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20 - OTTOBRE 2008 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
Primo piano
Dall’io al noi. Un percorso possibile?
In copertina: Piazza Dante colorata a pastello dai madonnari di Mantova. La manifestazione annuale “Arte su piazza” si è tenuta lo scorso 18 ottobre. (Foto Luca Mercury Communications)
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di Aldo Ridolfi «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti»: stupendo e mai parafrasabile verso di Montale che ci inchioda ad un confronto quotidiano. Che scolpisce, meglio di mille sillogismi, la storia, l’età nostra, l’esperienza di tutti. E se lui, Montale, non possedeva «la formula che mondi possa aprirti», certo, anche noi non possiamo far altro che cercarla, per tutta la vita, senza pretese. Cercarla e basta, ma cercarla. Anche quando sembra proprio non esserci, barbaramente tolta di mezzo dalla guerra, dallo scontro, dallo spaesamento, dalla crisi, dal disincanto, dall’utilitarismo, dal consumismo, dallo stordimento, dal tradimento. Cercarla con ogni mezzo perché, se mai lo specchio di questo nostro mondo si esprime in titoli, occhielli e sommari non c’è proprio da stare allegri. Essi affondano il dito in piaghe dolorosissime, talvolta così frequenti da diventare abitudine: «Muore per noia un quindicenne», «Fa una strage e poi si uccide», «Paga e non ti picchiamo più»… Oppure raccontano, le cronache, di un mondo drammaticamente veloce da indurre dolore: «Spaventoso tamponamento», «Uno scenario apocalittico», «Chi è alla guida deve cambiare abitudini»,… O, ancora, gridano di una diffusa volontà antisociale: «Sospetto insider trading», «Si rischia la bancarotta», «Tagli alla spesa sociale»… Forse sono semplicemente delle titolazioni “calde”, così le chiamano, per richiamare, sfruttando l’effetto emotivo delle parole, l’attenzione, per sottolineare con forza che un tumore si sta comunque insinuando nei nostri rapporti sociali. O forse sono davvero lo specchio di una regressione civile malamente nascosta dal bello, dal patinato, dal colorato, dall’elettronico che ovunque incalzano; il riflesso di un cinismo elevato a sistema, coccolato, esibito, persino valore aggiunto nel curriculum. Anche perché vi è tutto un linguaggio bellicoso che si insinua,
apparentemente inoffensivo, nelle pieghe del dire quotidiano: «essere sotto assedio», «mantenere le posizioni», «strappare il consenso», «battaglia elettorale», «essere sul piede di guerra», «tempestare di domande», «armati fino ai denti»,… A conferma di un modo di rapportarsi segnato dal sospetto, dallo scontro, dalla rivalità. Sembra proprio che la convivenza si sia ridotta a valutare la clava più grossa, a verificare le spalle più larghe, ma anche ad assecondare chi ha le argomentazioni più stringenti, come se il sillogismo, l’intelligenza fredda e raffinata, alla fine, dovesse essere il metro di misura di tutti i valori. Difficile muoversi in questo che tutto è tranne protettivo liquido amniotico, difficile confrontarsi, discutere, citare, argomentare, difficile persino sperare. Dove ho sentito parlare di un «Io che non riesce a diventare un Noi»? Chi, da qualche parte, ne ha scritto? Giusto per provare ad intenderci, ma senza convinzione argomentativa, l’Io di Caino e l’Io di Remo; giusto per fare degli esempi, ma senza crederci del tutto, l’Io dell’uomo-scimmia in “2001 Odissea nello spazio” o l’Io di Claudio, zio di Amleto; giusto per muoverci nella storia, ma solo per non guardare dentro noi stessi, l’Io di Nerone o l’Io di Himmler; e così via. E, invece, ma anche qui solo per tracciare contorni mai definitivi, il Noi di Pasteur e di Fleming, di Röntgen e dei Curie, di Gutemberg e di Merghentaler. È che l’ebbrezza dell’Io annienta senza riguardo il Noi, lo eclissa e lo rende effimero e socialmente timoroso; i prodigi dell’Io mortificano il Noi facendogli credere, senza possibilità di appello, della sua inanità. Così, sulle ali di un Io disancorato, l’irriverenza assoluta verso il Noi diventa tarlo sociale, presunzione, doloroso strappo antropologico. Un «Io che non riesce a diventare un noi»? Chi ne ha scritto, da qualche parte?
Così spiega Berdjaev, a riprova che il Noi è dimensione irrinunciabile: «La realtà della società è racchiusa nel “noi”, che non è un’astrazione, ma ha un’esistenza concreta». E Gustavo Zagrebelsky, da un altro osservatorio, navigando tra Montesquieu, Brecht, De Tocqueville e tanti altri, spiega che la virtù repubblicana consiste in «quell’amore per la cosa pubblica che presuppone disponibilità a mettere in comune qualcosa di sé, anzi il meglio di sé: tempo, capacità, risorse materiali». E su un altro versante, ché i versanti sono, grazie a Dio, infiniti, sussurra consigli anche Italo Calvino: «riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio». E’ una danza infinita, cercarne i movimenti diventa perfino divertente; ti porta a spasso nel tempo; ti porta ad incontrare, sulla pagine di libri dimenticati, uomini scomparsi eppure ancora lì a raccontarti della loro visione del mondo. E dunque ti puoi imbattere in Erasmo da Rotterdam: «Sui sentimenti privati prevalga l’interesse pubblico: sebbene, provvedendo a quest’ultimo, si favorisce la propria fortuna»; e, secoli dopo, nel 1840, ma noi non ne facciamo una questione di perfetta cronologia, ecco A. De Tocqueville accarezzarci il pensiero con un ottimismo fantastico assicurandoci che « il graduale progresso dell’uguaglianza è qualcosa di fatale». Come a dire: si voglia o no la direzione è quella, c’è la reale possibilità di usare, nel nostro contratto sociale, un Noi che non sia semplicemente un espediente retorico, un pluralis maiestatis. E infine, per non tediare, un estremo tentativo di accordare l’Io con il Noi: J. Rawls immagina una teoria della giustizia in cui gli individui «non si avvantaggiano gli uni alle spese dell’altro, poiché sono permessi solo vantaggi reciproci». Utopisti, poeti, randagi, nomadi del deserto, abusivi della cultura? Forse, «ma questi randagi, come i nomadi del deserto, sono delle guide che nostrano le piste per attraversarlo» (C. Magris).
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Dibattito DOPO LE POLEMICHE
Comunicazione a Verona: alcune cose da rivedere Riflettori puntati sui costi dell’Ufficio stampa del Comune, ma i problemi non sono tutti lì. Un mondo esposto al rischio dei conflitti di interesse, dove la Procura svolse un’indagine per smascherare la pubblicità occulta
di Giorgio Montolli Il portavoce del Sindaco costerebbe 210 mila euro lordi l’anno. Se fosse così si tratterebbe di una cifra davvero considerevole, ma c’è da dire che questo Bolis sa fare bene il suo lavoro. Prima del suo arrivo a Palazzo Barbieri le conferenze stampa dei consiglieri di minoranza si guadagnavano il loro titolo sui TG della sera e sui quotidiani del giorno dopo, mentre ora la replica della maggioranza è immediata, grazie a un ufficio stampa comunale che a tempo di record riporta le dichiarazioni dell’opposizione all’assessore interessato, il quale entro le 18 fornisce una replica puntuale che i giornalisti delle varie testate non possono ignorare. Cosa cambia? Ad esempio cambia il titolo, che il redattore di turno, se vuole, può impostare sulle dichiarazioni del-
la maggioranza con un vero e proprio effetto boomerang sulla minoranza. Non sempre avviene il contrario, cioè che alle dichiarazioni della maggioranza seguano immediatamente le osservazioni dell’opposizione, tanto che viene da chiedersi se la bravura di chi ha architettato questo modo di procedere aiuti la dialettica democratica o sia piuttosto lesiva del diritto della minoranza di esprimere un parere che abbia il giusto peso sui media. L’opposizione potrebbe risolvere la questione convocando le conferenze stampa non a
L’esperimento de La Cronaca fallì anche perché a sinistra chi avrebbe dovuto riconoscersi nella nuova impresa editoriale ebbe subito chiaro da che parte stare per avere visibilità Enzo Biagi
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mezzogiorno, ma il pomeriggio inoltrato, e fuori dalle mura di Palazzo Barbieri, ma inspiegabilmente non lo fa. Non tutti conoscono la differenza tra un giornalista e un addetto stampa ed è già una conquista che Bolis venga definito correttamente portavoce del Sindaco, che è un’altra cosa ancora. Giornalista, lo dice la parola, è colui che lavora alla realizzazione del giornale con propri pezzi o come redattore, commissionando cioè i servizi ai vari collaboratori, decidendone la colloca-
zione e i titoli, sempre prestando attenzione a fornire un’informazione corretta basata, per quanto possibile, su criteri oggettivi di valutazione. L’addetto stampa lavora per un’azienda pubblica o privata con il compito di mediare i rapporti con i giornalisti, sia fornendo loro dei comunicati stampa, sia aiutandoli nel loro compito, qualora gli fossero richieste precise informazioni. Se l’addetto stampa non può prescindere dagli interessi dell’ente per il quale lavora,il portavoce sicuramente si identifica nettamente con chi assumendolo gli chiede esplicitamente di fargli da alter ego nelle sue dichiarazioni. Il problema è che a pagare il portavoce del Sindaco sono i cittadini e si intuisce quanta potenziale ambiguità stia dietro questa constatazione, soprattutto in tempi in cui la figura di un primo cittadino al di sopra delle parti, anche se espressione di una precisa maggioranza, sembra essere un po’ fuori moda, mentre un bravo portavoce può fare la fortuna del politico di turno. Ci sono vizi antichi nella comunicazione prodotta da questa città che nei primi anni Novanta suscitarono addirittura un’indagine da parte della Procura della Repubblica e che ancora persistono. Ci riferiamo ai servizi giornalisitici, soprattutto via etere, che nulla hanno a che fare con l’informazione e che sembrano piuttosto delle forme di reclame occulta.
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Dibattito LA REPLICA DI BOLIS «Magari prendessi tutti quei soldi» ha dichiarato il portavoce del sindaco Roberto Bolis a Il Mattino di Padova. «210 mila euro è la cifra stanziata a Bilancio, non quella che guadagno io. Ecco qua il CUD del 2007, anno in cui ho lavorato per metà all’ufficio stampa della Giunta regionale e metà a Verona, come portavoce del sindaco Tosi: 115 mila euro lordi, 72 mila netti. Ora in più ho la qualifica di caporedattore, mentre a Venezia ero redattore semplice. Poi ho contrattato le altre voci forfettizzando straordinari, festivi, ecc. come si fa in questi casi».
L’ente pubblico paga cifre di tutto rispetto, decine di migliaia di euro, per pubblicizzare le proprie iniziative. Soldi versati a chi poi durante l’anno dovrà occuparsi di fornire un’informazione obiettiva sull’operato dell’Amministrazione
Ci sono tanti giovani collaboratori malpagati senza i quali in questa città non uscirebbero i giornali. Per questi precari, le cui speranze di assunzione sono quasi inesistenti, il rischio è che non cambi mai nulla
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Eppure precisi regolamenti obbligano gli editori a distinguere l’informazione dalla pubblicità, per garantire che il lavoro svolto dalle redazioni sia al di sopra di ogni interesse economico, quindi assimilabile come verità oggettiva da parte degli utenti che diversamente attiverebbero dei filtri mentali per accettare quanto proposto con le riserve del caso. Basterebbe scrivere da qualche parte “informazione commerciale”, ma questi utili e importanti dettagli non sempre ci sono. Perché? Intanto perché un’informazione passata come notizia o approfondimento gode di maggiore considerazione rispetto alla stessa notizia palesata come inserzione a pagamento; ma dietro questo modo di procedere ci potrebbero anche essere favori fatti a personaggi influenti con lo scopo di raggiungere determinati obiettivi; viene anche il dubbio che una pubblicità camuffata diventi il modo per non fatturare lo spazio messo a disposizione. Insomma, davanti a una pubblicità occulta ogni sospetto diventa legittimo. Ma torniamo al Comune. Il fatto che l’ente pubblico tra le sue finalità abbia anche quella di pubblicizzare le proprie attività complica ulteriormente il quadro. A volte paga a questo fine cifre di tutto rispetto, decine di migliaia di euro versati a chi poi durante l’anno dovrà occuparsi di fornire un’informazione obiettiva sull’operato dell’Amministrazione. Anche in questo caso sarebbe necessaria una maggiore trasparenza. Se infatti è legittimo e auspicabile che l’ente pubblico promuova le propria attività – pensiamo alle iniziative culturali finalizzate alla crescita dei cittadini – diventa però difficile pensare che una televisione, una radio o un giornale riescano a mantenere un certo grado di obiettività nei confronti di chi contribuisce finanziariamente al loro sostentamento (difficile ma non impossibile, grazie ad alcuni bravi giornalisti/e presenti in tutte le redazioni veronesi). Ecco perché conoscere l’origine, la sostanza e i flussi di questi proventi servirebbe agli utenti per dare il giusto peso all’informazione ricevuta e a capire, ad esempio, come mai certi telegiornali si assomigliano sempre più.
Indro Montanelli
Quello del conflitto di interessi è un problema che non riguarda solo le testate ma anche i singoli giornalisti, che inspiegabilmente possono lavorare nelle redazioni dei giornali e al tempo stesso prestare la loro collaborazione per realtà pubbliche o private delle quali poi sono chiamati ad occuparsi come professionisti dell’informazione. L’altra cosa che sicuramente manca a Verona è un quotidiano che tenga testa a L’Arena. Sul finire del secolo scorso si diede vita a La Cronaca di Verona e provincia e quasi tutti conservano un bel ricordo di quel periodo, con i redattori de L’Arena costretti ad intensificare i loro sforzi (i più maligni dicono “costretti a lavorare”) per non bucare le notizie, soprattutto quelle più delicate che rischiano sempre di rimanere impigliate nelle penne, e quelli de La Cronaca galvanizzati dall’idea di contribuire a dar vita a qualcosa di importante per la città. L’esperimento fallì perché i veronesi non si mostrarono maturi per accogliere questa importante novità; perché L’Arena praticò una politica spregiudicata sui prezzi della pubblicità costringendo gli inserzionisti ad abbandonare chi
non aveva ancora conquistato la necessaria autorevolezza e diffusione per poter competere; perché anche chi a sinistra avrebbe dovuto riconoscersi nella nuova impresa editoriale ebbe subito chiaro a chi conveniva continuare a rilasciare interviste per avere visibilità. Tralasciando i free press storici, uno dei quali fatto nascere dalla società editrice de L’Arena proprio per intercettare il mercato pubblicitario in libera uscita, oggi due quotidiani si mettono in luce per come contribuiscono al pluralismo dell’informazione e sono Il Verona e DN-News. Parlando di media a Verona è infine doveroso menzionare i tanti giovani collaboratori malpagati senza i quali in questa città non uscirebbero i giornali. Ricordiamo che durante le fasi di rinnovo del contratto giornalistico la categoria sciopera motivando l’astensione dal lavoro soprattutto con la necessità di tutelare questa fascia poco protetta, le cui speranze di assunzione sono ormai quasi inesistenti. Solo che prima o poi i contratti vengono rinnovati, e si tratta di stipendi comunque buoni, mentre per i giovani precari il rischio è che non cambi nulla. E questo è vergognoso.
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Intervista
GUIDO PAPALIA
Dalla droga alle tangenti «Ma questa città ha tante risorse, a partire dalla solidarietà» «Arrivare qui in Procura è stato un po’ come sentirsi a casa: nei primi mesi di attività, infatti, continuavo a spiccare mandati di cattura per malavitosi originari di Reggio Calabria, Palmi...»
