pista, ed emettendo grida altissime e disor-

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Cultura «Quindicimila persone hanno assistito a una buffonata, a proposito: il pubblico non lo chiama più Buffalo ma bruffolo; si sono spese 5 o 8 lire per vederlo…».

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dinate, proprio come gli indiani che aggrediscono il treno». Non mancavano neppure ospiti “speciali” tra i quali, il grande capo del popolo sioux Toro Seduto e l’infallibile tiratrice Annie Oakley, che fu per anni la sua amante . Uno spettacolo certamente insolito per gli europei e in particolare per gli italiani. Per attrarre l’attenzione i giornali locali facevano così promozione all’evento: «La celebrità delle pianure, il Re di tutti, riprodurrà fra noi le gesta compiute attraverso il continente americano, si mostrerà nell’abilità ad uccidere gli Siux (letteralmente scritto così), e terminerà lo spettacolo con l’apoteosi della pace e la danza delle nazioni». Il selvaggio e lontano occidente americano si presentò alle genti venete nei primi anni del ’900. Le cronache locali sono dense di particolari. La prima città che ospitò il Wild West Show fu Padova dove un tendone fu montato in piazza d’Armi. Arrivò gente da tutto il Veneto. Il cronista del Gazzettino così scrive, ammirato dall’ordine che regna in quella folla circense dai colori della pelle diversi: «Ogni forma di rumore e chiasso è bandita, tutto ciò per noi veneti espansivi in ogni nostra manifestazione costituisce un quadro sorprendente. Quando scendono le pelli rosse di una compostezza quasi ieratica, avvolte in strani ponci multicolori,e sudicette anzichenò, dai lunghi capelli untuosi raggruppati in trecce sulla fronte sfuggente, l’effetto è disastroso». Alcune donne tra il pubblico commentano «varda che brute vecie». La cronaca del giorno seguente è impietosa: «Certe americanate non si possono dimenticare così presto: quindicimila persone hanno assistito a una buffonata, a proposito il pubblico non lo chiama più Buffalo ma bruffolo; si sono spese 5 o 8 lire per vederlo…». A Verona quell’anno si fece un grande preparativo per l’arrivo dell’eroe americano. I primi mesi del 1906 per i veronesi furono carichi di emozioni: i giornali di Verona avevano appena finito di annunciare la visita alla Fiera del re Vittorio Emanuele III, preparando il terreno per l’arrivo del Colonnello Cody. Furono in tutto 16 gli interventi sul giornale quotidiano locale, preparati con una certa abilità

(per quei tempi) pubblicitaria. Il primo fu del 3,4 aprile,in cui si presentava la figura di Buffalo Bill (o meglio si rinnovava la conoscenza della sua figura, visto che a Verona era già stato nel 1890). Di seguito ci fu un susseguirsi di articoli descrittivi delle sue gesta americane, del Wild West Show e di trafiletti con la sua immagine per reclamizzare il suo arrivo. I treni del suo show, la cui lunghezza totale era di un chilometro,arrivarono alla stazione di Porta Vescovo la notte del 14 aprile, lo stesso giorno dello spettacolo di Padova. In poche ore fu allestito un tendone in Arena che conteneva 12 mila posti a sedere. Negli spettacoli che si susseguirono durante il 15 e 16 aprile, non v’erano solo gli attesissimi indiani; infatti, nell’originale idea del Colonnello Cody, lo spettacolo era anche una riproduzione viaggiante delle ultime battaglie degli stati “moderni”di quel secolo, con i veri protagonisti raccolti qua e là: non solo in America, ma anche in Europa o in altre parti del mondo (i soldati inglesi che avevano servito Baden Pawell,Americani della Milizia Civile degli Stati Uniti, gli arabi beduini con le loro scimitarre, cosacchi del Caucaso, Zuevi, Messicani ed anche una truppa di Samurai giapponesi). Gli spettacoli che si avvicendarono incessantemente furono un susseguirsi di dimostrazione di forza, tornei, duelli e rappresentazioni circensi come ad esempio l’attacco alla diligenza degli indiani.La testata locale è parca di commenti personali all’avvenimento; sottolinea più volte positivamente dell’opportunità avuta dai commercianti veronesi nel poter fare affari in quei giorni. Nomina anche il negozio “Ferrario” che ha potuto approvvigionare il Wild West Show di grossi quantitativi di benzina e di altri articoli utili alla compagnia. A Vicenza e a Treviso, le altre tappe della carovana, arrivarono treni stracarichi di provinciali, veneziani e bellunesi. In queste città le cronache riportano commenti più benevoli di quelli di Padova, sottolineando i costumi variopinti dei pelli rosse, l’abilità a cavallo dei cow-boys, l’impassibilità degli indiani in ogni situazione. Finito lo spettacolo a Treviso, Buffalo Bill disse all’amante, che chiamava Missy: «Domani ci recheremo a Ve-

nezia e faremo un giro in barca». Il giorno dopo, Cody, Missy e cinque indiani, noleggiata una carrozza, si recarono a Venezia. Buffalo Bill, in testa lo Stetson, portava casacca e pantaloni a righe; i capi indiani indossavano il copricapo piumato mentre altri due inalberavano la piuma. Missy non volle salire sull’imbarcazione, un indiano rimase con lei per proteggerla e aspettarono gli altri in osteria; Cody e i compagni invece non si meravigliarono dell’acqua, dei canali e dell’aspetto della barca: era una gondola. Il gondoliere li portò a San Marco dove finalmente gli americani ebbero un momento di stupore e di meraviglia nel vedere la piazza e la Basilica. Un cicerone improvvisato raccontò agli stranieri delle bellezze artistiche e dei Dogi (paragonati da Cody ai presidenti degli Usa).Di seguito, col gondoliere e col cicerone, tornarono a trovare Missy e l’altro indiano e insieme pranzarono in trattoria con frittura di pesce e polenta. Ci fu un intermezzo spiacevole: mentre stavano per ripartire, un pellerossa abbracciò una donna. Buffalo Bill estrasse la Colt che portava e gli intimò di lasciarla. L’indiano così fece, quindi si inginocchiò e chiese scusa a Buffalo Bill. Tornati gli animi in pace, Buffalo Bill, Missy e gli indiani (i primi in carrozza,gli altri a cavallo) tornarono a Treviso e da qui ripartirono il giorno dopo per Trieste dove si concluse il tour italiano. Cronaca e aneddoti di un grande personaggio,ormai al declino,all’età di 60 anni, con il parrucchino, quasi sempre ubriaco, litigioso con la moglie. Ma era e resterà Buffalo Bill, un’icona del mito americano. Un aneddoto.Vedendo Buffalo Bill in un show, il conte Caetani di Sermoneta ebbe l’idea di una gara tra i cow-boys americani e i maremmani, ove i butteri maremmani avrebbero dovuto domare i cavalli dei cow-boys americani e viceversa. Chi vinceva avrebbe ricevuto un premio di mille lire che corrispondono oggi a circa cinquemila euro, più l’incasso. Dato che non si era pensato di stabilire i termini di gara, alla fine non ci furono vincitori. Buffalo Bill scappò con tutti i soldi, dicendo addirittura di essere stato truffato.

