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N째 23 - OTTOBRE 2009 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N째 46) ART. 1, COMMA 1 - DCB VR
Primo piano
Anche sul traforo lo sconfitto è il buon senso
In copertina: «Da una parte gli austriaci, dall’altra i francesi». Katiuscia Lorenzini, di Assoguide Verona, sul Ponte Pietra mentre spiega ai turisti come era divisa la città attorno al 1800
Nonostante il consenso elettorale quella prospettata dall’attuale Amministrazione non sembra essere la risposta agli interessi della maggior parte dei cittadini
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www.verona-in.it È necessaria e urgente una soluzione che impedisca agli abitanti di Piazza Isolo, Veronetta e Porta Vescovo di morire avvelenati dai gas di scarico delle auto. Quindi un bypass Est-Ovest va fatto, assieme ad una campagna per l’utilizzo del mezzo pubblico e della bicicletta, con relative piste ciclabili. Favorevoli e contrari al traforo hanno obiettivi simili: recuperare (o tutelare) la vivibilità dei luoghi dove abitano. Ma siccome i contrari stanno soprattutto a Ovest, in un’area paesaggisticamente importante e più interessata ai lavori, mentre i favorevoli risiedono a Est, nelle zone che trarrebbero maggior beneficio da un contenimento del traffico, ecco che scatta la contrapposizione. I tentativi per stabilire un’intesa sui valori unificanti e per cercare una soluzione ragionevole ci sono stati, ma sono falliti dando il via ad una “guerra fratricida”senza senso. L’esasperazione degli abitanti di Veronetta è tale che qualsiasi soluzione andrebbe bene, pur di risolvere il problema che li assilla. Siamo al mors tua vita mea, che si traduce nella richiesta non più di eliminare lo smog, ma di spostarne una certa quantità ad Ovest. Differenza sottile ma di sostanza, che di fatto legittima qualsiasi intervento sull’ambiente funzionale a raggiungere lo scopo. Ma non siamo a Berlino ai tempi del muro e Porta Vescovo dista da Cadicozzi poco più di 3 chilometri. Nella convinzione di spostare parte del pattume nel giardino del vicino potremmo un giorno renderci conto che quel giardino è ancora casa nostra: Avesa, Quinzano, Parona, Chievo non sono nomi poi così lontani dal vissuto di ciascun veronese. Non è che a Veronetta non si rendano conto di questo, anzi, lo capiscono benissmo. È che tra far leva sul buon senso e sfruttare l’attuale congiuntura politica, la seconda via appare decisamente meno in salita. Il traforo di Tosi, nella so-
stanza, non piace a tutti i suoi elettori, viene considerato un’opera megalomane e costosa, ma far finta di niente è il tributo da pagare per togliersi finalmente dai piedi il problema del traffico in centro. Ecco dove finisce il buon senso. Ecco il metro con il quale vengono prese decisioni importanti che riguardano la salute dei cittadini e la tutela dell’ambiente. Le logiche clientelari per il mantenimento del consenso per un verso e le resistenze ideologiche dall’altra sono i due fattori che di fatto impediscono una soluzione ragionevole a problemi di questo tipo. Per capire basta recarsi nei bar, perché è lì, più che nei salotti, che si misura il polso della città. Tra un caffè e una brioche si sente dire che essere contro il traforo è di sinistra. È infatti la sinistra che ha fatto crescere in Italia la cultura ambientalista. Però è anche vero che a sinistra è forte la coesione quando si è contro qualcosa, mentre quando serve dare prova di progettualità e pragmatismo il rischio di sfaldamento è grande. In due parole, nei bar – soprattutto a Veronetta – la gente si chiede: ma quelli che sono contro il traforo di Tosi, cosa propongono in alternativa? Sempre al bar, si sente dire che essere a favore del traforo è di destra. La Lega ha scommesso forte su quest’opera e ci mancherebbe altro che i sostenitori del sindaco Tosi (6821supporters su facebook, contro i 1796 che invece dichiarano di detestarlo) mettessero in discussione una cosa del genere. «La Giunta risolve il problema perché è legittimata a farlo» è la frase di rito: ma come lo risolve davvero non interessa gli elettori del centrodestra? Attenzione, perché le amministrazioni cambiano, i sindaci fanno carriera, ma il traforo ce lo teniamo per sempre. Vediamola da vicino questa superstrada. Primo punto: risolve i problemi del traffico? L’intento è quello di evitare il passaggio delle auto dal centro, ma c’è chi sostiene
che si formerebbero code sia all’ingresso che all’uscita (anche di camion). Questo è un punto su cui va fatta chiarezza: spendere 400 milioni di euro per poi trovarsi con una grana del genere non è il massimo. Secondo punto: il progetto prevede l’estensione della zona a traffico limitato per obbligare gli automobilisti a imboccare il traforo, e quindi a pagare il pedaggio di 1 euro e 15 centesimi (con adeguamenti periodici). Si paga perché i privati e le banche, che finanziano i lavori attraverso il project financing (anche attraverso i nostri risparmi), devono rientrare con le spese e anzi guadagnare: ma quanto è giusto che non ci siano vie alternative non a pagamento? In tempi di crisi uno stipendio che se ne va per percorrere una strada ha il suo peso. Terzo punto: quando parliamo di zone come Negrar e Montericco, c’è quasi l’unanimità nel dire che la cementificazione selvaggia ha deturpato quei luoghi, compromettendone la vocazione agrituristica, enogastronomica ecc. Allora perché essere d’accordo su un progetto che getterà asfalto a tonnellate in zone come la Sorte e Chievo? Quarto punto: tra Poiano e fino quasi a Parona la superstrada sarà interrata, ma si tratta di un’area idrogeologica e naturale che andrebbe tutelata, per la flora, la fauna e per gli importanti reperti archeologici che sono la nostra ricchezza culturale, fonte di possibili risorse anche economiche. In conclusione la soluzione ragionevole qual è? Quella più semplice: un tunnel corto tra Borgo Venezia e via Mameli, una strada per i cittadini e vietata ai camion che consentirebbe di raggiungere lo scopo principale: far vivere Veronetta con una spesa che non andrebbe a pesare sulle generazioni future. Il resto non sembra essere la risposta agli interessi della maggior parte della gente. g.m.
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Territorio
TRAFORO
Quel buco sotto le colline Tra Quinzano e Parona – dove oggi ci sono serre, orti e campi – dal sottosuolo uscirà una superstrada da 40 mila veicoli al giorno. Passeranno sull’Adige in direzione Verona Nord.
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di Laura Lorenzini Lo svincolo tra vigneti e piccole aziende agricole. E lo sbocco della trincea coperta tra olivi e piante di fichi sotto la collina di San Dionigi. Quelle che fanno frutti piccoli, dalla buccia azzurrognola, dolci come il miele: «Ne vuole ancora? Ne prenda finché è in tempo, tra qualche anno mangeremo smog». Vittorio Gatti è un pensionato con un campo di tremila metri quadrati tra la via Caovilla che va a Parona da un lato e la strada che sale erta verso Montecchio dall’altro. Dietro corre una viuzza, la Strada dei Monti, regno di podisti e ciclisti in cerca di ossigeno tra gli sterrati
verso Quinzano e Avesa. Ma tra qualche anno a pochi metri da lì, dove Vittorio Gatti coltiva viti, fichi e insalata, la terra erutterà una lingua di asfalto larga più di venti metri, con 40 mila veicoli al giorno sparati verso il viadotto sull’Adige diretto a Verona Nord. Così tra cinque anni. Perché nel 2034 si salirà a oltre 55 mila. Questo dicono le proiezioni sul traffico inserite tra le migliaia di pagine del progetto del traforo, firmato dalla cordata capitanata dalla veronese Technital, soggetto promotore scelto dall’amministrazione Tosi. Una mega opera destinata a cambiare radicalmente la fisionomia del territorio veronese.