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di Michele Domaschio Quello che colpisce, appena entrati nello studio del procuratore Guido Papalia, è la gentilezza della persona. Si potrebbe pensare ad un uomo asciutto, poco incline a sottrarre tempo al suo lavoro, e il pregiudizio sarebbe avvalorato dalla quantità di indagini che questo magistrato ha condotto e sta tuttora portando avanti: criminalità organizzata, terrorismo, tifo violento, corruzione, fino a più recenti episodi di eversione con inquietanti connotazioni politiche. Invece, ci si trova di fronte ad un gentiluomo,
ed è piacevole constatare che ancora ve ne siano. Con Guido Papalia abbiamo potuto parlare, a tutto campo, di Verona e “veronesità”, di giustizia e società, del passato e del futuro. Un futuro che prevede un cambiamento immediato nella vita del magistrato calabrese, recentemente nominato Procuratore generale nella vicina Brescia. Ma il legame con Verona, dopo quasi trent’anni di permanenza nella nostra città, resta inossidabile, e pare destinato a durare nel tempo.
– Dottor Papalia, lei è arrivato nel 1980 a Verona: qual è stato il primo impatto con questa città? «Sin dal principio è nato subito un ottimo rapporto con questa città. Dal punto di vista professionale, posso dire che all’inizio degli anni ’80 si vivevano momenti difficili: il sequestro Dozier, ad esempio, ha messo in luce come nel Veneto operasse una struttura logistica del movimento brigatista ancor più pericolosa di quanto potessimo ipotizzare. Si sapeva, infatti, che tra Padova e Venezia gravitava un nucleo delle Br, ma nel corso delle indagini emerse che questo colonna era molto organizzata e
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Intervista «Quando nella mia esperienza di magistrato ho trovato giovani che sono andati a ingrossare le fila di gruppi violenti, spesso non mi sono imbattuto in personalità “cattive”. Molto più di frequente sono ragazzi che non hanno trovato un modo migliore per dare sfogo ad una voglia di essere protagonisti che di per sé è positiva, ed è una delle caratteristiche più affascinanti dell’età adolescenziale»
fungeva da supporto anche per operazioni al di fuori della regione. L’altro grande fenomeno criminoso, che a differenza del terrorismo si è protratto nel tempo, è quello legato al traffico di droga. Da questo punto di vista, per il sottoscritto – fresco di nomina a Verona – arrivare qui in Procura è stato un po’ come sentirsi a casa: nei primi mesi di attività, infatti, continuavo a spiccare mandati di cattura per malavitosi originari di Reggio Calabria, Palmi, ecc». – Al di là di questi aspetti legati al suo ruolo istituzionale, come ha visto cambiare Verona in questi 28 anni? «Il mio lavoro assorbe moltissimo del tempo a mia disposizione, e per giunta non ho un temperamento particolarmente “salottiero”. Posso dare, quindi, una testimonianza che trae elementi di giudizio da alcune amicizie personali, mie o dei miei familiari; ebbene, io ho conosciuto e apprezzato in tutti questi anni una città fatta di persone aperte, molto disponibili e con un profondo senso civico e di rispetto per le regole e l’ordine. A questi connotati aggiungo, poi, un particolare tratto, che è quello della solidarietà: penso che poche città abbiano così tanti gruppi, movimenti che si danno da fare per gli altri, sia di ispirazione cattolica, sia di matrice laica. Accanto a questo mondo, a questa straordinaria superficie, si trovano pure delle minoranze, che praticano beceri atteggiamenti di violenza e razzismo. Si tratta, lo sottolineo, di minoranze, ma alla fine vanno a infangare la città, perché purtroppo il bene non fa quasi mai notizia».
tela certo il buon nome della città. L’esempio dell’organismo sano che rigetta un virus è calzante: ma proprio per questo l’organismo dev’essere robusto sin dal principio. Mi spiego meglio: l’azione repressiva, da sola, non può bastare. Essa interviene, infatti, quando il danno si è già verificato. Io vedo un compito cruciale, invece, su questo fronte che è quello degli educatori, cioè di chi vive a stretto contatto, quotidianamente, con i giovani. Penso alla famiglia, la scuola, la parrocchia, i gruppi sportivi e così via: queste realtà dovrebbero essere in grado di cogliere tempestivamente certe manifestazioni di disagio, e proprio grazie alla loro vicinanza dovrebbero svolgere un’azione tollerante per prevenire e arginare i fenomeni di devianza. Tante volte, a rifletterci bene, quando nella mia esperienza di magistrato ho trovato giovani che sono andati a ingrossare le fila di questi gruppi violenti, non mi sono imbattuto in personalità “cattive”: molto più di frequente sono ragazzi che non hanno trovato un modo migliore per dare sfogo ad una voglia di essere protagonisti che di per sé è positiva, ed è una delle caratteristiche più affascinanti dell’età adolescenziale. Ma ci tengo a sottolineare che io faccio il magistrato, e non mi sogno certo di insegnare il mestiere a nessuno, specie quello dell’educatore, che è così arduo e delicato».
– Verona è stata la seconda città d’Italia, dopo Milano, nella poco invidiabile classifica degli indagati per Tangentopoli: a suo giudizio, questo “stile” di gestione della cosa pubblica è stato debellato o continua sotto mentite spoglie? «Le indagini sulla corruzione sono sempre molto difficili. Così era prima del ’92-’93, così è tornata ad essere la situazione dopo quella stagione. Cosa determinò, infatti, tutta quella serie di risultati? Il fatto che, da un lato, fosse saltato il tappo della connivenza, e quindi noi – come magistrati – ci siamo trovati di fronte a molte persone disposte a confessare e collaborare. D’altro canto, posso affermare che le inchieste hanno portato alla luce un fenomeno allora molto diffuso, ma tutto considerato semplice nel suo perverso meccanismo: da un lato gli imprenditori, che pagavano per poter sviluppare le proprie attività, nel mezzo alcune figure di “collettori”, che raccoglievano le tangenti, e infine il ceto politico beneficiario di questi illeciti introiti. Proprio perché il sistema era così consolidato abbiamo potuto aggredirlo in blocco, nel momento in cui sono arrivate le dichiarazioni degli indagati. Ora mi sembra che il fenomeno sia più sporadico, che non alligni più tra la classe politica, ma che forse si sia trasferito ad un livello più “tecnico”, per così dire. Ciò si-
– Come mai la città non riesce a produrre anticorpi sufficienti per espellere queste minoranze? «Faccio una riflessione a monte. In primo luogo, è necessario prendere atto del problema. Ripeto, stiamo parlando di una minoranza, ma questa minoranza esiste. Non vorrei che in nome di un distorto concetto di “veronesità”si finisse per tentare di mettere la testa sotto la sabbia: così non si arriva ad alcun esito positivo, non si tu-
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Intervista «Non vorrei che in nome di un distorto concetto di “veronesità” si finisse per tentare di mettere la testa sotto la sabbia: così non si arriva ad alcun esito positivo, non si tutela certo il buon nome della città»
gnifica che è forse più difficile da estirpare, rispetto al periodo di Tangentopoli, ma che è anche più contenuto come dimensioni. Il che non vuol dire, ovviamente, che dobbiamo abbassare la guardia».
«Per quanto riguarda i rapporti istituzionali con il sindaco Tosi, devo dire che sono ottimi, basati sulla massima correttezza reciproca. Qualsiasi ulteriore valutazione l’ho fatta nelle sedi opportune e mi pare giusto tenere fede a questa linea di condotta»
– Da qualche partito le sono giunte accuse di voler fare politica usando il suo ruolo di magistrato. Come giudica queste affermazioni? Un procuratore della Repubblica può non fare politica attraverso il suo operato? «Il magistrato non deve mai fare politica. Il politico propone dei programmi, si confronta con l’elettorato, ha proprie opinioni e cerca legittimamente il consenso popolare. Il magistrato, invece, opera solo applicando la legge, è servo della legge. E’ vero che le sentenze si pronunciano “in nome del popolo italiano”, ma i giudici sono consapevoli che questo non significa “in nome dell’opinione pubblica”, bensì sulla base delle norme che il Parlamento, espressione dell’elettorato, ha approvato. E sopra tutte queste leggi si trova la Costituzione, che è sempre il faro del nostro operare. Solo così un magistrato svolge degnamente il suo servizio». – E a lei, nessuno ha mai chiesto di lasciare la toga e scendere nell’agone politico, a livello locale o nazionale? «Guardi, probabilmente in tutti questi anni, attraverso il mio lavoro qui in Procura, mi sono
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creato una reputazione tale per cui a nessuno è mai venuto in mente di farmi una richiesta del genere». – Lei ha aperto un fascicolo, nel settembre del 1996, contro alcuni appartenenti alla Lega Nord per “attentato all’integrità dello Stato e della Costituzione”. Come giudica il fatto che ora, nella sua Verona, il primo cittadino sia un esponente di spicco di tale movimento? Una nèmesi storica, un segno dei tempi, o una minaccia rientrata? «Per quanto riguarda i rapporti istituzionali con il sindaco Tosi, devo dire che sono ottimi, basati sulla massima correttezza reciproca. Qualsiasi ulteriore valutazione l’ ho fatta nelle sedi opportune e mi pare giusto tenere fede a questa linea di condotta». – Passando dalla prospettiva locale a quella ampia dello scenario nazionale, in questi anni si sono susseguiti svariati progetti di riforma del sistema “giustizia”: separazione delle carriere tra giudici e pm, eliminazione dell’immunità parlamentare e introduzione di speciali guarintigie per le alte cariche dello Stato, e così via. A suo avviso, da operatore del diritto, cosa non funziona nella giustizia in Italia e quale provvedimento vorrebbe far approvare in tempi rapidi per porvi rimedio? «Mi sembra che si parli molto di tutto ciò che ruota attorno al “sistema giustizia”, ma non si voglia
mettere mano seriamente al problema del funzionamento di questo meccanismo, che è poi ciò che veramente riguarda i cittadini. Per andare sul concreto, a mio avviso si deve semplificare l’iter processuale, così da avere sentenze in tempi ragionevoli: questo obiettivo si può raggiungere, ad esempio, riducendo l’onere della notifica di atti che possono benissimo essere messi a disposizione delle parti, senza doverli materialmente consegnare ogni volta agli interessati. Un altro passo in questa direzione potrebbe essere la riduzione di alcuni gradi di giudizio, così da arrivare più speditamente alle decisioni conclusive. In fondo, questa è una delle esigenze di ogni persona che si rivolge a un giudice, ovvero di vedere riconosciuto il proprio diritto: se questo riconoscimento arriva dopo un tempo irragionevolmente lungo, il diritto è già perduto». – Cosa consiglierebbe ad un giovane che vuole intraprendere la carriera di magistrato? «Gli consiglierei di studiare, molto. E poi di ascoltare, ascoltare e ancora ascoltare. Poi, quando sarà il momento e ne avrà l’onere, di prendere decisioni sempre secondo la legge. Ma soprattutto, direi, ascoltare sempre e tutti. Così potrà svolgere bene un servizio che, a mio avviso, è ancora oggi una delle forme più alte di testimonianza dell’attaccamento ai valori e alla cultura della legalità».
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Attualità ETICA E SANITÀ
Un euro per la vita Tanto costa fare il testamento biologico. L’iniziativa del Collegio notarile di Verona ha fatto scalpore in Italia. Dietro gli slogan ecco i termini esatti della proposta. Il parere del teologo mons. Giancarlo Grandis
«Sull’argomento è stata fatta molta confusione, alcuni hanno interpretato questa iniziativa come una presa di posizione da parte del notariato sul problema dell’eutanasia, o sul problema di coscienza. Noi non entriamo nel merito del dibattito, noi parliamo di leggi, non discutiamo di coscienza»
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di Cinzia Inguanta «In Italia c’ è bisogno di una legge sul testamento biologico». L’affermazione dell’ ex ministro della Salute e oncologo Umberto Veronesi ha rivelato la sua urgenza alla luce della vicenda umana di Eluana Englaro. La situazione potrebbe essere rappresentata da un triangolo in cui l’angolo al vertice è il frastuono dei mass media e della politica mentre gli angoli alla base sono da un lato, il silenzio di tutte quelle persone che come Eluana sono in stato vegetativo permanente, dall’altro il silenzio del legislatore. Una situazione che sembra cristallizzata. Ecco perché il Collegio Notarile di Verona ha lanciato una singolare iniziativa: un euro per fare testamento biologico. Per capire come è nata la proposta abbiamo parlato con il dott. Gabriele Noto, presidente del Collegio dei notai veronesi, che ha subito confermato il
Gabriele Noto, presidente del Collegio notarile di Verona
grande impatto mediatico avuto dall’iniziativa: sia perché si trattava di un tema di attualità, sia per l’effetto dato dalla richiesta di una cifra simbolica. Alla domanda su cosa sia il testamento biologico il dott. Noto ha risposto: «Per prima cosa “testamento biologico” è una terminologia che non ritengo appropriata.
Il testamento, per definizione, è un atto che ha efficacia solo dopo la morte, mentre quello di cui parliamo, in realtà, riguarda la persona ancora in vita. È più corretto, secondo me, parlare di “dichiarazione anticipata di volontà”. La morte viene dichiarata secondo specifici standard medici, prima della morte, però, può verificarsi una situazione per la quale il soggetto perda la capacità di intendere e di volere e venga mantenuto in vita artificialmente. La volontà che può essere raccolta da questo tipo di dichiarazione non è quella che semplicisticamente può essere liquidata con il dire: “staccate le macchine”, ma è incaricare una persona, quindi darle la procura, la delega, di informare il personale medico che il soggetto non è intenzionato, entro certe condizioni, a proseguire con le terapie. Quindi non c’è attività materiale da parte di nessuno ed è necessario un consulto medico per valutare la situazione. È una cosa perfettamente legittima, anche se allo
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Attualità
Le indicazioni della Chiesa «Una volontà espressa anticipatamente, in un contesto astratto e lontano dalla reale situazione, non può essere una volontà vincolante» di Marta Bicego Mons. Giancarlo Grandis è Vicario episcopale per la cultura nella diocesi di Verona. A lui abbiamo chiesto di intervenire sul dibattito del “testamento biologico” e sull’iniziativa del Collegio dei notai di Mons. Giancarlo Grandis Verona. Le prime parole di mons. Grandis sono di difesa per la vita, in generale, come valore assoluto: «La Chiesa sente che la promozione e la difesa della vita in tutte le sue fasi fa parte della sua missione; anzi ne è il centro. Gesù di Nazareth di sé ha detto: “Io sono venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Tutto ciò che attenta la vita non può non preoccupare il cristiano. Fenomeni come l’aborto, la droga, il razzismo, una giustizia del “fai da te”, l’eutanasia, ecc. dicono che la vita è sottostimata. E quando la vita non è apprezzata per il suo valore sommo la società si imbarbarisce, le relazioni diventano sospette, la paura invade i cuori, la solitudine regna. Occorre mettere a punto una grande azione educativa che abbia per oggetto la «cultura della vita umana». La Chiesa non si tirerà certamente indietro». –Un commento all’iniziativa del Collegio notarile di Verona partendo con una domanda provocatoria: la vita umana può valere un euro? «Della vita umana si deve dire non che “ha”valore, ma che “è” il valore. Per usare il vocabolario dello psicanalista freudiano Fromm, la vita fa parte non della categoria dell’“avere”, ma di quella dell’“essere”. L’uomo è persona in forza del proprio essere, non per una valutazione dall’esterno». – Come giudica il fatto che una proposta di questo tipo sia partita in quella che viene spesso etichettata la “cattolica Verona”? «Per quanto ne so, la proposta non è partita da Verona. Il collegio notarile veronese ha solo fatto propria un’iniziativa nazionale. L’espressione “Verona cattolica” poi è un’espressione astratta, spesso utilizzata da alcuni mass-media per denigrare il cattolicesimo della nostra città. Ad essere cattoliche sono persone concrete, che rispondo-
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no in proprio. Generalizzare è sempre un’operazione dozzinale». – Molte persone si sono rivolte al Collegio notarile per avere spiegazioni. Per quale motivo? Bisogno di chiarezza, necessità di riempire il vuoto legislativo che esiste in materia? «Gli eventuali vuoti legislativi non si risolvono sostituendosi al legislatore, ma attraverso un’onesta azione culturale di chiarificazione. Non spetta alla magistratura legiferare. La sentenza sul caso di Eluana Englaro ha fatto scalpore. Proprio per non lasciare vuoti legislativi si è pronunciato anche il Presidente della CEI cardinal Bagnasco auspicando una legislazione da parte del parlamento». – Non c’è il rischio di diffondere il messaggio che rifiutare le cure, anche quelle “salva vita”, è un diritto di ogni individuo? « L’idratazione e la nutrizione non sono classificabili tra le cure terapeutiche, ma tra gli atti di sostentamento vitale a cui ogni persona, anche il malato terminale, ha diritto. La confusione semantica è da taluni usata ad arte per confondere le menti e le coscienze». – Il testamento biologico è un documento che si basa sul principio della volontà anticipata (living will). Ma una persona è veramente in grado di decidere, a priori, quali trattamenti sanitari desidera ricevere o quelli ai quali intende rinunciare? «Sta proprio qui il punto debole di tutta la questione. Una volontà espressa anticipatamente, in un contesto astratto e lontano dalla reale situazione, dovrebbe essere una volontà che vincola totalmente il medico indipendentemente dalla sua valutazione in scienza e coscienza sulla decisione terapeutica da prendere qui e ora? Non riesco proprio a pensare un medico come un semplice esecutore testamentario». – Sul tema persiste una sostanziale confusione ed il dibattito rimane aperto: riconoscere la possibilità di rifiutare l’accanimento terapeutico può essere una soluzione? Qual è in merito l’opinione della Chiesa? «L’accanimento terapeutico è una pratica immorale, contraria alla dignità del morente. La Chiesa ha una posizione equidistante sia dalla eutanasia sia dall’accanimento terapeutico. Crede che la vita umana sia un valore «non negoziabile» e come tale debba essere rispettata dal concepimento alla sua conclusione naturale. Per quanto riguarda invece il termine “opinione”, esso va un po’ stretto alla Chiesa. La Chiesa ha convinzioni, che certamente non intende imporre, ma solo poterle annunciare sulla base di una loro ragionevolezza.