Luglio 2008


Cultura 100 ANNI DI GUARESCHI

Don Camillo e Peppone se le cantavano a Cerea Una vicenda veronese post risorgimentale ricorda la celebre coppia di Brescello uscita dalla fantasia di Guareschi, di cui ricorre il centenario della nascita

di Stefano Vicentini

Un parroco e un sindaco focosi, scorbutici e litigiosi, in costante azione di reciproco contrasto: l’uno non di rado usciva dalla canonica, attraversava l’ampio sagrato della chiesa parrocchiale, furioso come un gendarme, per ficcare il naso tra la gente e sentire cosa pensasse della politica locale; l’altro, invece, ogni domenica con la denuncia pronta in mano per “terrorismo ideologico”

in VERONA

Immaginiamo con un po’ di fantasia che il paese di Brescello sia Cerea e le campagne della bassa emiliana bagnate dal fiume Po siano gli appezzamenti del basso veronese resi fertili dalle acque del vicino Adige. Può così “rinascere” la prima pagina del capolavoro di Giovannino Guareschi, col paesaggio che fa da sfondo ad una delle storie più avvincenti della letteratura italiana del dopoguerra.“In quella fetta di terra grassa e piatta [...] nebbia densa e gelata l’opprime d’inverno: d’estate un sole spietato picchia martellate furibonde sui cervelli della gente e qui tutto si esaspera. Qui le passioni politiche esplodono violente e la lotta è dura[...]. E qui accadono cose che non possono accadere da nessun’altra parte”. Un attacco inconfondibile, geniale, frutto dell’estroso carattere di uno scrittore prolifico e vitalissimo. Cent’anni fa nasceva il “papà” di don Camillo e Peppone, che ha reso universale il “mondo piccolo” dei litigi tra un parroco e un sindaco, in un piccolo centro della pianura padana abitato da gente modesta ed ingenua, ma sincera e genuina, con quei sani valori che oggi fanno riandare i nostri anziani, anche con nostalgia, alla società patriarcale contadina qui vissuta qualche decennio fa. Perché, dunque, paragonare Cerea a Brescello: c’è qualche analo-

gia di “storia minore” e di vicende nate nella Bassa? Esattamente. Spulciando nell’archivio storico del paese, e interrogando qualche originale fonte, è emerso che un Fernandel-don Camillo e un Gino Cervi-Peppone hanno abitato anche nel veronese caratterizzando un momento storico preciso. Certo, non mancano le differenze: stiamo parlando dell’età post-risorgimentale e di ideologie diverse da quelle descritte da Guareschi. Tuttavia si tratta sempre di un parroco e di un sindaco focosi, scorbutici e

litigiosi, in costante azione di reciproco contrasto: l’uno non di rado usciva dalla canonica, attraversava l’ampio sagrato della chiesa parrocchiale, furioso come un gendarme, per ficcare il naso tra la gente e sentire cosa pensasse della politica locale; l’altro, invece, ogni domenica con la denuncia pronta in mano per “terrorismo ideologico”, si nascondeva nel retrobottega della farmacia Bresciani che era posta strategicamente davanti alla chiesa, per parlare d’affari coi notabili del paese – intellettuali e teorici

Giovannino Guareschi

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Cultura «Morgante, nato nel 1817, sindaco dagli anni ’60 all’82, era un benestante borghese e un facoltoso agrario. Monsignor Bennassuti, nato nel 1811 era un prete vecchia maniera, autoritario e ciarliero

In alto: alcuni Alpini veronesi a Brescello mentre scherzano con la statua di Peppone In basso: matrimonio a Cerea nei primi anni ’50

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dell’Unità d’Italia, tra i pochi ad avere diritto al voto, abili ad influenzare gli altri – per poi affacciarsi dopo la messa per fare incetta di voti e notare qualche bella ragazza. Dopo gli scontri risorgimentali il primo cittadino fu Giuseppe Morgante e il reverendo don Luigi Bennassuti, le cui vicende sono state raccontate dallo scrittore veneto contemporaneo Federico Bozzini nel libro “L’arciprete e il cavaliere”, oggi riesumato dall’appassionato di storia locale Giampaolo Brasioli per rivivere la proverbiale contesa. Le loro zuffe sono diventate macchiette, anche se nella seconda metà dell’Ottocento non c’erano fotografi o fumettisti per immortalarle. Spiega Brasioli: «Morgante, nato nel 1817, sindaco dagli anni ’60 all’82, era un benestante borghese e un facoltoso agrario, sempre coerente ed inflessibile nei suoi gesti; aveva una cultura laica e liberale, ma mancante d’un progetto politico preciso, comunque antiaustriaco e mangiapreti. Aveva sposato Adelaide Montanari, sorella di Carlo, ben noto martire di Belfiore, ed era

parente di un certo Carli, tutore e curatore degli affari in città del poeta Aleardo Aleardi. L’altro, monsignor Bennassuti, nato nel 1811 e parroco a Cerea dal 1849 al 1882, era un prete vecchia maniera, autoritario e ciarliero, assai intelligente, tanto da aver prodotto un certosino commento alla Divina Commedia ed aver insegnato nel liceo a Verona». Il rapporto tra le due autorità, sempre attivo nonostante la mutua cooperazione si fosse presto incrinata, è stato descritto in modo esemplare con una sola espressione dallo scrittore Bozzini: “Il sindaco non vuole delegare nulla all’arbitrio del parroco maneggione”. Don Bennassuti, per esempio, a scuola voleva fare di testa sua: variare gli orari delle lezioni, approvare i contenuti secondo il rigido metodo della chiesa, controllare la moralità con lo spirito puntiglioso dell’ispettore, rendere la religione onnipresente negli studi. Il 28 maggio 1853 l’ispettorato scolastico di Sanguinetto scrive alla deputazione di Cerea perché è stato segnalato nella scuola un maestro “di nessuna moralità, di trista fama, lurido, cencioso, ubriacone e bestemmiatore, un modello negativo per i ragazzi”. Morgante capisce subito che c’è lo zampino del prete ed è costretto a stare tra due fuochi, perché il maestro incriminato dall’esagerata etichetta morale chiede una sua mediazione. Un esempio tra i tanti per dire che, ora in piazza ora tra vari incartamenti, i motivi per litigare si moltiplicavano. Bozzini, con metodo storiografico attento, racconta nel suo libro il retroscena dell’arrivo del Bennassuti a Cerea, paese di poche migliaia d’abitanti che per l’illu-

stre sacerdote, destinato a ben più elevata carriera, ha rappresentato una punizione dall’alto. “Un giorno volendo spiegare un brano d’autore dimandò una crestomanzia (antologia). Il figliuolo del Groller, imperial regio delegato al governo della Provincia di Verona, lì presso alla cattedra col privilegio di un banchetto a parte, si levò tosto e gliela porse. Il Bennassuti, recatasela sotto il naso, con una profonda smorfia gliela restituì dicendo «pute (puzza) di croato». Fu il finimondo”. E così il carattere duro del reverendo fu severamente punito finendo a Cerea, pur orgogliosamente mantenendo la residenza a Verona. Un altro episodio riguardò le reliquie di San Vito, Crescenzia e Modesto, depositate a Cerea ma reclamate a Venezia dal facoltoso Gaspare Biondetti per ripristinare il culto del santo in una chiesetta prima soppressa da Napoleone. Il patriarca di Venezia e il vescovo scaligero acconsentirono al passaggio, ovvero veniva ceduto un osso zigomatico di San Vito, frammenti della mascella di San Modesto e sette denti di Santa Crescenzia. Gli abitanti della contrada San Vito ne chiesero offesi al vescovo l’immediata restituzione spalleggiati da don Bennassuti che trovò a suo modo la maniera di riportare indietro alcune ossa, mentre le altre oggi sono custodite nella chiesa dei Gesuati a Venezia. Il sindaco anche qui si preparò con la denuncia in mano e l’indignazione della sua corrente municipale, ironicamente definita la “banda Morgante”. Un ricco panorama, dunque, di piccoli e grandi fatti, a testimoniare una grande vivacità di rapporti umani che inevitabilmente ha influenzato il popolo ceretano. Oggi quelle menti conservatrici o progressiste dicono poco; ma hanno segnato le sorti del paese, basti pensare agli eredi, il successore carismatico di Bennassuti, don Giuseppe De Battisti, fondatore dell’ospizio, o Bruno Bresciani, politico e filantropo sociale assai attivo nel ’900. Così possiamo dire che quei “don Camillo e Peppone” hanno dato un impulso civico di grande giovamento per le future generazioni.