IL PARERE DEL GEOLOGO
Il geologo Tomaso Bianchini avvisò, nelle sue osservazioni del 2004 al tunnel targato Zanotto, che tutta l’area tra il parco dell’Adige e le colline di Avesa e Quinzano avrebbe rischiato il disastro ecologico. Habitat idrogeologico e naturale, ricordò, già oasi naturale del Wwf e area Sic (sito d’importanza comunitario), con uccelli selvatici e rare specie floristiche. E poi zona archeologica, con ritrovamenti che risalgono al Paleolitico medio. Infine sottosuolo di ricarica degli acquiferi con pozzi, progni e il rio Lorì. Ma anche nel resto dei quasi 12 chilometri di cui si compone l’anello
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Inchiesta Quattro corsie più due d’emergenza, cinque svincoli, un ponte sull’Adige e uno sul Biffis, una galleria naturale e una artificiale e poi rotonde, cavalcavia e sottopassi. Cambieranno le campagne della Sorte, tagliate in due dalla nuova tangenziale. Cambieranno l’area del Chievo e quella del Biffis e Alto Veronese, con campi di kiwi segati da lunghi tratti in trincea aperta. Polemiche su pedaggi, Ztl e svincoli
circonvallatorio Nord, che collegherà Est e Ovest di Verona attraverso la galleria delle Torricelle, un intero paesaggio muterà volto. Quattro corsie più due d’emergenza, cinque svincoli, un ponte sull’Adige e uno sul Biffis, una galleria naturale e una artificiale e poi rotonde, cavalcavia e sottopassi. Cambieranno le campagne della Sorte, tagliate in due dalla nuova tangenziale. Cambieranno l’area del Chievo e quella del Biffis e Alto Veronese, con campi di kiwi segati da lunghi tratti in trincea aperta. Ma si modificheranno anche vecchi borghi a Est come Poiano, dove Giorgio Massignan, presidente di Italia Nostra, segnala terreni già posti in vendita: «Costruiranno il costruibile. Scatterà un’enorme speculazione». Cassandra o facile profeta? Chi ha ragione? Chi, come l’amministrazione Tosi, pregusta la gloria per un’opera salvifica che pone «la massima attenzione alla tutela dell’ambiente», come ha dichiarato nella presentazione alla Gran Guardia quest’estate? O chi, come il comitato contrario guidato da Alberto Sperotto, definisce il traforo la terza autostrada in città, «che devasterà sette quartieri pedecollinari inutilmente, perché sarà già congestionata all’80 per cento tra pochi anni»? EST CONTRO OVEST
Il tema continua a dividere, come accade da decenni. Con una città spaccata in due: Est contro Ovest. E alleanze trasversali, come quella di Verona Sud supporter dei comitati di Veronetta e di Poiano contro i privilegiati dei quartieri a Nord della città. «Se di smog bisogna morire – sintetizza il presidente del comitato di Borgo Roma, Sergio Mantovani –, allora lo si ripartisca equamente tra tutti». Una soluzione che mettesse d’accordo le parti si è cercata a lungo, ma non si è mai trovata. Le prime ipotesi progettuali su un collegamento Est-Ovest hanno cominciato a circolare negli anni ’80, con un traforino corto che entrava da via Fincato e usciva a Madonna del Terraglio. Ci fu la sollevazione popolare, così si passò all’ipotesi di quello lungo, con la comparsa per la prima volta della famosa casa rossa di Poiano
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Il tema continua a dividere, come accade da decenni. Con una città spaccata in due: Est contro Ovest. «Se di smog bisogna morire – dice il presidente del comitato di Borgo Roma, Sergio Mantovani –, allora lo si ripartisca equamente». Una soluzione che mettesse d’accordo le parti non si è mai trovata
e l’uscita al Saval. Negli anni ’90 in Provincia viene concepito il tracciato con galleria sotto le Torricelle e la cosiddetta “strada di gronda” in direzione Verona Nord. Non più solo superamento del collo di bottiglia tra Veronetta e il teatro Romano, dunque, ma ultimo pezzo mancante dell’anello circonvallatorio attorno alla città. Giorgio Massignan, che nei primi anni ’90 fu in Consiglio comunale e in giunta negli anni dei dorotei e del socialista Cresco e poi dell’era Tangentopoli, cita anche la proposta della Mediana che passava a Sud, che lui avversò «perché sventrava il Boschetto e l’area attorno all’Adige».
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Inchieste Valpiana: «Speravamo nel sindaco Zanotto, che doveva mettere nel Prg la salvaguardia delle colline. Se l’avesse fatto, oggi non ci occupperemmo di questo mostro»
Il verde Mao Valpiana testimonia, nei suoi ricordi da consigliere comunale, le baruffe in maggioranza negli anni dal 1997 al 2002, con il progetto inserito nel Prg bloccato da guerre intestine in Forza Italia e dintorni. E ricorda la prima assemblea contro il traforo nel 2001, antesignana dei tempi odierni segnati dal comitato del
“no all’autostrada”, con la sala zeppa di gente. «Eravamo tanti, con parecchie associazioni presenti – ricorda Valpiana –. Speravamo nella new age del sindaco Paolo Zanotto, che poteva e doveva mettere nel Prg la salvaguardia delle colline. Se l’avesse fatto, oggi non ci occupperemmo di questo mostro. Ma lui è caduto nella debolezza del non scegliere e giustamente la gente si è incavolata». I PROGETTI DI ZANOTTO
L’ex sindaco Zanotto: «Oggi saremmo all’inaugurazione del traforino, se la prima mossa della giunta Tosi, nel giugno 2007, non fosse stata quella di revocare la delibera. Niente espropri, una canna sola, camion esclusi, solo mezzo euro per il transito» I campi e le serre tra San Rocco (Quinzano) e Parona
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Zanotto, nel suo mandato, di trafori ne ha proposti due. Uno lunghissimo, otto chilometri tutti in galleria tra Poiano e Parona, con costi però stellari: 600 milioni di euro. E uno corto, tra via Fincato e via Mameli, vietato ai camion, più abbordabile con i suoi 88 milioni, studio di prefattibilità firmato Technital. La stessa cordata che oggi firma il traforo targato Tosi motivava la scelta così: «La galleria lunga può avere funzione di circonvallazione nord per i traffici di provenienza extraurbana, ma non assolve quella urbana, indispensabile per risolvere i problemi di traffico di Veronetta e nei quartieri come borgo Trento e Valdonega». Oggi, con la nuova amministrazione, corregge il tiro. E nello studio di fattibilità definisce l’anello «in grado di garantire sia i traffici di provenienza extraurbana, sia quelli prettamente cittadini». Come? Non solo auto ma pure camion, per rendere appetibile il collegamento alle aziende che vanno da Est a Ovest. Vedi imprese del marmo della Valpantena che, ricorda Zanotto, «hanno firmato in più di 80 un appello a favore del progetto di Tosi». Per le auto, perché non passino più davanti al teatro Romano, la proposta è una grande Ztl tra Porta San Giorgio e Porta Vescovo lungo via XX Settembre, via San Nazaro, via Muro Padri, via Giardino Giusti, Rigaste Redentore, lungadige San Giorgio, via Mameli e via Caroto, la strada delle Torricelle che parte da borgo Venezia. Un obbligo, nella convenzione, come il pedaggio di 1 euro e 15 «da adeguare ogni anno a partire dal 2010 – si legge nella prima bozza –, sulla base del tasso reale di inflazione, per tutta la du-
rata della concessione». Cioè 49 anni e 6 mesi, tra cui i 4 e mezzo previsti: 18 mesi per la progettazione e tre per i lavori. E sempre nella convenzione si scopre come il potenziale concessionario faccia tornare i conti del piano finanziario con 100 mila metri quadrati da destinare ad area servizi con alberghi, centri commerciali, alloggi, pompe di benzina, servizi di ristorazione. Clausole che, prima dell’estate, hanno scatenato forti maldipancia nella maggioranza, con il sottosegretario all’economia del Pdl Alberto Giorgetti che ha stroncato le compensazioni, seguito da gruppi consiliari di ex An e Forza Italia. Polemiche anche su pedaggi, Ztl e svincoli. Così ecco le correzioni in corsa della giunta che, a metà settembre, ha recepito le prescrizioni aggiungendo 240 metri in più di percorso coperto verso la Valpantena, limitando le edificazioni ad aree di servizio e a un parcheggio scambiatore da 1300 posti al Saval più una struttura per l’ospedale e depennando lo svincolo di San Rocco spostandolo verso via Preare-Ca’ di Cozzi. Ora si attende l’adeguamento del soggetto promotore, con relativo nuovo piano economico-finanziario. COSTI DA CAPOGIRO
L’ex assessore ai lavori pubblici Carlo Pozzerle sorride: «Staremo a vedere, come faranno a far quadrare i conti. O aumentano il pedaggio, o ricorrono a contributi pubblici, o fanno rientrare dalla finestra nuove cubature. Alla fine il traforo di Tosi costerà quanto il nostro lungo da 600 milioni di euro. Circa 400 milioni sono quelli di base, se si farà la bretella sulla Sp4 della Valpolicella. Più i pedaggi sulle tangenziali, la sosta del park scambiatore, le aree di servizio e gli eventuali finanziamenti». Per l’ex sindaco Zanotto i problemi saranno non solo irrisolti, ma aggravati: «Oggi saremmo all’inaugurazione del traforino, se la prima mossa della giunta Tosi, nel giugno 2007, non fosse stata quella di revocare la delibera. Niente espropri, una canna sola, camion esclusi, Ztl allargata per scaricare il traffico di via Mameli, mezzo euro per il transito
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Inchiesta Il geologo Tomaso Bianchini, già nel 2004 avvisòche tutta l’area tra il parco dell’Adige e le colline di Avesa e Quinzano avrebbe rischiato il disastro ecologico. Habitat idrogeologico e naturale, già oasi naturale del Wwf e area Sic (Sito d’importanza comunitario), con uccelli selvatici e rare specie floristiche. E poi zona archeologica, con ritrovamenti che risalgono al Paleolitico medio
Sopra e sotto: manifestazioni antitraforo in piazza Bra
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invece di un euro e 15. Il futuro tunnel, con i mezzi pesanti, ci ucciderà e non salverà borgo Trento e Veronetta». Massignan ricorda che urbanisti di vaglia come Zambrini e Winkler, chiamati a studiare il sistema della mobilità a Verona, sostennero l’inutilità di una complanare a Nord per decongestionare il centro: «Le loro ricette erano l’ampliamento dei ponti Navi, Aleardi e San Francesco e l’allargamento dell’attuale complanare Est-SudOvest. Poi, chiaro, servivano parcheggi scambiatori e tramvia. Cose semplici che Zanotto non ha fatto, consegnando la città all’ondata megalomane».