stato attuale della legislazione non risolve il problema perché la decisione finale sulla sospensione o meno della terapia spetta comunque al medico. Il cosiddetto testamento biologico sostanzialmente non è altro che una dichiarazione con la quale il soggetto fa presente una volontà per un momento in cui non sarà più in grado di esprimerla». Proseguendo nel colloquio il presidente del collegio notarile veronese tiene a ribadire come l’iniziativa non sia affatto una novità: «Il progetto è nato nel 2004 su impulso dell’allora ministro Veronesi. Il Consiglio Nazionale dei notai nel 2006 si è fatto carico di studiare la materia e questo tipo di testamento, o meglio, questa dichiarazione poteva essere effettuata già in quello stesso anno. Da allora in Italia ne sono state fatte varie centinaia, non è un’invenzione di quest’estate. È importante sapere e capire che non si tratta di una sottoscrizione su un modulo. Niente a che vedere, ad esempio, con la dichiarazione per l’autorizzazione all’espianto degli organi, che una persona può tenere nel portafoglio. È una dichiarazione che va esaminata molto seriamente con un medico, con un fiduciario ed infine valuta con il notaio. Voglio richiamare l’attenzione sul fatto che il nostro compito si muove esclusivamente su un piano giuridico. Sull’argomento è stata fatta molta confusione, alcuni hanno interpretato questa iniziativa come una presa di posizione da parte del notariato sul problema dell’eutanasia, o sul problema di coscienza. Noi non entriamo nel merito del dibattito, noi parliamo di leggi, non discutiamo di coscienza. Il notaio ha il dovere sociale di ricevere volontà in conformità alla legge e quindi noi ci prestiamo a questo, che è un servizio sociale. In quest’ottica l’onorario simbolico ha un senso». Quando si affrontano temi di forte rilevanza etica, come questo, è molto facile infatti fare confusione. Difficile non lasciarsi trasportare dall’emotività. Dopo l’annuncio dei notai il centralino del Collegio veronese è stato letteralmente preso d’assalto da molti cittadini che desideravano informazioni a riguardo».
Ottobre 2008
Cultura
ECONOMIA
Fare la spesa a km zero Nonostante il caro prezzi è possibile fare una spesa con risparmi di oltre il 30% senza rinunciare alla qualità tagliando le intermediazioni grazie ad idee innovative come l’acquisto del latte alla spina all’orto self service, ma anche la spesa ai mercati generali o direttamente nelle imprese agricole locali
in VERONA
di Cinzia Inguanta Crisi economica, inflazione, sindrome della terza settimana e caro prezzi non sono mostri mitologici, ma realtà con le quali ci confrontiamo quotidianamente. Fanno paura, ma forse, fare qualcosa per combatterle è meno complicato di quanto si possa pensare. E la battaglia può partire dal carrello della spesa. Quando compriamo dei pomodori, delle zucchine o delle mele che cosa paghiamo? Oltre al prodotto paghiamo i troppi passaggi
esistenti nel percorso dal campo alla tavola. Durante questo cammino i prezzi moltiplicano e i centesimi si trasformano in euro. Il prezzo del latte rincara del 241 per cento nel suo tragitto dalla stalla allo scaffale mentre il grano subisce aumenti del 369 per cento nel diventare pasta e addirittura del 1325 per cento se si trasforma in pane (elaborazioni Coldiretti sui dati del servizio Sms consumatori del Ministero delle Politiche Agricole). Nel bancone della frutta e della verdura di un qualsiasi supermer-
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Attualità Il Consiglio Regionale del Veneto è stato il primo ad approvare il disegno di legge sul “Km zero” . La proposta promuove i prodotti agroalimentari regionali, valorizzandone la tipicità e permettendo al consumatore di fare scelte alimentari consapevoli e sostenibili
Un altro primato tutto veneto è quello del pastificio Sgambaro di Castello di Godego in provincia di Treviso, la sua pasta è infatti la prima ad essere realizzata interamente con grano raccolto nelle vicinanze del molino e pastificio Jolly Sgambaro
cato sono esposte mele che arrivano dall’Argentina, pere cilene, uva spagnola, pomodori olandesi, scalogno proveniente dalla Turchia... l’elenco potrebbe continuare fino a farci fare il giro del mondo. Va sottolineato che oggi l’importazione di frutta e verdura non riguarda solo le primizie, ma anche i prodotti di stagione. Facciamo viaggiare la merce da un continente all’altro, ma è sempre necessario? Conviene ancora con il prezzo del petrolio alle stelle? I nostri agricoltori affermano di no: i consumatori ci perdono in qualità e sicurezza e spendono di più perché comprando frutta e verdura d’importazione pagano anche il gasolio. Su 467 euro di spesa media mensile, le famiglie italiane ne possono risparmiare cento comprando prodotti locali. A questo vantaggio monetario va aggiunto il risparmio energetico quantificabile in mille chili di anidride carbonica. Coldiretti ha promosso il progetto a “chilometri zero” per favorire il consumo di prodotti locali e di stagione che non devono percorrere lunghe distanze con mezzi di trasporto inquinanti prima di giungere sulle tavole. Dal Veneto alla Calabria le amministrazioni regionali si sono attivate con l’approvazione quest’estate di leggi a favore dei cibi a “Km 0”, sostenute con la raccolta di firme dalla Coldiretti. Queste leggi sanciscono la preferenza ai prodotti locali nelle mense di scuole, ospedali e caserme, ristoranti e grande distribuzione per combattere i rincari dovuti all’aumento del costo dei tra-
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sporti e diminuire l’impatto sul clima provocato dall’inquinamento dovuto all’emissione di gas serra dei mezzi di trasporto. Il Consiglio Regionale del Veneto è stato il primo tra i consigli regionali ad approvare il disegno di legge sul “Km 0”in luglio di quest’anno. La proposta di legge intende promuovere il patrimonio agroalimentare regionale, valorizzandone la tipicità e permettendo al consumatore di fare scelte alimentari consapevoli e sostenibili. Francesco Ferrante della Segreteria Nazionale di Legambiente commenta l’avvenimento con queste parole: «È un’iniziativa positiva che contribuisce a valorizzare l’agricoltura del territorio veneto, in un momento in cui la campagna è considerata quasi solo uno spazio in attesa di cementificazione e va riconosciuto a Coldiretti il merito di aver proposto una misura che aiuta le aziende a rag-
Mauro Donda, direttore Coldiretti di Verona
giungere direttamente i consumatori, fornendo prodotti freschi senza ulteriori intermediari commerciali». Nella forbice tra prezzi alla produzione e al consumo c’è dunque, per Coldiretti, un sufficiente margine da recuperare per garantire un’adeguata remunerazione agli agricoltori e non aggravare i bilanci delle famiglie: per ogni euro speso nell’acquisto di prodotti alimentari, denuncia l’associazione, 60 centesimi vengono assorbiti dalla distribuzione commerciale, 23 centesimi dall’industria alimentare e solo 17 servono per remunerare il prodotto agricolo: questo significa, in altre parole che il prezzo moltiplica di oltre cinque volte dal passaggio dal campo alla tavola. Nonostante il caro prezzi è dunque possibile fare una spesa a basso costo con risparmi di oltre il 30 per cento senza rinunciare alla qualità tagliando le intermediazioni grazie ad idee innovative per risparmiare che vanno dall’acquisto del latte alla spina all’orto self service, ma anche la spesa ai mercati generali o direttamente nelle imprese agricole. Grazie alla distribuzione alla spina il latte fresco di altissima qualità può essere acquistato a prezzi variabili tra un euro ed un euro e venti (per il biologico), mentre sugli scaffali il latte fresco è venduto attorno a 1,6 euro al litro, riciclando peraltro il contenitore ed eliminando così anche la dispersione di rifiuti. Sono ormai centinaia i distributori di latte fresco e possono essere rintracciati sul sito www.coldiretti.it. Un’altra opportunità di risparmio è data dall’apertura dei mercati all’ingrosso ai privati cittadini, prevista dalla legge in orari determinati, che consente risparmi con acquisti a collo (cassetta o altro) e di usufruire degli eventuali “saldi last-minute”. È anche possibile fare la spesa direttamente nell’orto delle aziende agricole raccogliendo personalmente dal terreno il cespo di insalata, il finocchio e le zucchine che si intendono acquistare per garantirsi cibi sicuri e di qualità ma anche per risparmiare sui costi della raccolta secondo una formula denominata “pick your own” che sta avendo una ra-
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Attualità I prodotti locali si possono trovare anche in alcuni ristoranti e perfino in gelateria come ad esempio nella cittadina gelateria “San Zeno”. La prima gelateria italiana a “Km zero”
pida diffusione negli USA. Per chi vuole acquistare prodotti freschi direttamente dal produttore, senza fare la “fatica” di raccoglierli, sul sito www.campagnamica.it c’è il motore di ricerca “fattorie e cantine” dove è possibile individuare per singolo comune le aziende agricole dove è possibile fare la spesa: sono quasi diecimila indirizzi disponibili. Il dott. Mauro Donda, direttore della Coldiretti di Verona pone l’accento soprattutto sul fattore della qualità del prodotto locale arrivando ad auspicare un’etichetta sempre più completa per frutta e verdura, spiegando che «Sono molte le informazioni che un’etichetta potrebbe fornire al consumatore, non solo la provenienza o i chilometri percorsi, ma anche il grado di maturazione al momento della raccolta, il livello zuccherino. Frutta e verdura che arrivano dall’estero sono raccolte ad un grado di maturazione non superiore al 50%, altrimenti non potrebbero essere conservate a lungo nelle celle frigorifere per viaggiare fino a destinazione. I prodotti locali sono invece raccolti al 90% della maturazione». Una bella differenza vero? «Avere più informazioni» conclude Donda «per il consumatore vuol dire avere maggiore scelta e più consapevolezza riguardo ai prodotti acquistati». Un altro primato tutto veneto è quello del pastificio Sgambaro di Castello di Godego in provincia di Treviso, la sua pasta è infatti la prima ad essere prodotta a “Km 0”,
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realizzata interamente con grano raccolto nelle vicinanze del molino e pastificio Jolly Sgambaro. Il prodotto che è già presente dai mesi scorsi in alcuni market, da ottobre sarà disponibile in oltre 200 punti vendita di tutto il Triveneto. I prodotti locali non sono confinati ai banchi del mercato o del supermercato, ma si possono trovare anche in alcuni ristoranti e perfino in gelateria come ad esempio nella cittadina gelateria “San Zeno”. La prima gelateria italiana a “Km 0”.Accostandosi al suo bancone per ordinare una coppetta o un cono, nelle vaschette dei vari gusti possiamo leggere: pistacchio di Bronte, more della Valpolicella, marroni di San Zeno di montagna, limone di Torri del Benaco, mandorle di Noto e addirittura risalire al nome e indirizzo del produttore. Roberto Bonato, artigiano del gelato usa solo ingredienti
base di qualità, rintracciabili e per scelta si rifornisce dei prodotti direttamente dagli agricoltori: è il caso del latte che proviene dagli allevamenti del Monte Baldo, le uova da un’azienda padovana, addirittura il gelatiere pasticcere della Confartigianato Veneto ha deciso di coltivare i sapori nella sua terra che offre spontaneamente uva spina, lamponi, ribes, fichi, “pomi lazzarini”, ciliegie selvatiche (marasche) e cotogne. Quello che per altri colleghi del sig. Bonato è un limite per lui è una questione di scelta. In gennaio non troverete mai il gelato alla fragola, in compenso adesso potrete assaporare i gusti autunnali come il kaky, il melograno o la zucca. In Veneto sono ormai una ventina i locali che in vetrina hanno l’adesivo “Menu a Km 0”. Uno dei primi a proporre questo tipo di menu è stato l’Osteria Vitanova, nel centro storico di Padova. Qui, leggendo la carta si scopre quanta strada hanno dovuto percorre l’olio del Garda o la zucca di Sottomarina o la gallina di Polverara per giungere sulle tavole del ristorante padovano. La Locanda “Le Salette” a Fumane è un posto speciale dove mangiare non solo per la scelta di usare i prodotti locali, ma anche e forse soprattutto perché il ristorante è gestito da una cooperativa sociale che da lavoro a persone con disabilità psichiche in un contesto di familiarità, dove anche chi soffre trova lo spazio per poter affermare la propria dignità di essere umano. Quasi sempre i ristoranti del circuito “Km 0” riescono ad offrire il loro menu a prezzi contenuti proprio perché scelgono soltanto prodotti locali di stagione riuscendo quindi a coniugare qualità e convenienza. Dobbiamo ricordare che le scelte di noi consumatori sono determinanti e che la grande distribuzione effettua i propri acquisti rispondendo alle nostre richieste. E allora non lasciamoci tentare quando andiamo a fare la spesa, non compriamo le fragole a dicembre anche se hanno aspetto invitante ci guadagnerà il nostro portafoglio e contribuiremo a salvaguardare l’ecosistema del nostro pianeta.
