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22 - LUGLIO 2009 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
Primo piano In copertina: giovani in Piazza Dante, foto di Claudio Martinelli
La giusta distanza
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Quella del giornalista è una professione che cammina sul filo del rasoio: da una parte c’è l’esercizio di un “meretricio” ben remunerato; dall’altra l’orgoglio di svolgere un mestiere dove l’onestà intellettuale cerca di conciliarsi con l’utopia di raccontare il vero, pagando il prezzo che questo richiede
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Diversamente dal semplice comunicato, la conferenza stampa è un mezzo per informare che prevede la convocazione dei giornalisti e un eventuale contraddittorio, dove gli operatori dell’informazione possono fare delle domande per poter svolgere al meglio il loro compito di mediatori. Sta invece passando l’idea che il ruolo del cronista è quello di prendere diligentemente nota di quanto viene detto e di tenersi le domande per sé, che se sensate e pertinenti potrebbero risultare inopportune. A volte qualche coraggioso le fa queste domande, ma sempre con il rischio di ottenere il diniego, o addirittura il dileggio, del potente di turno, a cui seguono le risatine dei colleghi, che invece di indignarsi a sostegno della categoria partecipano in questo modo a una sorta di suicidio collettivo. Quella del giornalista è una professione che cammina sul filo del rasoio: da una parte c’è l’esercizio di un “meretricio” ben remunerato, dove veramente c’è di tutto; dall’altra l’orgoglio di svolgere un mestiere dove l’onestà intellettuale cerca di conciliarsi con l’utopia di raccontare il vero, pagando il prezzo che questo richiede. A conclusione del ragionamento la sensazione è che sui marciapiedi (che in certe città sono stati così ben ripuliti da vucumprà, barboni e drogati) qualche “prostituta” continui a girare sotto mentite spoglie. Il lavoro del giornalista si ispira ai principi della libertà d'informazione e di opinione, sanciti dalla Costituzione italiana, c’è un ordinamento, ci sono le carte dei diritti e dei doveri. Nonostante questo, nonostante esista un Ordine professionale, nonostante ci sia un Sindacato stiamo parlando di una professione svilita. «La democrazia non è darsi del tu». La frase è di una severa professoressa di liceo che negli anni Settanta, accogliendo tra i banchi del-
la sua preparatissima classe uno spaesatissimo studente bocciato, proveniente da una classe che tra i professori vantava simpatizzanti delle BR, voleva con questa frase fargli capire il valore della giusta distanza tra alunno e docente, per un rapporto mirato all’educazione e all’apprendimento. La lezione è servita e rimane valida. “La giusta distanza” è anche il titolo di un bellissimo film di Carlo Mazzacurati che parla di giornalismo e che vi consigliamo di vedere. Ma in certi municipi italiani darsi del tu con il Sindaco è una prassi consolidata. Sarà la frequentazione assidua del Palazzo, sarà che ci si vede tutti i giorni ma se i giornalisti si rivolgessero a chi governa con un bel «buon giorno Sindaco», come si faceva ai tempi di Giorgio Zanotto, Renato Gozzi e Carlo Delaini, non sarebbe male. Solo forma? è la sostanza che conta? Non è solo forma se poi capita che ad alcuni cronisti arrivino dal Palazzo sms a commento dei pezzi pubblicati, come si fa tra amici, che sono inopportuni e che potrebbero essere addirittura interpretati come un invadente strumento di intimidazione. Orfani di un Ordine che dovrebbe tutelare la categoria anche sotto questo profilo, i giornalisti incrociano pure la crisi dell’editoria, che tra i suoi effetti comporta il blocco delle assunzioni e il ricorso sempre più massiccio al contributo dei collaboratori esterni. Ci siamo immersi nel mondo dei precari della carta stampata, li abbiamo incontrati ed è incredibile come anche a Verona si assista alla sterilizzazione di una generazione di giovani talenti, portatori di energie nuove, per il solo fatto che la classe imprenditoriale di questa città (come di altre) non sa formulare un progetto produttivo in grado di integrarli facendo leva sulle loro risorse intellettuali.
Diceva Sergio Zavoli, in un recente incontro a Palazzo Verità Poeta, che il tempo delle speranze deve finire per far posto al tempo della progettualità. Ma a guardare questi quarantenni free lance – che tradotto significa senza lavoro –, c’è da chiedersi quanto una classe imprenditoriale molto ricca ma poco motivata possa andare loro incontro. I giornali sono aziende, ma gli editori di un tempo erano consapevoli di produrre informazione, cultura, di fare opinione e di dare il loro contributo alla crescita dei cittadini. Lo sapevano a tal punto che ritenevano necessario nominare direttori a volte scomodi ma di spessore, profondi conoscitori della realtà dove operavano, che a loro volta selezionavano giornalisti di talento che erano l’investimento intellettuale, la materia prima per ottenere un prodotto dignitoso e vendibile. Oggi quell’editoria è in forte crisi, non sa riconoscere questi talenti, non li sa neppure governare, li tiene parcheggiati nelle redazioni e preferisce ripiegarsi su se stessa con strategie di contenimento umilianti che impoveriscono la città con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Ma è in tempi di crisi e di rapidi cambiamenti che si presentano nuove opportunità. Oggi un commento, un’immagine diffusi via internet possono varcare la soglia elettronica e diventare oggetto di discussione fra le gente, entrare nei salotti televisivi. È il motivo per cui cediamo le nostre inchieste a chi vuole pubblicarle sulla rete, contemporaneamente all’uscita del giornale. Con una spesa simbolica gruppi, associazioni, privati cittadini possono disporre di un’informazione professionale, aiutarci a crescere ed essere protagonisti di un interessante esperimento editoriale. g.m.
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ORDINANZE
Foto Giancarlo Beltrame
«Ordine e polizia» nella città dei divieti A Verona la ragnatela sempre più vischiosa e ramificata di divieti e controlli sta diventando fastidiosa e appicicaticcia. La sicurezza mostra l’inquietante faccia di un controllo sopra le righe che si abbatte su tutti, indistintamente: baristi, negozianti, turisti, guide, compagnie di giovani
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di Laura Lorenzini «Siamo noi i nuovi vu cumprà». Da cacciatori a cacciati. Da sostenitori dell’ordine a vittime dell’eccesso di zelo. I commercianti, fino a due anni fa, si sentivano padroni del centro storico. Oggi si sentono braccati. Immolati su quell’altare della sicurezza e della ferrea osservanza delle norme che, durante la campagna elettorale del 2007, imploravano per spazzare via vu cumprà, vu lavà e compagnia cantante. Ma quella città del rigore e dei divieti che avevano salutato con tanto entusiasmo, quando al governo della città venne nominato il sindaco
sceriffo Flavio Tosi, sta rischiando di travolgerli. Perchè è vero, dicono, che si sono diradati i venditori di chincaglieria e borse taroccate, i mendicanti veri e finti e le zingare con i bambini in braccio ai semafori, le prostitute, i trans e tutta l’umanità più o meno disperata che riempiva le strade. Ma ora il virus proibizionista sta contagiando tutti: ««È vietato parcheggiare, è vietato fermarsi, è vietato controbattere, è vietato divertirsi, è vietato vivere», si legge in un volantino diffuso dal neonato coordinamento di esercenti, esasperati da multe, controlli e normative. I bonghisti di piazza Dante sono in perfetta sin-
tonia: «In questa città è vietata la vita». I cittadini, alle ultime consultazioni elettorali, hanno rinnovato la fiducia al Tosi decisionista, sintonizzato con gli umori del popolino, che chiede superpoteri ai sindaci e raggi d’intervento a 360 gradi per la polizia locale. Ma la ragnatela sempre più vischiosa e ramificata di divieti e controlli sta diventando fastidiosa e appicicaticcia. La sicurezza mostra l’inquietante faccia di un controllo occhiuto e sopra le righe che si abbatte su tutti, indistintamente: baristi, negozianti, turisti, guide, compagnie di giovani, cani, studenti in gita. Dal 2007 sono una decina le ordinan-
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Ordinanze ze sfornate «per la tutela della sicurezza e del decoro». E quasi 1500 le contravvenzioni fioccate. Un terzo ai danni di lucciole e clientela, il resto distribuite tra le più disparate categorie. Ben 392, ad esempio, sono piovute per la cosiddette norme «antipanino», immortalate sui famosi cartelli a sfondo blu. Puniti immigrati e turisti per bivacco, passeggio a torso nudo, rifiuti gettati al suolo e consumo di cibo da asporto vicino ai monumenti e sulle scale di accesso a luoghi storici o istituzionali. Ma altre disposizioni hanno sollevato polemiche, come quella che sanziona chi fuma nei parchi giochi, che vieta di bere alcolici nelle aree verdi del centro, San Zeno e Veronetta (altre 320 multe) e che punisce il disturbo nei condomini e la «lesione della civile convivenza» causata dalla prostituzione negli appartamenti. Per finire con il provvedimento che ha scatenato la battaglia più rovente dell’estate, cioè il veto di strumenti musicali all’aperto dopo le 22. Il sindaco Flavio Tosi non fa marcia indietro e rivendica il rigore. «La città è più sicura. Le regole servono e vanno osservate. Le ordinanze fioccano anche nelle città amministrate dalla sinistra, è la gente che le vuole», ha ribadito. Ma è vero che divieti e multe sono graditi alla maggioranza dei cittadini? Quanto sono efficaci per risolvere le complesse problematiche dei centri urbani? E sono l’unica risposta possibile per garantire ordine e sicurezza?
Foto veronain
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I commercianti fino a due anni fa si sentivano padroni del centro storico. Oggi si sentono braccati. Immolati su quell’altare della sicurezza e della ferrea osservanza delle norme che, durante la campagna elettorale del 2007, imploravano per spazzare via i vu cumprà
Dall’osservatorio del difensore civico confermano che c’è, effettivamente, un’esigenza generale di quiete e sicurezza. E le richieste più frequenti dal centro e dai quartieri giungono per problemi legati ai rumori. Una cinquantina le pratiche aperte nel 2008 per bar fracassoni, concerti e schiamazzi notturni. Dal comando della polizia municipale riferiscono che nei week-end è una grandinata di telefonate, soprattutto dal centro storico, per la musica dei bar, il brusio dei gruppetti nei vicoli, gli schiamazzi di chi alza il gomito. Ma è anche vero, ammette Stefano Andrade Fajardo, difensore civico da poco succeduto ad Anna Tantini, che la tolleranza è in ca-
E altrove? da non credere... Sicurezza, parola dal vocabolario bipartisan. In principio fu Gentilini, il sindaco-sceriffo di Treviso, a fare dell’ordinanza l’arma per bandire dalla Marca clandestini, moschee, mendicanti e perdigiorno. Oggi in tutto lo Stivale imperversano provvedimenti firmati indistintamente da amministrazioni di destra e sinistra, pronte a cavalcare l’onda lunga dell’insofferenza e delle paure – vere o fittizie – dei cittadini. Del resto, era stato proprio il ministro Roberto Maroni, un anno fa, a sollecitare i primi cittadini a scatenare la fantasia. «Da voi mi aspetto idee creative», esortò, incalzandoli a sondare gli inesplorati poteri sul terreno della sicurezza urbana e del decoro. E in tanti lo hanno preso in parola. Se a Roma c’è Alemanno che ha dichiarato guerra ai poveri che frugano nei cassonetti con la norma “anti-rovistaggio”, a Pisa l’ex Pci Marco Filippeschi multa i punkabestia che usano i cani per chiedere soldi e chi utilizza i vicoli per i bisogni fisiologici. E, tra gli applausi del suo elettorato, costringe i baristi a fare da spazzini, ripulendo gli spazi esterni da tutta la sporcizia abbandonata dai clienti. In tema di accattonaggio è stato il Comune di Assisi a fare scuola, vietando la questua davanti alle chiese. In fondo, hanno osservato i frati, «Francesco mendicava, ma solo se non trovava sostentamento lavorando». Liquidato anche il principio cristiano della carità, sono corse a seguire l’esempio Venezia e Cortina, Firenze e Vicenza, dove è stato il sindaco di centrosinistra Achille Variati a vietare il sagrato agli accattoni. «Non ce l’ho con la povertà, ma con chi la sfrutta», si è giustificato. E lì, ma guarda un po’ quanto è coerente la politica, sono insorti Pdl e Lega. Ma il record delle normative più stupefacenti, che fanno apparire il nostro sindaco Flavio Tosi quasi un dilettante, spetta ai Comuni del centro-sud. A Termoli il Comune ha imposto la rimozione di vasi e fioriere dalle strade. E a Siliqua, 35 chilometri da Cagliari, una pensionata di 62 anni è stata multata per aver dato da mangiare a un cane randagio: è proibito. Ed è in attesa di un parere del ministro Maroni un’ordinanza anti-burqa del sindaco leghista di Fermignano, Comune marchigiano. Si salva, dal virus dei divieti, la piadina di Bologna la rossa. Eletta a baluardo anti-degrado con il via libera agli ambulanti, fino alle tre del mattino, nei viali di periferia. Qualcuno si sta accorgendo che, a furia di ordinanze, le città diventano deserte. E pericolose. (L.L.)
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Giorgio Gioco: gonne lunghe e camicie abbottonate L’alfiere della tradizione, il monumento vivente della veronesità sta con Tosi e le sue ordinanze, senza dubbio: «Ma col giusto equilibrio, beninteso». Il patròn dei Dodici Apostoli e re della cucina scaligera è un signore all’antica che il mondo se lo ricorda dall’alto della sua classe 1924: semplice, fatto di tanta povera gente, per dirla con lo scrittore Cesare Marchi, ma anche di sobrietà e buona educazione
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Per una buona pearà il consiglio che dispensa è la lunga e lenta cottura, oltre a una generosa masenàda di pepe nero. Per una Verona gradevole e vivibile sono quattro gli ingredienti che elenca: «Rispetto, equilibrio, disciplina e autodisciplina». Giorgio Gioco, patròn dei Dodici Apostoli e re della cucina scaligera, è un signore all’antica che il mondo se lo ricorda dall’alto della sua classe 1924: semplice, fatto di tanta povera gente, per dirla con lo scrittore Cesare Marchi, ma anche di sobrietà e buona educazione. Non gli piacciono i turisti in tshirt e bermuda, le compagnie di ragazzotti che scolano lattine di birra sulle panchine, nè quelli che scorazzano in scooter lungo corso Porta Borsari, nè tantomeno quelli che suonano i bongos in piazza Dante: «Se vogliono batte-
re il tamburo, vadano nella foresta». E dunque l’alfiere della tradizione, il monumento vivente della veronesità sta con Tosi e le sue ordinanze, senza dubbio: «Ma col giusto equilibrio, beninteso». Ci vuole rispetto per le città d’arte, scandisce Gioco, che non ha ricordi della Verona malvestita e un po’ sporca che fa capolino dai giornali del primo Novecento. Lancia un’occhiata di disapprovazione alla mise estiva della cronista e spiega: «Un secolo fa in riva all’Adige faceva caldo, molto caldo. Eppure nessuno sarebbe entrato in un ristorante a maniche corte. I maschi giravano con gilet e doppiopetto, le donne con gonne lunghe e camicie abbottonate fino al collo. Adesso le ragazzine camminano con l’ombelico fuori. E in via Mazzini vedi gli stranieri in pantaloncini e canot-
tiera. È giusto? No, che non lo è. E allora va bene la multa per chi gira a torso nudo. E sanzioni per chi fa schiamazzi, per chi si ubriaca e anche per chi mangia vicino ai monumenti. Le famiglie non educano più i figli. C’è troppa maleducazione, troppo permissivismo. E allora bene, se ci pensa il Comune a far rispettare le regole». Ma col panèto co la bòndola sbocconcellato sui gradini della piazza come la mettiamo? Cosa direbbe il buon Berto Barbarani della russa multata da una vigilessa per aver addentato la pizza sulla berlina? Che fine ha fatto l’anima genuina e sociale delle piazze? «Ecco, non bisogna esagerare. I vigili devono applicare le regole col buon senso e lasciare che si vada ai giardini a consumare lo spuntino. Che non si possa neanche mangiare su una panchina è un eccesso». (L.L.)