VERONETTA: «FATECI RESPIRARE»
È stanco di rimpalli Mario Fiorio, presidente del Gruppo famiglie Veronetta, che anche a nome dei comitati di Santa Chiara e di Santo Stefano scandisce le parole: «Tutti parlano di futura autostrada, ma nessuno si accorge che noi, da Porta Vescovo al teatro Romano, ce l’abbiamo già. Traforone o traforino, a noi sarebbe andato bene tutto. Ma in decenni non è andato in porto niente. A questo punto, ben venga questo progetto. Non sarà perfetto, ma ci farà respirare». Quello che fa male non sono le polveri, spiega, ma la loro concentrazione. In questo il suo ragiona-
mento collima con quello di Mantovani, del comitato di borgo Roma, con cui Fiorio solidarizza: «Se spostiamo il 10 per cento dei nostri inquinanti in un altro posto, Veronetta sarà alleggerita. E se le spostiamo a Borgo Trento, Quinzano e Avesa, che hanno meno carichi stradali, quelle zone non raggiungeranno comunque i picchi di smog oltre la soglia di attenzione. Ecco perché dico che è ora che anche loro facciano la loro parte per la vivibilità di questa città, addossandosi la loro quota di traffico». Non ha una posizione univoca, invece, il comitato ValdonegaTorricelle. «Abbiamo preferito tralasciare l’argomento per evitare di dividerci – spiega il presidente Stefano Modena –. Alcuni pensano che via dei Colli e via San Felice verranno liberate dalle auto che prendono la scorciatoia collinare da borgo Trento a borgo Venezia. Io sono contrario, perché ritengo che ogni nuova grande arteria sia un potenziale attrattore di traffico». I più preoccupati sono residenti e contadini sul tragitto da Avesa fino a via Preare, dove la notizia dello svincolo spostato qualche centinaio di metri più in là non fa fare i salti di gioia. Davanti alla chiesa di San Rocco, dove c’è l’incrocio a senso alternato in mezzo alle ma-
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Inchiesta Anche l’Arpav, nelle osservazioni sul traforo, ha espresso più di qualche perplessità per una situazione ambientale e acustica che a Verona è già grave e che col nuovo passante peggiorerà
rogne, parecchie famiglie hanno tenute agricole che risalgono al primo Novecento. Quella di Adriana e Mariella Bertani risale al 1929 ed è passata di mano in mano da tre generazioni. Hanno 7.500 metri quadrati di terra dove coltivano verdura e frutta, fichi e giuggiole in particolare. Le ruspe ci passeranno in mezzo. «Ci hanno spiegato che scaveranno il buco col talpone e poi copriranno il tutto con una tettoia e un metro e mezzo di terra. E me lo spiegano cosa ci piantiamo lì sopra? Neanche le rose – si dispera Adriana –. IL DANNO E LA BEFFA
Nella pagina a fianco: l’ultimo tracciato del traforo presentato al Convegno “Piani e progetti per la città, sguardi su Verona 2007-2012” che si è svolto al Palazzo della Ragione dal 23 settembre al 2 ottobre 2009.
L’assessore Corsi, quando è venuto a vedere, ha fatto spallucce: «E che sarà mai, per du pomari». La verità è che noi con quelle due piante, che sono molte di più, ci mangiamo in tanti. Loro invece vengono a casa nostra e ci portano via tre vite di lavoro». Duecento metri più in là la famiglia Perusi sa che il piazzale, rifatto nuovo l’anno scorso, verrà fatto a pezzi. E la macchia di alberi sarà decapitata. Il danno e la beffa, perché in cam-
bio non avranno neanche il pedaggio gratis. «Il presidente della circoscrizione Alberto Bozza si sta battendo per allargare l’esenzione dal ticket a borgo Trento. Di noi si ricordano solo quando è ora di votare». Raccolgono l’uva in silenzio i pensionati che, come Vittorio Gatti, hanno comprato i piccoli appezzamenti sotto la collina di San Dionigi, dove dovrebbe sbucare la futura tangenziale uscen-
do dalla galleria artificiale, per poi puntare al viadotto sull’Adige. Hanno comprato quei pezzi di terra nel 1982 da Fernando Chiampan, ex patròn dell’Hellas, a cui appartenevano parecchie delle proprietà vendute ad aziende e contadini. Che si trovano tutte sul tracciato. Così è anche per Fontana Fiori. Accanto alla serra e al punto vendita i proprietari si sono costruiti la casa. A pochi metri passa la Strada dei
Ore 19, nei pressi del Teatro Romano
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Inchiesta «È vero che 85 industrie della Valpantena hanno firmato a favore dell’anello ma l’opera andrà a vantaggio di tutta la collettività»
L’assessore Corsi: «Nel 2011 il via ai lavori e così quest’opera entrerà nella storia» Noi non ci saremo, cantava Guccini. Chissà se nel 2014, o 2015, quando il traforo potrebbe essere pronto per un taglio del nastro in pompa magna, l’assessore Enrico Corsi siederà ancora nella giunta di piazza Bra. Lui, immancabile fazzoletto verde nel taschino e fedelissimo del sindaco Flavio Tosi, che gli ha affidato le grandi partite aperte della viabilità, sa che a raccogliere gli allori – o i pomodori, dipende – potrebbe non essere lui. Anche perché il lanciatissimo sceriffo della Valpantena nel frattempo magari sarà volato in Regione o più in alto. Ma, qualsiasi cosa accada, lui è sicuro che la firma di quella che considera la più grande opera degli ultimi trent’anni rimarrà scolpita nella storia scaligera: «Si parlerà per sempre del traforo della giunta Tosi, che è anche la mia – si inorgoglisce, srotolando il tracciato che tiene a portata di mano nella sua stanza di Palazzo Barbieri. Macché smembramento di pezzi di colline e campi di agricoltori. Lui prevede il tripudio. Il traffico, per qualche decennio, filerà liscio. E non solo camion carichi di marmo. «È vero che 85 industrie della Valpantena hanno firmato a favore dell’anello – ammette Corsi –, ma l’opera andrà a vantaggio di tutta la collettività». Pazienza se i futuri espropriati, da Nord a Ovest, urlano allo scempio: «Non si può, per l’opposizione di pochi, fermare un’opera che dopo decenni sblocca il collo di imbuto che va da porta Vescovo a via Mameli. Non distruggeremo nulla. Il comitato di Sperotto va dicendo un sacco di bugie. La galleria artificiale dopo il Saval, ad esempio, non sventrerà i campi, perché useremo il metodo Milano. Si piantano due paratie di pali, che diventano le pareti laterali della struttura. Sopra ci si costruisce un solettone di copertura, con le ruspe che vanno a scavare sotto. E tutto re-
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sta come prima». Ma campi e colture non verranno spazzati via dalla soletta? «Certo, ma poi verranno ricoperti con tre metri di terra e ripristinati come prima. I contadini potranno ripiantare quello che vogliono». Su speculazioni e vendite già in itinere sui campi in futuro edificabili, dalla Valpantena a Verona Nord, Corsi nega deciso: «Non mi risulta. Vendere cosa, poi? Abbiamo messo paletti fermi, in giunta, alle cosiddette opere di compensazione. Si faranno il parcheggio scambiatore, qualche area di servizio e opere simili. I conti dovrà farli tornare Technital, che a breve dovrà presentarci un piano economico in base ai ritocchi, che dovrà essere sostenibile». Aumenteranno gli anni di concessione? Aumenterà il pedaggio? L’assessore per ora va avanti come un caterpillar e sfida sui tempi Zanotto, che pronostica una paralisi di almeno un anno dell’iter tra le regionali del 2010 e il possibile referendum del comitato anti traforo. «Lui ha perso anni a litigare con i suoi. Noi appalteremo entro l’anno le gare per individuare i competitor. Quello migliore poi dovrà confrontarsi con il promotore. Nel 2010 potremmo arrivare all’affidamento, quindi via ai progetti definitivo ed esecutivo. E per l’autunno 2011 potrebbe aprire il cantiere». Non sarà il referendum a far slittare i tempi, avverte Corsi, che confida nel collegio dei garanti: «Vedremo a chi daranno ragione, se a noi o a Sperotto». Ma non è che ha paura della consultazione popolare? Il politico di Montorio fa lo sguardo torvo. «Io non ho paura di nessuno. Solo che non mi va di far spendere soldi inutili ai cittadini. Loro il traforo lo hanno già votato quando ci hanno eletto. Bocciando l’inutile tunnel corto di Zanotto, che avrebbe fatto diventare borgo Trento una camera a gas peggio di Veronetta».(L.L.)
Monti, che corre lungo la collina per sbucare, tra vigne e ulivi, alla chiesa di San Rocco. «La vede oggi com’è? Due metri e mezzo. Immagini tra cinque anni quando quadruplicherà fino a diventare dieci – dicono i due proprietari –. Certo, faranno la galleria artificiale. Ma ci sventreranno tutto il campo, anche se scavano sotto. E la serra? E le piante? E la famiglia e i due dipendenti, con cosa camperanno? E ci fanno ridere quando ci raccontano che filtreranno i gas dei tubi di scarico di 50 mila macchine». Gli impianti di filtrazione elettrostatica dei fumi, stando al progetto Technital, dovrebbero garantire livelli di abbattimento delle polveri sottili dal 94 al 99 per cento. E le barriere antirumore dovrebbero eliminare il rombo nei tratti scoperti. Ma pochi ci credono. Sergio Meneghini, titolare di una ditta con camion che arrivano anche dalla Valpantena, è convinto che la nuova arteria sarà utile al territorio, ma avrebbe dovuto essere meno invasiva. «Sarebbe stato meglio il tracciato a Nord. Qui abitano i miei genitori, anche loro dicono che per il territorio ci vorrebbe più rispetto». Anche l’Arpav, nelle osservazioni al traforo, ha espresso più di qualche perplessità per una situazione ambientale e acustica che a Verona è già grave e, inevitabilmente, col nuovo passante peggiorerà. «Nel periodo diurno più del 30 per cento della popolazione è esposta a livelli di rumore stradale sopra i 60 decibel – si legge –. E in ambito urbano il traffico su gomma rappresenta una delle fonti principali di inquinamento. Il traforo sembra andare incontro a chi deve attraversare la città, mentre non offre alternative per chi da Est deve raggiungere il centro o borgo Trento». Per il comitato no-traf di Sperotto sono troppe le cose su cui la giunta ha taciuto e su cui i veronesi devono esprimersi con un referendum. Tosi però ha fretta e stringe i tempi per andare alla gara tra competitor europei. E avverte: «Siamo disponibili al confronto, ma l’opera non è in discussione. I cittadini che mi hanno votato con ampio consenso hanno già deciso».