Luglio 2008


Un uomo chiamato Guareschi

Cultura

Il Guareschi vero balza fuori da quel grande capolavoro che è “Diario clandestino”. Qui c’è più di un uomo, c’è una grande figura che parla per tanti altri uomini dimenticati e offesi, umiliati in tragici lager, perché fedeli a un giuramento

in VERONA

di Oreste Mario Dall’Argine Pare leggenda che il creatore di “Candido” – il giornale satirico della destra italiana – nasca il 1° maggio 1908, festa dei lavoratori, con le bandiere rosse che festeggiano il sole dell’avvenire nelle piccole strade di Fontanelle, una frazioncina contadina della bassa parmigiana, vicino al Po e poco lontano dal borgo natale di Verdi. Guareschi, di cui parliamo per ricordare il centenario della nascita, non è certamente un De Amicis del ‘900, come alcuni hanno cercato con troppa facilità di definire, perché la sua spina dorsale, i suoi sentimenti, il suo modo di raccontare una vita semplice, ma anche sofferta, sono ben lontani dallo stile dello scrittore piemontese. Guareschi viene da una terra dura, bruciata da un sole estivo, avvolta nella nebbia, nella sua miseria e nella sua povertà. Questa terra, ancora dura e fertile, ma un tempo sparsa di povere case,è ora diventata ricca e su di essa il sole dell'avvenire è tramontato, mentre prosperano brutte e pretenziose villette e orridi capannoni industriali. Questa terra Guareschi la ama e la amerà per tutta la vita tanto da trovare in essa rifugio nei suoi giorni più dolorosi, quando, uscito dal carcere di Parma, dove ha scontato volontariamente un anno di dura galera per non tradire la sua onestà professionale e umana con ignobili compromessi politici, torna nei suoi luoghi che l’hanno visto crescere e formarsi. Guareschi migra a Milano negli anni ’30 – come tanti altri giovani giornalisti parmigiani usciti dalla Gazzetta di Parma – in cerca di un foglio stampato che gli consenta di esprimere se stesso in tutta la sua forza e forma letteraria e nella capacità di una satira politica e umana impareggiabili. A Milano il giovane incontra l’ambiente e gli uomini con i quali sente di poter convivere e lavorare seriamente. Lavora al Bertoldo, un giornale che allora veniva definito umoristico, ma che sotto la guida di Mosca e Metz è quell’ape regina imprendibile che sottilmente punzecchia l’aria stagnante di un regime che si sta consolidando. Se noi estraiamo Guareschi dal suo irraggiungibile successo di “Candi-

do” e ci soffermiamo a leggere i suoi libri, sentiamo quello che noi vorremmo vivere nella dolcezza, nella fragilità, nella forza e nella umile tristezza della vita. A volte i suoi personaggi resi famosi anche da cinema, sovrastano le storie, il loro mondo e la loro disincantata umanità. Così nella satira, come nei racconti. Perché questi personaggi sono uomini come lui, che ha conosciuto e con i quali ha vissuto; una congregazione alla quale egli ha appartenuto fin da ragazzo e in mezzo ai quali finirà la sua vita. I “Trinariciuti” quegli oscuri personaggi dell’obbedienza pronta, cieca, assoluta (con questo aforisma Guareschi aveva parafrasato il credere, obbedire, combattere che Longanesi aveva maliziosamente scritto per Starace) non sono suoi nemici, sono uomini che vanno per un’altra strada che Guareschi combatte senza disprezzo, anche se a volte con rabbia, perché ne conosce la bontà degli animi e la durezza della loro vita. Peppone, Don Camillo, i compagni delle cellule di Brescello, la vecchia maestra che vuole essere sepolta col tricolore sabaudo, sono “persone” che sono nate con lui, sanguigne ma oneste, politicamente dure ma di una faziosità che scompare davanti alle scelte vere entro cui quotidianamente vivono. Fare il prete nella bassa dove egli era nato non era certamente facile come esercitare una missione curiale. Dire che in Don Camillo c’è qualcosa di Don Mazzolari è forse, anzi, senz’altro troppo; ma la voce del grande Crocifisso della Chiesa di Brescello è la stessa che parla ai due preti richiamandoli alla fedeltà per i principi,da difendere e non da imporre. Ma per noi il Guareschi vero, più di ogni altro, balza fuori da quel grande capolavoro che è “Diario clandestino”. Qui c’è più di un uomo, c’è una grande figura che umanamente parla per tanti altri uomini dimenticati e offesi, umiliati in tragici lager,perché fedeli ad un giuramento. È fra queste impareggiabili righe che l’uomo si esalta nella sua determinazione di vivere decidendo di resistere a tutto pur di continuare la vita, aiutando gli altri in questa determinazione.

Ecco perché dicevamo che parlare di Guareschi sul rigo di De Amicis è quasi irritante. Se nei famosi libri di Levi e di altri autori la sofferenza diventa quasi meditazione e speculazione filosofica, nelle pagine del “Diario clandestino”non c’è una virgola che diventi incomprensibile, retorica della resistenza politica. C’è un’ironia sofferente che si traduce in una letteratura pulita, lineare, senza fronzoli, quasi umile e timorosa di disturbare la quiete del lettore borghese. “Un uomo è sempre un uomo, qualunque cosa pensi e in qualsiasi luogo si trovi”. Questo è un pensiero che supera ogni confine letterario universale e che trascende ogni diversità. Molti poeti provinciali hanno voluto trascrivere una sua dura e forte citazione: “Ogni mattina ci svegliavamo per ricominciare a morire”. In realtà questa è la forza di un uomo che vuole vivere, perché riesce a vincere la paura della morte con la sua volontà di sopravvivere ad una prigionia ingiuriosa. E i baffi, che si fa crescere e coltiva con ironica cura dietro il filo spinato, diventano un simbolo emblematico della sua forza e certezza di vita. Il successo cinematografico dei suoi film non l’ha mai esaltato. Quando Rizzoli decise di fare il primo film su Don Camillo e Peppone, affidandone la direzione al famoso regista francese Duvivier e una della parti principali, quella di Don Camillo, a Fernandel, Guareschi lottò aspramente contro questa decisione, perché diceva che sia il regista che l’attore, con la loro formazione francese e con il loro mestiere avrebbero sfigurato i personaggi. Non ne faceva una questione di nazionalità, ma parlava di una scelta artistica. Ma in questo caso il fiuto di Rizzoli ebbe la meglio e Guareschi, parlando con l’altro grande protagonista Gino Cervi,riconobbe che la sua tesi era sbagliata. Guareschi, resta per noi, per quanto possa valere per il mondo dei critici paludati, uno dei più grandi scrittori del ‘900. Maestro della satira, maestro dello scrivere; ma anche maestro di vita, plasmato dalla terra bagnata da quel grande fiume che era il suo Mississippi, il Po. Visto da destra e da sinistra !

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Cultura MUSICA

Un veronese amante della musica Sebastiano Luigi Murari Dalla Corte Brà, oltre a dilettarsi nell’arte del comporre, diresse le principali istituzioni culturali della città

Nacque il 25 settembre del 1774. Dopo esser divenuto socio dell’Accademia Filarmonica, Sebastiano ricoprì dal 1808 la carica di vicedirettore del Teatro Grande, ruolo di prestigio sotto il profilo artistico e politico che lo rese attivissimo negli ambienti culturali della città

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di Nicola Guerini Sebastiano Luigi Murari Dalla Corte Brà fu un amatore della cultura e della musica che, oltre a dilettarsi nell’arte del comporre, diresse le principali istituzioni culturali della città. Primo di sette figli (dei quali quattro morirono in tenerissima età), Sebastiano nacque il 25 settembre del 1774 a Verona da Gio Batta Murari Brà e Vittoria Brà e fu battezzato nella chiesa di S. Fermo al ponte. Il palazzo in cui viveva la famiglia, nei pressi di S. Fermo, era frequentato da personaggi illustri che segnarono, con la loro intensa attività, i momenti più significativi nell’ambito culturale cittadino. Va menzionata la figura di Gio Francesco Murari Brà (nonno di Sebastiano) che rivestiva la carica di governatore dell’Accademia, in occasione della nomina del giovane Wolfgang Amadeus Mozart a maestro di cappella, il 5 gennaio 1771.Oltre alla personalità di Gio Francesco va ricordato che la famiglia Murari Brà fu sempre attiva nell’organizzazione di importanti manifestazioni, legate sia alla musica e allo spettacolo in genere. Quale sia stata l’influenza esercitata dal nonno su Sebastiano non è possibile accertarlo ma è vero che la presenza di un esponente dell’istituzione filarmonica permise alla famiglia di frequentare un ambiente musicale di alto livello.