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Ordinanze città. Il nostro centro è diventato inaccessibile: posti di blocco nei punti più belli della città, sanzioni continue ai commercianti con motivazioni ridicole, controlli martellanti sugli avventori quasi fossero tutti delinquenti». C’è chi lamenta comportamenti delle forze dell’ordine poco ortodossi con la clientela e con i baristi. Documenti chiesti ai ragazzi davanti ai bar, toni bruschi con chi parcheggia il motorino per qualche minuto e contravvenzioni da centinaia di euro per lo yorkshire appisolato davanti al negozio del padrone. E pure le camionette dei militari, inizialmente accolte con
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duta libera: «Nei condomini si litiga su tutto: per le tapparelle, gli zoccoli di chi vive sopra, la lavasecco che lavora di notte. Si sta perdendo l’antica abitudine del dialogo e del buon vicinato». E c’è il rischio che a furia di ascoltare la pancia della gente si alzi il livello di conflittualità. Un anno fa il quotidiano britannico The Indipendent titolò duro contro l’ordinanza-mania dilagante nel Belpaese: «In Italia sono vietate tutte le cose divertenti». In centro storico gli esercenti concordano: «Sono spariti i vu cumprà, i lavavetri, gli spacciatori. E al nostro sindaco non possiamo che fare i complimenti – concede il capofila Marco Righetti, titolare del bar Rialto e del Campidoglio –. Ma cavalcando l’onda della sicurezza tanto sbandierata, si è pensato di bastonare cittadini e commercianti con interventi di repressione e punizione che non hanno riscontro nel passato della nostra
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Le camionette dei militari inquietano con quel continuo solcare i sampietrini di piazza Bra pure nelle serate di lirica. Davanti a stranieri sbigottiti
simpatia, inquietano con quel continuo solcare i sampietrini di piazza Bra pure nelle serate di lirica. Davanti a stranieri sbigottiti. «Un turista si è preoccupato e ha chiesto se stava succedendo qualcosa di grave – riferisce un barista del centro. Le guide confermano la sensazione di disorientamento delle comitive per una città sempre più proibita. «Non capiscono i nostri divieti. I cartelli blu peraltro sono incomprensibili – spiega Aurorà Soldà, dell’associazione Ippogrifo –. I tedeschi sghignazzano di fronte alle due figure che indicano il divieto di camminare a torso nudo. E chiedono se in Italia sia vietato tenersi mano nella mano. Gli inglesi non capiscono perchè nei parchi non ci si possa sdraiare sull’erba o sulle panchine. Loro, che hanno posti come l’Hyde park di Londra dove si fa di tutto, faticano a concepire che non si possa mangiare sui gradini o in piazza Erbe. Anche
perchè, osservano, se ci sono i banchi con le vivande è logico che da qualche parte si possano consumare». Così logico che hanno il loro bel daffare, i piassaròti, a spiegare che lì non si può mangiare. E che si rischiano 50 euro di multa, come accaduto a una turista russa sulla berlina. Nessuno lo sa e lì c’è sempre zeppo di turisti che mangiano, si rinfrescano alla fontana e si fanno fotografare incatenati. Tutti stupiti, se li avverti: «Scusi, non sapevamo – farfugliano due norvegesi, quasi vergognosi. Ma cosa pensano dell’ordinanza? «Stupid», rispondono, senza tanti giri di parole. Idem due francesi, che però informano che anche da loro, in qualche città, ci sono ordinanze del genere. «Noi li avvisiamo che non possono sedersi. Ma certo, non possiamo mica farlo sempre – spiega Valentina, terza generazione del banco di panini e pizze. Si lamentano più gli italiani, dice, degli stranieri. «Soprattutto la gente del Sud dice che siamo la città dei divieti. Un po’ hanno ragione. Una volta piazza Erbe era più folkloristica. Si mangiava dappertutto, era più viva». Un suo collega che vende frutta e macedonie ha messo un cartello per spiegare l’ordinanza, in inglese e tedesco: «Si sa che è stata fatta per alcune categorie di immigrati, che non sono abituati a regole. Però ad andarci di mezzo sono anziani e famiglie. Bisognerebbe mettersi nei loro panni e capire cosa vuol dire mangiare in piedi, quando le gambe non reggono. Certo, c’è l’area pic-nic in piazza delle Poste, ma non c’è neanche un cartello per indicarla. E c’è sempre pie-
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Foto G. Beltrame
Ordinanze «Ho beccato 50 euro perchè dormivo sotto l’arco del cortile del tribunale» racconta Raffaele, 49 anni. «Sono separato, non ho lavoro. Dormo su un cartone sotto la chiesa di Santa Maria Antica, il prete mi lascia. Ma alle cinque di mattina arriva il vigile e mi manda via. Dove dovrei andare? Compro pane e vino e vengo qui, non ce li ho venti euro per pagarmi una bottiglia ai tavolini di piazza Erbe. Ma non diamo fastidio a nessuno e non sporchiamo»
Piazza Dante, la protesta del “bonghisti”. Foto Claudio Martinelli
no di barboni». Lì, sul lato che confina con via Nizza, alle quattro del pomeriggio i tavoli sono affollati di senzatetto e suonatori ambulanti. Tutti lì, in barba alle ordinanze che avrebbero dovuto spedirli fuori dal centro. Vigili e militari passano di continuo a controllare e ordinano di mettere via il fiasco. I cartelli parlano chiaro: si può mangiare, non bere alcolici. E qualche volta multano. «Ho beccato 50 euro perchè dormivo sotto l’arco del cortile del tribunale – racconta Raffaele, 49 anni. «Sono separato, non ho lavoro. Dormo
su un cartone sotto la chiesa di Santa Maria Antica, il prete mi lascia. Ma alle cinque di mattina arriva il vigile e mi manda via. Dove dovrei andare? Compro pane e vino e vengo qui, non ce li ho venti euro per pagarmi una bottiglia ai tavolini di piazza Erbe. Ma non diamo fastidio a nessuno e non sporchiamo». Accanto un gruppo di emo-punk, adolescenti con lunghe frange nere e occhi bistrati, si lamenta perchè l’agente ha ordinato di svuotare le birre. «È una grande stronzata che in un luogo pubblico non si possa bere
Cambio pannolino sul basamento laterale della scalinata di Palazzo Barbieri . Foto Antonella Iovino
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– si sfoga Daniele –. Arriviamo da diversi quartieri, questo è il nostro regno. Compriamo qualche bibita al supermarket e ce la beviamo qua. Che male c’è?». «Tanto rumore per nulla, direbbe Shakespeare – commenta Franco Dusi, capogruppo del Pd in centro storico –. Tosi ha fatto una bella operazione ad effetto, ma i nodi rimangono. Certo, sono spariti i vu cumprà, ma resta il caos di auto e plateatici in centro storico, così come i barboni e i turisti che mangiano sui monumenti. Le ordinanze sono lo specchio del vuoto pneumatico della nuova politica». Secondo il presidente della prima circoscrizione Matteo Gelmetti, area Pdl, le norme hanno funzionato sul piano dell’ordine pubblico, ma per il commercio e le altre situazioni la strada del divieto creativo va stoppata. «Quando uno va in Svizzera, si chiede perchè tutto sia perfetto senza spiegamenti di polizia. Semplice. Nessuno sporca perchè nessuno lo fa. È qui che bisogna ripartire, dall’esempio e dalla sensibilizzazione». La vecchia educazione civica antidoto al far-west. E agli sceriffi.
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Salute QUALITÀ DELL’ARIA
Respiriamo veleni L’inquinamento ha effetti pesanti sulla salute e può provocare tosse, danni alle cellule, broncocostrizione e indurre anche il cancro. Nonostante questo c’è poca consapevolezza da parte della gente. E chi deve tutelare la salute cosa fa?
Nel 2007 si sono verificati 159 superamenti del limite giornaliero di PM10, un valore che per legge non dovrebbe essere superato più di 35 volte l’anno
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di Paola Bozzini L’aria che respiriamo è inquinata. Da anni più voci lo dicono con crescente allarme. L’ultima, in ordine di tempo, è risuonata a un convegno sul traforo delle Torricelle, indetto qualche mese fa al centro Mazziano. «Respiriamo veleni – ha detto Sergio Mantovani, consigliere della 5ª Circoscrizione che da anni si batte contro l’inquinamento atmosferico – e bisogna assolutamente intervenire per ridurre gli indici
degli inquinanti. Nella precedente Amministrazione, l’assessore Luciano Guerrini rendeva noti costantemente i dati sull’inquinamento, ma da allora è caduto un preoccupante silenzio. Non solo Borgo Milano soffoca, ma anche Borgo Roma affonda nello smog anche per la vicinanza con le autostrade e le tangenziali». Da questa dichiarazione pubblica siamo partiti per la nostra inchiesta. Purtroppo non è possibile avere i dati e gli indici per quartiere
perché le centraline dell’ARPAV (Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto) sono situate solo in Borgo Milano e al Cason del Chievo, mentre sarebbe interessante avere i dati disaggregati, visto che esiste una correlazione tra salute luogo in cui si vive. Dai rilevamenti effettuati dall’ARPAV, emerge che le polveri sottili, le PM 2,5, insieme al PM 10, sono il principale inquinante che incide sulla salute pubblica. La differenza fra le PM 10 e le PM 2,5 è che le prime sono inalabili ma si fermano tra il naso e la laringe, mentre le PM 2,5 penetrano nei polmoni. In generale le principali sorgenti di queste polveri sono: il traffico veicolare, le emissioni prodotte da attrezzature varie (edili/agricole) da aeroplani, navi, treni; le centrali termoelettriche e i riscaldamenti civili, più la combustione di legno, rifiuti e altro; le industrie, quali cementifici, fonderie e altre consimili; la combustione di residui agricoli. Nelle città, e quindi anche a Verona, i principali imputati sono il traffico e gli impianti di riscaldamento. Tutto questo ha effetti pesanti sulla salute e può provocare tosse, broncocostrizione, danni alle cellule e, se l’esposizione è protratta, può indurre anche il cancro. Nelle polveri PM10 sono presenti carbonio, piombo, nichel, composti come i nitrati, i solfati e miscele complesse fatte da particelle di suolo e scarichi di veicoli diesel. Analogamente le polveri PM 2,5 sono pericolose
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Salute Tra le principali cause di malattia e di morte nel 2006, il 32,9% si deve a tumori, mentre un altro 38,1% è dovuto a patologie del sistema circolatorio. Sommate insieme otteniamo un preoccupante 71%. E i decessi legati all’inquinamento ambientale sarebbero pari alla metà di quelli dovuti agli incidenti stradali
per la presenza di solfati, per il carbonio che proviene dalla benzina combusta (benzo (a)pirene) e per la presenza di metalli come cadmio, piombo e nichel. Verona ha più volte superato i limiti massimi previsti dalla legge (DL 351 del 1999 e DM n. 60 del 2002): valore limite annuale 40µg/m3; valore limite giornaliero 50µg/m3. Per saperne di più ci siamo rivolti al Dipartimento di prevenzione dell’ULSS 20 di Verona. L’ultima relazione sanitaria è datata 2007 e riporta alcuni dati di quell’anno, mentre per altri è ferma al 2006. Non è possibile trovare un collegamento diretto tra inquinamento e mortalità, ma emerge un quadro piuttosto preoccupante per la nostra salute, di cui la popolazione pare essere poco consapevole.
Tra le principali cause di malattia e di morte relative all’anno 2006, il 32,9% si deve a neoplasie di vario genere (nel 2004 era del 30,5%), mentre un altro 38,1% è dovuto a patologie del sistema circolatorio. La relazione, analizzando i dati del 2007, evidenzia che nell’anno si sono verificati 159 superamenti del limite giornaliero di PM10, un valore che per legge non dovrebbe essere superato più di 35 volte l’anno. «È indiscutibile – dice il professor Massimo Valsecchi, responsabile del Dipartimento – che l’inquinamento ambientale incide sulla salute dei cittadini. L’indice della mortalità in relazione a questo fattore è pari alla metà dei decessi per incidenti stradali. Anche se la durata media della
vita si è allungata – spiega Valsecchi – gli effetti dell’inquinamento atmosferico provocano nel tempo patologie croniche con conseguenze a lungo termine sulla salute». In particolare la media annuale di PM 10 in corso Milano è stata di 60µg/m3 contro i 40µg/m3 del limite stabilito. A questo tipo di inquinamento «è attribuibile una rilevante quota di patologie acute e croniche e una diminuzione della speranza di vita per i cittadini che vivono in zone con indici elevati» dice la relazione. Su questo fronte concordano anche gli esperti che hanno steso la “Metanalisi Italiana degli studi relativi agli effetti a breve termine dell’inquinamento” (MISA2) che ha preso in esame 15 città ita-
Vento e sole: due fonti di energia naturali ancora poco utilizzate e in grado di abbattere l’inquinamento atmosferico
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Salute Non è possibile avere i dati e gli indici per quartiere perché le centraline dell’ARPAV sono situate solo in Borgo Milano e al Cason del Chievo Valsecchi, ULSS 20: «Abbiamo avanzato al Comune, principale responsabile politico in materia, otto proposte che potrebbero realmente, e in tempi veloci, migliorare la qualità dell’aria»
liane, tra le quali Verona, per un totale di oltre 9 milioni di abitanti. Infatti MISA 2 ha evidenziato un aumento della mortalità giornaliera legato all’incremento della concentrazione degli inquinanti atmosferici. L’aumento di rischio, per la mortalità, si manifesta entro pochi giorni dal picco massimo d’inquinamento. Nel periodo compreso tra il 2002 ed il 2004 una media di 8.220 decessi ( il 9% nella popolazione al di sopra dei 30 anni) sono risultati attribuibili alla concentrazione di PM 10 superiore a 20µg/m3 , tenendo presente anche gli effetti a lungo termine. In particolare l’esposizione prolungata a PM 10 ha provocato tumori al polmone (742 casi l’anno), infarto (2562 casi l’anno), ictus (329 casi l’anno). Gli effetti acuti includono
cause cardiovascolari (843 casi l’anno) e cause respiratorie (186 casi per anno). A fronte di questi dati che parlano da soli, che fare per ridurre gli inquinanti? «Noi – dice il dottor Valsecchi – abbiamo avanzato al Comune, principale responsabile politico in materia (il sindaco è il più importante ufficiale sanitario) otto proposte che potrebbero realmente, e in tempi veloci, migliorare la qualità dell’aria. Resta da vedere quale sarà la risposta». Le proposte sono state consegnate nel 2008, insieme alla relazione. Eccole. Risparmio energetico Attraverso interventi diversi si possono ridurre le emissioni collegate ai riscaldamenti e ai raffrescamenti di case, uffici e centri commerciali. Oltre ad applicare nuovi standard edilizi per le costruzioni future, con caratteristiche di termoisolamento che permettono metodi di riscaldamento a basse temperature, è possibile attuare subito politiche di consulenza per promuovere il miglioramento degli infissi, della coibentazione, interna ed esterna, di edifici pubblici e privati in modo da ridurre gli indici di riscaldamento. Fonti di energia rinnovabile L’Ulss20 fa presente che nel territorio veronese sono presenti fonti di energia geotermica ed invita gli enti interessati ad avviare iniziative congiunte per vedere se questa fonte energetica sia utilizzabile onde ridurre l’uso di combustibili fossili. Maggiore utilizzo del metano per tutti i veicoli Questo intervento, già iniziato per gli autobus cittadini, andrebbe esteso subito anche ai parchi auto privati e di aziende pubbliche. L’Ulss 20 pone in evidenza il programma attuato dalla Provincia di Bolzano che ha promosso l’installazione di distributori domestici di metano per l’autotrazione privata, con notevole vantaggio ambientale e risparmio di costi per carburanti (circa 250 installazioni nel Trentino e una settantina nel resto d’Italia).
Allontanamento dei grandi attrattori di traffico La relazione sottolinea “l’occasione perduta” di decentralizzare l’Ospedale di Borgo Trento, decongestionando così il traffico in quest’area, e propone la creazione di un polo scolastico nella zona di Verona Sud da inserire all’interno di un grande parco onde eliminare il traffico nel centro e rimodulare la rete dei mezzi pubblici. Inoltre, sottolinea la necessità di creare sistemi di trasporto pubblico da e per la Fiera, onde precludere alle auto l’ingresso nel quartiere già super trafficato di Borgo Roma dove la Fiera è collocata. Questo tenendo presenti le logiche e gli obiettivi di molte città europee che hanno adottato sistemi diversi e più razionali anche per i flussi delle merci. Parco merci ferroviario La relazione indica la zona retrostante la Stazione di Porta Nuova come un’importante area da riqualificare e propone che la maggior parte di questa area, la cui vastità è pari all’estensione del centro città (entro le mura viscontee), sia destinata a parco urbano alberato, così da mitigare la bolla termica della città e possa servire da collegamento, con percorsi ciclabili e pedonali, fra la periferia e il centro. Sperimentazione di un quartiere periferico Secondo l’Ulss 20 un miglioramento complessivo della qualità dell’aria si potrebbe ottenere realisticamente subito con alcuni miglioramenti parziali, come appunto una sperimentazione di quartiere, da attuare con i cittadini interessati, per rivedere la mobilità in modo da favorirne una alternativa agli automezzi (car pool, piste ciclabili, pedonalizzazioni ecc). Uso delle due ruote Poiché in numerosi centri italiani questo sistema di trasporto si è dimostrato vincente per abbattere il traffico, l’Ulss 20 suggerisce la creazione di una rete di piste ciclabili sicure che colleghino in modo adeguato ogni punto dell’abitato così da incentivare l’uso
Luglio 2009
Salute
Pediatra e pneumologo ci informano sui rischi Tosse cronica, catarro, improvvisa mancanza di respiro, fatica a fare il minimo sforzo sono campanelli d’allarme e validi motivi per rivolgersi ad uno specialista Sabrina Vinco, pediatra: «Una mamma che va sul marciapiede con il passeggino, in una strada trafficata, non si rende minimamente conto, e non è stata informata a sufficienza, dei danni che questo può provocare nel figlio» Roberto Dal Negro, pneumologo: «La popolazione non è sufficientemente informata», ribadisce Dal Negro. «L’asma viene considerata un disturbo passeggero ed è confusa con l’allergia»
in VERONA
di Marta Bicego Cittadini inconsapevoli, perché non sufficientemente informati degli effetti negativi che l’inquinamento può provocare sulla salute. Che le polveri sottili possano essere causa di danni all’organismo è cosa risaputa e accertata da studi a livello internazionale, ma bisogna fare un passo in più e capire: quanta consapevolezza esiste tra la gente comune? Poca secondo i medici che abbiamo interpellato e la situazione riguarda tanto il mondo degli adulti quanto quello dei più piccoli. «Una mamma che va sul marciapiede con il passeggino, in una strada trafficata, non si rende minimamente conto, e non è stata informata a sufficienza, dei danni che questo può provocare nel figlio» spiega Sabrina Vinco, pediatra convenzionata Ulss 20 con ambulatori in Lessinia. L’apparato respiratorio di un bimbo è in fase di strutturazione, perciò incapace di difendersi e reagire a determinati stimoli: oltre alla tossicità diretta sui polmoni, gli inquinanti producono stress ossidativi, infiammazione delle vie aeree e possono causare asma in soggetti geneticamente suscettibili. C’è poi l’esposizione passiva al fumo di sigaretta, per cui un bimbo viene a contatto con gli inquinanti fin da quando è nel grembo materno. «Nella mia pratica quotidiana – prosegue – noto una differenza tra i bambini che abitano in città, quindi in ambienti prevalentemente chiusi, rispetto a quelli che giocano all’aria aperta e stanno a contatto con animali domestici e da cortile». Il rovescio della medaglia è l’ecces-
so opposto, evidenzia la pediatra, per cui «la paura di vivere in un ambiente troppo inquinato può indurre il genitore a voler sterilizzare sempre tutto. Questo aiuta da una parte, ma stimola meno lo sviluppo del sistema immunitario: è come vivere sotto una campana di vetro, che però non può durare per sempre, così il primo contatto con virus e batteri provoca situazioni più pesanti». «Asma bronchiale, bronco pneumopatia cronica ostruttiva (bpco), cancro al polmone. Sono le tre grandi forme di patologie sensibili al fattore inquinamento, il quale» precisa Roberto Dal Negro, primario della Divisione di pneumologia e fisiologia respiratoria all’ospedale Orlandi di Bussolengo, «è causa determinante del 15-20 per cento di queste ma-
lattie». Se il rischio di morte aumenta con la vicinanza alle arterie di maggiore traffico, è documentato che le polveri sottili hanno «influenza peggiorativa sulla condizione allergica: aumentano incidenza e prevalenza di malattie allergiche che apparentemente sembrano non essere correlate». Tutto ciò si traduce in costi – che nell’ultimo quinquennio sono raddoppiati per quanto riguarda l’asma, quasi triplicati per la bpco – ai quali il sistema sanitario non è in grado di far fronte. Il costo dei farmaci incide minimamente. Il 70-75 per cento della spesa (fino all’80 per la bpco) è infatti dovuto a ricoveri ospedalieri, pronto soccorso, visite mediche. Cifre che aumentano con l’aggravarsi della malattia». La presenza di tosse cronica, catarro, improvvisa mancanza di respiro, fatica a fare il minimo sforzo devono essere campanelli d’allarme e validi motivi per rivolgersi ad uno specialista. «La popolazione non è sufficientemente informata», ribadisce Dal Negro. «L’asma viene considerata un disturbo passeggero ed è confusa con l’allergia». Altrettanto approssimativa è la percezione della gravità della bronco pneumopatia cronica ostruttiva, che «può portare alla grave insufficienza respiratoria, alla dipendenza da ossigeno, all’invalidità totale». Si protrae per 30-35 anni e non procede per avanzamenti repentini, anzi, la parte precoce viene difficilmente diagnosticata in tempo e una persona si trova già malata da vent’anni. «È una patologia dalla quale non si torna indietro, che è destinata a essere l’epidemia del prossimo millennio».