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A PROPOSITO DI MOBILITÀ
Ai ciclisti piacciono i doppi sensi e più spazio per alberi e panchine di Paolo Fabbri * Da Borgo Venezia a San Zeno fioriscono selve di nuovi cartelli: divieto di svolta, direzione obbligata, senso unico, senso vietato... Sta procedendo inarrestabile, giorno per giorno, la trasformazione di molte strade secondarie storicamente a doppio senso di marcia, in strade a senso unico. Tutto questo complica moltissimo la vita dei ciclisti: moltiplica le loro distanze, li costringe a giri tortuosi, qualche volta li espone a maggiori pericoli. Un controsenso se si considera che uno degli obiettivi dichiarati della politica della mobilità è quello di promuovere l’uso della bicicletta... Tuttavia non è solo per questo che a noi questa diffusione dei nuovi sensi unici nelle strade secondarie sembra una rivoluzione strisciante, silenziosa, destinata a produrre gravi conseguenze sul futuro della città e sulla qualità della vita dei veronesi. Le motivazioni con le quali l’Amministrazione sta modificando intere porzioni di città, sembrano essere sostanzialmente due: i sensi unici rendono più scorrevole il traffico e aumentano gli spazi destinati alla sosta. Siamo convinti che pensare che anche nelle strade secondarie la prime esigenze da tenere in considerazione debbano essere la scorrevolezza del traffico e la disponibilità della sosta, sia rivelatore di un approccio
I sensi unici fanno aumentare il traffico di attraversamento e la velocità delle auto che li percorrono. Crescono così il rumore e i pericoli per i residenti costretti a giri tortuosi per entrare o uscire dalla strada di casa
“automobilecentrico” ai temi della mobilità e della gestione dello spazio urbano, ancora una volta concepito solo in funzione delle esigenze dell’automobilista. Ci sembra infatti che, una volta disegnati, i nuovi stalli saranno difficilmente cancellabili: nessuna Amministrazione sarà mai abbastanza forte. Realizzarli significa quindi ipotecare all’auto ogni metro quadro utile anche nelle strade secondarie, rinunciando per sempre ad ogni possibile diversa destinazione d’uso di quegli spazi: a panchine, alberi, marciapiedi più larghi, corsie ciclabili, spazi di gioco e di incontro. E ci sembra che non sia solo per questo che
la qualità della vita dei residenti sia destinata a risentire in negativo di questa trasformazione. Eliminare il doppio senso di circolazione, significa infatti anche eliminare un elemento importante di “moderazione del traffico” (per moderazione del traffico si intende sostanzialmente la riduzione della velocità e del numero delle automobili in transito): i sensi unici fanno aumentare il traffico di attraversamento (favoriscono chi utilizza le strade secondarie come scorciatoia per evitare i punti più trafficati sulla viabilità principale) e la velocità delle auto che li percorrono. Crescono conseguentemente il rumore e i pericoli per i residenti costretti, oltretutto, a giri tortuosi per entrare o uscire dalla strada di casa. E ancora, gli stalli guadagnati diventano spesso attrattori di traffico, soprattutto nei pressi di aree dove è in vigore la tariffazione della sosta. Altra cosa sarebbe se, come gli ambientalisti stanno proponendo ormai da decenni, e come, da decenni, sta accadendo in tutta Europa, le reti di strade secondarie (le “isole ambientali” dei Piani del Traffico: le reti di strade secondarie delimitate dalla rete della viabilità principale) diventassero tutte “Zone Trenta” nelle quali le scelte viabilistiche assegnino la priorità non allo scorrimento del traffico ma alla qualità della vita. E dove muoversi sia finalmente più facile per tutti. * Presidente Fiab Amici della bicicletta onlus Verona
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HOMO SAPIENS, HOMO FABER, HOMO LUDENS
“Tocatì”, una filosofia del gioco che ha conquistato l’intera città di Corinna Albolino Fine settembre: per Verona tempo di gioco, tempo di Tocatì, il Festival internazionale dei Giochi in Strada, promosso dall’Associazione Giochi Antichi. Un appuntamento che ha visto come ogni anno la città, il centro storico aprirsi festosamente al fermento della miriade di iniziative in programma. Una molteplicità di eventi che come sempre hanno segnato il tutto esaurito, affollando piazze, cortili, logge e chiostri offerti alla manifestazione. Dunque ancora una volta un successo per questo festival, alla sua settima edizione. Un’occasione di giochi e di cultura del tutto speciale, perché ospite eminente è stata nientemeno che la Grecia e quindi la memoria di tutto ciò che questo Paese ha la potenza di evocare nell’immaginario, rispetto al tema dell’origine della nostra storia occidentale. Un vento strano, particolare, venuto da lontano, soffiava dunque in questi giorni sulla città, odorava di sapienza, di filo-sofia, di mitologia. Un vento che trasfigurando luoghi e atmosfere ci ha messo ben presto le “ali ai piedi”, come accennava Duccio Demetrio in Sala Farinati, trasportandoci nell’aura di quel tempo delle origini, nella magia di quel luogo-non luogo denominato mito. Là dove l’uomo dimorava presso il dio che ne decideva il destino, nei giochi bizzarri tra l’umano e il divino erano già tutte presenti quelle connotazioni più generali del ludus, che abbiamo ritrovato in questi giorni nei giochi popolari riproposti nelle piazze. Competizione, scaltrezza, padronanza di sé, combinate con eccitazione, ebbrezza, piacere dell’eccesso. E se qui protagonista è stata la Grecia, la filosofia, più urgente diviene allora l’interrogazione sulla tematica del gioco. Che cosa è il gioco? È strano, tutti ne abbiamo fatto esperienza; in questo senso è universalmente noto, tutti siamo stati in qualche momento un giocatore, eppure difficile ci risulta dire quale sia la sua essenza, la sua definizione. Forse più semplice è rispondere alla domanda: perché l’uomo gioca?
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Secondo alcuni l’uomo obbedisce a un gusto innato d’imitazione, secondo altri a un’esigenza di rilassamento. Per altri ancora si esercita in una sorta di autodisciplina, di autocontrollo. C’è poi chi vi legge una reazione all’ansia di dominare, di competere. Più agevole è parlarne appellandoci al senso comune che lo interpreta come un’attività marginale, un modo per evadere di quando in quando dalla serietà della vita. In proposito, di “oasi del gioco” teorizza il filosofo Eugen Fink, per indicare una dimensione separata, delimitata, che funziona da pausa di distensione, di sospensione a fronte della gravità della vita. Di “spazio magico” racconta lo storico Johan Huizinga e di “isola” lo studioso Roger Caillois. “Un’isola precaria” però per quest’ultimo, in cui si manifestano invece i caratteri più inquietanti di tale esperienza: l’aleatorietà, l’ambiguità della maschera e l’effetto destabilizzante della vertigine. E se a intrigare è piuttosto il ruolo della sorte, il gioco si drammatizza, diventando un “mettersi in gioco”. Ma comune a tutti gli autori è la valenza prioritaria di libertà e gratuità dell’attività ludica. Il gioco in
quanto tale infatti, se comandato non è più gioco, gode di un suo tempo, di un suo spazio, di regole che valgono per la durata che vi è destinata. È inoltre pratica disinteressata, non essendo diretta a produrre alcun bene, se non quello dell’anima. Da ultimo è da sottolinearne il valore collettivo, sociale. Da sempre gioco giocato con gli altri, è fonte di relazione, di comunanza. Ma, contrariamente a quanto si crede, di gioco non vivono solo i bambini. Anche l’adulto continua nelle sue occupazioni a giocare. Lo fa con la serietà, il lavoro, l’amore e perfino con il gioco stesso, ma in modo diverso, più indiretto, nascosto, simulato. E tutto questo rimanda allora alla considerazione che il gioco nella sua essenza è un “fenomeno esistenziale fondamentale”, appartiene originariamente alla vita stessa così come la morte, l’amore, il lavoro, la lotta. La sua peculiarità è semplicemente quella di accogliere tutte le altre manifestazioni e di metterle in scena. Nell’attualità del nostro tempo, come ancora ci dice Fink, per non finire vittime del “demoniaco” della tecnocrazia, il gioco si propone come farmaco per l’anima.