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Cultura STORIA
Così i nazisti salvarono i tesori della Capitolare Mons. Giuseppe Turrini, vicebibliotecario e prefetto della Biblioteca Capitolare, durante l’occupazione di Verona fu amico di Wolfgang Hagemann e Fritz Weigle
Scrive mons. Turrini nei suoi cinque quaderni di annotazioni: «Debbo ora parlare di alcuni amici tedeschi, i quali ebbero una certa parte nelle vicende del mettere al sicuro i nostri libri e nella loro protezione»
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di Claudio Beccalossi La salvaguardia da bombardamenti e razzie del patrimonio storico d’archivio della Biblioteca Capitolare di Verona, durante la Seconda guerra mondiale, fu il risultato anche della collaborazione data da alcuni ufficiali tedeschi a mons. Giuseppe Turrini (Castelrotto 1889 - Verona 1978), vicebibliotecario e prefetto della stessa Biblioteca dal 1922 al 1975. Il religioso annota questi fatti nei cinque quaderni (sopravvissuti tra i suoi diari) inerenti ai periodi 1922-1923, 1924 e, appunto, agli anni del conflitto. Nel capitolo “Quaderni 4 e 5. Provvedimenti per preservare il materiale prezioso della Capitolare – manoscritti, incunaboli, libri di pregio, archivio e oggetti preziosi – dai pericoli della guerra, specialmente dal bombardamento aereo”, mons. Turrini, infatti, sottolinea: «Debbo ora parlare di alcuni amici tedeschi, i quali ebbero una certa parte nelle vicende del mettere al sicuro i nostri libri e nella loro protezione». Cita, soprattutto, il dott. Wolfgang Hagemann che egli già conosceva dal 1933, quando era venuto a Verona per svolgere ricerche per la laurea e, poi, divenuto membro dell’Istituto Storico Germanico, si era stabilito in Italia. Durante la guerra Hagemann era stato nominato, dopo l’8 settembre 1943, Segretario nell’Ufficio per la prote-
zione dei Monumenti, delle Opere d’arte, delle Biblioteche e degli Archivi in Italia. «Il Dott. Hagemann – rievoca mons. Turrini – mi scrisse (dalla sua sede nel Monte Soratte) che intendeva mandarmi le casse dei suoi libri, (che fino a quel momento aveva affidato alla Biblioteca Vaticana), da inviare al rifugio di Erbezzo, dove, per mia informazione, sapeva che io avevo mandato gran parte del materiale Capitolare». Le casse con i libri arrivarono a mons. Turrini solo verso la fine di novembre del ‘43 ed è in questa occasione che egli conobbe un altro studioso, il dott. Otto LehmannBrockhaus, a Verona da poco, «eccellente giovane signore, buono assai, un altro sincero e cordiale amico dell’Italia, con lui pure si stabilirono in breve rapporti di vera amicizia, che avrebbe avuto poi da parte sua, dimostrazioni concrete singolari, specialmente in ordine alla Capitolare». Grazie al dott. Lehmann-Brockhaus,mons. Turrini fu in grado di mettere in salvo un importante e prezioso quantitativo di documenti. «Mi disse subito, che in suo giro di ispezione aveva trovato, non molto lontano dalla città, un archivio privato di non comune importanza, per numero e antichità di documenti, anche in pergamena, il quale, relegato nella soffitta di una villa padronale, occupata ora interamente da truppe
germaniche, e precisamente da un reparto automobilisti, correva pericolo gravissimo di manomissioni e distruzione. Mi chiedeva quindi se (mancando il padrone della villa, che si trovava a Firenze, e altri non essendovi incaricati dal padrone stesso) fosse possibile ritirare di là il prezioso materiale, e salvarlo portandolo magari in Capitolare. Accettai immediatamente la proposta, e si convenne, che due o tre giorni dopo, si sarebbe andati insieme sul sito, per vedere e concludere quel che si doveva fare». (…) «La villa, mi disse il Lehmann-Brockhaus, era vicina a S. Pietro Incariano, per cui compresi che si doveva trattare di Squarano: villa e archivio Marchesi Fumanelli.Andammo per il sopraluogo il g. 7 dicembre. Ci accolse molto gentilmente il Comandante del reparto, un giovanissimo ufficiale germanico, architetto, per suoi studi, e amico del Dott. Lehmann-Brockhaus, col quale ci intendemmo subito, e dal quale si ebbe ogni assicurazione di aiuto e di cooperazione per ogni bisogno nella faccenda. Salimmo in soffitta, alla visita dell’Archivio. Uno stanzone senza soffittatura, proprio sotto le tegole, con pareti alte, alle quali erano addossati alcuni scaffali-armadi, pieni di grosse buste, di registri, con grandi mazzi di rotoli, buttati là sulle cimase degli scaffali stessi, con mucchi di carte qua e là sul pavimento, sul quale spiccava-
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Cultura
Ricostruzione della Biblioteca Capitolare dopo il bombardamento del 4 gennaio 1945
Altri episodi che vedono protagonista mons. Turrini sono stati raccolti nel volume “Diari” a cura di Sara Agostini, stampato dalla Casa editrice Mazziana
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no due casse, di cui una assai bella, piene a loro volta di Registri, di diplomi, di altri rotoli sciolti. Particolare attenzione attirava un enorme cassone, pieno rigurgitante di fasci di carte,a massa,in parte sbriciolate, dal quale, accostandosi, esalava un tanfo nauseabondo di topo». (…) «L’esame così a occhio ed a caso, di documenti, buste e carte, bastò a far comprendere trattarsi di un archivio multiplo, di tre o quattro famiglie nobiliari: Fumanelli, Buri, Guarienti, Spolverini; archivio di considerevole entità ed importanza (circa 2500 pergamene) per quanto non anteriori, che per qualche eccezione, al sec. XIV, oltre un centinaio di buste, molti fasci di carte, di mappe, oltre Registri non pochi, e qualche manoscritto. Si rimase d’accordo, che entro i prossimi giorni, offrendosi l’opportunità, si sarebbe fatto il trasporto delle sole pergamene, a
mezzo di un camion del Reparto, alla Capitolare; si sarebbe redatto relativo documento di consegna e di accettazione, onde poter a suo tempo mostrare al padrone i termini e la giustificazione del mio e nostro operato; per il resto, intanto, non si poteva provvedere. Ringraziai l’ufficiale ed il Dott. Lehmann-Brockhaus, per il loro benevolo e amorevole interessamento per quella roba italiana». Il prefetto della Biblioteca Capitolare, quindi, puntualizza che il Marchesino Fumanelli, rientrato successivamente in città da Firenze uno o due giorni dopo, apprezzò l’iniziativa di salvaguardia e chiese che anche il rimanente dell’archivio venisse messo al sicuro nello stesso luogo. E così avvenne nei giorni successivi, grazie a camions dell’esercito occupante. Questo ed altri episodi sono stati raccolti nel volume “Diari” a cura di Sara Agostini (Casa editrice
Mazziana, 1998) dove, a pag. 289, si viene a sapere d’un altro militare tedesco della categoria dei… buoni. Già dall’ottobre 1943 si era stabilito a Verona un ufficiale, il dott. Fritz Weigle (studioso medievalista che, durante la guerra, era un ufficiale addetto alla protezione dei monumenti e delle opere d’arte) che il prelato aveva conosciuto prima degli eventi bellici e che definisce «mio conoscente stimato, anzi amico affezionato e caro» nonostante le perplessità alla scoperta che «il suo ufficio era nientemeno che nella S.S. (propriamente, se non erro, S.D.), organo importante nel reparto “polizia” nel famigerato e funesto palazzo delle Assicurazioni, di fronte a S. Luca, ove si erano intanate le belve più feroci, e dove, nei sotterranei languivano nel terrore e nelle torture, molti disgraziati arrestati politici, in attesa delle più gravi condanne, perfino della morte».
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Cultura
Mons. Turrini tra Wolfgang Hagemann (a sinistra) e Bernard M. Peebles (a destra) sulle macerie della Biblioteca Capitolare. In basso banconota coniata dai tedeschi durante l’occupazione
Tutt’altro esito avranno invece le febbrili trattative che le autorità cittadine e il vescovo ebbero con lo stesso Hagemann, rappresentante del Quartier generale tedesco, al fine di evitare la distruzione dei ponti sull’Adige
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Il loro primo incontro in tempo di guerra, però, avvenuto solo nel marzo del ’44, dissolse ogni dubbio e timore «Egli era sempre stato, ed era ancora, ed è poi sempre rimasto uno dei più sinceri e risoluti avversari del nazismo. A quell’ufficio egli era stato assegnato per forza, proprio dall’Ottobre ’43, improvvisamente, inaspettatamente, perché sapevano che egli conosceva assai bene l’italiano e l’Italia, e un po’ anche gli italiani. Quell’ufficio egli tenne, facendo agli italiani, e in particolar modo agli amici veronesi, il massimo bene che gli era possibile, impedendo sempre, per quanto potè, ingiustizie e crudeltà, e facendo pur sempre i più grandi e larghi favori che erano in sua facoltà». Mons. Turrini individuò nel dott. Weigle la persona adatta per aiutarlo a salvare “ufficialmente” quanto della Capitolare teneva nascosto nella canonica di Erbezzo. «(…) aveva fra gli altri di semplice polizia, un incarico che faceva proprio per me: egli doveva occuparsi
anche della vigilanza e della protezione degli Archivi, biblioteche e patrimonio artistico. (…) … particolarmente in previsione di pericolo di requisizione, od occupazione della canonica, totale o parziale, da parte di soldataglia tedesca o fascista, oppure anche da parte di gente sfollata, (…)». «(…) … Il g. 24 Maggio (’44), sopra un’auto delle S.S. guidata da un veronese, salimmo ad Erbezzo». Il viaggio non fu privo di apprensioni per mons. Turrini il quale, vedendo un minaccioso mitra col caricatore innestato sul sedile posteriore dell’auto, chiese spiegazioni: «Mah! Non si sa mai.» rispose l’ufficiale. «Nella zona ci possiamo anche incontrare con partigiani». «No, no» soggiunsi io sempre sorridente: «Ho già mandato a dire che si tratta di amici». Tutto andò secondo il piano e la canonica di Erbezzo, come aveva proposto il prefetto della Capitolare, venne “dichiarata imperquisibile, irrequisibile, inoccupabile”.
Con una dichiarazione appesa ben in vista all’entrata… «(…) Essendo il documento redatto in tedesco, si convenne pertanto di aggiungervi in calce ben visibili le parole italiane corrispondenti al tenore, e le scrissi io stesso: Proibita occupazione e requisizione». Nell’Appendice al racconto dei fatti di Erbezzo, mons. Turrini, nelle sue memorie, menziona un ennesimo personaggio tedesco, la dott.ssa Margaret Ehlers, segretaria dell’Istituto Storico Germanico di Roma che «era stata incaricata dal Dott. Hagemann di portarmi un suo biglietto, spiegandone e completandone alla meglio il contenuto a voce. E il contenuto, in forma piuttosto vaga e velata mi suggeriva di ritirare da Erbezzo il materiale ivi ricoverato e di mandarlo possibilmente a Venezia presso la Marciana». Tutt’altro esito, invece, ebbero le febbrili trattative che le autorità cittadine e il vescovo, mons. Girolamo Cardinale, intavolarono con lo stesso dott. Hagemann, rappresentante del Quartier generale tedesco, per evitare la distruzione dei ponti sull’Adige.Alla fine, nonostante le rassicurazioni dei tedeschi, solo il ponte della Ferrovia si salvò, in qualche maniera, dall’esplosione delle cariche esplosive fatte brillare in rapida successione la sera del 25 aprile 1945. Alla faccia delle (pseudo) rassicuranti intenzioni dei tedeschi, più o meno nazisti, e del loro alone… buonista, così forse troppo ingenuamente interpretato da mons. Giuseppe Turrini e riferito nei suoi Diari.
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RIFLESSIONI
Noi e gli altri di Rino A. Breoni Abate in San Zeno A tutti noi sta a cuore il decoro della nostra città, degli spazi in cui ci muoviamo al di fuori della nostra casa. Fa piacere l’ordine, la pulizia, la percezione che clima e ambiente favoriscono accoglienza e tranquillità. Negli anni in cui il ministero mi legava ad una parrocchia centralissima, anche nelle più diverse stagioni, era mia consuetudine camminare da solo o con qualche persona amica, per le strade del centro, nella più grande piazza Brà, in quella delle Erbe e in quell’autentico salotto che è piazza Dante. L’animazione, anche nelle serate autunnali, consentiva di procedere conversando piacevolmente. Nelle serate invernali, rigore e nebbia talvolta rendevano rari gli incontri ma egualmente la città esercitava un suo fascino. Molte cose da allora, a distanza di dieci anni, sono cambiate: un turismo di massa ha reso trafficate le nostre strade anche in ore tarde, fenomeni legati all’immigrazione rendono più frequente l’incontro con etnie diverse, gli spazi non sempre sono utilizzati nel rispetto della loro evidente destinazione e questo non può creare che confusione, togliendo al normalissimo pedone la gioia di passeggiare nel centro storico. Tuttavia l’infittirsi delle presenze non è il solo motivo di confusione. C’è anche di mezzo il comportamento delle persone stesse, la loro disinvoltura che induce a credere che tutto si possa, ignorando la presenza di altri, ignorando il criterio dell’opportuno ed inopportuno, del conveniente e sconveniente. È un fenomeno facilmente rilevabile anche in ambienti chiusi, quali un ristorante, una pizzeria, dove un’allegra brigata scherza e ride con una tonalità di voce da impedire ad altri la normale comunicazione verbale. È un fenomeno che si impone anche per la sguaiata invasione di percorsi pedonali da parte di biciclette ed altro. È un fenomeno che prevede soste di ristoro, le cui tracce sono lasciate poi agli operatori ecologici. Che la pubblica amministrazione si preoccupi di intervenire a reprimere quanto toglie vivibilità, e vivibilità decorosa, alla città non può che far piacere anche se i fenomeni cui ho fatto cenno, se-
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condo il mio modo di vedere, non costituiscono un pericolo per la sicurezza personale e neppure comunitaria, se per sicurezza intendiamo incolumità. Le misure precauzionali vanno pure attuate secondo proporzioni che lascino all’infrazione la sua verità e all’intervento la sua necessità. È abbastanza evidente che se da parte della forza pubblica la qualità dell’intervento può e deve essere regolata da precise indicazioni, da parte di chi si rende colpevole di infrazione non è possibile pretendere l’identica consapevolezza. Superficialità e noncuranza, pretenziosità e disinvoltura, arroganza e scioltezza paiono caratterizzare il comportamento di troppe persone al punto di diventare elemento di disturbo. Non pare che questo comportamento sia attributo prevalentemente giovanile. Vi si associa l’intollerante rifiuto di una qualsiasi osservazione da parte di chi, altrettanto libero cittadino, osasse sottolineare l’inopportunità di un certo modo di porsi. Alla mia abitazione si accede dallo splendido chiostro della Basilica. Stavo rientrando in casa e davanti a me una coppia si stava effondendo in un appassionato bacio, il cui protrarsi sarà stato certamente proporzionato all’immediatezza del desiderio. Nessuna preoccupazione per altri visitatori. Al mio discreto richiamo che ricordava essere il chiostro un luogo sacro, il volto stupito di lui mi risponde «Anche l’amore è sacro». I latini direbbero «ne verbum quidem!»: non una parola di più. Non era il caso di replicare. Del resto che cosa replicare? È a questo punto che la problematica supera la casistica e chiama in causa la persona stessa che si rende complice di queste scelte. È il deteriorarsi delle coordinate che dovrebbero presiedere alla relazione tra persona e persona, tra persona e gruppo umano, tra gruppo umano e più ampio spazio sociale. Se, come a me pare, a dominare è il diffuso individualismo non è difficile comprendere come certi atteggiamenti siano scontati, come non si sospetti neppure che il proprio comportamento risulti elemento di disturbo quando non offensivo dell’altrui sensibilità. Nessuno di noi è vaccinato da egoismo individualistico. Ciascuno di noi fatica ad accettare limitazioni alla pro-
pria espressività. Comporre alcuni tratti della nostra individualità espressiva con l’espressività ed il diritto altrui non è per nulla facile. Volendo onestamente chiedersi che cosa sia successo e perché oggi ci si trovi davanti a situazioni sociali come quelle che ho cercato di richiamare, credo sia d’obbligo, anche con il rischio di ristagnare in un luogo comune, riconoscere che un grande contributo al deteriorarsi delle relazioni umane è venuto e viene dai mass media. È di questi ultimi tempi l’allarme di un regista che denuncia la sparizione, nella nostra società, dell’opinione pubblica. Ho raccolto l’allarme come eco di quanto, decenni or sono, Pier Paolo Pasolini andava dicendo della televisione denunciandola come colpevole di genocidio. La valanga di stimoli che il piccolo schermo ci offre, viene accolta acriticamente e quanto viene offerto nell’immagine, diventa modello comportamentale. Frantumata la relazione tra persona e persona, si può interrompere una relazione affettiva con un messaggino, si può fissare nell’immagine la violenza contro un diversamente abile, si può minacciare una persona e altro, senza preoccuparsi di incontrarla per esporre le proprie presunte ragioni accettandone le reazioni. Sono molto scettico sui risultati di interventi repressivi, talvolta purtroppo necessari, e rimango convinto che si debba operare sulla persona. È un ritornello che i miei venticinque lettori saranno ormai stanchi di sentire. Dall’allievo non ci si difende se non mantenendo intelligentemente le distanze ed assumendo autorevolezza attraverso una rigorosa professionalità. Al giovane va insegnato e chiesto, con una esemplarità propositiva, la qualità della relazione. Va riletto e meditato il dialogo tra la volpe ed il piccolo principe nell’opera omonima: ci si accosta all’altro per gradi, sospettando di accostare un mondo diverso dal proprio, ricco di novità e bisognoso di rispetto. Ricostruire o avviare nuove relazioni è probabilmente questione di metodo e di contenuto: una questione che chiama in causa tutti con un serio processo di introflessione e di disponibilità. Nessuno vi può sfuggire.