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Salute
L’assessore all’Ambiente Federico Sboarina: «Copriremo il tetto dello stadio con un grande impianto fotovoltaico che permetterà a molti cittadini di fruire di energia pulita. A ciò si aggiungeranno i contributi per la metanizzazione delle auto e per le bici elettriche. È in arrivo la filovia e noi di AN siamo favorevoli, ma solo se il motore usato in città sarà alimentato con sistemi non inquinanti»
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della bicicletta come mezzo di trasporto. Sistema di trasporto di massa Questa ultima proposta, secondo l’Ulss 20, è la proposta prioritaria che dovrebbe costituire la spina dorsale attorno alla quale porre in atto tutti gli altri interventi sopra citati. Che sia una tramvia o una metropolitana di superficie o altro è comunque basilare attuare un trasporto pubblico efficiente, veloce, non inquinante. Ed è questo il vero banco di prova che dimostrerà la reale volontà politica di cambiamento nello stile di vita della città. Su queste otto proposte, abbiamo interpellato l’assessore comunale all’Ambiente Federico Sboarina. «Va detto prima di tutto – ha esordito Sboarina – che lo scorso anno abbiamo affidato all’Università di Trento lo studio di un piano organico che interessi non solo Verona ma anche i 14 Comuni della cintura, più altri dieci che ho voluto inserire io. Questo perché un intervento per ripulire l’ambiente deve essere ben pianificato. La relazione stesa dall’ULSS 20 parla di indici molto elevati, ma nel corso di questi anni gli sforamenti sono passati da 222 a circa 100, ed è già un buon risultato. Quanto all’utilizzo delle energie alternative, abbiamo varato il finanziamento per coprire il tetto dello Stadio con un grande impianto fotovoltaico che per-
metterà a molti cittadini di fruire di energia pulita. Sarà uno degli impianti più grandi d’Europa. A ciò si aggiungeranno i contributi comunali per la metanizzazione delle auto private e per le bici elettriche, due cose che sino ad ora erano effettuabili solo se arrivavano i fondi della Regione. Per quanto riguarda i parcheggi, non ci sarà bisogno di costruirne di nuovi in quanto quelli scambiatori, già esistenti, possono essere usati dai pendolari che ogni giorno vengono a Verona. Con un servizio di bus navette, il cui costo sarà molto contenuto, si potrà lasciare l’auto in periferia e raggiungere agevolmente il posto di lavoro senza portare l’auto in
centro. Si tratta di aiutare le persone a mutare abitudini e mentalità offrendo loro un servizio pubblico efficiente che disincentivi la sosta in città, con relativa multa. Anche per i riscaldamenti è in atto una campagna di aiuti comunali per trasformare le caldaie in modo da usare il metano anziché il gasolio. Per le piste ciclabili poi, alcune, fra molte proteste, le abbiamo tolte perché pericolose, tuttavia ne abbiamo aperte altre, parallele o lungo tracciati alternativi, con criteri di maggiore sicurezza. La possibilità di usare le corsie preferenziali dei bus, vige solo là dove le bici non possono creare intralcio al traffico e nel contempo essere sufficientemente sicure». Tutto questo quanto tempo richiederà? «Il problema dell’inquinamento non si può risolvere a breve. Servono tempi adeguati per realizzare una serie di interventi i cui benefici si sentiranno col tempo. Per il trasporto veloce di massa invece, il Cipe, proprio in questi giorni ha dato il via libera alla costruzione di una filovia che non richiederà scavi e blocchi del traffico come quelli previsti per la tramvia. Certo, in periferia torneranno le cosiddette “tiracche”, ma in centro storico la filovia funzionerà con un trattore normale. Noi di An siamo d’accordo, ma solo se il locomotore sarà alimentato con sistemi non inquinanti».
Luglio 2009
RIFLESSIONI
Dall’antenna Wind di Montorio un appello alla responsabilità di Corinna Albolino Che cosa diremo a quelli che nascono ora? Che scusa troviamo per questo disastro umano? (Mariangela Gualtieri) Chi non conosce Montorio? Il suo antico castello scaligero e poi i suoi Fossi, quelle risorgive che diramandosi dal laghetto Squarà si disseminano a reticolo per tutto il territorio della frazione? E nei pressi del laghetto, l’antica chiesa di Santa Maria Assunta, datata 1100? Ebbene qui, in quest’area di pregio e rispetto paesaggistico, si voleva installare un’antenna della telefonia mobile Wind alta 24 metri e solo grazie alle proteste dei cittadini sarà posizionata nella zona industriale, in via di Castagni portando l’altezza a 37 metri. Rifacciamo la cronaca della vicenda perché quanto è accaduto ci serve a introdurre una riflessione. È successo tutto alla chetichella. La segnalazione di un cantiere vicino al laghetto, le ruspe in azione e la posa di un basamento in cemento armato. Sorpresa, sgomento! Come era potuto accadere? Chi aveva permesso quello scempio? I cittadini si mobilitano. Protestano, vogliono sapere. Nessuno sa, si palleggiano le responsabilità, ma poi le carte parlano: tutto è regolare. Assenso unanime, comprese le opposizioni politiche che dopo deboli attenuanti, alla fine confessano la “distrazione”. Colmo dell’incuria, si dimentica perfino che questo luogo sacro era stato affidato al gruppo scout che qui aveva eletto un suo punto di aggregazione. La polemica si accende, i cittadini coinvolgono i media, interpellano esperti d’arte, ma anche consulenti di sanità pubblica per il rischio da campi elettromagnetici. Si raccolgono 1200 firme. I consigli, le riunioni a tutti i livelli si intensificano, si sospendono momentaneamente i lavori, si cercano soluzioni alternative, mediazioni possibili con la Wind. Ed ecco la riflessione. Sarebbe riduttivo infatti leggere il problema “antenna di
in VERONA
A partire da un caso concreto, l’antenna di Montorio che doveva essere installata in un luogo incantevole e storicamente significativo, una riflessione sulle priorità, un appello alla responsabilità, dell’uomo verso una natura che mai come oggi è a rischio. Una natura che, come sostiene il filosofo Hans Jonas, va riscattata dall’arbitrio del nostro potere e recuperata in un’ottica di dedizione. Agire allora in una prospettiva che guardi alla dignità, al rispetto dell’armonia del cosmo, significa assolvere un dovere verso l’umanità, lavorare per la sua continuità, il suo futuro
Montorio” solo in termini di una vivace polemica che vede schierati da una parte la sensibilità estetica, politica degli abitanti per la salvaguardia dei loro beni d’origine, la difesa emotiva di un luogo simbolo per gli scout, dall’altra il semplice adeguamento delle istituzioni alle leggi del mercato o la negligenza del comportamento di alcuni amministratori, che spesso si scordano che la democrazia, come ricorda Tocqueville, è il potere di un popolo informato. Liquidatoria suona altresì la generalizzazione che un’antenna in più o in meno non modifica un territorio che ne conta già sette. Patetico il suggerimento di risolvere l’impatto ambientale mimetizzando il palo con i colori della natura. La questione è più seria, è di principio. Chiama in causa il rispetto dell’ambiente
come patrimonio paesaggistico e storico dell’umanità. Una ricchezza che qui si è osato pensare di oltraggiare, di sacrificare per mere esigenze commerciali. E d’altra parte se è possibile, se la violenza ad un luogo, seppur sacro, non costa niente, perché non farlo? L’appello diventa allora alla responsabilità, responsabilità come respondere dell’uomo ad una natura che mai come oggi è a rischio. Una natura che, come sostiene il filosofo Hans Jonas, va riscattata dall’arbitrio del nostro potere e recuperata in un’ottica di dedizione. Agire allora in una prospettiva che guardi alla dignità, al rispetto dell’armonia del cosmo, significa assolvere un dovere verso l’umanità, lavorare per la sua continuità, il suo futuro. Nei confronti dunque di ciò che è ricchezza storica, emblema di tradizione e bellezza deve vigere una sorta di obbligazione morale. Impegnarci in questa direzione sarebbe già una risposta etica forte all’allarme posto dai problemi causati da un mondo tecnologico che, alleatosi al sistema economico, fonda le sue regole solo sulla produzione e sul consumo delle merci. Un apparato tecnico-scientifico che sembra muoversi in modo assolutamente a-morale, indifferente a ogni valutazione etica, secondo coordinate che sono solo di efficienza, funzionalità. Una tecnica incurante dei misfatti che produce, perché alla fine troverà sempre una soluzione tecnica. Inconsapevole però, nel suo delirio d’onnipotenza, che il tutto si regge su un atto di fede, in quanto anche la natura ha una fine, non è più pensabile come bene inesauribile. Ormai da diversi anni la comunità scientifica più sensibile ha trovato udienza nei summit internazionali che chiedono ai Paesi industrializzati di autolimitare i propri insulti ambientali e di imboccare la strada virtuosa di un’economia eco-sostenibile che faticosamente sta aprendosi spazi di mercato. Ma il prevalere degli interessi immediati, sollecitati ora dalla crisi globale, porta a procrastinare continuamente il calendario delle decisioni politiche e... tempus fugit.
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Forum ASSOCIAZIONI E POLITICA
Sinistra: meno apparato e più aperti alle novità Associazioni e movimenti fanno le pulci ai dirigenti della sinistra veronese. Litigiosità, distanza dalla gente, scarsa attenzione alle potenzialità dei cattolici
Comitati e movimenti puntano il dito sulla distanza dal territorio e dalla gente, rinfacciando alla sinistra di aver abbandonato le piazze, i bar e le riunioni delle associazioni. Salvo poi chiedere il sostegno nei momenti elettorali
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Divisa e incapace di comunicare. Ecco il giudizio dell’associazionismo cittadino nei confronti della sinistra (dalla più moderata alla più radicale) veronese. Le associazioni che operano a vario titolo sul territorio che, pur dichiarandosi apartitiche si ispirano a valori e principi propri della tradizione progressista, sono in parte deluse e in parte fiduciose dei politici di sinistra e centrosinistra, sia locali che nazionali. Comitati e movimenti puntano il dito principalmente sulla distanza dal territorio e dalla gente. Rinfacciano ai politici di
aver abbandonato le piazze, i bar e le riunioni delle associazioni, di aver evitato il dialogo e il confronto, salvo poi chiedere sostegno nei momenti elettorali, ma li assolvono, almeno in parte, a causa di un’informazione che ritengono poco libera e non in grado di garantire il pluralismo. E il suggerimento per uscire dallo strapotere del centrodestra, e in particolare quello leghista a Verona, è da parte delle associazioni lo stesso: rinnovarsi con una formula nuova che coinvolga maggiormente la gente e cambiare linguaggio,
usandone uno più semplice e diretto, senza troppi distiguo. Ma per dire le cose chiaramente, fanno capire i responsabili dei vari gruppi veronesi, bisogna avere idee chiare e unitarie. E questa, forse, è la cosa più difficile da realizzare soprattutto in un’area culturale che ha storicamente fatto del rispetto delle idee altrui il proprio fondamento, invece che limitarsi allo spirito di obbedienza e cameratismo più rappresentativo del centrodestra. È possibile una sintesi? Pare proprio ciò che chiedono le associazioni.