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Territorio
DISOCCUPAZIONE
Il lavoro che manca Come va coniugato in periodi di crisi il concetto di responsabilità sociale di imprese che in anni di vacche grasse hanno incamerato guadagni milionari? La situazione a Verona: i primi a saltare sono stati i precari di Michele Marcolongo Simone Ziviani, operaio cassintegrato: «Dobbiamo riuscire a parlare con i politici. Loro non sanno come si vive con 800 euro lordi al mese. Sono pronti a elargire soldi alle banche quando queste vanno a battere cassa, ma non sanno che
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cosa sta succedendo qui». Ibrahim Bayouh, migrante disoccupato: «Alcuni dei miei amici hanno mandato a casa mogli e figli, ma è un bel problema. I miei bambini sono nati, cresciuti e frequentano la scuola a Verona, senza contare che non conoscono la lingua d’origine e che nel mio paese, la Costa
D’Avorio, c’è ancora la guerra». Luca Luterotto, artigiano idraulico: «Se riuscissi a prendere un appalto e mi chiedessero il Durc (documento unico di regolarità contributiva) io non lo posso fare e sai perché? Perché o mangio e faccio crescere mia figlia, oppure pago Inal, Inps e robe varie».
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Inchiesta
Almeno 20 mila persone hanno già perso il posto di lavoro. Per lo più si tratta di precari a cui non è stato rinnovato il contratto di lavoro; dipendenti a tempo indeterminato di piccole e medie imprese messi in mobilità; artigiani e piccoli imprenditori che hanno chiuso i battenti
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ALCUNE TESTIMONIANZE
Sono voci dalla crisi economica che da gennaio, come uno sciame sismico, scuote la provincia di Verona e il resto del Paese. Una crisi che, malgrado l’ottimismo proveniente dai governanti, ha cominciato a intaccare il tessuto sociale, rivoluzionando le abitudini di migliaia di famiglie che si trovano a sopravvivere con un reddito dimezzato, e che minaccia di scardinare i riferimenti valoriali di tante comunità locali in cui, fino a pochi anni fa, l’economia tirava, e di lavoro ci si poteva perfino ubriacare. «L’ultimo mese ho portato a casa 890 euro e ne ho spesi 600 per i libri e il vestiario della piccola che a settembre ha cominciato le medie. Mia moglie ha perso il posto ad aprile» racconta Ziviani, 40 anni, operaio e delegato sindacale all’Agfa di Vallese di Oppeano, da giugno in cassa integrazione straordinaria. «Come si fa ad andare avanti? In fabbrica non si fa mai una settimana intera di lavoro, perciò si va a raccogliere fragole o a tagliare l’erba; si fa la cernita delle bollette, ci si scorda delle scarpe nuove e si bruciano tutti i risparmi. Per questo dico che i politici dovrebbero provare un mese a vivere così. E io mi considero ancora fortunato – prosegue –. Nel mio paese ci sono artigiani del mobile che da cinque mesi non vedono un centesimo. Al bar trovi seduta gente che prima non avevi mai visto lì. Si vive alla giornata ma noi non siamo abituati a farlo». Voci parziali, si dirà, per di più
impastate di emotività e una passione ormai aliena dai piccoli e grandi templi della politica. Forse. Oppure si tratta di segnali da cogliere per tempo. Ancor più gravi delle difficoltà economiche attuali, diventano l’incertezza per il futuro, l’ansia di non riuscire a provvedere ai bisogni dei figli, la frustrazione dell’inoperosità forzata. Anche tra i migranti, che di questi tempi sono alle prese con la prospettiva del fallimento del loro progetto migratorio. Alcuni hanno già mandato a casa mogli e figli e sono tornati sotto lo stesso tetto per dividere le spese: «Mia moglie per fortuna lavora. Quando lei è fuori io faccio da baby sitter alla bambina che ha solo un anno. Quando lei è a casa io esco a cercare lavoro, ma è difficile. Passare la giornata così mi fa proprio schifo» dice Bayouh,
55 anni molto ben portati, padre di quattro figli di cui tre maggiorenni ma studenti, che da un mese ha finito la mobilità ed è a casa senza nessun sussidio. Bayouh ha lavorato in conceria: «Ritornare al Paese di origine? Sì, qualcuno l’ha fatto, soprattutto chi ha i figli ancora piccoli ed è riuscito a farsi una casa. Ma tornare giù per andare ad abitare con i genitori non è molto bello. Io tengo duro, forse con un po’ di fortuna ce la faccio». Vediamo di ricostruire il contesto di queste storie e di cercare di dare una dimensione al fenomeno. VERSO LA MOBILITÀ
Le prospettive a breve termine per le imprese e i lavoratori veronesi sono presto dette: almeno 20 mila persone hanno già perso il
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Inchiesta «L’ultimo mese ho portato a casa 890 euro e ne ho spesi 600 per i libri e il vestiario di mia figlia che a settembre ha cominciato le medie. Mia moglie ha perso il posto ad aprile» «Se riuscissi a prendere un appalto e mi chiedessero il Durc (documento unico di regolarità contributiva) io non lo posso fare e sai perché? Perché o mangio e faccio crescere mia figlia, oppure pago Inal e Inps» «Mia moglie per fortuna lavora. Quando lei è fuori io faccio da baby sitter alla bambina che ha solo un anno. Quando lei è a casa io esco a cercare lavoro, ma è difficile. Passare la giornata così mi fa proprio schifo»
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posto di lavoro. Per lo più si tratta di precari (contratti a termine in genere, dagli interinali ai contratti a tempo determinato) a cui non è stato rinnovato il contratto di lavoro; dipendenti a tempo indeterminato di piccole e medie imprese messi in mobilità; artigiani e piccoli imprenditori che hanno chiuso i battenti. In secondo luogo, il futuro lavorativo di una parte cospicua del resto della popolazione lavoratrice, soprattutto nella manifattura, dipende dagli ammortizzatori sociali, cassa integrazione in primis, che non sono eterni: «In provincia non abbiamo registrato casi di imprese che non abbiano riaperto dopo la pausa estiva – dice Stefano Zantedeschi, segretario provinciale della Fiom Cgil – tuttavia i segnali della ripresa non si sono ancora visti, e non ci resta che andare avanti con la cassa integrazione fino all’esaurimento delle 52 settimane, che dovrebbero essere sufficienti per superare l’anno». «Dopodichè – prosegue – si attiverà la cassa integrazione straordinaria, che durerà un altro anno, al termine del quale o qualcosa sarà cambiato oppure i lavoratori cominceranno ad andare in mobilità». Visto il ritmo elevato con cui le imprese stanno bruciando
le settimane di cassa integrazione, secondo Zantedeschi si potrebbero affacciare «grossi problemi» verso la metà del 2010. È proprio questa la caratteristica di questa crisi: quella di apparire come una crisi cieca, di cui nessuno sembra in grado di indovinare la soluzione. Anche l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) nel suo ultimo rapporto ha messo le mani avanti: i segnali di ripresa ci saranno nel 2010, ma non avranno effetti sull’occupazione, che dovrà penare ancora a lungo. Iniziata nel 2007 sotto forma di crisi finanziaria, scoppiata al termine di una lunga serie di “bolle” speculative susseguitesi tra il 2003 e il 2007, la crisi ha cominciato a intaccare anche la cosiddetta economia reale a partire dalla seconda metà del 2008. Nelle ricostruzioni correnti, gli attori dell’economia reale appaiono come vittime inermi delle astruse logiche dei mercati finanziari. Ma è davvero così? Non è passato più di un anno da quando, nel settembre 2008, la Fiom scaligera richiamava calorosamente il distretto della termomeccanica veronese a prendere atto che “il ciclo della ghisa è finito”, e a puntare sulle nuove tecnologie “verdi”. In luglio del
2009 però, il gruppo Biasi, storico attore dell’industria e della finanza scaligeri, si è disimpegnato dal settore caldaie cedendo la Fondver al gruppo Zen di Florindo Garro, l’imprenditore padovano che, sospinto in poppa dalla finanziarizzazione, a partire dal 2004 in pochi anni ha creato un’azienda multinazionale vera e propria. A sua volta il gruppo Zen si era appena disimpegnato dalla New Fabris di Chatellerault, in Francia, mettendola in liquidazione a distanza di qualche anno dalla sua acquisizione, lasciandosi dietro uno strascico di disperazione da parte degli operai francesi che minacciavano di far saltare in aria la fabbrica. «Non ci resta che prendere atto della scelta di Biasi» commenta cauto Zantedeschi. Il caso però fornisce lo spunto per porre una domanda generale: come va coniugato in periodi di crisi il concetto di responsabilità sociale di imprese che in anni di vacche grasse hanno incamerato guadagni milionari? COLPITI I PRECARI
I primi a fare le spese della crisi sono stati i lavoratori precari. Già a marzo 2009 l’Alai Cisl di Vero-
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Territorio FRANCO ZANARDI
«La soluzione c’è: meno soldi dalla banche e più innovazione» Franco Zanardi
L’immagine secondo cui esiste una finanza cattiva (l’economia “di carta”, o virtuale) che a un certo punto si è messa a divorare, come in preda ad un attacco bulimico, l’economia buona (l’economia “reale”, come viene chiamata) è suggestiva ma un po’ troppo accomodante. Soprattutto non ci aiuta a capire le origini profonde della crisi attuale, né le vie praticabili per superarla. Questo, in estrema sintesi, lo spunto offerto da Franco Zanardi, che da qualche mese ricopre l’incarico di vicepresidente della Confindustria scaligera, con delega agli Affari sociali. Secondo Zanardi la crisi attuale va interpretata come la fine di un ciclo economico, iniziato nella prima metà degli anni Novanta e che coincide con la cosiddetta globalizzazione, ossia l’integrazione nel mercato mondiale delle economie latinoamericane, di quelle dell’ex blocco sovietico e delle asiatiche. Dopo una prima fase di semplice ospitalità della delocalizzazione produttiva, i paesi emergenti si evolvono: «I salari si alzano, nascono vincoli ambientali, quote crescenti della produzione nazionale vengono spostate dalle esportazioni al consumo interno e nascono nuovi bisogni – spiega Zanardi –. È in questa seconda fase dell’internazionalizzazione che la nostra economia deve inserirsi. Con offerte caratterizzate da alta qualità ed innovazione, in tutti i settori in cui il nostro paese può eccellere: dal turismo ed offerta culturale all’agroalimentare e manifatturiero. Per noi la domanda è legata alla