Un’ altra personalità di rilievo nella vita culturale cittadina, presente in casa Murari Brà, fu il conte Alessandro, nato nel 1752 da Gio Francesco e dalla marchesa Maria Canossa e nominato accademico filarmonico il 7 maggio 1772, mentre il 24 maggio 1787 divenne socio dell’Accademia Commercio ed Arti. Alessandro rimase per tutta la vita a contatto con il nipote Sebastiano, del quale divenne un vero e proprio tutore, esercitando una buona influenza artistica e infondendo il grande amore per la musica. Il rapporto tra zio e nipote appare chiaro già dal 1786, anno i cui Sebastiano iniziò a frequentare il collegio di S.Carlo in Modena per la propria formazione culturale. Il collegio modenese era apprezzato per la qualità dell’insegnamento che prevedeva lo studio di italiano, greco, francese, storia, geografia, scienze e una particolare attenzione per le arti, tra cui la musica. Dopo gli studi Sebastiano torna a Verona e nel 1794 fa richiesta di aderire all’Accademia Filotima, l’accademia dei nobili e dell’aristocrazia veronese. Viene accettato e dal 20 gennaio 1794 inizia la sua frequentazione nell’ambiente nobiliare, nei salotti di conversazione e nell’attività musicale della città. Nel 1803 Sebastiano fu segnalato come importante esponente della società musicale “Orfei”, formata già dal 1793, e nel 1801 sposò Ma-

tilde Bevilacqua Grazia. Per l’occasione il padre della sposa, il conte Ernesto Bevilacqua, fece dono alla famiglia Murari Brà di un palco di proscenio al Teatro Filarmonico. Nello stesso anno nacque Vittoria, la prima di sei figli di Sebastiano e Matilde. Dopo esser divenuto socio dell’Accademia Filarmonica, Sebastiano ricoprì dal 1808 la carica di vicedirettore del Teatro Grande, ruolo di prestigio sotto il profilo artistico e politico che lo rese attivissimo negli ambienti culturali della città ricoprendo contemporaneamente la carica di socio degli Orfei, di vice direttore al Filarmonico e membro dell’Accademia. Quando Verona subì il cambiamento tra napoleonici e austriaci anche le cariche dirigenziali cittadine furono a rischio e lo dimostrano il fatto che nel 1815 Sebastiano lasciò l’Accademia Filarmonica, a causa della sua simpatia per il governo filo-francese: la sua presenza alle assemblee fu giustificata solo per la sua condizione di socio e possessore di un palco al Filarmonico. La famiglia cominciò a disertare sempre più il Teatro prestando il palco ad un certo Sig.Sacchetti. È davvero interessante il contratto stipulato tra Sebastiano e il Sig. Sacchetti: “Verona il 19 Decembre 1831. Oggi si consegna al Sig. Gabliele Sacchetti il palco proscenio fila 2.da in questo Teatro Filarmonico, proprietà del

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Cultura Fu un uomo di profonda cultura, attivo compositore nell’ambiente dilettante veronese e quindi grande sostenitore della musica, come testimonia il fondo musicale Murari Brà, conservato presso la Biblioteca Civica di Verona e al Conservatorio “Dall’Abaco”

In alto, un ritratto di Sebastiano Luigi Murari Dalla Corte Brà

Nob.Sig.Conte Sebastiano Murari Brà, congiuntamente a due camerini denominati l’uno sala, l’altro cucina contenenti mobili ed effetti. Nel palco: quattro panche con cuscini di marocchino, due poltrone similmente fornite, con due tole da piedi, due specchiere perfette, una portiera seta celeste con ferro. Nella sala: un antiporto con cristallo perfetto, e con tendina seta verde, quattro careghini noce buoni, quattro soffà forniti pelle stampa-

ta, due tavolini noce, due specchiere dorate con quattro brazzaletti, due specchi grandi dorati, una tendina alla finestra. Nella cucina: una credenza lunga all’intorno di pezzo, due gratelle ferro alle fornelle, un vaso di terra da scarico, tre chiavi, una scala da mano”. Non è possibile affermare con certezza se Sebastiano fosse attivo negli ultimi anni della sua vita ma è assolutamente sicuro che egli era ritenuto un personaggio

di assoluto rilievo. Nel 1825 venne insignito del titolo di Socio Onorario dell’istituto Filarmonico degli Anfioni, che rappresentava l’associazione musicale più importante. La lettera proveniente della presidenza dell’istituto, porta la data del 12 luglio 1825 e riporta le motivazioni che hanno condotto a tale nomina:“... per le composizioni musicali che Sebastiano si era compiaciuto di presentarle in dono; inoltre la volontà di dare a Lei un contrassegno di stima per il distinto merito di cui La conosco fregiato nell’arte della musica”. Sebastiano fu una figura di profonda cultura e grande sostenitore della musica in qualità di attivo compositore nell’ambiente dilettante veronese, come testimonia il fondo musicale Murari Brà, conservato presso la Biblioteca Civica di Verona e al Conservatorio “Dall’Abaco”. Egli morì il 23 gennaio 1837 lasciando 5 figli, tra i quali Alessandro, che ereditò il nome della famiglia, e la moglie, alla quale va il merito di aver conservato le sue composizioni.

MUSICALMENTE Un catalogo di tutto rispetto di Nicola Guerini Nella splenda tesi “Sebastiano Murari Brà (1774-1837): un Amateur de musique veronese tra Sette e Ottocento”, redatta da Massimo Antolini nel 1995, viene raccolto un catalogo di 90 numeri d’opera, che per un dilettante rappresenta una quantità davvero rilevante. Per la musica vocale troviamo numerosi pezzi per voce e pianoforte, composti probabilmente dopo il 1823, poiché in quell’anno la famiglia Brà acquistò un pianoforte destinato ad un uso domestico. Molti i pezzi per voce e orchestra, di sola musica strumentale, di musica sacra, per strumenti a fiato, un balletto di una certa consistenza dal titolo “L’amante ciarlatano”, in cui sono addirittura presenti puntuali indicazioni coreografiche ed altri elaborati di sicuro interesse, come la Sonata per Arpa e Corno inglese, la Cavatina “Nel mirarti amato ben” per tenore e orchestra e la Sonata a fortepiano in fa maggiore. L’analisi del fondo musicale ha rilevato

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non solo opere di Sebastiano ma di autori prediletti o conosciuti dalla famiglia Murari, delineandone così le scelte e i gusti musicali. Il fondo, diviso in opere manoscritte e a stampa, fu raccolto a partire tra la fine del Sette e Ottocento; il merito va attribuito alla moglie Matilde, la quale risulta intestataria di molti manoscritti. Tra gli autori spiccano Galuppi, Cimarosa, Gazzaniga, Donizetti, Haydn, Mozart, e le trascrizioni delle sinfonie di Rossini, il quale godeva di grande fama nella Verona del primo Ottocento. Sono presenti infine varie composizioni di dilettanti locali che furono in contatto con Sebastiano, come ad esempio le ariette per chitarra francese con accompagnamento della contessa Nichesola, le ariette composte dal conte Francesco Dal Pozzo e le composizioni vocali di Andrea Giannini che fu un ottimo Maitre de danse celebre et vaillant joueur de vielon. Dall’analisi della ricca biblioteca è quindi importante sottolineare l’apertura ad ampio raggio alle nuove correnti musicali europee che spaziavano dalla tipica tradizione operistica italiana, la musica viennese con i modelli del classicismo fino alla musica “popolare” e da ballo.