Luglio 2009
Forum Mao Valpiana: «Se la sinistra veronese vuole ricostruirsi deve essere un’alternativa a Flavio Tosi. Ci sono fenomeni, come “Nella mia città nessuno è straniero” e “Verona città aperta”, che sono due modalità nuove di fare politica»
MAO VALPIANA Movimento per la nonviolenza Candidato alle ultime elezioni provinciali per i Verdi la Colomba (a supporto di Diego Zardini del PD), quella di Valpiana è un’analisi storica, ma anche un’autocritica. «Penso che la sinistra veronese non abbia saputo rinnovarsi, storicamente non è mai stata una sinistra aperta alla novità. Anche nella mia esperienza il Movimento a cui appartengo è sempre stato visto con sospetto o sufficienza. Inoltre in passato, la forte presenza democristiana non dava possibilità di espressione alla sinistra, se non andando a patti con il sindaco della Dc. La sinistra a Verona è cresciuta così: non è mai stata ribelle, ma legata al potere, tant’è che, quando ha avuto modo di andare al governo della città, ha cercato di assomigliare più a una coalizione di centro, candidando persone di area democristiana come Paolo Zanotto e Giuseppe Brugnoli». «L’altra parte della sinistra, quella più radicale, è cresciuta invece nella concezione di se stessa come rivoluzionaria mantenendo un carattere di antagonismo, con una forte connotazione anticlericale. E proprio questo, a mio parere, è stato l’errore: non aver capito il mondo cattolico veronese che, di fatto, l’ha costretta ai margini. Il risultato è che oggi abbiamo una sinistra divisa in molti gruppi e poco aperta alle istanze giovanili, troppo legata ai vecchi riti della politica, con le stesse fi-
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nalità e le stesse persone, incapace di immergersi nelle novità». «Se la sinistra veronese vuole ricostruirsi deve essere un’alternativa a Flavio Tosi, guardando a novità come “Nella mia città nessuno è straniero” e “Verona città aperta”, che sono due modalità nuove di fare politica, che permettono di entrare in sintonia con la parte cattolica (quella che ha ancora voglia di fare qualcosa) e di non avere la puzza sotto al naso dicendo che la gente non capisce. Le associazioni sono state considerate dalla sinistra, nel migliore dei casi, dei fratelli minori, utili in campagna elettorale ma poi non coinvolte con all’atto pratico». «Durante gli anni della gestione Zanotto, la sinistra ha perso l’occasione di coinvolgere le associazioni e ha preferito dialogare con i poteri forti. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: Verona sud, traforo e tranvia. È mancata un’attività di urbanistica partecipata e responsabile nella riprogettazione della Zai. Il traforo si poteva bloccare con dei puntelli seri nel Pat che lo rendessero irrealizzabile. E la tramvia? Beh, si sono lasciati passare cinque anni senza far partire i lavori a causa dell’immobilismo e di una litigiosità interna senza pari che ha fatto sprecare un’occasione storica e irripetibile per la città». PAOLO FABBRI Amici della bicicletta «Sono tre le cose da recriminare alla sinistra veronese quando era al governo della città: a) una sor-
prendente e inattesa mancanza di confronto e di dialogo permanente con le associazioni. Nel nostro caso Carlo Pozzerle, allora assessore alla Mobilità, e quindi nostro referente, ci ha ricevuto non più di quattro volte in tutto il mandato. b) È sembrato fin da subito chiaro che, riguardo la mobilità, mancava un modello di riferimento. Se lo hai, fai scelte coerenti e sinergiche, altrimenti rischiano di essere contraddittorie. c) È mancata la consapevolezza della necessità di una comunicazione efficace, che doveva trovare spazio anche in un ambito difficile come Verona. Serviva una forma autonoma di informazione che non è stata trovata (se si esclude il giornalino comunale). Oggi passata all’opposizione la sinistra ancora non riesce a comunicare in modo efficace. A mio avviso andrebbe recuperata Radio Popolare che potrebbe assolvere alla funzione di altra campana». «Nel Partito Democratico continuano alcune manchevolezze, ma al contempo vedo maggiore attenzione e consapevolezza verso la mobilità sostenibile. Nell’ultima campagna elettorale, per esempio, Diego Zardini e Giuseppe Campagnari mi sono sembrati una risposta concreta e rispettosa dell’ambiente e ora c’è da sperare che l’onda lunga di Barack Obama arrivi anche qui. Dopo il disincanto, speriamo ora nel reincanto». MICHELE BERTUCCO Legambiente «L’incapacità generale di parlare alla città e alla gente. Questa è la colpa del centrosinistra veronese. Bisognava tornare nei bar, nelle piazze e testimoniare alla gente modalità diverse di fare politica. Invece è mancata e manca la presenza sul territorio, ci si è affidati solo agli slogan nazionali. Ma questi non bastano. Serve una scuola politica che insegni ad esprimersi in modo corretto. Al contrario di quanto fanno i partiti a gestione padronale, come Lega, Pdl e Italia dei valori, il PD è incapace di parlare un linguaggio unico, c’è sempre chi deve fare un distinguo, dando così l’impressione di non avere un’idea precisa. Invece di appari-
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Forum
Michele Bertucco: «Al contrario di quanto fanno i partiti a gestione padronale, come Lega, Pdl e Italia dei valori, il PD è incapace di parlare un linguaggio unico, c’è sempre chi deve fare un distinguo, dando così l’impressione di non avere un’idea precisa»
re come una forza unita, sembrano più forze che parlano lingue diverse. E, sia a livello nazionale che locale, si assiste a più correnti che fanno politica per sostituirsi dentro lo stesso partito invece che sostituirsi al governo in carica». «La sinistra più radicale invece è frammentata e non si rende conto che la società è in cambiamento e bisogna dare risposte. Non è semplice, ma più generalmente si pensa sia sufficiente comunicare alla stampa la propria contrarietà a questo o a quella iniziativa, piuttosto che avvicinare le persone direttamente. A mio avviso questo momento deve servire a ripartire con un movimento politico con struttura democratica e con un linguaggio moderno che abbandoni i vecchi modi della politica». «Personalmente sono deluso dell’operato dei consiglieri comunali di opposizione: sono incapaci di far uscire le questioni che si trattano in Consiglio. Quando invece il centrosinistra è stato al governo, noi di Legambiente venivamo considerati come fuoco amico, se andava bene, dei rompiscatole, ed era difficile parlare con l’Amministrazione (ci si riusciva ma a fatica). Ci aspettavamo scelte molto precise sulla tranvia, il Pat, le piste ciclabili e la valorizzazione del verde, che però non ci sono state, nonostante l’amministrazione Zanotto, qui va riconosciuto, su questi specifici temi abbia cercato il confronto. Oggi è praticamente quasi impossibile avere ai nostri dibattiti gli assessori della giunta Tosi» MARIO LONARDI Movimento Laici per l’America latina (Mlal) Anche lui, come per Valpiana, una duplice veste. Iscritto al Pd (ex Margherita), già sindaco (per due mandati) del comune di San Martino Buon Albergo, è presidente del Mlal. «Parlando in generale, siamo in un momento in cui la politica rischia di non avere luoghi di confronto vero con le associazioni. Il rischio è quello di due mondi paralleli che vivono le problematiche in modo distinto e non comunicativo. Non bastano incon-
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Michela Faccioli: «Bisogna però ammettere che a contribuire alla situazione attuale c’è anche una crisi di libertà degli organi di comunicazione che lascia veramente poco spazio al centrosinistra» tri occasionali, ma servono idee sul futuro della città. E anche il PD non sfugge a questo problema: infatti non è riuscito a trovare questi luoghi e conquistare così la fiducia dei cittadini». «Il centrosinistra a Verona, come nel resto d’Italia, sconta una divisione che non fa bene. È difficile che i cittadini capiscano, perché mancano concetti semplici e unitari. Si è arrivati alle ultime elezioni in maniera distinta. Anche se i partiti vanno ricostruiti non significa che debbano essere uguali a quelli del Novecento. Serve una nuova interpretazione, una declinazione in senso federale per recepire le necessità del territorio. Invece il PD locale non ha fatto altro che copiare le strategie nazionali, con pregi e difetti. A Verona serve una strategia di alleanze per superare il concetto di bipartitismo che ha imprigionato il PD, impedendogli, ad esempio, di integrare la lista civica di Ugoli per le provinciali. Non è tanto per lo 0,5% ottenuto da questa lista, che non avrebbe inciso in modo significativo sul risultato finale, ma per lo spreco di risorse, di entusiasmo che si è determinato». «Da parte del centrosinistra veronese serve più autonomia e autorevolezza nel dire ai dirigenti nazionali che alcune strategie qui da noi non funzionano. E se un segretario provinciale non ha la forza per farlo, finisce solo per essere il guardiano della burocrazia del partito». «È anche vero che il mondo cattolico è stato abbandonato, per incapacità o per scelta. La sinistra ha perso così il confronto con questo mondo perdendo la ricchezza e lo slancio che da esso poteva arrivare».
ALBERTO SPEROTTO Comitato contro il collegamento autostradale delle Torricelle. «Ovviamente posso parlare della questione che mi vede coinvolto, ovvero il traforo, e devo dire che se i partiti della sinistra radicale hanno sempre avuto una posizione estremamente chiara, come del resto anche “Per Verona Civica” di Edoarto Tisato e Patrizia Bravo, il Partito Democratico non si è espresso in modo univoco. Basti pensare alle ultime elezioni provinciali, dove la candidata di Borgo Trento, Silvia Allegri, dichiarava «No al traforo», mentre a Montorio, Marco Burato usciva con un volantino che diceva «Sì al traforo non a pagamento, pagato con i soldi del ponte di Messina». Anche la Lega ha fatto volantini, diversi a seconda dei quartieri. L’obiettivo finale pare quindi quello di correre dietro a ciò che la gente vuole sentirsi dire, piuttosto che esprimere con chiarezza le proprie convinzioni». «In Provincia il PD è coeso, con un mix di giovani e persone esperte che fanno ben sperare. In Comune invece il centrosinistra è più frastagliato. I consiglieri di opposizione si battono, ma hanno difficoltà a far uscire le proprie opinioni. Dovrebbe essere affrontato una volta per tutte il problema della comunicazione, utilizzando sistemi diversi dalle pagine dei giornali, come ad esempio le manifestazioni di piazza. «La giunta Zanotto, a mio avviso, ha fatto tanto, ma molto non è emerso. Per quanto riguarda il traforo però, la possibilità è rimasta nel Pat, e la tramvia non è stata appaltata. Secondo me, il centrosinistra deve riuscire a trovare linguaggi semplici e tornare sul territorio, incontrare i comitati che ne sono un’importante espressione. Invece spesso sono visti come antagonisti, forse perché fanno politica vera». LUCIO DE CONTI Associazione Villa Buri «La critica che si può fare alla sinistra veronese è di una mancanza di presenza sul territorio. Si aspettano le novità, non ci sono proposte e, per esempio sui temi della sostenibilità ambientale e
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Forum
Mario Lonardi: «Da parte del centrosinistra veronese serve più autonomia e autorevolezza nel dire ai dirigenti nazionali che alcune strategie qui a Verona non funzionano»
dell’integrazione, ci si barcamena un po’. Il PD non è molto aperto, alla fine sono sempre i soliti noti, vengono ricalcati schemi già visti. Nella sinistra radicale invece si coinvolgono poco le persone e non si creano occasioni di approfondimento, si va avanti con gli slogan mentre, soprattutto a livello locale, c’è bisogno di essere più incisivi. La giunta Zanotto per tanti aspetti ha fatto acqua, però ha dimostrato un’attenzione al territorio, ai diritti che andrebbe valorizzata e ripresa». MICHELA FACCIOLI Arci Verona «Il risultato elettorale registra un periodo nerissimo per la sinistra veronese, come per quella nazionale. Credo che le azioni del centrosinistra abbiano avuto come conseguenza un disamore dell’elettorato tradizionale. Insomma si è riusciti a scontentare un po’ tutti, fissando l’attenzione soprattutto sui temi dello sviluppo della città, sulle grandi trasformazioni e meno sui problemi di tutti i giorni, con scelte poco incisive. Insomma è mancata una politica popolare che è in parte causa del disastro di queste elezioni».
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«Bisogna però ammettere che a contribuire alla situazione attuale c’è anche una crisi di libertà degli organi di comunicazione che lascia veramente poco spazio al centrosinistra». ENZO FIOR Emmaus Villafranca «Mi pare che quando il Partito Democratico ne ha avuto l’opportunità ha saputo governare bene, con una capacità e un’attenzione sia a programmi a lungo termine sia alle realtà più immediate. Però ci sono elementi che negli ultimi anni la sinistra non ha saputo cogliere, o se li ha colti non è riuscita a dare risposte concrete, ma solo teoriche. Uno di questi è il fenomeno dell’immigrazione. Il centrosinistra non si è reso conto che doveva declinare le risposte alla popolazione, come invece ha saputo fare la Lega sull’altro fronte, andando a parlare alla pancia della gente. Credo che ci sia un abisso culturale tra centrosinistra e centrodestra, difficilmente colmabile. Ma al centrosinistra manca la capacità di parlare alla gente per far comprendere che questo è un momento drammatico e che la risposta a certi problemi non
può semplicemente essere che“non vogliamo un’Italia multietnica”». «Bisogna quindi trovare un linguaggio nuovo, smettere di litigare, unirsi condividendo un progetto». PAOLO VERONESE Pax Christi «A Verona non esiste un centrosinistra unito e le recenti elezioni hanno evidenziato ancora di più tale spaccatura. Sono quindi critico nei confronti della sinistra (tutta) veronese perché credo necessario uno sforzo unitario progettuale che presuppone l’abbandono dei personalismi. L’opposizione veronese dovrebbe mettere maggiormente in evidenza le contraddizioni della Lega e del centrodestra. Essere in minoranza non significa essere persi o perduti, ma partendo da questa condizione si può condurre un’azione efficace di opposizione chiara, ad esempio sui diritti negati, sulle nuove povertà, sulla laicità, a difesa della scuola e della sanità pubblica. Insomma è necessario fare opposizione e non utilizzare l’antiberlusconismo come unico aggregante, magari per nascondere mancanza di idee e progetti». (N.N.)
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INTEGRAZIONE
Immigrati: non solo numeri di Jean-Pierre Piessou * Quando si parla di una cosa citando continuamente dei numeri, delle statistiche si finisce poi per rendere quella cosa una realtà fredda, lontana dal cuore umano e soprattutto si rischia di renderla banale. È il caso della “questione” immigrazione a Verona. Purtroppo per molti, anche per gli addetti ai lavori, parlare di questo fenomeno significa porsi domande come: quanti sono, da quali paesi vengono, qual è la loro incidenza nel territorio, dove vivono, quanto è elevato il reddito interno lordo che producono, quanto spendono… L’immigrazione è invece una realtà dinamica, fatta di volti e di storie, di persone che si incontrano lungo le arterie di Veronetta, Piazza Bra, San Zeno, Borgo Milano, Chievo, San Massimo, Santa Lucia, Zai, Avesa, Poiano, Quinzano, Parona ecc.. e occorre che questa realtà venga letta senza iconografie particolari, togliendola dagli ambiti in cui è stata relegata in questi anni: della sicurezza, dell’ordine pubblico, del decoro. Ci sarebbe da porsi una serie di interrogativi su come a Verona si sia riusciti a proporre idee e progetti organici per sostenere il cammino di questi concittadini. Palesi violazioni di elementari diritti sono state invano denunciate da operatori del settore, dalle organizzazioni sindacali e da legali. Questo sta ostacolando il lento cammino avviato negli anni dal mondo del volontariato e dalle associazioni di immigrati che si sono impegnati per un’integrazione rispettosa e coerente ai principi del vivere civile del paese ospitante e per il rispetto dei valori di coloro che provengono da paesi diversi. La caratteristica essenziale dell’immigrazione è quella che fa di essa una realtà dinamica, in movimento, in Bewegung come si direbbe in tedesco. Una specie di cantiere aperto anche nella nostra provincia su cui si inizia a lavorare. Se è vero che in dieci anni le persone immigrate nel territorio di Verona sono passate dalle 25.000 alle circa 90.000 unità, con una tendenza all’incremento, la cosa più impressionante è la crescita esponenziale della seconda generazione a conferma della forte dinamicità del fenomeno.
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Quando parliamo di seconda generazione (G2) ci riferiamo alle ragazze e ai ragazzi nati in Italia e a Verona da genitori immigrati ormai stabili, di giovani nati anche da coppie miste o giunti in Italia attraverso il processo di ricongiungimento familiare. Mentre per i primi arrivati si pone tutta la fatica della comprensione linguistica e culturale, nonché del contesto, i nati in Italia vivono giustamente la loro presenza sul territorio come un atto naturale ma spesso ingiustamente vengono chiamati stranieri. Questi ragazzi della seconda generazione hanno come unica “colpa” quella di avere dei genitori che si chiamino Mohamed, Gheorghe, Zhou, José, Warnakulasuriya ecc. in possesso del famigerato permesso di soggiorno, spesso fonte di lacrime, di dolori, di umiliazione, di frustrazione, di perdita di senso e di orizzonte. Per non parlare poi di quelli che il permesso non lo hanno e che vivono da disperati, in condizione di sfruttamento, con figli che finiscono per rimanere clandestini come i loro genitori. Gli immigrati sono persone alla ricerca di una migliore condizione di vita, mentre troppo spesso, anche grazie agli interventi di alcuni amministratori e dei mass media, l’attenzione viene posta sulla questione della criminalità. Sembra infatti che ai giornali e alle televisioni interessi solo l’aspetto criminale legato al fenomeno dell’immigrazione, si enfatizza la provenienza di chi commette il reato dedicando pochissimo o nessuno spazio alle condizioni in cui vivono questi concittadini e le loro famiglie. Quindi l’immigrazione viene ingiustamente percepita e definita solo come un problema. A nostro parere è un modo miope e sordo di affrontare queste dinamiche sociali che stanno lentamente e inesorabilmente trasformando la società e la Weltenschauung della sua gente e la stessa mentalità che ha caratterizzato questi anni. Legare la vita di un immigrato a questioni di sicurezza, d’ordine pubblico e di decoro della città è come guardare la realtà che ci circonda dal buco della serratura. Ci viene da pensare che se la vita non dipende dalla geografia nemmeno i volti possono mai diventare una cifra da esibire ad ogni
tornata elettorale ma sono piuttosto delle realtà su cui investire in termini di progetti, di denaro e di buona governance. Ma per raggiungere questo obiettivo occorrono alcune basi da cui iniziare, eccone alcune su cu avviare una seria riflessione: – Superare i pregiudizi nei confronti del cittadino immigrato, delle sue espressioni linguistiche e culturali. – Valorizzare le esperienze pregresse sia nel campo del lavoro che delle professioni. – Sradicare ogni forma di intolleranza e razzismo (questi episodi anche a Verona non mancano). – Purificare linguaggi che si usano in modo dispregiativo, come: extracomunitari, clandestini, negri, zingari, clochards etc… – Potenziare l’impegno per la mediazione dei conflitti nelle scuole di Verona, dove in alcuni casi si arriva a 20% o 30% di presenza degli alunni immigrati. –Creare spazi di confronto coi nuovi cittadini su problemi comuni, come quelli del lavoro, dell’ambiente e in generale del futuro della città. – Creare degli spazi di incontro, di dialogo per costruire iniziative culturali, artistiche e sociali. – Affrontare in modo organico questioni concrete come il rinnovo dei permessi di soggiorno, l’assistenza sanitaria, la ricerca di un alloggio dignitoso, la sicurezza sul lavoro, la prostituzione, i luoghi di culto, l'apprendimento linguistico, lo spazio informativo sui mass-media, il rapporto con le istituzioni e le associazioni di volontariato laico e cattolico – Adoperarsi per arrivare, anche nella nostra città, a riconoscere il diritto di cittadinanza ai ragazzi immigrati della seconda generazione nati in Italia da genitori immigrati e al diritto di voto sia attivo che passivo. * Mediatore culturale Ufficio Immigrazione Cisl
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Costume MODA
Sarti di rango si nasce o si diventa? Per capire quale sia la realtà dell’alta moda a Verona abbiamo chiesto ad alcuni imprenditori cittadini di raccontarci la storia delle loro aziende
Un mondo complesso fatto di passione e competenza tecnica, di valorizzazione dei saperi tradizionali e di slancio innovativo, di abilità organizzativa e di coraggio nell’affrontare sempre nuove sfide
in VERONA
di Cinzia Inguanta Il settore dell’alta moda ha un peso rilevante nell’economia nazionale e rappresenta uno dei campi di eccellenza del made in Italy nel mondo. Il modello italiano si è sviluppato su specifici punti di forza, quali un’elevata creatività ed imprenditorialità individuali. Per lo più è caratterizzato da imprese di dimensioni ridotte e a gestione tendenzialmente familiare. Per capire quale sia la realtà del settore nella nostra città abbiamo chiesto ad alcuni imprenditori di raccontare la storia delle loro aziende: dal materiale raccolto abbiamo ricavato una serie di biografie aziendali particolari, in cui hanno avuto spazio soprattut-
to le testimonianze relative alla parte creativa, progettuale, ai momenti di svolta. Sono belle storie, con una trama articolata e interessante: nascita e crescita avventurose, colpi di scena, momenti di crisi e successi. Abbiamo messo a fuoco un mondo complesso, fatto di passione e competenza tecnica, di valorizzazione dei saperi tradizionali e di slancio innovativo, di abilità organizzativa e di coraggio nell’affrontare sempre nuove sfide. SARTORIA COMERLATI Via Verità 1/B Proprio quest’anno Carlo Alberto Comerlati festeggia quarant’anni di attività, ma lui, il signor Comerlati, già a tredici anni lavo-
rava in una sartoria. La svolta arriva quando il sarto presso cui lavorava si trasferisce a Johannesburg, in Sudafrica per avviare una nuova attività commerciale. E così dopo il servizio militare giunge la decisione di mettersi in proprio, la nascita dell’atelier e la collaborazione con la moglie Dorina. I viaggi a Parigi per assistere alle sfilate dei grandi sarti francesi, l’individuazione delle tendenze, la scelta di abiti di altissimo livello, di cui acquistava i cartamodelli, la creazione di uno stile d’alta classe a cui il sarto veronese è sempre rimasto fedele. Raffinatezza, eleganza, valorizzazione della personalità, estrema cura dei particolari sono le caratteristiche del suo lavoro. E ancora la frequentazione delle sfilate di Milano, polo di attrazione della moda, per seguire gli sviluppi e le tendenze italiane da reinterpretare a volte con originalità. Con fermezza Carlo Alberto Comerlati ribadisce che lui non è uno stilista, ma un sarto nel significato più profondo del termine, anche se a volte, con la moglie, cede alla tentazione di realizzare dei propri modelli. Si avverte l’orgoglio per la propria attività nelle parole di Carlo Alberto Comerlati quando parla della sua carriera, anche se non riesce a nascondere la nostalgia per un mondo che per lui sta cambiando, abbandonando le peculiarità di non convenzionalità
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Costume novembre a Castelvecchio presso il Circolo Ufficiali e le sfilate di “Alta Sartoria in Bra” evento reso possibile anche grazie alla collaborazione del Comune e della Provincia di Verona e al contributo concreto della Camera di Commercio.