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Per il vicepresidente di Confindustria Verona occorre ritrovare l’equilibrio tra capitale di rischio e capitale di debito. Trasparenza e responsabilità sociale per attrarre gli investimenti meccanica, settore dove il made in Italy è, insieme con il made in Germany, particolarmente apprezzato. Come per tutti i settori economici di eccellenza, fondamentale è il capitale umano, senza il quale non c’è qualità innovazione produttività». Ma l’imprenditore sostiene che questo fattore critico di successo non è stato sempre sufficientemente curato, è stato anzi talvolta ipnotizzato da facili illusioni. Perché? «Perché non sempre il nostro ed altri paesi hanno voluto affrontare il rischio dello sviluppo innovativo», risponde Franco Zanardi. «Durante il boom economico del dopoguerra – spiega – gli imprenditori tendevano, forse più di oggi, ad investire nella propria specializzazione. Vi erano maggiore propensione all’impiego del capitale di rischio; aggressività e coraggio nell’affrontare il nuovo, voglia di lavorare per una vita migliore, severità nella scuola. In tutti – conclude – era più forte l’etica dell’impegno e, nelle classi politiche delle democrazie, l’orientamento a servire era forse maggiore di quanto oggi possiamo constatare». Cosa è cambiato, dunque? «Nel tempo è aumentata la ricerca del successo minimizzando il rischio, il rapporto debito – capitale è andato via via deteriorandosi, a favore di una crescita dimensionale sempre più vincolata alla leva finanziaria, minando in questo modo l’essenza stessa del capitalismo». In presenza di una politica accondiscendente – talvolta inconsapevole e spesso finalizzata a ricevere consensi nel breve termine – le
banche dei paesi più avanzati in questo processo, secondo Zanardi, si sono prestate a finanziare eccessivamente una parte dell’economia, trasferendo il rischio a ignari risparmiatori. «Per 15 anni il sistema ha funzionato – dice ancora l’imprenditore –. Siamo diventati complessivamente più ricchi, grazie ad una crescita straordinaria, trainata dai paesi di nuova industrializzazione. Poi qualcosa si è rotto e sono comparsi i titoli tossici». Secondo il vicepresidente di Confindustria Verona la priorità, ora, è «ritrovare un corretto equilibrio tra capitale di rischio e capitale di debito». Come? «Ricapitalizzando le aziende che ne hanno più bisogno e alzando l’asticella verso l’innovazione». «Questa dell’innovazione», precisa l’industriale, «deve essere la visione strategica di tutti i governi dei paesi più sviluppati e di una classe dirigente consapevole di quale sia il bene della collettività nel lungo termine». Ma quali strumenti hanno ora a disposizione le imprese? «Da parte nostra dovremo essere sempre più trasparenti e socialmente responsabili, per attrarre direttamente gli investimenti dei risparmiatori e le energie dei nostri giovani, molti dei quali hanno una gran voglia di misurarsi e condividere valori ed obiettivi della propria impresa. Dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni il gusto della conquista fatta di quotidiano sacrificio mostrando, con questa crisi, quanto sia effimera l’illusione del successo fondato sul poco».
na, l’Associazione dei lavoratori atipici presieduta da Emiliano Galati, ha osservato un forte aumento nelle domande di indennità di disoccupazione nella provincia scaligera, giunte a 8.614 a fine del primo trimestre 2009, contro le 21.583 domande presentate in tutto il 2008. A fine agosto Galati ha poi rilevato il crollo delle “missioni” (cioè gli ingaggi) di lavoratori interinali, passate dalle 6.700 della fine del primo trimestre 2008, alle circa 4 mila del 31 marzo 2009 (-43,5%). I segnali della crisi occupazionale sono stati confermati dai dati che l’agenzia regionale Veneto Lavoro ha diffuso a settembre: al 30 giugno 2009, rispetto lo stesso periodo dell’anno scorso, nella sola provincia scaligera si sono registrati 20 mila occupati in meno (115 mila in tutta la Regione), per lo più concentrati nella manifattura e in particolare nel settore metalmeccanico. Rilanciata dalle agenzie di stampa, la notizia ha fatto in un batter d’occhio il giro del Paese. Forse anche per questo l’assessore regionale Elena Donazzan ha pensato fosse opportuno accompagnare i dati dell’agenzia con una nota tranquillizzante. Anche i quotidiani cittadini hanno usato un approccio soft, facendo presente che Treviso è messa peggio perché ha perso 21 mila posti. Gran parte di questi posti di lavoro perduti appartengono a lavoratori dipendenti atipici, cioè precari, per lo più giovani dai 30 ai 35 anni, con contratto a tempo determinato, che non sono stati né licenziati né messi in cassa integrazione, ma a cui semplicemente non è stato rinnovato il contratto. È possibile che queste persone nel frattempo riescano a trovare un altro impiego, ma appare indubitabile che il tasso provinciale di disoccupazione, fino al 2008 fermo al 3,7% (pari a circa 14 mila lavoratori) è destinato a salire. Secondo Lucia Perina, segretaria generale della Uil di Verona, il trend del tasso di disoccupazione viaggia verso il 7%: «La crisi non si è fermata e chi afferma il contrario è molto spregiudicato – dice Perina –. Serve potenziare gli strumenti assistenziali ma non bisogna assistere passivamente».
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Inchiesta In concomitanza con i precari sono stati colpiti anche dipendenti e titolari di aziende artigiane. Di fronte alla crisi, infatti, le industrie non hanno rinnovato i contratti a termine e hanno ritirato tutte o gran parte delle lavorazioni che prima venivano affidate all’esterno
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In particolare la segretaria punta il dito contro la banche, «che non stanno facendo il loro mestiere, perché abituate a finanziare le imprese sulla base degli ordinativi», che in questo periodo mancano, «e non sulla base della bontà del progetto imprenditoriale». LE DIFFICOLTÀ DEGLI ARTIGIANI
In concomitanza con i precari, sono stati colpiti anche dipendenti e titolari di aziende artigiane. Di fronte alla crisi, infatti, le industrie non hanno rinnovato i contratti a termine e hanno ritirato tutte o gran parte delle lavorazioni, che prima venivano affidate all’esterno, ad aziende artigiane appunto. «La vera novità di questa crisi – commenta Giuseppe Signori, responsabili delle relazioni sindacali del Cna di Verona, la Confederazione nazionale dell’artigianato – è che aziende artigiane metalmeccaniche di terza generazione, con 50-60 anni attività, formate da 6-10 dipendenti e 3-4 soci, capaci di alta specializzazione, sono ferme per mancanze di commesse. Per il resto la crisi conferma il momento critico del marmo, del mobile e del tessile». In crisi sono anche i piccoli artigiani come Luca Lutterotto, idraulico: «Da quando ha cominciato a girare male, anche i lavori più stupidi sono spariti,
per non parlare dei cantieri, anche i più piccoli, che ormai qui a Verona se li spartiscono quattro ditte e li portano avanti con terzisti rumeni che il mestiere manco lo conoscono, ma li pagano solo 5 euro l’ora. Impossibile competere a queste condizioni». L’analisi della condizione degli artigiani consente di fare una radiografia di altri importanti comparti dell’economia scaligera. Si stima, infatti, che le flotte delle aziende di autotrasporto contino tra il 30% e il 50% dei mezzi fermi. Condizione che si ripercuote negativamente anche sull’industria di costruzione dei rimorchi, che a Verona conta alcune importanti realtà, come la Cardi. Prima di ordinare altri rimorchi, le aziende di trasporti “cannibalizzano” i mezzi più vecchi che hanno in deposito, dai quali traggono i pezzi necessari per riparare quelli più recenti. IL MODELLO VENETO
La novità della Cassa integrazione in deroga, da maggio disponibile per le aziende artigiane e per le imprese con meno di 15 dipendenti, sta fornendo un po’ di sollievo. A luglio a Verona ne avevano usufruito 423 aziende per un totale di 2.229 lavoratori coinvolti. I dati di Veneto Lavoro confermano, tuttavia, che sono ancora
una volta i giovani a venire colpiti più duramente: “La stragrande maggioranza dei candidati alla Cig in deroga è costituita da trentenni (circa 17.000 su 29.000)” dice l’agenzia analizzando i dati regionali. Commenta Signori: «L’aspetto che più impensierisce è proprio la qualità della disoccupazione che si sta profilando: si tratta di giovani con famiglia e con un mutuo da pagare che vedono messo in discussione il loro progetto di vita». Che fare, dunque? «Ogni giorno abbiamo anche noi nuove richieste di cassa integrazione – riprende Signori – questo ci consente di restare attivi e in attesa di agganciare la ripresa internazionale, ma ci vogliono anche nuove politiche, sia per l’accesso al credito, sia per stimolare l’economia. Oggi non è possibile adottare la soluzione del 1992-93 quando, a fronte di 800 mila aziende artigiane chiuse, il governo decise di svalutare la lira, riattivando l’intera economia». Di certo, poi, c’è che il sistema produttivo chiamato “modello veneto”, basato sul dualismo piccola-grande impresa, uscirà profondamente ridimensionato da questa nuova crisi: Signori stima che «si rischia di perdere il 30% del tessuto manifatturiero metalmeccanico artigianale». Secondo i dati forniti dalla Camera di Commercio il saldo
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Territorio
Non è passato più di un anno da quando, nel settembre 2008, la Fiom scaligera richiamava calorosamente il distretto della termomeccanica veronese a prendere atto che «il ciclo della ghisa è finito» e a puntare sulle nuove tecnologie “verdi”
Al Centro provinciale per l’impiego di via delle Franceschine della crisi si sono accorti a gennaio, quando sono raddoppiate le domande di lavoro e si sono dimezzate le offerte. Dalle circa 30 richieste in media al giorno del 2008 si è giunti alle 50 richieste giornaliere del 2009. La gente staziona nei corridoi. C’è una sala d’attesa ma è del tutto inadeguata, perché troppo piccola
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tra imprese avviate e imprese cessate nei primi otto mesi dell’anno è vicino allo zero, con 499 aperture e 500 chiusure. Per Carla Pellegatta, segretaria generale della Cgil di Verona, «non ci sono ancora elementi per dire se questa crisi trascinerà l’industria metalmeccanica nello stesso vortice negativo del tessile-calzaturiero e del mobile». La Cgil scaligera punta ora a garantire ossigeno alle imprese con la cassa integrazione, rinnovando al governo la richiesta di raddoppiarne la durata, da 52 a 104 settimane, e a far scendere la pressione fiscale sul lavoro, intensificando la lotta all’evasione fiscale e provvedendo al sequestro dei patrimoni criminali.