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Cultura ANNIVERSARIO
Cesare Lombroso Nacque a Verona nel 1835 e nel 2009 ricorre il centenario dalla morte. Il suo nome è legato all’antropologia criminale di cui fu uno dei fondatori
L’idea lombrosiana trova il suo compimento nella dottrina dell’atavismo: il delinquente è un pazzo atavico che riproduce gli istinti dei suoi progenitori, le cui caratteristiche possono essere ricondotte ai primitivi uomini carnivori dominati dagli istinti e pertanto, secondo le categorie del tempo, selvaggi
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di Alessandro Norsa Da sempre una delle necessità primarie dell’uomo è stata quella di comprendere il carattere ed il temperamento dei propri simili. C’è stato anche chi di questa necessità ha fatto virtù, dando vita a dei sistemi strutturati di teorie sulle personalità. Ippocrate e Galeno furono i primi; a questi durante il corso dei secoli se ne aggiunsero molti altri, fino ad arrivare a Freud e Jung. Chi cercò alla fine dell’800 di unire queste teorie traendo ispirazione dalle teorie del celebre fisiognomista del XVIII Sec. J. Kaspar Lavater e del fondatore della frenologia Franz Joseph Gall, fu Cesare Lombroso di cui ricorre nel 2009 il centenario dalla morte. Ezechia Marco Lombroso, Cesare di soprannome, nacque a Verona nel 1835 in una famiglia agiata. Terminate le elementari, venne iscritto alla scuola di grammatica e poi a quella di umanità. Dal 1850 venne istruito privatamente; in quel periodo si trovò coinvolto nella vita sociale dell’alta borghesia nella Società filarmonica veronese. Il periodo che lega Lombroso alla nostra città sono gli anni precedenti al 1852, quando si iscrisse alla Facoltà di Medicina a Pavia.
La sua formazione ed il suo operato lo posero ai vertici del pensiero scientifico del tempo: incaricato di un corso sulle malattie mentali all’università di Pavia nel 1862, divenne in seguito (1871) direttore dell’ospedale psichiatrico di Pesaro e professore di igiene pubblica e medicina legale all’università di Torino (1876), di psichiatria (1896) e infine di antropologia criminale (1905). Il suo nome resta legato soprattutto all’antropologia criminale, di cui è ritenuto il fondatore, insieme con la “Scuola positiva del diritto penale”. La teoria positivistica sul crimine di Lombroso sostiene che i criminali non delinquono per atto cosciente e libero di volontà malvagia, ma perché hanno tendenze malvagie che ripetono la loro origine da un’organizzazione fisica e psichica diversa dall’uomo normale. L’idea lombrosiana trova il suo compimento nella dottrina dell’“atavismo”: il delinquente è un “pazzo atavico” che riproduce gli istinti dei suoi progenitori, le cui caratteristiche possono essere ricondotte ai primitivi uomini carnivori dominati dagli istinti e pertanto,secondo le categorie del tempo,“selvaggi”. A Torino lo studio di Lombroso era
presso la Facoltà di Medicina Legale,dove effettuò centinaia di autopsie sui corpi di criminali, prostitute e folli. La teoria lombrosiana si avvalse quindi anche di prove empiriche, come investigazioni craniometriche e misurazioni di volti e piedi di delinquenti, che il Lombroso cercò di catalogare in modo da costruirne una validità scientifica. Dopo aver esaminato centinaia di crani, egli riteneva che il carattere degenerativo più frequente negli alienati e nei delinquenti era una caratteristica anatomica del cranio a livello del foro occipitale che ancor oggi viene chiamata fossetta di Lombroso.Al di là di questa caratteristica, il risultato comparativo dei dati, confermava l’ipotesi che nella categoria del criminale convergessero solamente quegli individui caratterizzati da un elevato numero di sintomi di “degenerazione”, e che queste particolarità non dovessero essere inferiori a cinque. Nella sua opera principale, “L’Uomo Delinquente”, Lombroso distinse diversi tipi di criminali: il delinquente nato, nel quale si assommano le ricordate anomalie regressive e per il quale la criminalità è insita nella propria natura, e che è considerato un soggetto non recuperabile, da sopprimere o da rinchiudere, in nome del diritto della difesa della società. Il criminale epilettico; il delinquente per impeto passionale (forza irresistibile); il delinquente pazzo (criminale pazzo e debole di mente), inclusi gli individui di mentalità limitata (mattoidi) e il delinquente occasionale portato al delitto da fattori causali diversi da quelli del delinquente nato. Il
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Cultura
Cesare Lombroso e, sopra, il monumento a lui dedicato che si trova vicino a Ponte Garibaldi (riva San Giorgio). Nella pagina accanto un disegno dell’illustre antropologo
in VERONA
Lombroso teorizzò che su questo ultimo nutrito gruppo di delinquenti dovesse essere svolta un’opera di rieducazione in istituti carcerari ben organizzati. Lombroso divise il gruppo dei delinquenti occasionali in tre sottogruppi: gli pseudo-criminali, cioè individui che sono imputabili di un reato commesso per cause accidentali o per autodifesa; i criminaloidi, cioè individui affetti da variante meno severa del criminale nato e, infine, i delinquenti abituali, come ad esempio gli appartenenti alle bande criminali. Tra i fattori che concorrono alla determinazione dell’azione delittuosa considerò: i fattori meteorici, climatici e geologici, la razza, il tipo di alimentazione, l’alcoolismo, le condizioni culturali ed economiche, la religione, l’età ed il sesso. In questo ultimo caso deve essere anche ricordato come Lombroso considerasse la prostituzione come espressione della crimi-
nalità femminile. La conclusione generale dell’investigazione, la cui include anche un certo numero di caratteristiche sociologiche, è che i criminali, considerati nella loro totalità, sono un gruppo di individui inferiori sociologicamente e biologicamente la quale inferiorità fisica è soprattutto di natura ereditaria. Alla sua morte, avvenuta a Torino nel 1909, Lombroso volle che la sua salma fosse consegnata al Museo di Antropologia Criminale di Torino che aveva precedentemente fondato, così che il genero, divenuto nel frattempo suo assistente, vi potesse effettuare una regolare autopsia, esattamente come aveva sempre fatto lui sui corpi che gli venivano affidati. Lombroso scrisse: Genio e follia (1864) Altri scritti di Lombroso furono La medicina legale dell’alienazione (1873); L’uomo delinquente (1876); L’antisemitismo e le scienze moderne (1894); L’uomo di
genio (1882); La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (1893); Grafologia (1895); Il crimine, causa e rimedi (1889); Sintesi dei lavori precedenti (1899). (Alessandro Norsa ha continuato le ricerche sulla fisiognomica – lo studio delle caratteristiche delle forme del corpo e delle loro associazioni con i tratti del temperamento degli individui – e le diverse tipologie di personalità, cercando di superare una concezione che un tempo veniva ritenuta scientifica, ma che oggi non lo potrebbe più essere, pubblicando nel 2004 un libro dal titolo: Conosciamoci meglio: un percorso guidato alla conoscenza delle personalità. Dalle ricerche è comunque emersa in una delle tipologie una predisposizione ad un atteggiamento tendenzialmente più iroso degli altri, che se messo in certe condizioni è più esposto alla possibilità di agiti deliquenziali o paradeliquenziali).
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Cultura di Luigi Ruggero Cataldi L’86ª stagione lirica in Arena si è conclusa senza che alcuno abbia rammentato che proprio quest’anno si commemora il 150º anniversario della morte di un grande musicista, figlio di Verona: Jacopo Foroni, deceduto nel fiore degli anni in terra straniera, dove teneva alta la tradizione dell’arte italiana e il nome della nostra città. Foroni era nato a Valeggio sul Mincio il 26 giugno 1825, in una modesta casetta, dove apprese dal padre Domenico (17961853), organista del paese, le prime istruzioni sulla musica. A quindici anni era già un perfetto pianista: contemporaneamente agli studi classici si dedicava, per tendenza naturale, alle lingue che coltivò anche durante gli studi universitari. Munito di vasta e profonda cultura e dando segni inequivocabili di non comune impegno con alcune composizioni di musica sacra, a diciannove anni si si iscrisse al Conservatorio di MIlano per perfezionarsi negli studi dell’armonia e del contrappunto. Nel 1848 Jacopo vi fece ritorno per rappresentare la sua prima opera “Margherita”, composta per il soprano Sannazzaro. Vivamente applaudita venne replicata per diciassette volte; la diciottesima recita non ebbe luogoper il concomitante scoppio dei moti insurrezionali delle Cinque Giornate, subito dopo le quali compose un inno per la cacciata degli invasori e, in nome della libertà d’Italia, ancora un altro dedicato a Pio IX, su parole del veronese Merighi. Non aveva ancora compiuto venticinque anni quando, nel 1849, veniva chiamato a dirigere il Teatro Reale di Stoccolma, all’epoca centro musicale assai importante, dove fu accolto con diffidenza ed invidia dai professori d’orchestra che mal sopportavano la direzione del giovane italiano. Ma quando prese in mano la bacchetta con fiera sicurezza, vigore e fermezza, oltre che competenza, tutti subirono il fascino della sua personalità sentendosi trascinati dall’entusiasmo quando dirigeva l’Eroica di Beethoven, il
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ANNIVERSARIO
Jacopo Foroni Nato a Valeggio nel 1825 venne chiamato a dirigere il Teatro Reale di Stoccolma, la città dove morì nel 1858 e dove è tuttora sepolto
Jacopo Foroni e la sua tomba al cimitero di Stoccolma
compositore che egli prediligeva. Baciato dal genio adava sempre più guadagnando indipendenza morale, elevandosi con l’orifginalità dell’individualità latina.
Fu sepolto, con tutti gli onori, nel cimitero della capitale svedese e sulla sua tomba il re Oscar I fece erigere un monumento in marmo bianco con piedistallo in granito, con la seguente epigrafe: “A Jacopo Foroni, come artista inarriivabile, come forestiero - compianto”
A ventisei anni compose la celebre “Sinfonia in do minore” per grande orchestra, lavoro che fece il giro del mondo e diretta molto spesso in memorabili concerti sinfonici da maestri veronesi come Pedrotti, Faccio, Mancinelli, e Mascheroni. Nel 1850 rappresentò a Stoccolma la sua seconda opera “Cristina di Svezia”, che dedicò al re. Di lì a poco il sovrano lo investì dell’Ordine dei Cavalieri di Vasa nominandolo anche Maestro di corte della Cappella reale. Nel 1851 ultimò l’opera “Spartaco” su libretto del poeta Giovanni Petruzzini, presentandosi poi in Italia, invitato dall’impresa del Teatro della Canobbiana di Milano, per metterla in scena. Ma la polizia austriaca, forse impaurita
dalla figura del coraggioso schiavo Numida, pose il veto alla rappresentazione. Dopo laboriose trattative si decise che l’opera avrebbe mutato il nome in quello de “I Gladiatori”, con versi e alcune situazioni sceniche mutate, o addirittura soppresse. L’opera ottenne ugualmente un grande successo e fu replicata per ben quindici volte. Ormai ad un passo dalla gloria artistica, nella freschezza dei suoi trentatre anni, lontano dalla sua Italia e dalla famiglia, un violento attacco di colera lo fulminò a Stoccolma nel 1858. Fu sepolto, con tutti gli onori, nel cimitero della capitale svedese e sulla sua tomba il re Oscar I fece erigere un monumento in marmo bianco con piedistallo in granito, con la seguente epigrafe: “A Jacopo Foroni, come artista - inarriivabile, come forestiero - compianto”. A Verona Jacopo Foroni si esibì come pianista al Teatro Filarmonico il 7 marzo 1841, con una grande fantasia di Thalberg e poi la sera del 18 luglio 1846, in occasione di un concerto vocale strumentale che vide la partecipazione del celebre contrabassista Bottesini, del violinista Bianchi e del tenore Galletti. Nel dicembre 1845 il suo nome figurava sui cartelloni delle stagioni d’opera del Filarmonico, come Maestro di cembalo. Nel 1852 nello stesso teatro venne rappresentata l’opera “I Gladiatori”. Dal 28 novembre al 7 dicembre 1880 l’opera Margherita riscosse un lusinghiero successo. Nel 1882 il Maestro Franco Faccio, ultimata la stagione lirica alla Scala di Milano, iniziò con la sua orchestra una tournée artistica attraverso molte città italiane e il repertorio comprendeva tutte le composizioni di Foroni dichiarando: «Ogni volta che io dirigo una di quelle sinfonie, che malgrado i loro anni non hanno messo nemmeno una grinza e sollevano l’irresistibile entusiasmo di tutti i pubblici, deploro con amarezza che una sì vasta mente ed un sì gran cuore d’artista sieno troppo presto scomparsi dal mondo dell’arte». Il municipio di Verona gli intitolò una strada fuori Porta Nuova, poi lo relegava nell’oblio.