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Tradizioni Ai primi di marzo inizia lo spostamento delle greggi dalla pianura verso i pascoli della montagna. Così ancora oggi capita di vedere centinaia di pecore sfilare a due passi da piazza Bra. Come avveniva la transumanza? che vita facevano i pastori un tempo? Davanti a un “baito” di fortuna una ragazza prepara il burro con l’antico sistema della zàngola

DALLA BASSA ALLA LESSINIA

Transumanza una volta Il vero modo di pascere “gratuitamente” le pecore durante i trasferimenti era quello di approfittare dell’erba degli argini delle strade, dei fossi, dei progni, degli incolti, dei beni comuni, cioè de tuti e de nissuni, i sgrèbani

Di questo evento ha parlato anche D’Annunzio con la poesia “Settembre, andiamo”. Una parola veronese che traduca transumanza non esiste, ma viene reso con la frase generica di “cargar montagna”, come per il bestiame bovino

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di Piero Piazzola Può capitare anche ai nostri giorni di vedere transitare greggi di pecore tra la stazione ferroviaria della città e corso Porta Nuova, a due passi dalla Bra. Questo trasferimento si chiama “transumanza” ed esprime l’ordinario trasporto ai monti di armenti (pecore e capre). Essa ha inizio i primi di marzo, in direzione “pascoli alti”, ossia verso la montagna, dove si potranno trovare pasture fresche e abbondanti. Di questo evento ha parlato anche D’Annunzio con la poesia “Settembre, andiamo” in cui descrive il rientro alle sedi di partenza, dopo la stagione sui monti. Da noi, invece, un termine veronese che traduca transuman-

za non esiste, ma viene reso con la frase generica di cargar montagna, come per il bestiame bovino. Tutto ciò premesso, per capirne qualcosa di più intraprendiamo un immaginario viaggio di andata ai pascoli alti al seguito di un gregge di pecore. Lo guidano quelle persone, i pastori propriamente, anticamente detti pegorari, che vivono di questo mestiere, con qualche evidente correzione rispetto ai tempi passati, ma non molto differente dalle usanze dei pastori dell’epoca della Bibbia. Il nostro gregge parte dalle zone dove ha trascorso l’inverno, meglio note come lóghi de l’inverno o dove hanno svernato (hanno finito la desvèrna): le cosiddette basse. Lo guidano di solito due persone,

il pastore e la moglie, perché la donna è un elemento estremamente valido, indispensabile per il buon andamento della vita in qui luoghi solitari e disabitati. È la donna che, una volta arrivati sulla montagna, organizza quella specie di rifugio che dovrà servire da bàito, da casa, da alloggio, da stalla, da canile e anche da ovile per i piccoli nati da poco, perché dentro quel buco, quel cóvolo, quella capanna, tante volte realizzata con dei pali e coperta di pelli di animali, il pastore dovrà trascorrere quattro mesi. Il gregge si infila tutto dietro una o due pecore che ha davanti a sé e la moglie del pastore o il pastore stesso che lo guida. Le pecore non sono autonome come le vacche:

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Tradizioni

Dicevano che quando nostro Signore ebbe finito di creare pecore e pastori, costoro si rivolsero a lui e gli chiesero: «Ma adesso che ci siamo, quali sono i confini entro i quali possiamo liberamente pascolare i nostri armenti?» E il Signore rispose: «Costruitemi un altare tutto per me, recintatelo in modo che le pecore non vengano a cagarci dentro; fuori dallo steccato è tutto vostro»

In alto, a destra: collari in legno per le pecore che il pastore ritagliava durante le lunghe giornate trascorse al pascolo. Qui a fianco e nelle altre foto: pecore al pascolo sui Lessini Orientali negli anni ’50

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on s-ciàpo de vache segue ciecamente quelle due, tre bestie che fanno strada, con tanto de ciòca al colo, perché sono pratiche del percorso, essendo state ancora “in montagna”; si sono verificati molti casi di vacche che durante qualche nubifragio si sono perdute ma hanno fatto ugualmente ritorno alle loro stalle. Le pecore, no. Dove va una vanno tutte. Ecco il motivo per cui davanti cammina sempre uno dei pastori; l’altro segue el s-ciàpo con i cani che sorvegliano e gli recuperano quelle bestie che non stanno in riga.

ANTICHE STRADE PEGORÀRE

Il vero modo di pascere “gratuitamente” le pecore durante i trasferimenti era quello di approfittare dell’erba degli argini delle strade, dei fossi, dei progni, degli incolti, dei beni comuni, cioè de tuti e de nissuni, i sgrèbani. Di norma i pastori seguono le vallate fino ai piedi della montagna, perché strada facendo trovano sempre qualche végro da sfruttare, qualche prato lasciato in abbandono, il letto stesso del torrente in secca, qualche sterile che torna utile per una

sosta del gregge. Arrivati ai piedi della montagna, la affrontano seguendo le vecchie mulattiere, ma anche le nuove strade asfaltate, pur di trovar, cammin facendo, di che far campare le bestie fino alla meta. Per motivare queste circostanze di illegalità, dicevano che quando nostro Signore ebbe finito di creare pecore e pastori, costoro si rivolsero a lui e gli chiesero: «Ma adesso che ci siamo, quali sono i confini entro i quali possiamo liberamente pascolare i nostri armenti?» E il Signore rispose: «Costruitemi un altare tutto per me, recintatelo in modo che le pecore non vengano a cagarci dentro; fuori dallo steccato è tutto vostro». Una strada di transumanza antica che partiva nelle vicinanze tra Lavagno e Illasi, e che ancora oggi è percorribile, era la Via Cara o Via Vacàra. Più a mezzodì, una strada pegoràra partiva da Montorio e saliva la dorsale che porta a San Rocco di Piegara, San Vitale, Velo, Camposilvano e i Lessini. Chi ha occasione di andare verso i Pàrpari potrà ancora camminare sulle vecchie piste per bestiame che sono tuttora segnalate da lastre di pietra conficcate nel terreno; sopra la contrada Bà, per esempio, si può percorrere un tratto dell’antico Stradón de la Ba. Più verso sera erano trafficate le

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Tradizioni mulattiere o piste di accesso ai Lessini, come quella che passava da Grezzana e che arrivava ad Erbezzo e quell’altra che saliva la Valpolicella, passava da Sant’Anna d’Alfaedo e terminava nei pascoli delle Fittanze. A mattina, invece, funzionava come percorso anche per le pecore la “Via Vicentina”che saliva a Campobrun (nel passato Campobrun era pascolato solo da pecore). “MONTAGNE” DEI PASTORI È necessario sapere che i pastori che possedevano già qualche diecina di pecore, di anno in anno, per poter far quella vita e camparci sopra, prendevano in affitto altre pecore dai contadini che d’estate non erano in grado di mantenerle sui propri fondi, perché impegnati nei lavori dei campi, e ne contrattavano l’affitto; un affitto, per modo di dire, perché era un certo canone ancorato alla tradizione; oppure le comperavano per poi rivenderle in autunno dopo averne sfruttato il latte, la lana, gli agnelli; risorse che costituivano la pigione vera e propria del pegoràro. Posso scrivere qualcosa sul conto dei pastori, perché, essendo nato in montagna, e avendoci vissuto per oltre cinquant’anni, ho avuto modo di sperimentare in prima persona alcuni momenti della loro vita sui lóghi de l’istà. So che alcuni provenivano dal Rodigino o dalle Foci del Po addirittura, seguivano un tragitto consacrato dalla tradizione, avevano i loro punti d’arrivo abituali, le loro “montagne”, come usavano dire, cioè i loro pascoli estivi prescelti, i lóghi de l’istà che erano poi: i Prè, i Porti, el Méndarla, i Laghéti, le Frasèle, el Bel Séngio, Mandrielo, Terasso, Campostrin, Campobrun, per restare in Lessinia orientale. Il Bel Séngio, che faceva parte della Montagna Lobbia e che era una delle “montagne” ambite dai pastori più miserabili, forse la più economica, e per questo motivo molto ricercata, mi ricorda un momento quasi fantastico, quando, giovanotto ventenne e accanito cacciatore di frodo, mi fermavo di notte in quel cóvolo, ospite di un pastore, Giorgio Pagani, e di suo zio Angelo, soprannominato Mà-