integrazione straordinaria. Tanto per prendere un riferimento, in tutto il 2008 si erano registrate 729 mila ora di Cig ordinaria e 185 mila ore di Cig straordinaria. A fine agosto la Cisl di Massimo Castellani ha calcolato in 6 mila il numero di lavoratori dipendenti, compresi gli interinali, in stato di disagio. Anche per Castellani la parola d’ordine è di «tener duro», in attesa che qualcosa cambi. A fine settembre la Fiom ha calcolato in 7 mila il numero di lavoratori alle prese con la cassa integrazione nel solo settore metalmeccanico (di cui mille in “straordinaria”); cento il numero di accordi di Cig già rinnovati per tre volte consecutive (3 accordi da 13 settimane ciascuno) e in 260 giorni i tempi medi con i quali molte aziende pagano i subfornitori delle piccole imprese. AL CENTRO PER L’IMPIEGO
Infine, ci cono lavoratori che hanno già perso il posto di lavoro: nel corso dei primi sette mesi del 2009 la Commissione provinciale per il lavoro di Verona ha approvato 822 inserimenti in lista di mobilità a seguito di licenziamenti collettivi (se ne erano registrati 738 in tutto il 2008), e ben 2.134 per licenziamenti individuali (1.846 in tutto l’anno precedente). Anche qui il settore più colpito è la manifattura, dove si concentra il 77% dei licenziamenti. Gli stranieri sono il 6% nei licenziamenti collettivi e il
20% di quelli individuali. Al centro provinciale per l’impiego di via delle Franceschine (uno dei sei centri sparsi per la provincia) della crisi si sono accorti a gennaio, quando sono raddoppiate le domande di lavoro e si sono dimezzate le offerte. Dalle circa 30 richieste in media al giorno del 2008 sono balzati a 50 richieste giornaliere del 2009. La gente staziona nei corridoi. C’è una sala d’attesa ma è del tutto inadeguata, perché troppo piccola e perché manca il contatore elettronico alle pareti e gli utenti stanno attenti a non perdere il loro turno. La responsabile dell’ufficio dice che il contatore è già stato ordinato, assieme a un buon numero di sedie. Per tutto il corridoio aleggia un odore di fritto tipico delle cucine speziate di altri Paesi. La responsabile però afferma che il numero di italiani che si rivolge all’ufficio provinciale ha ormai raggiunto quello degli stranieri. Ogni mese, in media, arrivano mille domande di lavoro. Se ne riescono a collocare poco più di quattrocento all’anno. Il presidente della Provincia Giovanni Miozzi, ricorda l’impegno dell’ente (che ha la delega per le Politiche attive del lavoro) nella formazione e nella riqualificazione dei lavoratori, annotando “che il colpo di coda della crisi, che è nata come crisi finanziaria, colpisce ora l’economia reale, comunque Verona risulta tenere meglio che altri territori”.
TENER DURO
Intanto, a fine agosto, nell’industria scaligera, la cassa integrazione ha raggiunto la cifra strabiliante di 3,7 milioni di ore, suddivise in 2,4 milioni di ore di “ordinaria” nel settore manifatturiero; 522 mila ore nell’edilizia (sempre ordinaria) e 845 mila ore di cassa
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RIFLESSIONI
Educare o reprimere? Una questione di responsabiltà di Rino A. Breoni* Educare o reprimere? Non è un interrogativo di ieri e la risposta non è ovvia né facile: si tratta del comportamento di ciascuno di noi nei confronti della legge. Non è il caso di allargare troppo i discorsi. Le leggi regolano ogni rapporto di umana convivenza, a livello sociale, civile e anche ecclesiale. Le leggi ci sono. Le leggi vengono preparate ed emanate da un preciso iter ed è competenza della pubblica autorità vigilare sulla loro osservanza. Questa è dovere di ognuno. Non credo fuori luogo ricordare il proverbio che purtroppo fa parte della nostra cultura: “Fatta la legge, trovato l’inganno”. Non tanto e non solo perché una legge rimane sempre una affermazione di principio, la codificazione di un comportamento richiesto a tutti, indipendentemente dal fatto che piaccia o non piaccia. La libera espressione di ciascuno di noi trova un limite nella libera espressione degli altri. Comporre questo incontro, regolarlo in modo che ne risulti una più armoniosa convivenza, mi pare sia compito della legge. È a questo punto che possono nascere dei problemi, dal momento che il dettato della legge può risultare limitativo della personale espressività anche se questa non sarebbe offensiva di nessuno. Inoltre, s’ha da tenere conto di chi, superando la legge, violandola, si colloca in chiaro dissenso ma per una motivazione di coscienza, e così testimonia il sogno e la speranza di leggi migliori. Non mi voglio soffermare su questo aspetto di violazione della legge dal momento che chi fa scelte di questo genere, ne paga anche le conseguenze. Spendo invece una parola per la violazione della legge, di qualsiasi legge, in nome di una disinvoltura che nasce da arrogante presunzione di poter ignorare ogni convenienza, che pretende di fare diverso dagli altri, con la furbizia del tentativo di farla franca e di evitare i rigori della pena conseguente la disobbedienza. Il codice della strada si vede violato, ignorato in mille modi, talvolta con tragiche conseguenze ma il più delle volte impunemente, col profondo disagio di chi è testimone del-
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«Non c’è dubbio che la repressione può ottenere un qualche effetto. Alla legalità ci si forma e ci si educa per piccoli passi, per discreti interventi, per richiami pertinenti. Scuola e famiglia, ma anche la chiesa, possono rivelarsi luoghi di educazione alla legalità e contribuire ad una convivenza meno violenta, meno disturbata, nella quale doveri e diritti si realizzino in armoniosa libertà la violazione, proprio nel momento in cui sta osservando ciò che la legalità chiede e impone. Potrei dire dell’evasione fiscale, del rispetto di ambienti, dei diritti altrui ma sarebbe offendere chi mi legge. La violazione della legge è sotto gli occhi di tutti ed a questo punto si pone il duplice interrogativo “repressione o educazione?”. Non c’è dubbio che la repressione, in qualunque modo avvenga, può ottenere un qualche effetto. Molti pensano che la paura di una sanzione, conduca all’osservanza della legge. Può essere. Rimane tuttavia un’osservanza formale, dovuta, un rispetto della legge dalla quale forse si dissente ma che si osserva perché costretti. Socialmente, una convivenza ordinata deve fare i conti anche con soggetti la cui dirompente espressività non tollera limitazioni e pretende spazi lesivi della libertà ed anche del diritto altrui. Per questi soggetti, ogni sanzione risulta quasi un’offesa, dal momento che si pretende di esprimersi liberamente, ignorando ogni diritto altrui. La forza e la violenza divengono rivendicazione di tale pretesa. Realismo vuole che si prenda atto di quanto pochi siano i risultati di questi interventi repressivi, i quali vanno tuttavia oculatamente applicati. Esiste un’altra stra-
da per formare alla legalità ed è quella indicata nell’interrogativo posto “repressione o educazione?”. Educare significa accettare tempi lunghi, vuol dire decisione e capacità di proporre, vuol dire credere nella possibilità che ognuno di noi ha di capire. Capire che cosa? L’intenzionalità del legislatore. Quando ci si pone davanti ad una legge e se ne considerano le indicazioni o le ingiunzioni si può sbrigativamente violarla ma ci si può anche chiedere perché tale legge sia stata pensata, proposta, formulata e promulgata. Nel momento in cui si riesce a capire per quale urgenza sociale, comunitaria, tale legge è stata varata, la sua osservanza non necessita di minaccia, di repressione, perché viene osservata per libera adesione. È un processo interiore che conduce ad “autonomia” e “responsabilità”. Il significato di queste due parole dice proprio che l’autonomia formulata dai codici e la responsabilità risulta essere la capacità di rispondere con pertinenza a quanto ci è legalmente chiesto. Non è uno sforzo da poco. Dicevo che richiede fiducia nei tempi lunghi ma anche il coraggio di chi educa, nell’intervenire, nel correggere, nello stimolare, nel condurre a libera accettazione di una convivenza ordinata e regolata. Un vecchio adagio latino recita, negativamente, che a parvo exitium (il disastro comincia dalle cose piccole) ma credo sia possibile anche dire che alla legalità ci si forma e ci si educa per piccoli passi, per discreti interventi, per richiami pertinenti. Scuola e famiglia, ma anche la chiesa, possono rivelarsi luoghi di educazione alla legalità e contribuire ad una convivenza meno violenta, meno disturbata, nella quale doveri e diritti si realizzino in armoniosa libertà. *Rettore di San Lorenzo
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Cultura PROFESSIONE GUIDA TURISTICA
Raccontano la città a chi viene da lontano L’associazione guide turistiche autorizzate di Verona (Assoguide) ha sede al numero 7 di via Da Mosto. È stata fondata nel 1987 e conta ventitré liberi professionisti, con una netta prevalenza femminile
Non sono molti i veronesi che si affidano alle guide turistiche. Chi lo fa si rende subito conto di quanto sia bello e utile approfondire la conoscenza di luoghi familiari
di Marta Bicego Verona non è solo la città di Giulietta e Romeo: c’è un’infinità di altri luoghi da conoscere e far conoscere ai turisti stranieri, ma non esclusivamente a loro. Il segreto è raccontarne la storia (dal punto di vista culturale, storico, artistico) e saper scovare, in mezzo a vie e antiche costruzioni, aneddoti e curiosità.