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Cultura MUSICA
Scipione Maffei e il suo tempo Il personaggio più illustre del Settecento veronese coltivava interessi nei vari campi del sapere, si intratteneva con i giovani insegnando loro i piaceri dell’intelligenza
di Nicola Guerini Scipione Maffei è indubbiamente il personaggio più illustre del Settecento veronese, come viene vivacemente descritto da una contemporanea, Lady Mary Montagu, moglie di un diplomatico inglese: «Il Maffei a Verona, sua città nativa, si era formato un piccolo impero, basato sulla stima generale e rafforzato dalle riunioni che teneva nel palazzo, uno dei più grandi della città ed in Posizione molto comoda, tra teatro e l’antica Arena… La galleria Maffei, che si apriva ogni sera alle cinque, conteneva una bella collezione di oggetti antichi, due grandi vetrine di medaglie, intagli e cammei disposti con molto ordine. Da una parte seguiva la biblioteca e dall’altra la galleria immetteva in una fila di cinque belle sale la prima delle quali era destinata al ballo, la seconda al gioco delle carte e le altre dedicate alla conversazione, cui presiedeva il Marchese stesso, seduto in poltrona, e che trattava di argomenti letterari, storici e poetici… Egli proponeva il soggetto e il suo maggior piacere era ammaestrare i giovani, i quali poi dovevano cercare la medaglia o spiegare l’iscrizione che illustrava il fatto scelto per tema di conversazione… Un giorno della settimana era inoltre dedicato alla musica vocale e strumentale. Così Maffei provò la consolazione di ispirare ai suoi concittadini il gusto per i piaceri più raffinati dell’intelligenza e indicò ai giovani il modo di passa-
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Fra le numerose passioni quella per l’epigrafia, cioè per le iscrizioni lapidarie di origine etrusca, latina, greca, ebraica, araba: un’importante raccolta di grande valore storico che divenne il Museo Lapidario Maffeiano re il tempo piacevolmente e non in volgari bagordi». Nato il 1675, fu l’ultimo di otto fratelli e sorelle, figli del marchese Giovanni Francesco e della contessa Silvia Pellegrini; la madre, donna intelligente e colta, ebbe per lui (il più giovane) particolare affetto e fu la sua prima educatrice. All’età di tredici anni fu inviato a Parma per compiere gli studi superiori presso il Collegio dei nobili, retto dai Padri Gesuiti. Continuò poi in famiglia gli studi prediletti e tentò i primi passi come letterato: brevi poesie in latino, oratori, qualche tentativo come librettista, il tutto ancora di ispirazione secentesca. Secondo il costume del tempo i giovani di nobile e ricca estrazione compivano, a conclusione dei loro studi, un viaggio di istruzione, il cosiddetto“grand tour”, che in Italia comprendeva le città di Venezia, Milano, Firenze, Roma e Napoli.
Anche il Maffei quindi, munito di lettere paterne indirizzate a parenti o amici, comunque a persone ben conosciute che potevano occuparsi di lui, partì seguendo un solo itinerario che lo portò due volte a Roma. Qui fu invitato nei salotti più importanti per incontrare gli uomini di cultura più in vista e riuscì inoltre a farsi accettare come socio dell’Arcadia, accademia romana molto esclusiva fondata nel 1690. Qualche anno dopo il suo ritorno, nel 1713, avvenne un fatto che vale la pena di riferire perché segna una svolta che lo porterà a darci l’opera più significativa, “Verona illustrata”, con la quale passerà ai posteri. Si tratta del ritrovamento di antichi e preziosi codici, vanto della Biblioteca Capitolare, dei quali, al tempo di Maffei, si sapeva solo che erano esistiti, poiché di essi era stato conservato l’elenco redatto nel 1625 dal canonico Agostino Rezani,ma come e dove fossero finiti restava un mistero. Il problema arrovellava così tanto il Maffei tanto che convinse l’archivista, mons. Carlo Carinelli, di riprendere le ricerche. Una mattina dell’ottobre 1713 Carinelli posò lo sguardo su un vecchio armadio al quale non aveva mai fatto caso. Con una scala, salì a frugare dietro l’alta cornice del mobile e, sotto a pezzi di legno coperti di polvere,ritrovò il … tesoro. Sicuramente lo aveva nascosto il previdente canonico Renani quando,ridestatasi nel 1628 la guerra dei Trent’anni per la
successione al Ducato di Mantova, rimasto senza eredi diretti, scesero in campo da una parte Venezia e Francia a favore di Carlo Gonzaga duca di Nevers, e dall’altra Spagna, Savoia e Impero per Ferrante Gonzaga principe di Guastalla. Quanto successe in quegli anni è magistralmente raccontato dal Manzoni nei “Promessi Sposi”. A noi basta ricordare che i lanzichenecchi arrivavano ad assediare Mantova e che ad essi tentarono di opporsi, ma stancamente, le truppe venete; da ciò possiamo dedurre che mons. Renzani, paventando in anticipo il passaggio dei mercenari per il nostro territorio, si era premurato di trovare un nascondiglio per i preziosi codici della Biblioteca Capitolare. Sennonché con le soldatesche di occupazione comparve nel 1630 anche la peste, e il canonico, che ne venne fatalmente colpito, portò nella tomba il segreto del nascondiglio. Carinelli, fatta la scoperta dei codici, si precipitò in casa Maffei per dare la felice notizia al Marchese, e quindi con lui ritornò, altrettanto velocemente, alla Capitolare. Racconta il Maffei: «mi parea nella foga dell’ammirazione di essere uscito come di mente… quasi colpito da un sogno: sapendo io bene quanto l’uno anche solo, o l’altro di somiglianti cimeli potean bastare a rendere famosa ogni regia biblioteca». Il Capitolo della Cattedrale consentì che Maffei portasse a casa i numerosi e famosi manoscritti per
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Cultura studiarli, ed egli, impreparato a quella lettura, a trentotto anni si dedicò allo studio della paleografia, delle lingue greca ed ebraica, aiutato da un sacerdote greco che ospitò per quattro anni. Tra la preparazione alla lettura delle antiche testimonianze a disposizione, le ricerche di nuovo materiale e la stesura di “Verona illustrata”, passarono circa vent’anni. Ne uscì un opera straordinaria, ricchissima di notizie, divisa in quattro libri: 1. “L’istoria della città e insieme dell’antica Venezia”; 2.“ Istoria letteraria o sia la notizia de’ scrittori veronesi”; 3. “ La notizia delle cose in questa città più osservabili”; 4. “Gli anfiteatri e singolarmente del veronese”. L’autore traccia in ciascun libro gli argomenti raccogliendo le testimonianze e gli scritti dell’epoca. All’inizio dell’opera, nel saluto al “lettor cortese”giustifica il suo metodo di lavoro avvertendo che: «non le guerre solamente ed i nomi dei dominanti d’età in età riferir vogliamo, com’è d’uso, ma mettere dinanzi agli occhi il vero e diverso aspetto dei costumi e dei tempi, e delle intrinseche mutazioni alla nostra nazione generalmente accadute, le origini sviluppare e le ragioni». Dopo l’impegno della “Verona illustrata” il Maffei sente il bisogno di riprendere il contatto con gli alti ambienti intellettuali e si recò all’estero peregrinando tra musei e biblioteche; partito con l’intenzione di fare un breve viaggio,finì col tornare dopo quattro anni: fu in Svizzera, Francia, Inghilterra, Austria e Germania. Non mancarono le grandi accoglienze soprattutto come autore della “Merope”, una tragedia scritta di slancio in soli due mesi all’inizio del 1713. Questa tragedia, distintasi tra le opere teatrali del tempo per la semplicità e concisione di stile, ottenne molti consensi in Italia e poi tradotta in francese e in inglese fu portata sulle scene dei principali teatri europei. Scipione Maffei è inoltre legato ad una data importante per la storia del teatro Filarmonico. Approvato il progetto del Bibiena, il cantiere cominciò a prendere forma nel 1716 sotto la direzione tecnica di Ludovico Perini, ingegnere veronese, e quella artistica dell’immancabile Maffei. Nel 1729 lo splendido teatro fu terminato.
in VERONA
Il Maffei commenta: «Un teatro che vien creduto pochi aver che il pareggino per quanto spetta alla perfezione della struttura; come niuno l’eguaglia nella nobiltà degli annessi». Si volle inaugurare immediatamente il nuovo teatro con un grande spettacolo. L’opera doveva andare in scena nel carnevale del 1730 e Scipione Maffei aveva pronto il libretto giovanile “La Fida Ninfa” che Benedetto Marcello desiderava musicare ma che fu affidato invece al bolognese Giuseppe Orlandini. Purtroppo per motivi dettati dal tribunale veneziano degli inquisitori fu spostata l’inaugurazione con “data da destinarsi” e si giunse al 1732, quando “La Fida Ninfa” andò in scena, ma musicata da Antonio Vivaldi con un successo strepitoso. Ricordiamo infine un’altra fra le numerose passioni del nostro concittadino, quella per l’epigrafia, cioè per le iscrizioni lapidarie di origine etrusca, latina, greca, ebraica, araba cui aggiunse are scolpite, colonne miliari e statue, via via acquistate sia in patria che fuori: un’importante raccolta di grande valore storico che, unita a quella dell’Accademia Filarmonica, divenne il Museo Lapidario, in seguito giustamente chiamato Museo Maffeiano. Frutto di questa raccolta e descrizione delle opere nel 1749 sarà presentata l’ultima importante pubblicazione del Maffei, dal titolo “Museum Veronese”, stampato presso l’atrezzatissima tipografia del Seminario, in cui sono catalogate e illustrate con magnifiche immagini tutte le lapidi incise e i rilievi marmorei sistemati nel grande cortile dell’Accademia Filarmonica e sotto i porticati che lo recingono. Anche in età matura Maffei continuò a coltivare gli amati studi con lo stesso entusiasmo della giovinezza orgoglioso del lavoro compiuto per la città. Morì a settantanove anni nel 1754. È importante ricordare il giudizio che L. Simeoni, cultore tra i più noti della storia di Verona, ebbe di lui: «C’è qualche cosa di schiettamente italiano, anche nei difetti, in questo Marchese così poco paziente degli studi metodici, che unisce all’acume del critico a all’erudizione del dotto la genialità e l’entusiasmo di un artista”.
Pillole in musica
La sinfonia di Nicola Guerini Il termine sinfonia lo troviamo già presso i greci per indicare le consonanze, e in particolare la consonanza perfetta, cioè l’intervallo d’ottava, ma è usato anche per indicare un concerto musicale (ad esempio con Aristotele nel De Caelo). Nel latino classico si chiamavano symphonici i cori in cui si cantava in ottava mentre nel medioevo la parola symphonia fu contrapposta a diaphonia: la prima indicava la consonanza, la seconda la dissonanza. Nel sec.XV la parola sinfonia inizia ad essere usata frequentemente per indicare composizioni per strumenti o voci: nel 1585, ad Anversa, vediamo qualificata come Symphonia angelica di diversi eccellentissimi musici una scelta di madrigali, nel 1589 Symphoniae sono chiamati da Luca Marenzio alcuni intermezzi strumentali, nel 1597 (Venezia, Gerdano) Cantus sacrae symphoniae è il titolo di alcuni componimenti vocali e strumentali,da sei a sedici voci,di Giovanni Gabrieli,e nel 1603 a Norimberga (Kauffmann) Sacrae symphoniae diversorum excellentissimorum auctorum sono una raccolta di brani da cantare o suonare,da sei a dodici voci.Dalla metà del ‘600 vennero chiamate sinfonie le introduzioni strumentali dell’opera, dell’oratorio e della cantata che si svilupperà nello schema tripartito (Allegro-Adagio-Allegro) con Alessandro Scarlatti, dando origine poi alla cosiddetta ouverture all’italiana. Nel ‘700 appare come una composizione autonoma da concerto affinata negli equilibri estetici e pronta a diventare la forma più diffusa del tempo. Dopo il contributo della scuola di Mannheim degli Stamitz e di Cannabich con la pianificazione delle risorse orchestrali, si aggiunsero i contributi dati dalle scuole strumentali di Milano e Venezia (Vivaldi, Sammartini, Lampugnani) e di quelli viennesi di Reutter, Monn, e Starter. Nelle composizioni puramente strumentali il termine continuò ad essere usato, anche all’inizio del Settecento, con un significato vario: Johann Sebastian Bach denominò ad esempio Sinfonie le invenzioni a tre voci per clavicembalo (1723), nonché alcune introduzioni a cantate. Tuttavia già la generazione di compositori tedeschi successiva alla sua, a cominciare da suo figlio Carl Philipp Emanuel, intese regolarmente per sinfonia un brano orchestrale di proporzioni ampie e diviso in tre (o più) movimenti.Con Joseph Haydn raggiunse un modello che rimarrà un riferimento costante per quasi due secoli per la struttura formale divisa in quattro movimenti: allegro in forma sonata,“andante” o “adagio”, minuetto e finale (in tempo allegro, spesso in forma di rondò). Da Beethoven in poi questa forma musicale divenne sinonimo di un’elaborazione artistica grandiosa, di proporzioni ampie,fino ad arrivare alla poetica tardo-romantica che,attraverso le parole di Gustav Mahler, definiva la sinfonia “un mondo”. Le novità della poetica introdotte da Beethoven furono seguite e sviluppate da Schubert,Mendelssohn,Schumann e Brahms con speculazioni tematiche, dell’organico strumentale e dell’impiego timbrico, che porteranno alle colossali costruzioni di Bruckner Strauss, Dvorák, Tchaikovskiy, Borodin, Saint-Saens, Franck, e Sibelius. Un posto a parte occupa Gustav Mahler, che dilata il linguaggio sinfonico contaminandolo con temi popolari e sperimentali arditezze armoniche, spinte verso l’atonalità della nuova musica. Dovremo aspettare il Novecento di Schoenberg, Webern, Stravinskij e Berio per vedere la sinfonia riacquistare il carattere cameristico, ed una nuova intimità drammaturgica.