Sartoria Comerlati
Sopra e a destra: Sartoria Annastella
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tipiche dell’alta moda, forse in risposta all’omologazione generale del gusto. L’alta moda sta scomparendo, secondo i coniugi Comerlati; anche il calendario delle sfilate parigine si è molto ridimensionato, solo dieci anni fa le sfilate erano tre volte di più rispetto a quelle in programma quest’anno. L’età media delle clienti della sartoria sta progressivamente aumentando e manca un naturale riciclo. Una volta le mamme portavano le figlie in sartoria, ma adesso le ragazze, a parte qualche occasione speciale, difficilmente si rivolgono al sarto. Le sfilate sono, per i signori Comerlati, l’occasione giusta per far conoscere e promuovere il lavoro dell’atelier. Di qui l’importanza del lavoro delle associazioni di categoria e l’impegno del signor Comerlati che è il presidente del gruppo Sarti dell’Unione Provinciale Artigiani di Verona e membro dell’Accademia dei Sartori. Tra le manifestazioni promosse vale la pena di ricordare la mostra dal titolo “La Sartoria veronese si racconta”, che si è tenuta lo scorso
SARTORIA ANNASTELLA Via Trota, 4 Da oltre vent’anni anni l’Atelier Annastella è una realtà del made in Italy, anzi del made in Verona, come ama sottolineare la titolare dell’attività. La signora Annastella è una creativa ed ha una vera passione per tutto quello che riesce a scaturire dalla fantasia, unita all’abilità manuale, che si tratti di cimentarsi in cucina, nel disegno, nella fabbricazione di gioielli o nel realizzare un capo di abbigliamento. Indirizzata dalla madre, amante da sempre del lavoro sartoriale, frequenta l’istituto professionale Bon Brenzoni e apprende le basi del mestiere. Dopo la scuola, per ben quattro anni, svolge un periodo di tirocinio/apprendistato presso un laboratorio di sartoria. Non solo senza essere retribuita, ma addirittura pagando per poter accedere ai segreti del mestiere. Anni lunghi ed impegnativi, che hanno messo a dura prova la sua volontà di ragazza, ma che le hanno consentito di acquisire una competenza tecnica molto ricca ed articolata: dall’abito per bambino, uomo, donna, alla pellicceria. A vent’anni arriva il momento di provare a camminare con le proprie gambe e Annastella inizia
la sua attività lavorando in casa con un piccolo giro di clienti che man mano diventa sempre più vasto. A venticinque anni il matrimonio e la decisione, supportata dal marito, di aprire una sartoria in centro perché come spiega lei stessa «Sono convinta che questa sia un’attività da portare fuori dal laboratorio. Oggi siamo abituati a vedere: le persone vogliono vedere quello che fai, che proponi. Se la gente vede, si ferma ed entra. La targa “sartoria” sulla porta non serve più. Il passaparola, come mezzo di promozione dell’attività, sta andando a morire e non basta per farsi conoscere». In questo modo si è allargata anche la fascia della clientela che è diventata molto varia per età, esigenze ed aspettative. «La sfida è quella di riuscire a far capire al cliente, che non si è mai fatto fare niente, come sia possibile arrivare dal tessuto all’abito, far nascere il gusto per il particolare, per la personalizzazione». Un lavoro a tutto tondo quello della sua sartoria che abbraccia varie direzioni. Abiti da sposa, maglieria, capi spalla, costumi teatrali e camiceria sono le attività principali, ma anche realizzazione di divise per personale alberghiero e per compagnie di volo. Un’altra attività della sartoria sono le riparazioni dedicate sia a clienti privati ma soprattutto a boutique. Il tutto testimonia una grande capacità imprenditoriale e la voglia di non fermarsi, di cercare sempre nuove strade per far emergere la qualità del prodotto artigianale. Quello che invece lamenta la signora An-
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Costume
Atelier Marani
nastella riguardo alle associazioni di categoria è una scarsa sinergia, l’incapacità di unirsi per dare voce e forza alla categoria. Verona offrirebbe molte opportunità dal punto di vista lavorativo, basti solo pensare alla stagione areniana. A riprova di questo spiega che quest’anno non hanno potuto ripetere le sfilate in Bra perché non sono riusciti ad ottenere nuovamente lo spazio della Gran Guardia dal Comune. Una grande occasione mancata, perché quello della sartoria è un lavoro che negli anni è cambiato, anche a causa dello sviluppo dell’industria di settore, e che quindi ha bisogno di proporsi, di mostrarsi in pubblico. ATELIER MARANI Piazzatta Antonio Tirabosco, 8 La storia dell’Atelier Marani inizia 25 anni fa e nasce dall’amore incondizionato della signora Lauretta per l’artigianato, per le cose fatte a mano, ed in particolare dal suo grande amore per un materiale molto versatile: il tessuto «Mi piace toccarlo, sentirlo, viverlo fino in fondo» spiega con entusiasmo. Chiarisce subito che lei non è una sarta e quindi per la realizzazione del suo progetto si è avvalsa dell’aiuto di collaboratrici eccezionali, ancora con lei dopo tanti anni. Insieme hanno dato vita all’atelier, che con il tempo è cresciuto, per cui al nucleo originale si sono affiancate alcune giovani collaboratrici. Quando deve realizzare un abito pensa alla per-
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sona che lo indosserà, alla sua storia, ai suoi desideri. Si può dire che prima di vestire il corpo la signora Marani vesta l’anima. Questo è tanto più valido, quanto più è importante l’occasione per il quale il vestito viene creato. L’atelier realizza tutti i tipi di abiti, anche se da un po’ di tempo il lavoro è indirizzato prevalentemente nella creazione di vestiti importanti, come quelli da sposa, da cerimonia e da sera, per questo per la stilista è ancora più importante tenere conto di chi si ha davanti. L’abito è il risultato finale di un cammino che si compie insieme alla cliente e presuppone un dare ed un avere continuo. La signora Lauretta afferma di essere cresciuta moltissimo grazie allo scambio umano con le sue clienti e spera di aver trasmesso qualcosa a sua volta, di non essersi limitata ad aver realizzato dei vestiti. Di questi tempi avvicinarsi alla sartoria sembra fuori moda e le giovani che si sposano o che vanno a qualche serata particolarmente importante all’inizio lo fanno con una certa diffidenza, anche perchè non sanno cos’è una sartoria, quando però lo capiscono si entusiasmano. «A questo punto esce la parte ludica di questo lavoro» spiega la stilista, la parte ludica che consiste nella gioia di dare forma ad un’idea, all’idea del sé. Oltre alle giovani che si accostano all’atelier solo per le occasioni particolari ci sono poi le signore che sono sempre andate in sarto-
Il modello italiano si è sviluppato su specifici punti di forza, quali un’elevata creatività e imprenditorialità individuali. Così è anche per Verona ria e che conoscono molto bene questo mondo. Anche secondo la signora Marani questa è però una fascia di clientela che si va assottigliando sempre più, per una questione di età e di mancato rinnovo fisiologico, vista anche la grande offerta del mercato nel settore dell’abbigliamento che riesce a proporre anche prodotti molto belli e curati. Secondo la stilista le associazioni di categoria cercano di contrastare il fenomeno promuovendo il lavoro della sartoria attraverso l’organizzazione di eventi, anche se lei personalmente non ha mai partecipato ad una sfilata e questo non perché non ci creda o non riconosca l’importanza di farsi conoscere, ma perché è soddisfatta di quello che fa, della nicchia che si è creata del suo passaparola. Le piace quello che ha e afferma di non aver mai avuto necessità né desiderio di uscire, pur ritenendo giustissimo far conoscere il lavoro degli atelier attraverso le sfilate. Quello che manca alle associazioni di categoria della città secondo la signora Lauretta è la capacità di progettare per il futuro dei giova-
ni che si avvicinano a questo lavoro. Non riesce a spiegarsi come ad esempio, non sia possibile creare una sinergia tra la scuola e l’Arena. Perché non cercare di valorizzare i talenti che si hanno e continuare a far fare i costumi delle opere alle sartorie di Roma o Milano? Perché non dare ai giovani la possibilità di entrare in questo mondo, magari anche attraverso degli stages nelle grandi sartorie teatrali. Proprio pensando al futuro delle sue giovani collaboratrici da qualche anno all’attività classica dell’atelier ha affiancato un nuovo settore: quello delle riparazioni sartoriali in supporto ad alcuni negozi di grandi firme. Quello dell’atelier è infatti un discorso molto particolare, si instaura un rapporto molto personale tra chi crea e chi usufruisce della creazione e quindi quando andrà in pensione la signora Marani non vorrebbe che tutta l’ energia e la professionalità che si sono create nel corso degli anni andassero perse. Così pensando al futuro ha accettato che si facesse largo questo nuovo settore, vista anche la forte richiesta di questi negozi di avere alle spalle una sartoria per le riparazioni di un certo tipo. Un altro impegno costante dell’atelier è quello di accogliere come stagisti gli studenti che provengono dall’istituto Bon Brenzoni, unica scuola statale a Verona che abbia un corso per operatori della moda. Durante gli anni si è instaurato un ottimo rapporto con le insegnanti e l’esperienza con gli studenti si è rivelata assolutamente positiva. L’ultima lavorante assunta dall’atelier è proprio una ragazza conosciuta attraverso il meccanismo degli stages scolastici. Anche quest’estate l’atelier ospiterà un giovane stagista inviato dalla scuola. Lo studente per un mese e mezzo avrà modo di scoprire cosa sia il lavoro in una sartoria e potrà altresì farsi conoscere ed iniziare a costruire il suo futuro. Secondo la signora Marani sono molti i giovani che hanno voglia di cimentarsi con questo tipo di lavoro, che è sì un lavoro che richiede sacrificio, dedizione e amore incondizionato, ma è anche un lavoro che restituisce tutto quello che chiede.
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ARTISTI A VERONA
I luoghi cari al cuore dove l’arte si nutre di Elisabetta Zampini CARLA COLLESEI BILLI Scultrice San Rocchetto, a Quinzano Carla Collesei Billi è un’artista dai molteplici interessi. Ma le sono particolarmente congeniali le forme tridimensionali. Ama sperimentare materiali diversi che modella e reinterpreta. Nella sua ultima esposizione, “Dentro l’ombra”, ha presentato una serie di teste realizzate con abiti dimessi, lenzuola, lini da corredo. Nato dopo un lutto, questo lavoro è il tentativo di dare forma, colore al dolore per prenderne le distanze. «Per me l’arte è terapia e conoscenza. Non rappresentazione estetica ma un bisogno. La mia cifra è la ricerca. Affronto ogni nuovo interesse con profondità, come occasione per andare al fondo di me stessa. È un approccio meditativo che si fonda sulla relazione. Le persone che incontro diventano il continente da esplorare e la via d’accesso sono gli occhi. Ecco
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CINQUE ARTISTI E UNACITTÀ Una frangia di mare, le rotaie tra le fila di case, un muretto a secco, un marciapiede, un albero, una strada: i luoghi, talvolta anche dove l’estetica difetta, perdono la cifra dell’anonimato, diventano testimoni di quotidianità e danno nutrimento alla vita. Disegnano una geografia dell’anima dove il rapporto tra l’uomo e il territorio va oltre il sentimento ecologico e rivela piuttosto un’appartenenza interiore, un legame cangiante tra la materia del mondo e il cuore. Cinque artisti di Verona dialogano con i luoghi a loro cari, regalando un piccolo e inedito itinerario attraverso cinque tappe significative che diventano occasione per parlare anche dell’arte e della vita. E la città si svela in un volto nuovo.
perché il tema ricorrente nella mia arte è il volto. Nell’incontro, per sintonia o dissonanza, arrivo al mio io più profondo e lì trovo qualcosa di già precostituito che poi rendo visibile con l’opera d’arte. Non è un inventare qualcosa che non c’era, ma un trovare qualcosa che era già lì, pronto per essere visto. L’esperienza del medium. Amo i luoghi in cui viene nutrita la mia immaginazione. Accade in particolar modo a San Rocchetto. Ci si arriva solo a piedi, dopo una piccola salita che è un avvicinamento assaporato verso un luogo di benessere, un asilo. E poi è come trovarsi nel centro del mondo, con il cielo ampio, la natura poco coltivata, la piccola fonte, le tracce di antichi insediamenti dell’età del ferro e la chiesetta costruita su una grotta. Stratigrafie di vicende che lo rendono luogo dell’anima. Sei fuori dalla città, ma la vedi, ne senti il rumore: è come guardare se stessi dal di fuori. Essere dentro e fuori nello stesso tempo». Carla Collesei Billi
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Cultura ARNALDO EDERLE Poeta Canale Camuzzoni Arnaldo Ederle è poeta, critico e traduttore. Le sue più recenti pubblicazioni sono “Sostanze” (Bonaccorso editore, 2005), “Varianti di una guarigione” (Empirla, 2005), “Dieci divagazioni sul corpo umano” (Mondadori, Almanacco dello Specchio 2008) e “Stravagante è il tempo” con il quale sta concorrendo al Premio Viareggio. Scrive per “L’Arena” e collabora a “Poesia” di Milano. «Che cosa sia la poesia in astratto non so. Riesco a parlarne solo in concreto, attraverso il mio percorso. Fin da giovane volevo fare la carriera di artista. Inizialmente presi la strada della musica, ma mi resi conto che ci volevano anni per poter comunicare attraverso questa forma espressiva. Io avevo urgenza. E trovai una risposta nella “parola”. Cominciai a scrivere. Negli anni ’60 frequentavo già gli ambienti poetici, l’avanguardia del Gruppo 63. La poesia è un lavoro manuale e costante. Nel 1993 c’è stata una svolta importante: ho abbandonato lo stile narrativo per aprirmi a una dimensione lirica, più libera. Un protagonista del mio ultimo lavoro è il canale Camuzzoni. Lo attraverso tutti i giorni per andare a prendere il caffè. L’acqua che
Luigi Scapini
Arnaldo Ederle
scorre mi ha accompagnato per tutta la vita. Infatti sono nato in Sottoriva, a due passi dall’Adige. L’acqua che scorre cambia continuamente: è un’immagine per me più potente di quella del mare. In questo rituale quotidiano mi fermo a controllare lo stato dell’acqua, il colore, se il canale è in piena o in secca per ripulirne i fondali, con le sorprese anche disumane che può riservare. C’è molto da dire. È come se ogni giorno incontrassi una persona».
LUIGI SCAPINI Pittore Castel San Pietro Luigi Scapini è illustratore e pittore surrealista. Di particolare rilievo sono le illustrazioni realizzate per l’edizione di “Pinocchio” della Cassa di Risparmio di Verona (1982). Si è dedicato all’arte sacra in diversi contesti religiosi. Famosi sono i suoi tarocchi diffusi in tutto il mondo. «Mi definisco un artista visiona-
rio. In me fin da piccolo i confini tra l’attività onirica e quella reale non sono mai stati ben definiti. Mi interesso della realtà oltre la realtà, la parte immaginifica, i mondi nascosti e talvolta anche inquietanti. Non si tratta tanto di rappresentare creature o luoghi fantastici, quanto del modo in cui si usano colore e forme per suggerire questo “oltre”. I laboratori che conduco nei centri di salute mentale vogliono aprire un porta alle visioni dei pazienti e non eliminarle. Lavoro molto sul simbolo, inteso come un ponte che mi porta verso la complessità nei confronti del reale. I tarocchi, ad esempio, mi interessano perché sono fatti di un linguaggio complesso che contiene diverse possibilità di significati, di rimandi. Amo particolarmente Castel San Pietro perché rappresenta la parte esoterica della città, la città magica. Ne parlò Umberto Grancelli nel suo libro “Piano di fondazione di Verona romana”. Su questo colle ci furono i primi insediamenti abitativi e sorgeva il tempio di Giano, collegato attraverso degli allineamenti astronomici ad altri punti di forte valenza simbolica di Verona, quasi a dare un’idea mandalica della pianta originaria della città. Qui vicino poi c’è l’istituto dei Comboniani, dove ho decorato la cappella; sotto ci sono il teatro romano e il Ponte Pietra, il punto in cui l’Adige canta di più per via delle rapide: da qui si sente benissimo».