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Una delle famose “Città di pietra” dei Lessini. Sui lastroni più lisci i pastori depositavano il sale

sena, fisarmonicista per passatempo, per … distrarre le sue pecore. Ho avuto modo, dunque, di far conoscenza con la vita dei pastori e di sperimentare le loro usanze e, in tale veste, entrare in dialogo con alcuni di loro, soprattutto con quelli che prendevano la strada che passa dal mio paese per andare “in montagna”. Ho dormito con loro sotto i covoli, divisi dall’esterno solo da quattro frasche a mo’ di tenda, ho assistito alla mungitura, ho fotografato con la mente e l’occhio la tecnica del colar su (raccogliere il latte nelle piccole mastèle per farlo panàr “fargli fare la panna”), fare il formaggio e il burro, operazione che si differenzia da quella del casaro vero e proprio (il pastore, per esempio, si faceva lui il caglio, filtrava il latte adoperando un’erba speciale che trovava nei boschi; l’“erba da colo” e che andava a raccogliere solo in determinati posti). Quella del Bel Sengio, per esempio, era solo una delle tante coperture di fortuna. Per un pastore di quei tempi diventava logico e conveniente cercare di rifugiarsi in una caverna invece che passare le notti fuori, sotto la falce fredda della luna, all’addiaccio, sotto una coperta, protetti solo da un nissól di sacco, di quelli che si adoperano per raccogliere il fieno. Dentro il cóvolo, per essere più precisi, riparato da un muretto a secco, sopra un giaciglio di frasche e di foglie oppure di graìssi (steccati di pali con il letto di frasche o di erbe che più

comunemente erano conosciute in cimbro come swalce e barbe de béco), egli dormiva, cucinava i cibi, faceva il burro, la ricotta e il formaggio, scuoiava le pelli di qualche bestia che si rompeva l’osso del collo, ospitava l’immancabile e indispensabile asino, il cane, la pecora che doveva partorire, gli agnellini appena nati e ancora in difficoltà di deambulazione, e poi…tutto l’immenso silenzio della notte. Chi volesse farsi un’idea di come erano quei rifugi-covolo dei pastori, oltre al citato Bel Séngio, può farsi una camminata di buon mattino da Giazza, lungo la Val Fraselle, iniziando la ricerca di una di quelle spelonche che danno sul costone meridionale della montagna Terrazzo: troverà lo Schefarkuwal, la “Grotta del pastore”. VITA E…MANSIONI

La fede, la religione, il cibo? Il pastore, a causa della vita “randagia” che conduceva e che condizionava anche la sua esistenza per tutto il corso dell’anno, non familiarizzava più chiaramente con l’idea di Dio, della chiesa, dei Sacramenti, delle messe domenicali, per cui diventò famoso il detto …’na polenta al giorno, ’na messa a l’anno, ’na confession in vita. Erano cristiani, credevano in Dio e nei santi, ma lassù, lontani dal mondo e dalla società, pregavano sì, ma a modo loro. Ecco, a titolo d’esempio, una preghiera che rivolgevano al Si-

gnore attraverso il loro santo: «Mi son Togno / del ben savì che ghe n’ho bisogno / vago in leto col nostro santo predileto / no’ ve digo altro par stavolta / fème che veda el dì n‘altra volta. Ame.» I compiti? Il pastore andava in “montagna” con le sue pecore, ma non poteva farle pascolare dove meglio gli piaceva o gli tornava comodo. Se la “montagna”era decretata per pascolare pecore, nessuna limitazione. Ma se il proprietario della “montagna” ne affittava una parte, quella dove le vacche non potevano andarci per gli eventuali pericoli che presentava, secondo l’antica norma degli Statuti Alberini, il pastore doveva «…ogni terzo dì levare le sue mandrie in Lessinio, excepto il dì de S. Maria et degli Apostoli et il dì de San Zen», era tenuto cioè a recintare uno spazio per rinchiudervi le sue bestie con i moltrini, steccati spostabili realizzati alla buona con pali e piantoni di legno e che ogni pastore si fabbricava sul posto, al momento. I moltrini avevano parecchi compiti: proteggere il gregge dalle incursioni dei lupi; costringerle al mattino a passare entro uno steccato più stretto per poterle mungere un a ad una, prima di lasciarle uscire al pascolo; limitare il deposito degli escrementi, perché come recitava un vecchio proverbio del pastori, «El luame de pégora l’è forte, l’ingrassa assè». Infatti, un’espressione piuttosto sguaiata ratificava il detto«… le pégore le dovarìa magnar in montagna e cagàr in pianura». La difficoltà maggiore per il pastore consisteva nel radunarle nel tardo pomeriggio, per mungerle, quando le pecore erano fuori, lontane dai moltrini; l’esperienza plurisecolare ha insegnato ai pastori un escamotage, si direbbe oggi, per radunarle. Anche le pecore, come i bovini, hanno bisogno di sale per una buona digestione, il sale pastorizio, e ne sono ghiotte. Ecco allora il pastore, nel primo pomeriggio, a distribuire manciate di sale sopra certe rocce affioranti e lisce che ancora oggi si possono vedere qua e là dove sono passati greggi di pecore. Le pecore quando lo avvertivano andavano subito a leccare il sale. E il pastore le radunava facilmente. Giusto il detto: le pégore le va al sale.

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Territorio di Cinzia Inguanta Il castello d’Illasi ha una storia appassionante che dal passato, avvolto da un alone leggendario, giunge al presente segnato dall’impegno del Comune dell’antico Borgo che insieme all’Università di Padova, quella di Verona e l’Archeoclub Italia (sezione di Verona) si è posto come obbiettivo lo studio del maniero e dell’edilizia storica medievale del comune di Illasi. La costruzione del castello è ben anteriore al 971, data del primo documento che cita un castrum illasiense; le prime notizie risalgono a fra’ Giovanni da Schio, che lo fece presidiare da truppe vicentine nel 1233, dopo averlo ricevuto dalla famiglia ghibellina dei Montecchi in seguito alla pace di Paquara. Il castello nel 1243 subisce la sua prima distruzione ad opera di Ezelino. Dopo alterne vicende la fortezza passa sotto il dominio dei Carraresi nel 1390, ma già nel 1439 cade nelle mani del celebre e spietato condottiero di ventura Niccolò Piccinino, agli ordini di Carlo Maria Visconti. Nel corso del 1509 fu donato dai Veneziani a Girolamo Pompei, detto “il Malachino”. Nel 1591 il conte Girolamo II Pompei sposa la contessa Ginevra Serego degli Alighieri, discendente diretta di Dante. Ed è qui che inizia una vicenda di intrighi amorosi e di omicidi che da sempre accompagna la storia del Castello di Illasi. Dal momento che Girolamo II era molto più a suo agio nelle campagne d’armi (magari contro i turchi) che fra le mura domestiche, la giovane sposa Ginevra rimaneva troppo spesso sola «ad amirar le stelle». Le pulsioni d’amore del governatore di Verona, Virginio Orsini, ospite assiduo del feudo d’Illasi, fecero breccia nell’intimo di Ginevra, suggellando una travolgente passione. Malgrado la complicità del servitore di lei, il fedele Gregorio Griffo, il tradimento non passò inosservato, tanto che, nel dicembre 1592, al ritorno da una delle sue missioni, Girolamo fu informato della tresca e abituato a combattere contro ogni sorta di nemico, sistemò la questione in tempi

in VERONA

ILLASI

Una tragica storia d’amore Ginevra, moglie di Girolamo, in segreto ama Virginio, ma la tresca viene scoperta. Passano due secoli e i resti di una donna vengono trovati murati in una parete del maniero

molto brevi. Girolamo chiamò Ginevra ed ella stessa, dando in mano la spada al marito perché la uccidesse, confessò l’infedeltà. Girolamo fece subito chiamare il Griffo per confermare la versione. Questi fu costretto a confessa-

re e venne ucciso a pugnalate: fin sulla strada «si sentì il sassinamento et una voce che disse “o Jesu”... et il Conte lo fece strapegar nel brolo fuori della corte...», così si legge nelle cronache dell’epoca. A questo punto la Serenissima

decise di indagare sulla questione: Ginevra e Girolamo vennero coinvolti in un lungo processo. Ma, visti gli scarsi risultati inquisitori, la confessione fatta da Ginevra stessa al marito, le deposizioni del fratello della contessa, Brunoro Serego, di Francesco Pompei e di altri testimoni con le inevitabili ingerenze politiche, la decisione presa fu quella di mettere una pietra sopra l’intera vicenda. L’amante Virginio Orsini, che in un primo tempo riuscì a fuggire a Roma, fu presto catturato dalle truppe pontificie ed in seguito decapitato per questioni politiche. Invece la giovane Ginevra scomparve misteriosamente dalla scena tre anni dopo l’omicidio del Griffo, poco prima dell’autunno 1595. Nella valle le voci sussurravano che la bella Ginevra fosse morta d’inedia, murata viva in una segreta del castello, perché nessuno l’aveva più vista. Di lei rimaneva solo il profilo di una bambina che le sopravvisse, Faustina, che, crescendo nel ricordo di una madre ufficialmente morta suicida, ne ridisegnava e ricordava le fattezze. Finì monaca nel convento di Santa Caterina da Siena in San Nazzaro di Verona, prendendo il nome di Suor Lucrezia. Agli inizi del 1800, nel corso di alcuni lavori di restauro, venne abbattuta una parete nelle segrete del castello e si scoprì lo scheletro, ancora incatenato, di una giovane donna: per tutti fu la rivelazione di come si fosse effettivamente conclusa la vicenda. Le ossa, il piccolo teschio e le tre catene, di varie lunghezze ad anelli sottili oblunghi e sferici, serrate ai tre lati di un piccolo triangolo di ferro, furono raccolti dal conte Antonio Pompei e custoditi in un’urna di vetro posta in una camera buia dell’ala del palazzo Pompei di Illasi, fatto costruire dal conte Girolamo II, il marito tradito, nel 1615. Studi successivi rivelarono che quei poveri resti non potevano appartenere alla bella Ginevra, ma a qualche altra infelice vissuta in epoca più recente. Mistero che si aggiunge al mistero, chi era l’altra castellana condannata ad una fine così tragica?