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Cultura LETTERATURA
L’arguto Bertoldo è nato sui monti della Lessinia Il personaggio, frutto del genio di Giulio Cesare Croce, uno dei più significativi autori burleschi e satirici del XVI secolo, sarebbe originario dei Parpari
di Elisabetta Zampini
Giulio Cesare Croce girava per le fiere, le corti popolari e le case patrizie, per raccontare le sue storie che poi non erano altro che storie comuni, diffuse, note ma rielaborate nel suo vivacissimo stile
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C’è tutto un patrimonio di arguzie, motti, detti, battute, proverbi, indovinelli, scioglilingua, storie esemplari, aneddoti che appartengono alla cultura popolare. Parole affidate per lo più a una comunicazione orale, perciò sintetiche, efficaci, con il gusto per la rima per mandarle a memoria oppure aperte ad aggiunte, coloriture a seconda della bocca in cui capitano. Parole che si allungano e si accorciano, che si regalano o che si guadagnano lungo le strade, nelle piazze, nei mercati, nei luoghi dove la gente sta nel quotidiano. Parole che attingono i suoni e i contenuti da una osservazione concreta della realtà, fatta di natura e persone, temporali e bel tempo, buone annate e cattivi raccolti, benestanti e poveracci, gente onesta o cialtroni, buon senso e speranze, disincanto e accettazione. Un mondo ricco e ben delineato che è stato tratteggiato in maniera straordinaria da Giulio Cesare Croce quando scrisse il “Bertoldo” o, per dirla con il titolo completo, “Astuzie sottilissime di Bertoldo, operetta piena di moralità e di spasso” pubblicata nel 1606 e ristampata due anni più tardi con l’aggiunta del “Testamento di Bertoldo”e de “Le piacevoli e ridicole semplicità di Bertoldino figliuolo dell’astuto e accorto Bertoldo”. Protagonista il contadino Bertoldo, originario
dei monti Lessini, insieme alla sua famiglia, il figlio Bertoldino appunto e la moglie Marcolfa. Giulio Cesare Croce fu davvero un personaggio singolare. Da taluni critici ritenuto uno tra i più significativi autori burleschi e satirici del Barocco. Nacque a San Giovanni in Persiceto, in provincia di Bologna, nel 1550. Rimase però ben presto orfano di padre e venne affidato alle cure dello zio il quale, oltre ad insegnarli l’arte del fabbro ferraio, si preoccupò di dargli un’istruzione. Così Giulio Cesare faceva il fabbro e contemporaneamente cominciava a scrivere versi. Questi versi ridanciani e burleschi lo resero talmente famoso nel vicinato che convinsero il giovane Giulio Cesare ad intraprendere la carriera del cantastorie a tempo pieno. Cominciò a girare per le fiere, le corti popolari e le case patrizie, per raccontare le sue storie che poi non erano altro che storie comuni, diffuse, note ma rielaborate nel suo vivacissimo stile. E non girava solo per le strade di Bologna e della campagna circostante ma si spingeva anche nelle città vicine. Cantava le sue composizioni accompagnandosi con uno strano strumento che poteva assomigliare ad un violino. Stampava e vendeva i librettini delle sue opere, fatti di due o quattro fogli. Ebbe anche due mogli e quattordici figli. Divenne famosissimo, anzi, il più famoso “poeta di piazza”, ma la for-
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Cultura tuna economica non coincise con quella letteraria. Morì nel 1609 in estrema povertà lasciando circa 478 titoli di un repertorio fatto di canzoni, sonetti, barzellette, tragedie, poemetti, commedie, farse. Un repertorio che richiama da una parte la “Commedia dell’arte” e dall’altra il magnifico scenario popolare del Carnevale, “La festa del mondo rovesciato”. E difatti lo stesso Bertoldo, montanaro grossolano e di orribile aspetto, è la maschera ideale di questo mondo rovesciato. Dove chi siede al trono viene burlato da chi non può vantare neppure una goccia di sangue blu nelle vene. Il re la regina e la corte tutta vengono comunque detronizzati dalla forza del suo eloquio vivace e astuto. L’alto e il basso si capovolgono, almeno per un tratto della trama di questa storia. Giulio Cesare Croce per scriverla e cantarla, rimaneggiò un’antica leggenda medievale, il “Dialogus Salomonis et Marcolphi”, veronizzandola, se così si può dire. Il succo è ben descritto nel sottotitolo-riassunto presente in una prima edizione miracolosamente ritrovata nel 1993, dopo che l’unica conosciuta era andata distrutta nel 1943 durante i bombardamenti di Milano che non risparmiarono la Biblioteca Ambrosiana: «Dove si scorge un Villano accorto e sagace il quale | dopo vari e strani accidenti a lui intervenuti, | alla fine per il suo ingegno raro e acuto | vien fatto huomo di Corte e Regio | Consigliero. || Opera nuova e di gratissimo gusto». Ecco che allora Bertoldo è originario di Roveré Veronese e la tradizione avrebbe poi circoscritto la zona di provenienza ai Fondi di Pàrparo. Egli è “piccolo di persona e col capo grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa, gli occhi grossi come il fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, le orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta col
Annabella e Ugo Tognazzi in "Bertoldo Bertoldino e Cacasenno" e sopra ritratto xilografico di Giulio Cesare Croce
in VERONA
Aveva il capo grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa, gli occhi grossi come il fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, le orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta col labbro di sotto pendente a guisa di cavallo”: una maschera carnevalesca, ma dal cervello fine labbro di sotto pendente a guisa di cavallo”: una maschera carnevalesca, ma dal cervello fine. Un bel contrasto a cui se ne aggiunge un altro: Bertoldo, il montanaro, si ritrova alla corte di Alboino, re dei Longobardi. Alboino fu re alla corte di Verona dal 568 al 571. Ma l’Alboino raccontato dal Croce è certo più immaginario che reale. Rimane comunque re che fa dell’astuto villano Bertoldo suo stimato consigliere e giullare. E non è da escludere che dietro questa fortuna di Bertoldo non fosse più o meno celato il deside-
rio di Giulio Cesare Croce di trovare pure lui un facoltoso mecenate che rimanesse colpito dalle sue doti letterarie e potesse tirarlo fuori dalla sua situazione economica sempre critica. Bastano solo poche battute dell’incontro tra Alboino e Bertoldo per rendersi conto della bravura di autore e personaggio: Re: «Orsù , addimandami ciò che vuoi, ch’io son qui pronto per far tutto quello che tu mi chiederai». Bertoldo:« Chi non ha del suo non può darne ad altri». Re: «Perché non ti poss’io dare tutto quello che tu brami?». Bertoldo: «Io vado cercando felicità e tu non l’hai: e però non puoi darla a me». Re: «Non son io dunque felice, sedendo sopra questo alto seggio come io faccio?». Bertoldo: «Colui che più in alto siede sta più in pericolo di cadere al basso e di precipitarsi». Re: «Mira quanti signori e baroni mi stanno attorno per ubbidirmi e onorarmi». Bertoldo: «Anco i formiconi stanno attorno al sorbo e gli rodono la scorza. [...]» . Re: «Orsù , vuoi tu diventare uomo di corte? ». Bertoldo: «Non deve cercare di legarsi colui che si trova in libertà». Re: «Chi t’ha mosso dunque a venir qua? ». Bertoldo: «Il creder io ch’un Re fusse più grande di statura degli altri uomini dieci o dodeci piedi e che esso avanzasse sopra tutti gli altri come avanzano i campanili sopra tutte le case. Ma io veggio che tu sei un uomo ordinario come gli altri, se ben sei Re. [...]». La questione sociale è presente, lo si capisce, se pur in toni non accessi. Sono la comicità, l’arguzia e la meraviglia di fronte alla prontezza di parola di Bertoldo a prevalere. Tuttavia l’intenzione del Croce è quella di dare una dignità al mondo popolare da cui lui proviene e di cui è fortemente intriso. Certo è un mondo altro. Lo stesso aspetto deforme di Bertoldo marca simbolicamente la distanza dal mondo benestante e nobiliare. Anche mettendosi dal punto di vista della corte di Alboino: ciò che viene da fuori dei confini del-
la città perde quasi l’armonia, la chiarezza, proprio perché sconosciuto. La prontezza d’animo, la conoscenza del mondo e l’intelligenza vivace di Bertoldo sono il lasciapassare che può aprire le porte e anche il segno di una dignità, di una forza, di una ricchezza. Sono anche il veicolo che permette di mostrare il mondo popolare. Bertoldo è il contadino oppresso ma è anche il ribelle, il folle, il portatore di gesti e parole “diverse”. Di fatto ai tempi in cui il Croce scrisse il Bertoldo, tutta la penisola era attraversata da questi sussulti di redenzione dell’immaginario e della vita popolare. Comparvero figure di scrittori nelle lingue dialettali, attenti ai contenuti popolari e non certo solo per fede alla poetica della “meraviglia” e del singolare propria del Barocco. Si tratta di Giulio Cesare Cortese, Giambattista Basile a Napoli; Fabio Varese, Carlo Maria Maggi a Milano, tanto per citare alcuni tra i più noti. Giulio Cesare Croce però, alla fine dell’opera, rimarca la distanza tra i due mondi, quasi fosse incolmabile e quasi che ciascuno, comunque, dopo il divertimento, la parentesi, se ne dovesse ritornare al suo posto. Alla fine Bertoldo infatti muore. Non per strani intrighi di corte. Ma perché la corte non è il suo ambiente. Una morte mestamente tragicomica. E non c’è niente da fare. La vita di corte, la sua aria, i suoi cibi, la sua atmosfera, non fanno bene a chi nasce villano. Bertoldo muore per non aver potuto mangiare “fagioli con la cipolla dentro e delle rape cotte sotto la cenere”.
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Tradizioni
TRADIZIONI
La sera, nella stalla il rito antico del «filò» Nei mesi freddi, dopo la frugale cena, ci si rifugiava al caldo prodotto dalle vacche e in quella occasione ci si industriava a fare qualcosa di utile e a chiacchierare
Chi andava a filò in taluni paesi doveva conoscere i confini morali che colà vigevano. Il giovanotto foresto che fingeva di infischiarsene, molto spesso, all’uscita della stalla, veniva fatto bersaglio di lanci di secchie di fango delle vicine pozze d’acqua o di liquame delle concimaie In alto: raduno di famiglie in stalla per scartocciare le pannocchie e un costruttore di cesti e gerli
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di Piero Piazzola Ottobre si appresta a calare il suo sipario con minacciosi banchi di nubi spumeggianti che risalgono pigramente le valli e vanno ad adagiarsi sulle cime dei monti. Le bestie dei contadini non ce la fanno a resistere fuori sui pascoli vicini casa, anche perché di erba non ce n’è più e, allora, vengono riassettate le stalle per raccoglierle durante la stagione fredda. L’inverno è alle porte anche se si aspetta quell’’ingannevole“Istadèla de San Martin”, la quale, proprio perché è aleatoria e lusinghiera, viene evocata come “Istadèla de le vedove”. Ed ecco le prime sbrumade di neve e l’affacciarsi prepotente delle serate del filò. Bisognava aspettare che le stalle venissero riscaldate dal fiato delle bestie, che si mettesse a punto el fenàro (un angolo della stalla delimi-
tato da pali e tavole dentro cui si calava ogni giorno dal sovrastante fienile una quantità di fieno necessaria per una giornata; di sera, però, durante il filò, qualche anziano ne approfittava e vi si buttava dentro anticipando la pennichella notturna. MA CHE SIGNIFICAVA “FILÒ”?
Cosa si intende per “filò”? Intanto sappiamo che deriva dal termine “filare”. Poi siamo ricorsi al “Dizionario” del dialetto di Giuseppe Boerio, l’unico e il più quotato per offrirci una definizione più realistica e più vicina alle nostre memorie, perché i dizionari della lingua italiana neanche citano questo vocabolo. Esso recita testualmente: «Filò, Vegghia, o Veglia, e nel diminutivo Vegliuccia. “Raunamento” invernale di donne in qualche
stalla o altro luogo, di notte, per filare». Ma era anche detto “Femminiera”, che ha valore di: «Unione di femmine». Molto più precisa e attuale, invece, la spiegazione che ne dà Giorgio Rigobello nel suo dizionario: «Riunione serale che la gente dei campi effettuava scambievolmente nelle cucine o nelle stalle allo scopo di trascorrere le serate e mantenere o legare rapporti d’interesse e di amicizia...». Chi andava a filò in taluni paesi doveva conoscere già i confini morali che colà vigevano e non andare oltre. Il giovanotto foresto che tentava di metterseli dietro le spalle o fingeva di infischiarsene, molto spesso, all’uscita della stalla, veniva fatto bersaglio di lanci di secchie di fango delle vicine pozze d’acqua, quando andava bene, di liquame delle concimaie, quando la faccenda si complicava.
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Tradizioni
Sopra: una donna di Campiano mentre ripulisce le radici dell’iresos, pianta un tempo molto ricercata. In basso e nella pagina a fianco: due contadini intenti a costruirsi dei rastrelli per i lavori di campagna
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V’era anche un modo particolare di aprire un discorso con una ragazza della contrada e un rituale un tantino ambiguo per farsi intendere da lei senza far capire nulla agli altri, ovviamente per concordare in segreto un incontro oppure per programmare un eventuale “rapimento”, una “fuitina”, come la chiamano nel meridione. Ecco un dialogo “cifrato” tra un giovane e una ragazza, i cui genitori erano contrari al matrimonio con quel pretendente. Mi son qua par quel fato che vu savì, / se par certo me ‘l disì (dice il giovane). Risponde la ragazza: Coàn son sute le fontane, / e son ferme le rugolane, / e che el morto coèrda el vivo, / e ch’ el prà sarà fiorìo,/ sarà come ve digo. Traduciamo: «Quando saranno spenti i lumi (le fontane), quando si saranno fermati i filatoi (le rugolane), quando le coperte copriranno gli uomini (a letto) e il cielo (prà) sarà stellato (fiorìo), sarà come vi ho promesso”». In altre parole, la ragazza, in questi termini, dava il suo consenso al rapimento, da effettuarsi subito dopo il filò. Non solo le donne, dunque, si rifugiavano nelle stalle per certi lavoretti di tessitura, rammendo, riparazione, rinnovamento di capi di vestiario con dei tacóni (rappezzi), per cucire, per dipanare e filare la lana (guìndolo, molinèla), e via dicendo. Vi andavano anche gli
adulti per fabbricare attrezzi di lavoro (rastrelli, gerle, féri da segàr «falci da fieno», oppure per rigovernare certi attrezzi che di giorno non avevano il tempo di fare. Si andava nelle stalle, perché in casa il fuoco del focolare non riusciva più a procurare una temperatura sufficiente per resistere e le cucine economiche (le stùe), che a quei tempi erano in cotto, per mantenere un po’ di calore divoravano legna a non finire; si andava nelle stalle, perché si recitava un lungo Rosario per i Morti (Le sénto rèchie), per i parenti, per i “benefattori “ della chiesa del paese; si ascoltava una persona, un tantino più corretta nella lettura, che leggeva a puntate qualche romanzo dell’epoca (famosi “Il Conte di Montecristo”, “I Miserabili”, “La sepolta viva”); si conoscevano, magari distorti dai passaggi dei vari “contastorie”, i fatti del giorno o del mese, ma era anche il momento e il luogo per sparlare, per dir male degli altri, per malignare, screditare chi non ti era amico. Insomma, il filò poteva essere anche occasione di litigate e di odi. E la stampa li ha pubblicizzati questi fatti a bella posta. IL FILÒ NEL PASSATO
Il filò non è di ieri e neppure del secolo scorso; è vecchio, è antico. Il vescovo di Verona, Gian Matteo
Giberti, nei suoi ordinamenti (Constitutiones) condannò i cosiddetti filò «cioè le veglie nelle lunghe e fredde notti invernali nelle stalle, dove gli abitanti si rifugiavano per difendersi dal freddo, ma che troppo spesso degeneravano in tristi ritrovi… dove si faceva a gara anche a raccontare le barzellette più boccaccesche..». Le nostre personali conoscenze e quelle che abbiamo raccolte dalla viva voce di chi ha vissuto questi momenti di vita di paese – e di campagna, perché anche nelle corti e nelle contrade di campagna si faceva il filò; si veda il celebre film “L’albero degli zoccoli” – si differenziano un tantino da quelle del Boerio in quanto non solo le donne si radunavano (ecco il termine raunamento) nelle stalle per filare e non solo per filare, come vedremo più avanti, ma anche gli uomini. Abbiamo accennato al filò, che si verificava quando nelle case non c’era ancora un minimo di sistema di riscaldamento o abbastanza legna per ottenerlo. Allora, dopo la frugale cena, ci si rifugiava al caldo naturale prodotto dalle vacche nelle stalle e, in quella occasione e in quell’ambiente si poteva osservare donne e uomini che si industriavano a far qualcosa di utile e a chiacchierare del più e del meno. La stalla, dunque, diventava principalmente luogo di lavoro, un ripiego per eseguire lavori molto umili ma, non per questo, meno importanti e necessari di quelli più complessi ed evoluti; e nel contempo anche luogo di “insegnamento”, inteso come conoscenza, istruzione, cultura, scuola. Sì, la stalla faceva anch’essa, a modo suo, scuola. Nella stalla ci si andava per lavorare e per stare al caldo e non ci andava solo il contadino per farsi qualche lavoretto per la sua azienda contadina, ma anche il giovanotto che sperava in una vicenda “amorosa” con una ragazza del luogo, perché di sera le ragazze ripiegavano pure loro nelle stalle con lo scopo di farsi “adocchiare” da qualche giovane, anzitutto, ma anche per cominciar a prepararsi un po’ di dote; nar a filò, per un giovanotto, significava anche frequentare una ragazza con lo sco-
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Cultura
Dalle stalle alle case senz’anima
po di sposarla. Insomma, vi andavano il contadino, la massaia, la donna di casa, per confezionare indumenti, lavorar di uncinetto, rammendare, imbastire, cucire con ago e ditale, far maglie, calze, calzette e altri indumenti e tutti gli altri con un motivo; far passare la serata. E gli uomini cosa facevano di bello durante il filò? Zoccoli di legno (grapéle), sgàlmare (scarpe di legno ricoperte di scarti di pelle conciata alla bell’e meglio) —, dérli (contenitori per letame e altro) e dèrle (bicolli), conchéti (collari per aggiogare i buoi), fassàre, canàole (collari di legno per le vacche), bùci (zangole verticali per fare il burro), cópe e spanaróle (coppe per travasare il latte), rastrelli, manici per forche e forchetti, coàri (portacote per falciatori) e via dicendo.