BEATRICE ZUIN Attrice e regista Scalinata di Palazzo Barbieri Attrice e regista, il suo percorso è legato al teatro comico-gestuale, chiamato il “nuovo circo”. Collabora con “Eventi Verona” per la promozione di eventi di teatro urbano. È direttrice del Dim, Teatro Comunale Martinelli di Sandrà, per il quale ha realizzato la rassegna “Il teatro che sorride”, ideatrice di “Fuoriluogo”, l’edizione 2009 di Baldofestival, dove il territorio diventa palcoscenico rivisitato per concerti e performance.
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Cultura «Quando frequentavo i corsi di teatro spesso mi sentivo dire che il teatro è amore. Allora mi sembrava retorica, quasi mi infastidiva. Più tardi ho capito. In effetti è così. Fare teatro è un dare, un darsi agli altri in modo univoco. Non è un pavoneggiarsi per mostrare quanto si sia bravi per ricevere in cambio un riconoscimento. È uno scambio di amore. È come un abbraccio, tra attori e pubblico. Dove niente è dovuto. Implica umiltà, un lavoro serio con se stessi prima di tutto. Poi esistono tante idee di teatro, tante grammatiche. Personalmente a me piace il teatro dove i diversi linguaggi si incontrano e che sconfina con il teatro di ricerca. La scalinata di Palazzo Barbieri è un luogo importante per me perché proprio qui il 31 dicembre del 1998 è ripartita la mia vita. Come il teatro anche la vita è amore. È la benzina. E quando lo si cerca disperatamente si commettono errori e l’esistenza diventa un zigzagare. Ma quella sera, inaspettata, è iniziata la storia con mio marito Angelo. E due anni fa proprio qui ci siamo sposati. Poi con questa colonnata, mi ricorda l’ingresso di un teatro ottocentesco. E accanto ci sono l’Arena e Piazza Bra, luoghi di
Beatrice Zuin
teatro e di spettacolo. La piazza, con la sua circolarità, sembra chiudere in un abbraccio tutto questo spazio».
LUCA DONINI Musicista Il sentiero lungo il fiume in Lungadige Galtarossa Sassofonista di grande talento, compositore e direttore. Ha
un’intensa attività concertistica sia in Italia che all’estero dove ha partecipato ai più importanti festival jazz. Il suo ultimo lavoro discografico si intitola “Live in USA” registrato nell’Iowa al July Jazz Festival del 2008. Attualmente è titolare di cattedra di saxofono e docente del dipartimento musica jazz presso il Conservatorio Musicale Statale “A.Buzzolla” di Adria. «Ho dedicato tutta la mia vita
Luca Donini
alla musica. L’ho sentita fin da bambino ed è una forza che dentro continua a darmi dei calci per trovare un canale, una via d’uscita. È qualcosa che arriva dal profondo. Come un mare che lascia sulla riva reperti, cose meravigliose che sono il concentrato del proprio sentire, del mondo che si ha dentro, frutti non contaminati dal calcolo, oltre la razionalità. È la pura essenza dell’anima. Purezza. Dono. A volte mi stupisco, mi spavento, mi emoziono nel vedere cosa esce dall’oceano pieno di storia che ho dentro. La mia creatività è legata al sentire, a una forma di amore incondizionato: mi piace provare assieme al pubblico, in uno scambio reciproco, momenti di forte emozione ed energia. È sorprendente il fatto che bastino pochi minuti per lasciarsi alle spalle la frenesia ed il traffico intenso del Lungadige Galtarossa ed entrare in un luogo straordinario, quasi una foresta incantata dove buttare via le tensioni che si assorbono durante la giornata. La natura, l’acqua ed il silenzio sono tre componenti che riescono a ricaricarmi. La natura pulisce, rigenera. Venivo qui in riva all’Adige quando studiavo al Conservatorio o quando ero in città. Per meditare, scrivere, e ristabilire un equilibrio interiore, fonte di ispirazione. È uno stato di quiete, di centratura, che porta alla creazione artistica».
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A PROPOSITO DI GIOVANI
Internet, telefonini, notizie... ma la comunicazione è un’altra cosa di Rino A. Breoni È tempo d’esami. Davanti ad uno degli istituti superiori più vecchi della città, sostano gruppetti di studenti che conversano vivacemente e scherzosamente. Non è tuttavia difficile cogliere, nell’apparente esuberanza, una reazione allo stato d’animo che ogni studente vive nell’imminenza di una prova d’esame. Devo transitare vicino ad un loro crocchio ed infatti sento che le battute scherzose riguardano la prova che li attende. Niente di strano. Ad una interiore trepidazione o paura, viene facile reagire con il brio e lo scherzo. Ma viene anche voglia di dire loro una parola di augurio ma dovrei giustificare questa attenzione. L’Istituto davanti al quale i maturandi aspettano, l’ho frequentato, per l’insegnamento della Religione, negli anni ‘65/’70. Abitavo con il Rettore della Chiesa che ora mi è stata affidata, San Lorenzo. Camminando, i ricordi affiorano. Di prima mattina dei giorni feriali, nella piccola chiesa romanica, attendevo pregando l’ora della celebrazione ed era un continuo via vai di ragazze e ragazzi che entravano per una preghiera. Scherzosamente dicevo che si sarebbe potuto intuire quando c’erano compiti in classe, dal numero crescente di ceri che venivano accesi davanti al Crocifisso oppure all’immagine della Madonna. Oggi, niente di tutto questo. I ragazzi stazionano ali tavolini del bar, bevendo qualcosa insieme. Sono passati quarant’anni. Ciò che mi colpisce non è la perdita di consuetudini religiose, qualche volta forse venate di attese e di secondi fini, ma il profondo mutamento avvenuto nella generazione studentesca attuale. I giornali, che necessariamente danno notizia di eventi come le prove di “maturità”, ci mostrano ragazzi chini sul loro banco muniti di vocabolario o di qualche altro strumento consentito, ma ci mostrano anche tavoli pieni di cellulari, depositati prima dell’inizio della prova, perché strumenti non consentiti. Devo confessare che questo congegno della tecnologia, di cui riconosco l’utilità, mi intimorisce e mi complica la vita.
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«L’Istituto davanti al quale i maturandi aspettano, l’ho frequentato, per l’insegnamento della Religione, negli anni ’65/’70. Di prima mattina dei giorni feriali, nella piccola chiesa romanica, attendevo pregando l’ora della celebrazione ed era un continuo via vai di ragazze e ragazzi che entravano per una preghiera. Scherzosamente dicevo che si sarebbe potuto intuire quando c’erano compiti in classe, dal numero crescente di ceri che venivano accesi »
Vado più sicuro con la vecchia e simpatica cornetta. Ma se il cellulare è vietato dalla normativa scolastica significa che può veicolare informazioni, suggerimenti, quali invece , nel contesto d’esame, dovrebbero
venire dallo studio e dalla specifica preparazione. Questo mi pare un mutamento di rilievo. Lo studente di un tempo non disponeva che del bagaglio acquisito studiando; poteva forse attendere qualche suggerimento dal banco vicino (quante strategie per collocarsi a fianco di chi era riconosciutamene “bravo”) e poi, se credente, si affidava anche alla preghiera. Credo pertinente anche in questa situazione, l’aforisma di un grande che diceva: “La preghiera non risolve nessun problema, caso mai ci aiuta a vederlo in una luce diversa”. Poteva anche essere che la preghiera di chi, prima dell’esame o di una interrogazione entrava in San Lorenzo, risultasse coscienza d’avere fatto il proprio dovere, affidando poi al Signore la richiesta di un particolare aiuto di lucidità e calma intellettuale, oppure inquietante interrogativo sulla inadempienza al proprio dovere di preparazione. Oggi si può ricorrere al cellulare, a internet, a tante altre diavolerie, certamente utili ma che sembrano però limitare lo spazio di espressività dello studente. Non toccano a me considerazioni di merito ma frequentando ancora la cattedra, percepisco il disagio di colleghi che sottolineano il decrescente livello di preparazione, la difficoltà espressiva verbale e scritta, l’orizzonte sempre più povero del sapere. Non penso sia colpa del cellulare ma certamente non ne è estraneo. In fondo anche un suggerimento verbale durante la difficoltà dell’esame, era una comunicazione con precise modalità e precise risposte. Oggi no. Un minuscolo visore, attivato con un pulsante, offre notizie, suggerimenti certamente utili, ma azzera ogni tipo di comunicazione. Non solo con chi è imbarcato nella stessa prova di esame ma anche con il Padreterno. E questo sarebbe l’uomo adulto? Nessuna nostalgia per gli anni andati: gli studenti rimangono adolescenti in crescita i quali, anche se ricchi di strumentazione tecnologica, risultano impoveriti e derubati dello sforzo di comunicare quando ne hanno necessità. Davvero i tempi sono cambiati. Non mi pare sufficiente la sola costatazione. Servono forse analisi e attenzioni più precise.
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Cultura MUSICA
La musica nel teatro di William Shakespeare L’Età elisabettiana è nota per l’importanza conferita alla musica, tanto che, per venire incontro alle richieste del pubblico, i drammaturghi inserivano ballate, gighe e cori
“L’uomo nel cui cuore la musica è senza eco, che non si commuove ad un bell’accordo di suoni, è capace di tutto, di ferire, di tradire di rubare. Non fidarti di lui, ascolta la musica”. William Shakespeare
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di Nicola Guerini Quando si affrontano gli aspetti del teatro di Shakespeare quello musicale desta sicuramente grande interesse e curiosità tra gli studiosi e gli appassionati. Nel periodo elisabettiano la musica faceva parte della vita quotidiana di re, nobili, cortigiani, ma anche di contadini, artigiani, fabbri che la praticavano con entusiasmo, anche se spesso senza le dovute conoscenze teoriche. Accanto ai musicisti di corte e ad altri gruppi ufficiali, vi erano anche esecutori più modesti che venivano chiamati ad intrattenere gli invitati ai matrimoni, oppure suonavano musica strumentale e cantavano ballate o catches in taverne e bordelli. In questo caso però, non essendo al servizio di nobili, erano considerati come vagabondi e furfanti. Nel XVI e XVII secolo non era inconsueto udire il suono di una cetera provenire dal negozio di un barbiere, dove i clienti che attendevano il loro turno, potevano esercitarsi con questo strumento. Tra le forme d’arte dell’epoca non era trascurata la danza che divenne sempre più importante anche a corte, dove veniva elaborata e resa più complessa, fino a trionfare nella pantomima simbolica del masque. La varietà delle danze riscontrabili nel periodo elisabettiano manifesta l’enorme popolarità di
un’arte apprezzata e praticata da tutte le classi. Se la pavana era caratterizzata da un movimento solenne che annunciava l’entrata trionfale di dei e imperatori nella finzione del masque, il rapido ritmo della gagliarda dava ai gentiluomini più giovani, ma anche agli umili, la possibilità di esibire agilità e grazia. L’Età elisabettiana, conosciuta anche come “The Golden Age”, è nota per l’importanza conferita alla musica, tanto che per accontentare le richieste del pubblico, i drammaturghi inserivano, anche a sproposito, ballate, gighe e cori. È un abile scrittore per teatro come Shakespeare che trasforma l’intervento musicale in un potente strumento retorico e condi-
zionante, che piega il volere degli interpreti, imponendo la propria armonia: serve a caratterizzare i personaggi che cantano e quelli che ascoltano; descrive momenti di baldoria e di vita di corte; contribuisce a creare la particolare atmosfera malinconica che distingue le diverse scene, evitando così pesanti spiegazioni verbali: accompagna l’entrata o l’uscita dei personaggi e mette in forte risalto gli aspetti essenziali del dramma. In alcuni casi il drammaturgo inglese ricorre a richiami musicali talmente noti, che bastava accennarli per risvegliare tra gli spettatori una serie di associazioni ed implicazioni, che possono invece sfuggire al lettore moderno. Infine, allusioni e metafore associate
Il Teatro Romano di Verona, dove si svolge il 61° Festival Shakespeariano
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Cultura
a strumenti o addirittura a concetti filosofici legati alla musica, erano facilmente comprensibili, in un periodo in cui questa arte veniva praticata con entusiasmo da esponenti di tutte le classi. Una eliminazione della musica propriamente intesa dai drammi e dalle commedie shakespeareane sarebbe una perdita grave e una sciocca riduzione dell’arte del drammaturgo inglese. Nei testi delle sue opere teatrali sono indicate almeno 100 canzoni che i vari personaggi devono cantare e innumerevoli momenti in cui si deve udire musica. Shakespeare fa parlare di musica anche alcuni suoi attori. Celebre è il verso di Lorenzo ne Il Mercante di Venezia: “L’uomo che non ha alcuna musica dentro di sé... è nato per il tradimento, per gli inganni, per le rapine”. Verso rivelatore dell’opinione del tempo della relazione tra sensibilità musicale e condotta morale. Amleto insegna a Guilderstein ad utilizzare il flauto con un linguaggio preciso e Ortensio fa a Bianca, ne La bisbetica domata, una vera e propria lezione di musica, sia pure a scopo seduttivo. L’uso più ovvio della musica in Shakespeare è quello di “musica di scena”: nei banchetti, nelle processioni, nelle serenate, come richiamo nei duelli e nelle batta-
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glie, la musica doveva immancabilmente esserci,perché nella vita reale così avveniva.Vi era poi un uso “suggestivo” della musica in momenti particolari dell’azione: per indurre il sonno, l’innamoramento, guarigioni miracolose si udivano musiche di solito provenienti da una fonte che rimaneva nascosta al pubblico o almeno ai personaggi coinvolti. Vi era infine un uso “artistico” della musica, fatto per sottolineare e amplificare il carattere dei personaggi o l’atmosfera delle scene.Tra i tanti esempi, le canzoni che Desdemona e Ofelia cantano in momenti cruciali dei rispettivi drammi. Qui la musica assume una funzione di potenziamento drammatico che va al di là della pura musica di scena. E così ne Il racconto d’inverno la musica che è prescritta durante il ritorno alla vita della statua di Ermione, e che segna anche la riconciliazione tra il re e la regina, crea una atmosfera emotiva che la sola parola , per Shakespeare, non bastava evidentemente ad esprimere. Così come il vero e proprio masque del IV atto de La Tempesta è totalmete inerente al dramma. In ogni caso la musica in Shakespeare non è mai intrattenimento o diversivo ma un effetto calcolato a fini poetici e drammatici.
Le “risorse musicali” di Shakespeare erano prima di tutto le voci degli attori, alcuni dei quali anche cantavano,tra queste assai importanti le voci bianche dei ragazzi rimasti anonimi che interpretavano le parti femminili (Giulietta, Cleopatra, Ofelia, Desdemona, Caterina la bisbetica, Lady Macbeth). Vi era poi una orchestra di piccole dimensioni con trombe e oboi, corni, campane, liuti e archi che interveniva a seconda della situazione. In questo caso il gruppo strumentale utilizzato doveva essere posto ad una certa distanza dagli attori, oppure doveva essere in grado di eseguire una musica sommessa, in modo da non oscurarne la voce. Scene di baldoria potevano essere accompagnate da allegre melodie, mentre tristi canzoni di prigionia erano inserite in scene di carcere. Quanto alle canzoni e alle musiche strumentali (danze, marce, serenate) esse erano in gran parte motivi già noti al pubblico e gli effetti musicali “suggestivi” erano tali che gli strumentisti potevano eseguirli senza necessità di un compositore vero e proprio. Solo più tardi la composizione di musiche di scena “nuove” divenne un redditizio interesse per i compositori e una forma di espressione artistica.
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Tradizioni Sulle nostre montagne, come in gran parte delle aree rurali, le occasioni di contatto tra i giovani erano piuttosto scarse: la sagra, la messa, il vespro. Se la capacità dialettica era vacillante i corteggiatori tentavano di attirare l’attenzione delle ragazze facendo loro qualche dispetto
Come ci si fidanzava un tempo in Lessinia I rituali di fidanzamento davano la possibilità di accedere velocemente all’approccio con l’altro sesso, diminuendo la titubanza del momento iniziale Le ragazze preferivano sposare persone di altri paesi. Durante il periodo carnevalesco gruppi di spasimanti mascherati si avventuravano per le vallate alla ricerca di case dove abitassero “molte butele”. Maggiore era il numero di ragazze, maggiore era il possibile successo
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di Alessandro Norsa È difficile comprendere il valore ed il senso dei rituali tradizionali di fidanzamento se non viene presa in considerazione l’importanza del rito nella civiltà contadina e pre industriale. Se al giorno d’oggi ci chiedessimo quali riti conosciamo dovremmo prendere qualche istante per comprendere meglio la domanda. Fino agli inizi del XX secolo l’intera vita era scandita da tempi e ritmi segnati da riti; v’erano pertanto i riti legati alla ciclo dell’anno, quelli inerenti al ciclo della vita, ed, in campagna, quelli agrari. Ernesto de Martino definisce i riti come “un insieme di fatti, che viene eseguito secondo norme codi-
ficate. I comportamenti del rito offrono rassicuranti modelli da seguire, costruendo quella che viene definita come tradizione”. Pertanto i rituali di fidanzamento davano la possibilità di accedere velocemente all’approccio con l’altro sesso, diminuendo la titubanza del momento iniziale. Vediamo nello specifico con degli esempi a cosa mi riferisco. Uno dei tradizionali riti di approccio che ho raccolto a Roverè voleva che fosse il giovane a prendere l’iniziativa recitando: “Bela butela con le frische o con le frasche dale sirese o dale marasche da quell’albero spinoso da quand’è che no vedì ‘l vostro moroso”.