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Estate Teatrale 2008

Spettacoli

L’ultimo appuntamento con la prosa shakespeariana sarà, dal 30 luglio al 2 agosto, con “Pericle, principe di Tiro”, mai rappresentata al Teatro Romano. Protagonista sarà Daniele Pecci; la regia è di Paolo Valerio

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Per festeggiare i sessant’anni di storia del suo prestigioso Festival Shakespeariano l’Estate Teatrale Veronese ha dedicato tutto il mese di luglio a William Shakespeare con cinque allestimenti (quattro di prosa e uno di danza) nel millenario Teatro Romano e decine di eventi in altri suggestivi angoli della città A “colorare" di Shakespeare l’intera Verona ci saranno gruppi di teatro di strada, spettacoli di burattini e marionette e acrobatici eventi dal sapore circense. In questa collettiva festa per celebrare i sessant’anni del connubio tra Verona e Stratford on Avon, saranno proposti anche i film shakespeariani di Kenneth Branagh e verrà messa in scena Pericle, principe di Tiro, l’unica commedia del Bardo finora mai rappresentata a Verona. Dopo l’inaugurazione con Amleto, per la regia di Armando Pugliese, con Alessandro Preziosi nei panni del principe di Danimarca, seguirà, dal 9 al 13 luglio, una particolarissima versione del Sogno di una notte di mezza estate con la regia di Giorgio Albertazzi, che sarà anche Puck, e che vedrà in scena quattordici attori e dieci danzatori. Le parti in versi che Shakespeare riserva alla regina e al re delle fate, anziché essere recitate saranno cantate. Nei due principali ruoli canori Serena Autieri (che più volte si è cimentata col musical, da Bulli & pupe a Vacanze romane) e Giampiero Ingrassia, reduce dal successo nella commedia brillante Quattro matrimoni e un funerale (adattamento teatrale del film che lanciò Hugh Grant) e protagonista di numerosi musical: da Grease a Jesus Christ Superstar, a The full monty a Nights on Broadway. Anche per l’Autieri, come per Preziosi, è la “seconda volta” al Teatro Romano. La prima fu nel 2006 accanto a Giorgio Albertazzi e ad Amii Stewart in Shakespeare in jazz, spettacolo che abbinava testi del Bardo a musiche jazz di Duke Ellington. In questo Sogno mezzo cantato

e mezzo recitato, Enrico Brignano sarà il pasticcione Bottom, l’artigiano che per un incantesimo si ritroverà col volto di asino. Molto apprezzato dal pubblico dopo il successo televisivo come Giacinto nella prima serie di Un medico in famiglia, Brignano alterna da anni attività televisiva a cabaret, teatro e cinema. Tra le sue interpretazioni cinematografiche quella recente di Bruno Garrone in SMS - Sotto mentite spoglie di Vincenzo Salemme. «Quello che raccontiamo – spiega Albertazzi – è l'amore di cinque coppie d'amanti nella magia di una notte d'estate con filtri miracolosi, pozioni e inganni. E in mezzo ci sarò anch'io: nei panni di un insolito e malinconico Puck, sempre in vena di trucchi». Sarà poi la volta, dal 23 al 26 luglio, di uno speciale Romeo e Giulietta proposto dal Teatro dell’Elfo con la regia di Ferdinando Bruni. «Mi accorgo – spiega Bruni – che uno dei motivi per cui questa opera riesce a parlarci ogni volta come se fosse la prima è una sua quasi magica capacità di muoversi insieme a noi attraverso le epoche della nostra vita, di sembrare ogni volta diversa, di raccontarci sempre qualcosa di nuovo. Mi accorgo di provare una pena e una gran tenerezza per Giulietta, Romeo, Paride, Tebaldo e Mercuzio, come se la loro storia – conclude Bruni – ci raccontasse la vicenda di tutte le giovani vittime innocenti e inconsapevoli di un potere “adulto” e cinico, stolido e crudele». Tra gli interpreti Nicola Russo (Romeo), Ida Marinelli (la balia), Edoardo Ribatto (Mercuzio), Luca Toracca (frate Lorenzo), Nicola Stravalaci (Montecchi), Fabiano Fantini (il Principe), Silvio Laviano (Paride) mentre Giulietta sarà una sorpresa, perché scelta tra le giovani selezionate nel corso dei provini svoltisi lo scorso aprile a Milano. L’ultimo appuntamento con la prosa shakespeariana sarà, dal 30 luglio al 2 agosto, con Pericle,

principe di Tiro, finora mai rappresentata al Teatro Romano. Protagonista (con la regia di Paolo Valerio) sarà Daniele Pecci, reduce dal successo televisivo dell’Ultimo Padrino dove vestiva i panni di Roberto Sanna e prossimamente ancora sul piccolo schermo nella miniserie Crimini Bianchi. Accanto a Pecci gli attori della Compagnia del Teatro Stabile e i danzatori dell’RBR. Di Antonio Di Pofi le musiche, di Cristiano Fagioli e Cristina Ledri le coreografie, di Chiara Defant i costumi. Per quanto riguarda la danza, il Bayerisches Staatsballett di Monaco di Baviera proporrà dal 17 al 19 luglio al Teatro Romano in prima italiana – in assoluto la prima ripresa dopo il debutto mondiale dell’8 dicembre 2007 a Monaco – La tempesta (Der Sturm) di Jörg Mannes su musiche di Anton Bruckner, Jean Sibelius e Piotr Ilic Ciaikovskij. Tra i protagonisti Lucia Lacarra (dal 2002 prima ballerina della compagnia dopo esserlo stata in quella di Roland Petit e nel San Francisco Ballet), Alen Bottaini, Sévérine Ferrioler, Lukas Slavicky, Olivier Vercoutère e Wlademir Faccioni. Sulle musiche che due grandi compositori ottocenteschi scrissero per La tempesta (la Fantasia op. 18 di Ciaikovskij e le musiche di scena op. 109 di Sibelius) e sulla Sinfonia n. 4 di Bruckner il balletto ripercorre, con il linguaggio coreografico accademico dei giorni nostri, la vicenda shakespeariana dando molta rilevanza al personaggio di Ariel interpretato dalla Lacarra, vincitrice nel 2002 del premio Nijinsky del Monaco Dance Forum quale “migliore ballerina al mondo” e di altri prestigiosi premi tra cui il “Benois de la Danse” (2003) e lo Spanish National Dance Award (2005). Tutti e cinque gli spettacoli, a Verona in prima nazionale assoluta, inizieranno alle ore 21.15. a cura dell’Uffici Stampa dell’Estate Teatrale

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LA DIFFERENZA NEL FARE LE COSE.