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Per collocare più adeguatamente l’ identità folklorica e sociale del filò nel tempo, occorrerà ricostruire almeno alcuni elementi e aspetti di fondo dell’ epoca che sono entrati a dar vita a un modo di essere, di vivere, di comportarsi, di agire. Proviamo a immaginare le poche e malridotte strade di allora, in montagna e anche in pianura. I pochi mezzi di trasporto e di comunicazione che le percorrevano erano gróie (carri speciali per trasportare fieno e legna), caréti e carri agricoli, che caricavano letame, fieno, terra, sterpaglie, legna, fogliame, prodotti dei campi. Solo in quelle di fondovalle funzionavano le carrozze trainate da cavalli che facevano anche servizio postale. Ne arrivava sì e no uno per paese e, di solito, lo leggevano, magari prestandoselo, il parroco, il maestro, il medico, il farmacista. Gli altri, le notizie le apprendevano, indirettamente, dopo qualche tempo e non sempre in maniera molto rigorosa. Nelle stalle si riproponevano le cronache dei giornali, magari in ritardo di qualche settimana; ma comunque si faceva scuola, istruzione. E i giovanotti frequentavano le stalle anzitutto perché nelle case, al freddo, le ragazze non si fermavano; poi perché in mezzo a tanta gente era più facile scambiar qualche parola in più e osservare da vicino il comportamento della ragazza che si adocchiava e con cui si aveva in mente di fidanzarsi e in futuro di prender per moglie. La donna, nei paesi di montagna, era sì “protetta”, tra virgolette, perché con l’ età veniva ad assumere funzioni di guida morale e di direzione economica; ma bisogna anche sapere che per le donne erano stabiliti dall’usanza certi confini morali oltre i quali non avrebbero dovuto andare. Ecco un detto singolare:
«… done e vache bone non le va mai fora de paese; la dona bisogna che la sia brava, che la tasa, che la staga in casa». In mezzo a tutto questo fermento e a questo fermento di uomini e di cose, non mancava un posto per il contastorie, per il lettore. Lettore era colui che sapeva leggere un po’ più speditamente e decentemente degli altri (di solito, allora, un ragazzino non andava oltre la terza elementare); ma primeggiava colui che sapeva leggere in maniera più suggestiva, più espressiva. A puntate come nei romanzi d’ appendice, sera dopo sera, egli, il contastorie, leggeva libri che andavano di moda allora ed erano sulla bocca di tutti, ma che nessuno osava confessare al prete; libri all’ indice ma che si procuravano di sottobanco e che, talora, il lettore interpreta a modo suo. I personaggi de “Il conte di Montecristo”, o quelli de “I Miserabili” o de “La sepolta viva” finivano per confondersi gli uni con gli altri in un intricato quanto complicato scenario di individui e di fatti che, in realtà, è difficile collocare nella loro giusta taglia. Un fatto, però, va posto in evidenza: la stalla e il filò, in questi casi, furono anch’essi canali di trasmissione e diffusione della cultura locale e per la conservazione delle memorie. Il dialogo di allora, lo spirito di allora, l’ attesa semplice e silenziosa che la facevano da padroni nelle stalle durante i filò, oggi non c’è più nelle case – le stalle sono state abbandonate ed era giusto e conveniente che fosse così – e tanto meno nelle comunità; la televisione, i telefonini, la radio, internet e via dicendo zittiscono la famiglia. Ci trasformano in automi, sempre più ingegnosi, ma freddi, impassibili e angustiati, senza anima e spesso disumani. (P.P.)
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di Stefano Vicentini Quali furono le motivazioni spirituali, i meccanismi organizzativi e la trama dei rapporti umani alla base della committenza religiosa nel primo Novecento? Sarebbe un argomento da ripensare con un puntuale ed approfondito studio. Al centro dell’attenzione non è un interesse privato, come il vezzo d’un aristocratico ad immaginare la propria villa come dimora classica, abbellendola di miti pagani e d’una sfarzosa scenografia che lo celebri; qui ad emergere sono le intenzioni, la cultura e il gusto per l’arte di parroci ed abati che sulle pareti di chiese e conventi chiedono ai pittori di presentare temi e ritratti religiosi destinati alla visione ed alla devozione pubblica. Certe scelte di raffigurazione, assegnate da questo o quel parroco, ora alle cappelle ora al presbiterio, si impongono nell’identità della chiesa come imperiture e definitive, nunc et semper. Al committente ecclesiastico piace generalmente un’arte che abbini la chiarezza del messaggio all’armonia della mano d’artista: serve come Biblia pauperum per la facile “lettura visiva” del popolo ma è anche segno di raffinatezza di gusti per gli edifici di più prestigioso passato. E così doveva essere nel 1948, esattamente 60 anni fa, la richiesta da parte di monsignor Guglielmo Ederle, parroco del Duomo di Legnago, di giovarsi del talentuoso frescante veronese Agostino Pegrassi, che in pochi mesi realizza una serie di opere nelle pareti antistanti più in vista della chiesa: compone il ritratto di Maddalena di Canossa presso l’altare della Madonna Addolorata (nell’anniversario dei 60 anni dell’Istituto Canossiano a Legnago, aperto da monsignor De Massari nel 1888), la parabola del Buon pastore nell’abside, il Sacro Cuore di Gesù e il Cristo crocifisso nell’altare del Santissimo. Pegrassi nel ‘48 è conosciuto, esperto ed affidabile, nonché maturo con circa cinque lustri di attività e un’età ormai prossima ai 50 anni: ha già lavorato in numerose chiese,è richiesto perché sa rappresentare in scala su grandi dimensioni ed ha un tratto di disegno molto elegante. Sa avvicinare il classicismo alla narratività della
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PITTURA
Agostino Pegrassi L’artista veronese operò in molte chiese della diocesi; 60 anni fa fece risplendere il Duomo di Legnago
Maddalena di Canossa, Altare dell’Addolorata, Duomo di Legnago
reale vita delle nostre genti. Anzitutto, va detto che tale lavoro non lo fa ricco, tutt’altro: spesso, mentre è impegnato sulle impalcature, teme che il prete si eclissi e si scordi di ricompensarlo, visto che, aldilà di un omaggio alla fede, si tratta pur sempre di una professione; a volte deve lottare contro il tempo, perché una pala d’altare è da realizzare prima della ricorrenza di un santo patrono, deve far presto. Ma Pegrassi corre dovunque è chiamato, spinto da quell’originale devozione che s’immortala nell’arte: è presente in gran parte delle chiese della diocesi di Verona e Vicenza, sia in città che in provincia, con qualche uscita lontana negli ultimi anni.
La sua carriera merita di essere ripercorsa dalle origini: nell’albero genealogico si parte dal capostipite Salesio Pegrassi (1812-1879) che ebbe quattro figli, Angelo, Annetta, Anna e Francesco. Quest’ultimo a sua volta fu padre di Atene e Sparta, morte prematuramente, Custoza, Salesio, Dante e Cinzia. Da Salesio, scultore attivo ad Alessandria d’Egitto e noto a Verona per i due leoni all’ingresso del cimitero monumentale, e da Maria Ronconi nacquero Agostino (il 13 ottobre 1900 a Verona), Francesco, Pia e Carla. Avviatosi nella bottega paterna con l’apprendimento delle tecniche della scultura, della pittura e della decorazione, entrò giovanissimo all’Accademia Cignaroli sotto la guida di Alfredo Savini: mostrò precoce talento negli accorgimenti della prospettiva e nella resa del ritratto. Esordì con figure da presepio in terracotta a soli 14 anni, ma fu costretto ad abbandonare presto gli studi per entrare volontario pilota nell’aviazione nel primo conflitto mondiale. Alla fine della guerra tornò a studiare iscrivendosi ai corsi dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, conseguendo il diploma a 20 anni. La sua carriera artistica prese avvio dal Monumento ai Caduti di Ronco all’Adige (1924). La scoperta nell’accademia della sua genialità da parte della committenza religiosa lo orientò subito ai soggetti sacri. Si cimentò soprattutto come frescante, ma nel sostanzioso corpus delle opere, con
l’elenco autografo in ordine cronologico posseduto dalla figlia Gabriella, insieme a raffinati cartoni e bozze, c’è una nota del 1944 che lo ricorda anche come ceramista, incisore,scultore,pittore di cavalletto e progettista di vetrate per chiese. Dal 1924 operò in oltre 40 edifici sacri della diocesi veronese e una decina della diocesi di Vicenza, tra cui Dueville,Almisano, Campedello, Trissino e Sandrigo, quindi a Venezia e Milano, nonché nei primi anni Cinquanta al Collegio Capranica di Roma e all’Abbazia di Montecassino, nel 1956-57 nelle chiese di Monte Mario a Roma e Sant’Agnello a Sorrento, per trovare la morte precocemente mentre lavorava a Sandrigo di Vicenza, il 21 febbraio 1957. È quasi tutto conservato, eccetto i lavori al soffitto della chiesa di Santa Maria della Scala (1939-1942), affreschi distrutti nel bombardamento del 1944. Nel privato si fece apprezzare in opere di carattere profano, come le pitture a fresco nella Casa di cura di Santa Giuliana, i soffitti di Palazzo Portalupi, ex sede della Banca d’Italia, e del Palazzo Ina a Verona, oltre a vari ritratti per famiglie. Pegrassi fu un uomo umile, lontano dall’ambizione di diventare famoso o segnalarsi alla critica, con un singolare affetto per la famiglia, dalla moglie Gemma De Poli ai figli Gabriella, Paola, Lorenzo e Giorgio. In difficoltà a reperire modelli, l’autore invitava spesso a posare la moglie, i familiari, gli amici o la gente di passaggio nel luogo dove lavorava, in particolare i bambini. I volti sono riconoscibili e c’è lo stesso Pegrassi, ora autoritratto da profeta, ora da santo o apostolo: aveva insomma una volontà tenace di vedere la famiglia immortalata sugli altari, probabilmente nata da un bisogno più profondo che il dover sopperire alla carenza di modelli immediati. Non si allineò alle correnti avanguardistiche della pittura veronese di primo ‘900, ma fu immerso nell’arte sacra. Le mostre di qualche anno fa in Galleria Prisma a Verona, a Villa Cordellina di Montecchio, a Bolzano e a Pietralba, oltre che al Collegio Capranica di Roma, hanno dato all’artista una buona attenzione, pur parecchi anni dopo la morte: in ritardo, ma con l’auspicio d’una crescente valorizzazione.
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Cultura Piccoli editori crescono Incontrarsi per conoscersi e fare rete
A cosa può servire un’associazione di piccoli editori? Anzitutto a confrontare esperienze simili, evidenziando problemi comuni, che visti da diverse prospettive, e con il contributo di tutti, possono trovare una soluzione. Con questo spirito alcuni rappresentanti della categoria, che da anni lavorano nel settore editoriale, si sono trovati nella sede di Verona in.
Un primo incontro per capire quali spazi di lavoro comune potrebbero gettare le fondamenta di un eventuale sodalizio. Attraverso la valorizzazione di autori cittadini (ma non solo), proponendo titoli che raccontano Verona nel tempo, senza dimenticare i grandi temi che vivacizzano il dibattito culturale nazionale, ciascuno con la sua storia e identità,i piccoli editori ve-
ronesi costituiscono un patrimonio per la città che va coltivato e valorizzato. L’invito a fare parte di questo gruppo di confronto è esteso ad altri piccoli editori al fine di allargare il contributo di idee sulle possibili attività da portare avanti insieme. Chi fosse interessato all’iniziativa può rivolgersi alla segreteria al numero 045.592695.
NEWS DAL MONDO DEI PICCOLI EDITORI • Bonaccorso Editore invita gli appassionati di lettura alle prossime presentazioni delle novità in catalogo: mercoledì 29 ottobre 2008, alle 18.15, presso la libreria Gheduzzi si terrà la presentazione del libro d’esordio di Armando Bonato Casolaro Viaggio con Jahn. Giovedì 13 novembre 2008, alle 18, presso la Società Letteraria sarà presentato La farfalla, l’anima - Saggi su Gabriele d’Annunzio narratore, libro di saggistica del prof. Giorgio Bárberi Squarotti. • Tra gli appuntamenti di Perosini Editore nell’estate appena terminata: Bozidar Stanisic ha parlato del suo ultimo libro Il cane alato alla Fiera Internazionale del Libro di Torino (11 maggio). Echi di poesia e spiritualità, è stato il filo conduttore di quattro incontri tenuti al monastero camaldolese di Bardolino dove hanno presentato le loro opere Marcella Tassinari Franchi, Italo Borsetto, Eros Olivotto, Lorenzo Gobbi (luglio/agosto). L’editore di Zevio in settembre ha partecipato alla rassegna Libri in cantina, Mostra della Piccola e Media Editoria, a Susegana (TV).
Perosini editore Remo Schiavo Maria Meneghini Callas Veronese e veneziana (1947-1954) Presentazione di Arnaldo Bellini. Fotografie della raccolta privata di Giancarlo Tanzi pp.110, con 50 foto e riproduzioni, stampa in bicromia Euro 25,00 La Callas raccontata nel periodo del suo arrivo in Italia. Tra il 1947 e il 1954 fu “veronese e veneziana” e proprio qui pose le basi della sua grandezza artistica. Dall’esordio areniano con Gioconda, alla Fenice di Venezia, dall’incontro col maestro rodigino Tullio Serafin, a quello importantissimo con il veronese Ferruccio Cusinati. Sul piano personale furono gli anni dell’incontro con Giovan Battista
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Meneghini, l’imprenditore zeviano che divenne dapprima il suo prezioso e infaticabile procuratore e poi il marito affettuoso e premuroso. Anni di grande dedizione al lavoro, di una serenità presto compromessa. Tra la casa di via Stella e i teatri del mondo che, uno dopo l’altro, conquistava in modo travolgente, prendeva corpo il mito della Divina, un mito nato in riva all’Adige. Nel volume la ricostruzione – tra narrazione storica e testimonianza personale – di una eccezionale vicenda umana e artistica ancora oggi avvincente. Bonaccorso editore Albero Fezzi Fino alle lacrime Presentazione di Umberto Smaila pp. 195 Euro 12,00 “È una fotografia della mia generazione, fatta da un fotografo un po’ maldestro, un po’ sorridente e un po’ malinconico. D’altronde questo
esattamente volevo scrivere e questo esattamente ho scritto”. Così descrive il suo nuovo libro Alberto Fezzi, giovane autore veronese alla sua terza fatica letteraria. Introdotto dalla prefazione di Umberto Smaila, “Fino alle lacrime” è la storia di quattro amici, Fede, Giò, Frank e Giorgione, del periodo del liceo, delle scelte e delle strade che ciascuno ha preso una volta finita la scuola. Fezzi racconta uno spaccato della vita e dei pensieri della generazione degli attuali trentenni: amicizie, aspettative, ricordi, amori, speranze, frustrazioni, il tutto condito con lo stile ironico, a volte dissacrante, a volte più riflessivo, diventato il marchio di fabbrica dell’autore veronese.
sia, della Libia e del Niger. I proventi di questo libro, andranno a finanziare un progetto a Galcia in Etiopia che sarà realizzato in collaborazione con la rivista Nigrizia. Franco Baldini (Cerea VR, 1953), psicologo e psicoterapeuta veronese, appassionato di viaggi ha visitato molti paesi scattando numerose fotografie per fissare e trasmettere le proprie emozioni. Le foto pubblicate in questo libro sono una selezione per un progetto sul deserto e la sua dimensione psicologica.
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Giornale di attualità e cultura Direttore
Edizioni Achab Franco Baldini Sabbie Euro15,00 Gli scatti fotografici di Franco Baldini colgono l’eternità di questi scenari incantati grazie ad un ‘linguaggio di immagini, fatto di luci e ombre; nelle sue immagini il deserto si trasforma in spazio e tempo utili per ritrovare la dimensione più profonda di se stessi, il silenzio, la vita. La foto quindi è un pretesto, che fa viaggiare, ed esplorare, non tanto il mondo, ma noi stessi in relazione all’infinito. Le foto, a colori e in bianco e nero, sono state scattate negli Erg, deserti sabbiosi, della Tuni-
Giorgio Montolli g.mont@libero.it Redazione
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Anno VI-N° 20/ottobre 2008 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona e spedito a domicilio su richiesta
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