La risposta della ragazza era: “Se no l’ho visto no lo aspeto se no l’è quel che g’ho visin adesso” Un altro esempio consisteva nell’avvicinarsi e dire: “Signorina dale corde mole, èla contenta che fasemo quatro parole?”. Se la ragazza fosse stata interessata al giovane avrebbe risposto: “Se i è mole le stendaremo, quatro parole le faremo”. Un tempo in Lessinia, come in gran parte delle aree rurali, le occasioni di contatto tra i giovani erano piuttosto scarse: la sagra, la messa, il vespro. I primi tentativi di corteggiamento potevano avvenire sul sagrato della chiesa o al ritorno da queste ricorrenze, quando i ragazzi cercavano di ac-
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I “linciaggi” potevano essere ordinati da ragazze poco interessate al corteggiamento di spasimanti molto insistenti; queste chiedevano ad alcuni amici “de tenderlo fora e sassarlo”
Frequente nelle vallate lessiniche era il passaggio dei sensari, che favorivano dietro compenso certe combinazioni matrimoniali
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compagnare le ragazze per dei tratti di strada. Se la capacità dialettica era vacillante i corteggiatori tentavano di attirare l’attenzione delle ragazze facendo loro qualche dispetto (gli intervistati che mi hanno riferito con piacere di aver partecipato a molti di questi scherzi non sono sposati; che sia un caso?). Frequente fra le vallate lessiniche era anche il passaggio dei sensari, che favorivano dietro compenso certe combinazioni matrimoniali. Vi sono numerosi aneddoti sulle coppie formate dai sensari, a volte in modo bizzarro, combinando i difetti dell’uno e dell’altra. Il periodo ideale per il corteggiamento era tra il Carnevale e la Pasqua (eccettuato il periodo di Quaresima). V’era un tempo l’usanza, per un ragazzo che avesse desiderato fidanzarsi con una ragazza, di mettere la notte precedente la Domenica delle Palme davanti la porta della corteggiata una palma di olivo infiocchettata.
Se la ragazza gradiva lo spasimante si recava il giorno successivo in chiesa alla Santa Messa con la palma in mano. Ricambiava poi il gesto donando dodici uova il giorno di Pasqua. In generale le ragazze preferivano sposare persone di altri paesi. Durante il periodo carnevalesco gruppi di spasimanti mascherati si avventuravano per le vallate alla ricerca di case dove abitassero molte butele (maggiore era il numero di ragazze, maggiore era il possibile successo). Normalmente i ragazzi della contrada non apprezzavano queste scomode intrusioni. Se i foresti avessero “portato via” le donne della loro frazione avrebbero dovuto fare dei chilometri a piedi per cercarne delle altre. Numerosi sono i racconti di appostamenti nei vai e nei dirupi dove aspettavano gli scomodi intrusi con ceppi di legno e pietre. I “linciaggi” potevano essere anche ordinati da ragazze poco interessate al corteggiamento di spasimanti molto insistenti; queste chiedevano ad alcuni amici de tenderlo fora e sassarlo. Non sempre era necessario arrivare a questi estremi, molto più spesso invitavano un altro pretendente nello stesso momento in cui prevedevano potesse giungere quello indesiderato; in questo caso si diceva che la ga fato la simia. Prima dei fidanzamenti ufficiali i ragazzi potevano tentare di avere con le ragazze dei dialoghi segreti o di corteggiarle cantando o facendo cantare da un cantastorie le matinàe (serenate) alla finestra della loro camera (tradizione raccolta ad Erbezzo). Al momento opportuno, dopo mesi di incontri in pubblico o brevi incontri segreti, la ragazza incoraggiava il ragazzo a chiedere il consenso dei suoi genitori. Allora il giovane, scrive Bonomi nel 1982, magari pagando la domenica un bicchiere all’osteria al padre, si faceva coraggio e diceva: “Saressi contento che ghe parla a vostra fiola?” Costui, previe le solite raccomandazioni di far giudissio e che no se senta dir gnente in giro, dava di solito il consenso. A questo punto il giovane veniva accolto come moroso. Il consenso al fidanzamento era subordinato
la maggior parte delle volte alle possibilità economiche della sua famiglia. In uno scritto del 1979 ad opera di Corrain, Capitano e Scardoni gli autori scrivono di aver raccolto dagli informatori che per la dote erano necessari: venti vache, ‘n toro e ‘n caval bianco. Non ci è dato sapere il motivo per il quale la tradizione che ci è pervenuta riportasse un numero così abbondante di bestiame, dal momento che normalmente i contadini ne possedevano solo qualche capo. La giovane coppia di fidanzati, prima di poter pensare di sposarsi, doveva generalmente frequentarsi per molto tempo. In quel periodo si diceva che i giovani discorrean (parlavano). Gli incontri avvenivano in stalla durante il filò alla presenza di tutti, e, se in casa, sotto il controllo della madre della ragazza. Ogni visita del giovane iniziava con un dialogo rituale tra lui e la futura suocera: “Bona sera, son vegnù par sentarme vissin a vù, ma no so se sì contenta”. A questo punto il pretendente starnutiva per camuffare l’imbarazzo, e la donna rispondeva: “Dio vi assista, o bel castelo”. L’alterco continuava nel modo seguente: “Vî falà, ma no son quelo”. “So ben no sî quelo, gnente importa, Dio vi assista ‘n’altra volta”. “Come el vostro cuor desidera o mar de contentessa”. In caso di rottura del fidanzamento, se il giovane aveva l’ultima parola si recava dalla ragazza dicendo: “Bonasera, brava puta, son vegnù con ‘na calsa tira su, e con ‘na brindolera; cara puta, bona sera”. Dopo la rottura dell’unione era pericoloso per il fidanzato recarsi nella contrada della morosa vecia. Non sono conosciute frasi rituali ad uso delle ragazze per interrompere i fidanzamenti; in questi casi in paese si diceva che la ga dato el saco. Il ragazzo poteva vendicarsi il giorno delle Palme cospargendo di segatura il percorso che conduceva dalla casa alla stalla; in questo modo intendeva offenderla paragonandola alle vacche contenute in quel ricovero. Oppure venivano composte delle
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Tradizioni C’era un tempo l’usanza, per un ragazzo che avesse desiderato fidanzarsi con una ragazza, di mettere la notte precedente la Domenica delle Palme davanti la porta della corteggiata una palma di olivo infiocchettata. Se la ragazza gradiva lo spasimante si recava il giorno successivo in chiesa alla Santa Messa con la palma in mano
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siatire, dei componimenti in rima dileggianti. Le rare volte in cui due giovani intendevano sposarsi contro la volontà delle famiglie ricorrevano alla fuga concordata (quello che in Sicilia viene chiamata la fuitina). Se invece il percorso del fidanzamento era regolare ed andava a buon fine si giungeva alle pubblicazioni, ed i morosi diventavano noissi. Quindi, dopo mesi di frequentazione, il giovane, accompagnato dal padre o da un fratello, si recava a fare la richiesta di matrimonio, che solitamente avveniva dieci giorni prima delle nozze. Il giorno stabilito, all’ora di pranzo, il padre, accompagnato dal futuro sposo, si recava a casa della famiglia della fidanzata per “andare a domandare la mano della sposa”. La famiglia della nubenda “faceva il massimo” a seconda delle proprie possibilità per accogliere i due futuri parenti. Questo rito aveva il nome di: el va a sbregar la cioca (Vajo dello Squaranto), el va a domandarla (Cerna). Seguiva un pranzo ufficiale di fidanzamento, ristretto alle famiglie dei promessi sposi, che si svolgeva o di giovedì o di sabato. La frase rituale con cui si presentava il padre dello sposo alla famiglia era: “Savìo parchè son vegnù? Son vegnù a domandarla”.
Quel pranzo coincideva con il contratto che suggellavano i genitori per la dote e le spese matrimoniali. Gli intervistati riferiscono che spesso le spese erano compartecipate a seconda delle possibilità. Ad esempio era tradizione che lo sposo dell’acquisto della camera da letto e la sposa si occupasse del confezionamento del corredo. Il corredo (la dota) poteva essere motivo di vanto anche tra le amiche, perché rappresentava la ricchezza. I giorni prima del matrimonio un estimatore di dota passava a casa della nubenda per fare l’inventario. Gli estimatori normalmente erano sarti perché conoscevano il valore della stoffa; in mancanza di questi prendevano il loro posto altre persone nell’ambito del commercio, che si facevano da garanti del prezzo di ogni singolo capo della dota e quindi del suo totale. Veniva fatta questa operazione per sancire ciò che la famiglia dava alla sposa nel momento del matrimonio; gli intervistati raccontano che in caso di morte della donna la famiglia di appartenenza poteva reclamare la dota, e più frequentemente veniva computata la cifra corrispettiva nel momento della distribuzione dell’eredità. Si provvedeva allora alla stima scritta della dote della sposa, valutandola in termini di frumento, e al trasporto del corredo alla casa dello sposo, dove sarebbero andati ad abitare. La madre del nubendo aveva il compito di controllare e riporre ogni cosa nell’armadio
(fornito dalla sposa), e di preparare il letto nuziale. La sposa inoltre faceva recapitare l’abito di nozze maschile, al completo, e doni agli abitanti della futura dimora. Spettava allo sposo fornire: il resto del mobilio della camera, il soprabito, le scarpe e, se v’erano le possibilità, qualche monile in oro per la sposa. La suocera regalava alla nuora la velata del matrimonio e, al figlio, i gemelli da camicia. Inoltre aveva il compito di chiamare il parroco a benedire la camera. La fidanzata doveva tenersi ben lontana dalla futura suocera (madona) e dalla sua casa. La maggior parte dei matrimoni veniva celebrata in primavera, che era anche il periodo del corteggiamento, poiché era il momento dell’anno precedente a quello estivo, durante il quale non sarebbe più stato possibile dedicarsi ad attività “improduttive” a causa del grande lavoro agricolo. Da un punto di vista simbolico la primavera è anche il periodo del risveglio della natura ed il rigenerarsi del ciclo vitale. I riti di dichiarazione fra innamorati sono stati al giorno d’oggi sostituiti con la ricorrenza di San Valentino (14 febbraio), che, non più per un motivo legato al culto cristiano, ma piuttosto per ragioni commerciali, ha velocemente sostituito quelle tradizionali. Cambiano pertanto i sostrati culturali, rimane centrale l’idea che il risveglio della primavera ed il rigenerarsi della natura facciano sbocciare nuovi amori, l’unione delle coppie e la continuità della vita. Si ringraziano per la preziosa collaborazione gli informatori: Alfeo Guerra (Roverè Veronese), Renata Ronconi (Erbezzo), Zantedeschi Giobatta, Marchesini Angelina, Fraccaroli Paolo, Spiazzi Italo, Fraccaroli Paolina (Cerna). Fotografie, dalla ricerca condotta con le Scuole Elementari di S. Anna d’Alfaedo, Archivio Alessandro Norsa, proprietari: Tommasi Giuseppina, Campedelli Ida, Piccoli Domenica. Per approfondimenti: Corrain C., Capitanio M., Scardoni L., Elementi di Etnografia del Vajo dello Squaranto e della Valle di Mezzane (Monti Lessini, Verona). in: Atti e Memorie della Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, AA 1978-79, Serie VI, Vol. XXX (CLV), pp. 45- 77. Bonomi E., Vita e tradizione in Lessinia. La Grafica. Vago di Lavagno, Verona, 1982.
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AMICO E COLLABORATORE
Piero Piazzola: nel libro Séngio Rosso la sintesi di una vita di Aldo Ridolfi È noto: ci sono uomini capaci di trasformare la materia, ivi compresa la parola, in opera d’arte e uomini in grado di fare della propria vita un’opera d’arte. Pur con importanti frequentazioni nella prima, Piero Piazzola appartiene a questa seconda categoria. Non fosse altro per il luogo che ha scelto come dimora definitiva, portando a compimento un presagio, una profezia, quasi un auspicio che sta in Aleluja; non fosse altro perché la sua ultima fatica, Séngio Rosso, il libro con cui si congeda, è carismaticamente postumo; non fosse altro perché le bozze di quest’ultimo lavoro egli le ha “vistate” in ospedale, tre giorni prima di entrare in coma. Le linee della sua poetica, non strictu sensu considerata, ivi compresa, cioè, la storia e l’etnografia, sono semplici; i colori della sua tavolozza nitidi, ben campiti, chiaramente differenziati; i sentimenti a tutto tondo, le emozioni controllate, le tesi suggerite, in primis, dalla coscienza di appartenere ad un preciso mondo. Ma andiamo con ordine, rispettiamo la cronologia, come Piero ha fatto in Séngio Rosso, non lasciamoci prendere dal fascino del flash back. Piero è nato a Campofontana nel 1924. Suo nonno proveniva da Tregnago e, arrivato a Campo come giovane maestro elementare, vi è rimasto tutto il resto della sua vita; suo padre è morto nel 1925, in seguito alle ferite riportate nelle guerre. A Piero, però, è rimasta l’Angela, la mamma, figura straordinaria, una “santa”, come lui stesso la definisce. Ha studiato a Campo, a Badia Calavena, a Verona e a Pordenone, presso il Don Bosco, e a Genova dove ha avviato l’avventura universitaria, mai conclusa. È stato repubblichino e partigiano, si è nascosto sulla montagna Alba, alla fine della guerra ha “consegnato le armi” alle Casermette di Montorio, qualche anno dopo ha iniziato, lassù a 1200 metri di altezza, la sua amatissima carriera di maestro elementare, vi è rimasto diciotto anni, poi è sceso alle “basse”. Ha assimilato incantamenti infantili, tra
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Era nato a Campofontana nel 1924 e si è spento nell’ottobre del 2008. Ha contribuito in maniera determinante a dare vita al Curatorium Cimbricum Veronense; ha fondato “Cimbri/Tzimbar” di cui è stato, per un lungo periodo, direttore responsabile; con Mario Pigozzi ha dato il via al Filmfestival della Lessinia; è stato amministratore comunale e animatore di Pro Loco, ha consegnato, forse il suo estremo gesto intellettuale, l’ultimo articolo, Far san Michele, a “Verona In” di cui era assiduo ed entusiasta collaboratore
E approdiamo, così, a Séngio Rosso, il suo libro di memorie, presentato in queste settimane, nel quale rivisita serenamente – partendo dall’infanzia, attraverso la Resistenza e gli anni Cinquanta e narrando di persone e di fatti – la sua bella esistenza e dove trova posto, quasi a chiudere un cerchio di affetti, una commovente “Lettera postuma a mio padre”. Si è spento nell’ottobre del 2008. Talvolta, nella vita degli uomini, sembra che il fare finisca per oscurare l’essere, che il pragmatismo di chi realizza si ammanti di astuzia e di interessata lungimiranza. L’agire di Piazzola, all’opposto – è l’impressione di chi lo ha conosciuto nella fase finale della sua parabola –, si è svolto tutto e senza resto sotto le insegne dell’essere, per lui l’unica dimensione esistenziale capace di donare significato al suo lavoro.
questi la spigolosa sonorità del suo dialetto dal quale ha tratto armonie che ha rese sacre in Aleluja, la sua raccolta poetica, apparsa nel 1992 e riproposta da Bonaccorso nel 2004. Ha raccolto, scritto, corretto bozze, impaginato riviste, coordinato studiosi, stimolato amici, concesso fiducia. Ha ricevuto riconoscimenti non pochi. Ha scritto per “L’Arena” e per “Verona Fedele”, ha disegnato e fotografato. Ha messo insieme una bibliografia di 174 voci, approssimata per difetto. Ha contribuito in maniera determinante a dare vita al Curatorium Cimbricum Veronense; ha fondato “Cimbri/Tzimbar” di cui è stato, per un lungo periodo, direttore responsabile; con Mario Pigozzi ha dato il via al Filmfestival della Lessinia; è stato amministratore comunale e animatore di Pro Loco, ha consegnato, forse il suo estremo gesto intellettuale, l’ultimo articolo, Far san Michele, a “Verona In” di cui era assiduo ed entusiasta collaboratore.