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Libri

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Arte FUTURISMO A VERONA

Di Bosso, l’artista dell’aeropittura Il motivo ispiratore è il mondo degli aeroplani e del volo, quale particolare interpretazione del grande mito futurista della macchina e della modernità

Verona conobbe una fioritura intensa dell’arte futurista, soprattutto a partire dalla fondazione del Gruppo Futurista veronese “Umberto Boccioni” nel 1931, ad opera del veronese Renato Righetti, che da quel momento prenderà il nome di Di Bosso

Renato Di Bosso “Paracadutista”

in VERONA

di Alice Castellani Anche se cronologicamente tarda, Verona conobbe una fioritura particolarmente intensa dell’arte futurista, soprattutto a partire dalla fondazione del Gruppo Futurista veronese “Umberto Boccioni” nel 1931, ad opera del veronese Renato Righetti, che da quel momento prenderà il nome di Di Bosso, dal legno che maggiormente prediligeva. Con lui parecchi altri nomi, tra cui Ambrosi, Anselmi, due Aschieri, Scurto, Siviero, Tomba e Verossì. L’anno prima, dopo aver letto il libro che Boccioni aveva scritto nel 1914 Pittura e Scultura Futurista. Dinamismo plastico, Di Bosso aveva realizzato la sua prima opera futurista, intitolata Violinista, una sintesi plastica in legno (segnata dalla suggestione di quel libro) fatta di legno levigato e “aerodinamico”, con l’onda del suono legata alla figura umana in uno slancio ellittico e dinamico a fare di corpo e musica una cosa sola. Diversi sono i manifesti futuristi partoriti dal gruppo veronese, tra cui, nel 1932, il Manifesto futurista per la scenografia del Teatro Lirico all’Aperto all’Arena di Verona. A partire dal 1933 l’artista inizia a dedicarsi a una nuova modalità artistica, denominata aeropittura, che manifesta l’entusiasmo per il volo, il dinamismo e la velocità aeree. Di Bosso, con Alfredo Gauro Am-

brosi e Verossì, è tra i maggiori esponenti del gruppo veronese, aeropittore ma pure aeroscultore e aerosilografo, un artista la cui “conquista dell’aria” si traduce in termini pittorici, plastici e grafici. La sua opera vede la massa plastica come un’anti-materia, come un blocco senza asperità, sporgenze o contrasti. La forma è fluida e riprende spesso e volentieri il tema del volo, tipico dell’aerofuturismo (L’aviatore, 1933; Paracadutista, 1934; Paracadutista su paese, 1935; Pilota stratosferico, 1936) che diviene sintomatico di un tentativo di liberare l’anima dal corpo, o meglio di fare coincidere corpo e anima, e richiama alla mente il mito di Icaro. Oltre al legno tanto amato (Di Bosso proveniva da una famiglia di intagliatori e di artigiani ) l’artista utilizza nei suoi lavori vari materiali insoliti, ad esempio per l’opera del 1934 Paracadutista, un complesso plastico in alluminio, cristallo e specchio che mira a dare alla materia una dimensione di rarefatta levità e sospensione. Spaziando oltre la pittura, Di Bosso realizza anche opere che si avvicinano al design industriale, come le sue “anticravatte” in alluminio, leggerissime, lucenti, durature. E firma nel 1933, con Ignazio Scurto, il Manifesto Futurista sulla cravatta italiana, in cui scrive che “il carattere di un uomo si rivela attraverso la cravatta che porta”. In quanto aerosilografo, aeropittore

e aeroscultore futurista, Di Bosso fu esaltato da Marinetti che in uno scritto intitolato Di Bosso futurista parlava del “lampo di stupore e di gioia” dei visitatori alla Quadriennale del 1943. Del 1941 è il Manifesto dell’aerosilografia e del 1942 il libello Eroi macchine ali contro nature morte da lui firmati. Negli anni ’40 dedica numerose xilografie allo sport (calcio, pugilato, sci), al volo, alle visioni aeree di guerre e bombardamenti, all’avventura coloniale africana sotto il regime fascista e alla sua città di origine, Verona, ripresa ad esempio dall’opera Bombardamento a Piazza delle Erbe a Verona del 1942. Nei suoi paesaggi aerei le mutevoli prospettive del volo sono rese simultaneamente nella loro perenne mobilità, insieme al compenetrarsi dei frammenti panoramici l’uno nell’altro. La sua “Poetica dell’Essenzialità” approda all’aerosilografia, tecnica che consiste in una serie di graffiature parallele o incrociate sul legno, nelle zone di passaggio tra neri e bianchi, segni che si adattano alla plasticità del movimento e producono singolari effetti di chiaroscuro, a rendere i volumi e il moto. Dopo la morte di Marinetti nel ’44, Di Bosso abbandonò l’attività artistica e si occupò di restauro e di antiquariato, tornando a dipingere negli anni ’70: ancora visioni aeree, di cui almeno venti dedicate a Piazza delle Erbe.

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Zibaldone Un moderno Don Chisciotte della Mancia, privo del fidato scudiero, a cui comunque non potrebbe mai promettere nessuna isola... Michele Pomari (Verona, 1965) vive e lavora a Verona. Diplomato Assistente di Comunità infantile, ha lavorato in ambito sociale come educatore di strada e in comunità terapeutiche. Attualmente è collaboratore scolastico presso l’Ufficio Provinciale Scolastico di Verona. Scrive musiche e testi di canzoni. È alla sua prima opera letteraria.

“Eloì, Eloì” Alen Custovic Piccola Biblioteca Oscar Mondadori - 9 euro

Il cavaliere empatico Michele Pomari Achab Edizioni 10 euro

“Eloì, Eloì” è un romanzo che racconta la sofferenza dell’uomo, il suo patimento davanti alle vicende dolorose della vita, ma dalle quali si solleva carico di speranza. Il racconto, ispirato agli accadimenti della guerra bosniaca che ho vissuto personalmente, oscilla tra Mostar, la città in cui sono nato, e Milano, la città in cui vivo. Il libro si snoda attraverso le vicende di due uomini. Da una parte Emir, bosniaco musulmano, privato atrocemente degli affetti, che la guerra trasforma da sereno professore in soldato spietato. Nella fuga dal suo passato, Emir arriva in Italia. Qui incontra Armando, un ex sacerdote costretto a vivere su una sedia a rotelle dopo un brutto incidente. Anche Armando nasconde un passato pieno di ombre, segnato dalle contraddizioni di una vocazione difficile e dall’amore per la moglie e il figlio morti tragicamente. Lentamente, i due uomini aprono i propri cuori, e lì scoprono che, per quanto apparentemente diversi, in realtà sono molto simili, e l’armatura delle loro afflizioni comincia a dissolversi nella consapevolezza di un unico destino che accomuna gli uomini. Così, entrambi claudicanti, appoggiandosi uno sull’altro, i due si incamminano lungo un percorso che li porta a credere nella promessa del perdono e della riconciliazione.

“L’illimitata empatia di Mercurio assumeva spesso la caratteristica di essere, diciamo così, reattiva, cioè induceva in lui un’immediata volontà e disposizione a prestare la sua generosa opera, a dare una mano là dove egli sentiva vi fosse una qualsivoglia necessità”. Il cavaliere è sempre sospeso nel fluttuare tra la realtà e l’immaginario, tra le solitudini e le intense relazioni. In un inconsapevole ruolo di condottiero di estreme battaglie a difesa della natura, egli sviluppa, attraverso un suo tortuoso percorso, anche una severa analisi della società attuale.

Turisti... non per caso Cecilia Tomezzoli Il Segno dei Gabrielli Editori 13 euro Si tratta del primo di due volumi dedicato alle chiese convenzionalmente chiamate “minori”di Verona e provincia, con l’intento di scoprire e valorizzare il patrimonio artistico e religioso di cui il territorio veronese è ricco. Segnalando itinerari sacri nel territorio veronese, Cecilia Tomezzoli compie un immaginario viaggio attraverso epoche, stili e realtà differenti. Di ogni

LA FOTO

chiesa l’autrice non solo ricostruisce l’origine ma assegna anche particolarare importanza al contesto storico e ambientale nel quale ciascun tempio è inserito, quindi alle peculiarità e alla risorse del territorio, alle opere dell’uomo e alle tradizioni.I testi sono corredati da una scheda nella quale è indicata l’ubicazione della chiesa, che tragitto compiere per raggiungerla, gli orari di apertura,le cerimonie religiose e le manifestazioni più rilevanti. Giornalista-pubblicista Cecilia Tomezzoli si è laureata in Lettere all’Università di Padova con una tesi sulla figura del cardinale Agostino Valier, vescovo di Verona dal 1565 al 1606 (Premio Città di Verona). Insegna materie letterarie e latino in un liceo cittadino.

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N° 19/luglio 2008 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona e spedito a domicilio su richiesta

Fatta la legge... trovato l’inganno. E non c’è più il rischio di cadere nel sonno! Alen Custovic

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