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Il sommo poeta esule degli Scaligeri offre un ricordo breve ma nitido di un tradizionale festoso evento
IL PALIO DI SANGUINETTO
Tra «zostre e bagordi» in salsa scaligera Un evento ludico che coinvolgeva i veronesi e ricordato da Dante nella Divina Commedia. La tradizione si rinnova nella Bassa all’ombra del castello di Sanguinetto
di Stefano Vicentini Poi si rivolse, e parve di coloro/ che corrono a Verona il drappo verde/ per la campagna; e parve di costoro/ quelli che vince, non colui che perde. Sono i versi che concludono il canto XV dell’Inferno nella Divina Commedia, dove il protagonista Brunetto Latini, famoso politico e maestro di retorica del
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’200, qui condannato tra i violenti, sta correndo di gran carriera per raggiungere la propria schiera, animato come i partecipanti del palio di Verona. Dante, che conosce la città in quanto ospite da esule degli Scaligeri, offre un ricordo breve ma nitido del tradizionale festoso evento (vi assiste nel 1304) in soli tre elementi: una corsa, un drappo verde e una tra-
versata della campagna. Tra Medioevo e Rinascimento, nel contesto delle esibizioni di casati e signorie, il palio rivestiva un’evidente importanza come possibilità d’incontro nel tracciato cittadino delle gare (a Verona riguardava il rettilineo lungo i “corsi” Cavour e Portoni Borsari) tra genti di più varie condizioni sociali, con la presenza d’obbligo dei
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Tradizioni maggiori notabili: questo avveniva nelle prestigiose Padova, Ferrara, Mantova, Siena ma anche in tante altre città. Il “pallium” era un drappo, un panno di lana dato al vincitore, sempre più pregiato nel tempo grazie a fregi d’ornamento: nei documenti risulta però il termine “bravìum”, dal greco “brabeion”, un premio che veniva dato appunto al più “bravo”. A Verona, alla prima domenica di Quaresima – fonte di accese discussioni, spostamenti e ripristini – gli organizzatori scaligeri avevano creato due “bravia”, ossia la
corsa a cavallo e a piedi, riservate agli uomini, ma alla fine del Trecento s’aggiunse la corsa a piedi delle donne e dal 1450 la gara degli asini, quindi quattro sfide. Come sostiene Dante, il pallio per un tratto si snodava nella campagna circostante la città: si riferisce precisamente proprio alla “Campagna d’erbe” o “herbeana”, a destra del fiume Adige, nella pianura a sud dell’abitato (oggi sopravvivono i toponimi Madonna di Campagna, Mezza-campagna, Sommacampagna). Difatti si correva dall’esterno all’interno pas-
Il “pallium” era un drappo, un panno di lana dato al vincitore, sempre più pregiato nel tempo grazie a fregi d’ornamento
sando dall’attuale Porta Palio e arrivando alla meta di Santa Anastasia, secondo un tratto lungo e retto; l’assegnazione del drappo verde valorizzava l’aspetto agonistico, ma attivava pure una festa di ampi significati, con giochi e tornei, con la tipica giostra medievale, insomma “zostre e bagordi”. L’entusiasmo saliva alle stelle, tanto che ancor oggi abbiamo pagine e note di cronisti e letterati, tra cui Boccaccio, Folengo, Ariosto e Ruzante che ci permettono di entrare nel vivo delle antiche manifestazioni nelle città; a Verona sembra essere stata istituita nel 1207 e rispettata fino al Settecento. Tutte queste gustose ed interessanti notizie ci vengono da una pubblicazione di Marino Zampieri, esperto di cultura e letteratura popolare che, dopo aver scritto alcuni anni fa un saggio sul Carnevale veronese, ha dato
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da pochi mesi alle stampe “Il palio, il porco e il gallo” (Cierre ed.) sulla storia del fastoso evento popolare oggi non più esistente. Con una mole doviziosa di atti Zampieri, approfondendo minuziosamente tutto – dalla volgare burla ai piaceri letterari intorno al palio, per arrivare a descrivere persino gli archetipi e i numerosi sovrasensi di cavalli, porci e galli – ha mostrato la vitalità della società urbana, la forza positiva d’una comunità non piegata dalle differenze di ceto o dalle ingiustizie. Ecco, ad esempio, il rito del 1450 raccontato dall’autore: “Il giorno prima della gara i palii, insieme ai premi riservati agli ultimi della corsa a cavallo e a piedi, le mezene di porco e il gallo, venivano prelevati dalla casa del podestà e con gran solennità di trombe portati tutt’intorno alla piazza del Comune, piazza Erbe; poi esposti super Domum Novam dove abitava il vicario del podestà”. Sembra che tale giro coi premi rinnovasse un corteo maccheronico del Carnevale in piazza dei Signori, con le maschere dei sanzenati e i portatori di cibi. Agli occhi dello studioso, si tratta di euforie ed esaltazioni sulla scia di rituali festosi antichi, dove l’incontro di piazza permetteva di celebrare una felicità condivisa da “siori” e popolo. Oggi, in tempi sovraccarichi di eventi che spesso confondono i sensi, il palio, ancora attivo in alcune città anche venete, resta una rievocazione in costume che salva almeno l’idea delle gare sportive e del banchetto gastronomico. Nel basso veronese, il paragone più attendibile con questo spirito, organizzato con cura all’ombra di un castello scaligero, è il Palio delle contrade di Sanguinetto, pur inserito nella Fiera-Festa del Toro di ben altro significato. Si svolge in maggio in un centro di soli quattromila abitanti e non vanta la continuità col passato, dato che è stato istituito solo da pochi lustri; tuttavia trova il suo punto di forza in un senso di gioia comunitaria che porta a un’attiva partecipazione, con vivaci esibizioni, festa polivalente e sano spirito agonistico. Dal palio veronese, in verità, ha ereditato alcune caratteristiche, pur per-
dendone altre: s’apre col corteo d’un centinaio di figuranti, naturalmente non consci di rinnovare le processioni rituali delle ambulationes romane; c’è la benedizione del parroco che dimostra la necessità d’un “placet” religioso alla festa popolare (Bernardino da Siena, nel Duomo di Verona nel 1422, lanciò i suoi strali contro la corsa del palio in Quaresima); s’anima l’intera comunità, al di là dei ceti sociali, nell’organizzazione e nella trasformazione in personaggi antichi, in stile carnevalesco, trovando ad esempio genti umili nella vita quotidiana che per il palio esibiscono gli abiti in broccato del fasto nobile veneziano. Non mancano, poi, il convivio con l’esibizione di musici e giullari, trampolieri e giocolieri, balestrieri e spadaccini, nonché le gare di abilità, singolarmente come gli arcieri o di gruppo come gli sbandieratori. Il paesaggio urbano asfaltato non permette purtroppo una presenza, come nelle antiche feste popolari, di animali da cortile, metafora del rassicurante ambiente domestico, né di buoi o cavalli, assai presenti fino alla metà del ‘900; in una piazza del centro si è comunque provato qualche anno fa a rivivere il gioco dell’oca, con gli animali sistemati alla meglio sulle caselle, ma s’è fermato per una reale difficoltà organizzativa. Più che il singolo atleta, il palio di Sanguinetto valorizza le quattro contrade: Cao de Sora, El gheto, El Castel e Cao de Soto. Queste partecipano ai giochi e alle gare, svolti nel pomeriggio domenicale nel prato della fossa circostante il castello, dalla gara co le bale al tiro con l’arco e con la balestra, dalla giostra del saracino a cavallo ai giochi riservati ai bambini. Ad alimentare l’idea medioevale c’è un mercatino di oggetti antichi intorno al maniero. Alla fine delle sfide si assegnano ai vincitori il Drappo del Drago (allusione forse ad una festa del 1520, quando il signore di Mantova Federico Gonzaga passò da Sanguinetto e fu ospite di Marcantonio Venier) e il titolo di Castellano, sigillato a fuoco dal Comune; in chiusura si assiste all’incendio del castello, con un ben augurante fuoco rigeneratore.
Luglio 2009
A SPASSO IN BICICLETTA
Un percorso in Valpolicella tra ville, fontane e capitelli di Donatella Miotto Solo una lunga, dritta, trafficata, strada provinciale. A fianco, quando lo sguardo riesce ad oltrepassare villette a schiera e piccoli centri commerciali, le colline. Questa era per me la Valpolicella, fino a pochi anni fa. Solo attraverso la bicicletta, e la preparazione del primo percorso cicloturistico in collaborazione con alcuni amici del luogo, è arrivata la scoperta di un territorio verde, dolce e antico, dove pedalare alla ricerca di preziose testimonianze storiche. Torniamoci insieme: si tratta di un tragitto di circa 50 km, per lo più pianeggiante, con qualche tratto di sterrato, che ci porterà davanti a ben 16 ville d’epoca. Percorrendo il lungadige arriviamo a Parona e continuiamo a pedalare lungo via Valpolicella, verso la zona industriale di Arbizzano, fino a quando, sulla destra, si apre la stradina sterrata che porta all’hotel Villa del Quar. Poco più avanti, sempre sulla destra, si trova la Fontana del Quar, purtroppo oggi quasi nascosta dalla vegetazione. Proseguendo per via Cà Brusà, arriviamo all’incrocio; svoltiamo a destra e, subito dopo, sulla strada sterrata a sinistra: iniziamo una strada sterrata dove poco dopo, guardando a sinistra, troveremo la bella Fontana delle Cedrare e, in fondo alla via, Villa Zambelli Caldera. Proseguendo dritti lungo via Claudia Augusta, arriveremo ai resti di Villa Banda, di fronte alla duecentesca chiesetta di San Martino, e da lì alla strada centrale di Corrubio, con le sue eleganti case dell’inizio del secolo scorso. Raggiungiamo l’ingresso di Villa Amistà, oggi prestigioso hotel, (villa che meriterebbe una sosta se non fosse situata su una pericolosa curva) e giriamo a destra per via Negarine, dove costeggiamo il muro di Villa Sagramoso Sacchetti , annunciata dalla bella chiesetta di San Carlo, tempietto in stile romanico restaurato negli anni ’70. Si prosegue dritti per via Calandrine, fra cipressi e oleandri; all’incrocio con la strada del vino giriamo a destra raggiungendo
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Un territorio verde, dolce e antico, dove pedalare alla ricerca di preziose testimonianze storiche. Si tratta di un tragitto di circa 50 km, per lo più pianeggiante, con qualche tratto di sterrato, che ci porterà davanti a ben 16 ville d’epoca
Villa Pullè Galtarossa. Dopo pochi metri si gira a sinistra per villa Saibante Monga, nota come Villa Costanza. Proseguiamo sulla strada sterrata ammirando il colle dove si erge il campanile di Cariano e, al bivio, giriamo a sinistra. La strada curva andando ad incontrare la stradina asfaltata che attraverseremo proseguendo per via Cariano, ancora su sterrato. In località Croce, subito dopo la curva svoltiamo a destra, e proseguiamo diritti fino all’incrocio con un’altra stradina asfaltata. Giriamo a destra andando incontro ad un gruppo di case coloniche che oltrepassiamo e proseguiamo fino all’incrocio con la statale della Valpolicella, all’altezza dell’incrocio per Gargagnago. Attraversiamo e saliamo fino al’incrocio con un grande cipresso, dove giriamo a sinistra, in direzione Gargagnago. Dopo circa 300m imbocchiamo, sulla destra, il “Sentiero delle Quattro Fontane” che ci porterà alla contrada Monteleone, nelle vicinanze della omonima Villa. Si prosegue dritti e al successivo incrocio si prende la strada a sinistra, verso Villa Serego Alighieri. Giriamo a destra per via Case Sparse scendendo verso Bure. Attraversiamo di nuovo la statale proseguendo dritti e passando da-
vanti al piccolo cimitero, dove la strada torna ad essere sterrata. Poco dopo il sottopasso, costeggeremo il muro di villa La Cariana. All’incrocio proseguiamo dritti salendo verso la chiesa di Cariano, che si erge a fianco di Villa Cometti. Giriamo a sinistra fino alla piazza dove si apre il parco di Villa Acquistapace Castellani detta “La Serenella”. Scendiamo quindi per via Valena e riprendiamo via Monga. Oltrepassata villa Costanza, giriamo a sinistra e subito dopo a destra, per via Ossan. All’incrocio proseguiamo dritti per la sterrata via Squarano , nei pressi di Villa Fumanelli, raggiungendo la statale, che percorreremo per circa 30 m, prendendo sulla destra via della Pieve. Raggiunta la Pieve di San Floriano proseguiamo sul marciapiede ciclabile passando davanti al muro di villa Lebrecht, oggi sede universitaria, e svoltando poi a destra per via Omar Speri, verso Lenguin. Alla fine attraversiamo nuovamente la statale prendendo la ciclabile che ci porta a Pedemonte. Dopo Villa Crine giriamo per Via Bolla, passando tra Villa Bolla ed il retro di Villa Danese. A metà di via Bolla giriamo a destra e riattraversiamo la statale prendendo via Santa Sofia: Dopo aver costeggiato il muro di Villa Santa Sofia si torna in via Valpolicella e quindi a Parona.
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Libri NEWS DAL MONDO DEI PICCOLI EDITORI
Giovanni Benaglio PÉSTE Perosini Editore, 2008 Euro 12,00
Dino Coltro scrive nella prefazione che queste poesie di Giovanni Benaglio, giunto alla terza raccolta, ricordano l’Antologia di Spoon River, insieme ai Mistieroi di Andrea Zanzotto. Infatti in questi versi parlano i protagonisti di una civiltà scomparsa, quella contadina (da noi scomparsa anche nel mondo ancora oggi legato alla terra, intendiamoci) assieme ai personaggi che costituivano lo sfondo sociale e il tessuto culturale della vita quotidiana. Sono ritratti, messe in scena, narrazioni che l’autore fa riemergere da un passato definito, la metà del secolo scorso, e dalla realtà di un paese di campagna, il suo, Santa Maria di Zevio. Nonostante i riferimenti di luogo e di tempo, Péste è tutt’altro che un libro “del paese” o della nostalgia. Sono storie e vissuti che, attraverso i versi di Benaglio, ritrovano parola e quindi dignità e giustizia in un messaggio – a volte grido – universale. Un libro fuori dal coro, quasi un repertorio etnografico con una cura linguistica rigorosa che niente lascia al facile folclore del dialettismo di maniera. Una prova che in dialetto si può fare poesia e che, anzi, il dialetto stesso può essere poesia. Il libro apre la collana di testi, saggi e testimonianze “Una rete di péste”, progetto di un’editoria della memoria e della cultura popolare. www.perosinieditore.it
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Irene Lucchese OLTRE LO SCATTO Prova d’Autore, 2008 Euro 10,00
Un agile saggio, semplice e documentato, che ripercorre la storia della fotografia dalle origini alle più recenti innovazioni tecnologiche. Di questo lungo cammino, che inizia ben prima dalle scoperte di Niepce e Daguerre del XIX secolo, l’autrice Irene Lucchese si ferma ad approfondire un aspetto particolare, divenuto un genere: la fotografia di guerra, quando lo “sguardo artificiale” diventa “occhio della storia” e assume un valore documentario importante e fondamentale. Non solo. Come fa intendere il titolo del libro, Oltre lo scatto, una volta catturata e fermata nell’immagine, la realtà diventa disponibile a tutti, si diffonde e percorre un proprio percorso autonomo con ricadute informative, culturali, politiche, sociali. L’autrice con questo saggio si è laureata presso l’Università di Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia, con specializzazione in giornalismo. All’editrice catanese “Prova d’autore” (si veda la sua rivista culturale www.lunarionuovo.it), intraprendente e coraggiosa, va riconosciuto il merito di aver colto il valore di uno studio ricco di stimoli, di riflessioni e di buona cura.
Luigi Bertoldi Affari miei Iperedizioni, 2009 Euro 12,00 Saranno anche Affari miei, cioè suoi, ma credo che Luigi Bertoldi abbia avuto ragione a farli diventare affari di tutti. Per questo il libro, che già nel titolo – ironica al-
lusione ad un format tv – lancia un avviso circa la rotta che l’autore seguirà nel disbrigo dei suoi affari. Che sono anche affari di famiglia, basta leggere la dedica “alla mia unica moglie e ai miei tre figli”, con quell’unica che vale più di una sottolineatura, affermando piuttosto un principio cui l’autore si ispira. Veronese di razza, Luigi Bertoldi proviene dal giornalismo sportivo al quale ha dedicato anni di attività collaborando alle testate più prestigiose dell’editoria nazionale, con radio e televisioni. Il volume, con presentazione di Luciano Ravazzin, si può acquistare con bonifico o carta di credito su www.iperedizioni.it.
preso che in mondo in cui tutti vogliono dimenticare, si incammina verso un calvario senza assoluzione, pur di riappropriarsi della sua storia, a costo di spogliarsi dell’amore presente e della speranza a venire. E lo fa con sciagurata temerarietà, inanellando una galleria di ritratti vividi e rabbiosi: il feroce occupante nazista, la bella e dannata che lo sollazza, il comunista cieco e efferato, il pugile sacerdote, il sordido impresario dal grande cuore. Sfilano uno dopo l’altro, come il carrousel della sgangherata compagnia di circensi del vecchio esule spagnolo Fidel , sdruciti, eppure ricoperti di lustrini. Ognuno di essi è insieme maschera, o velo, appunto, metafora delle acrobazie che la vita richiede ai deboli che pure non rinunciano al loro posto sulla giostra e nel mondo. Monica Mariani
RETE VR-INSIEME www.veramente.org Verona In
Juan Manuel de Prada. IL SETTIMO VELO Longanesi Euro 18,60 Dal vibrante affresco sulla resistenza francese regalatoci dal promettente romanziere spagnolo, non si esce facilmente. La vicenda di Jules, partigiano ferito e smemorato, e del suo amore per la giovane Lucia, l’artista che lo cura e lo nasconde nella sua compagnia di girovaghi, è infatti un’avventura anche per il lettore, (più di seicento pagine) un susseguirsi di salti nel tempo, che nasconde più livelli di lettura. Sette, forse, proprio come i veli del titolo. È una riflessione sull’identità europea e di quel che ne resta oggi, mentre scolora il collante di una comune eredità antifascista, edificata sul sangue civile e partigiano, di coloro che, con buona pace dei vinti, vinsero sì ma ad un prezzo che non andrebbe dimenticato. E altresì un’analisi scabrosa della componente di inganno di cui ogni storia d’amore si nutre. Jules, il protagonista, è un eroe dilaniato, osannato eppure incom-
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N° 22/luglio 2009 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.
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