Manuela Uber, presidente di Assoguide Verona
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Per fare questo ci sono veri e propri professionisti: le guide turistiche, figure specializzate la cui “missione” è lasciar impresso nella memoria di chi si trova a passeggiare in riva all’Adige il miglior ricordo possibile. «Ora siamo un centinaio, appartenenti a realtà diverse, ma fino a qualche anno fa il lavoro della guida era diverso» spiega Manuela Uber, presidente di Assoguide, l’associazione guide turistiche autorizzate di Verona, che ha sede al numero civico 7 di via Da Mosto, fondata nel 1987. «È la prima realtà nata nel Veronese – precisa Manuela – e conta ventitré liberi professionisti, con una netta prevalenza femminile. Gli esami per ottenere l’abilitazione si ripetono con una maggiore frequenza, circa una volta ogni due anni, ma in passato potevano trascorrerne addirittura sette, oppure otto». Certo è che lo sviluppo del turismo ha cambiato le abitudini: «Se le guide degli anni ’80-’90 (circa una ventina), erano sufficienti a coprire il mercato veronese, oggi le cose sono mutate». Anche nei requisiti indispensabili per poter ambire alla professione: «Per accedere all’esame di abilitazione, che dipende dal settore turismo della Provincia di Verona, serve una laurea e la conoscenza approfondita di almeno due lingue straniere. L’esame da sostenere è complesso: prevede prove scritte
in italiano e in lingua straniera, ed è completato da una parte orale, dove una commissione non giudica solo gli aspetti culturali, ma anche quelli linguistici». Le materie spaziano dalla storia del territorio, alla geografia, all’arte. Ma si può anche scegliere di diventare guida naturalistica (per la quale serve un altro esame, quindi un’altra abilitazione). Il tutto è regolato in maniera ben precisa, a garanzia di professionalità, per cui qualsiasi cittadino (andando sul sito della Provincia di Verona) può trovare un elenco di professionisti al quale affidarsi. Con il turismo sono cambiate le abitudini: se una volta bastava la lingua inglese, oggi servono competenze linguistiche sempre più specifiche. A parte il tedesco, il francese e lo spagnolo l’associazione Assoguide di Verona propone tour in russo, olandese, greco, rumeno, portoghese, giapponese. E il lavoro, ovviamente, cambia in base alla lingua perché dipende dalle diverse tipologie di gruppi, che vanno dalle scolaresche di bambini alle persone più anziane. Come se non bastasse, i turisti che si aggirano per Verona con il naso all’insù (e l’immancabile macchinetta fotografica al collo) non sono tutti uguali. «I russi sono tra i clienti più esigenti: non si accontentano di conoscere l’anno in cui è avvenuto un determinato evento, vogliono sapere anche giorno e mese…» ci tiene a precisare Ma-
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A parte il tedesco, il francese e lo spagnolo l’associazione Assoguide di Verona propone tour in russo, olandese, greco, rumeno, portoghese, giapponese
Con i clienti arabi bisogna avere un occhio di riguardo per la loro cultura cercando di non indossare gonne corte e canottiera e chiedendo se preferiscono una guida maschio oppure femmina. Una volta è arrivato il Principe del Dubai, con amici e scorta al seguito...
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nuela, che ha alle spalle un’esperienza decennale nel settore. Con i clienti arabi bisogna avere un occhio di riguardo per la loro cultura «cercando di non indossare gonne corte e canottiera in loro presenza e chiedendo se preferiscono una guida maschio oppure femmina. Una volta è arrivato il Principe del Dubai, con amici e scorta al seguito, ma io potevo parlare sono con lui» ricorda. Ad incuriosire gli studenti stranieri sono soprattutto gli itinerari legati a personaggi come Dante, Goethe o Mozart. Il tour della Verona classica rimane un must, soprattutto per chi mette piede per la prima volta in riva all’Adige e ha poco tempo a disposizione, ma il trucco del mestiere è ricercare sempre qualcosa di nuovo che possa solleticare la curiosità dei visitatori. «Con i giapponesi abbiamo poco tempo e parecchie cose da vedere. Oltre all’Arena e al balcone di Giulietta – che sono tappe obbligatorie – li porto alle Arche Scaligere, per raccontare la vita di corte, la storia di Cangrande e della sua famiglia. Preferisco evitare le vie più frequentate ed accompagnarli nei vicoletti, dove si ha l’impressione di essere in luoghi appartenenti ad un’altra epoca». Lavorare con gli europei è, per certi versi, più facile: «Hanno conoscenze simili alle nostre, se parli di gotico o romanico». La situa-
zione cambia con chi proviene dai Paesi del Nord: è complicato far comprendere la tradizione che sta dietro all’utilizzo della pietra in architettura quando tutte le loro costruzioni sono in legno. «I giapponesi hanno una cultura completamente diversa dalla nostra: devi cercare di spiegare nel modo più semplice, quasi come se ti rivolgessi a dei bambini». Poi ci sono i gruppi di italiani, che fanno tappa nel Veronese soprattutto in corrispondenza di ponti e festività. Con i veronesi – e non sono molti quelli che si affidano alle conoscenza di una guida turistica – è completamente diverso, spiega Manuela: «diventa quasi una sfida perché ti trovi davanti persone che hanno notizie da raccontare che a volte non si trovano sui libri. Alla fine della visita, però, li vedi soddisfatti di aver approfondito la conoscenza di luoghi così familiari. Quanti veronesi, ad esempio, non sono mai entrati nella chiesa di San Bernardino? Poi però quando la visitano...». Fornire informazioni precise, con un linguaggio appropriato e una pronuncia corretta: l’attività di una guida turistica prevede tutta una serie di attenzioni. «Bisogna saper spiegare, senza dare l’idea di ripetere, perché se lavori male e con superficialità, la gente se ne accorge; è indispensabile avere sempre il sorriso sulle labbra, anche quando capita di aspettare
un’ora in mezzo alla strada perché il pullman è in ritardo e nessuno ti avvisa; ci vuole anche una buona dose di pazienza, perché qualche imprevisto può capitare: qualcuno che sta male, un turista che si perde nella confusione...». Per il gruppo, insomma, la guida diventa un referente al quale chiedere informazioni di ogni tipo: da come si cucinano certe pietanze, a dove sono (e questo capita soprattutto con i giapponesi) i fili della luce perché in Giappone i cavi sono tutti esterni». Requisito fondamentale per chi fa questo lavoro è infine «la passione per la città e la sua cultura – aggiunge Manuela –. È un bel lavoro e se lo fai per piacere, per quanto possa sembrare ripetitivo, ti da soddisfazione. Mi diverto a vedere le espressioni che fanno le persone mentre camminiamo per le vie, quando vedono i nostri palazzi». Tra attenzioni, e talvolta qualche difficoltà, capitano anche episodi curiosi: «Ricordo la bambina di una scolaresca alla quale avevo detto che come ultima tappa avremmo visto l’Arena nella quale c’erano i leoni. Arrivati là, però, cercandoli e non vedendoli si è messa a piangere per la delusione».
Assoguide: 045.8101322 prenotazioni@veronacityguide.it www.veronacityguide.it
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Territorio
DIALETTO
Una lingua da tutelare È il modo più genuino, spontaneo e sincero di parlare perché è quello della famiglia, della compagnia, degli affetti. Vogliamo mettere, per dirla con parole nostrane, la spontaneità di un «te voio ben», rispetto ad un semplice«ti amo»?
Per un malinteso concetto localistico e per una strisciante strumentalizzazione politica si pone il dialetto in antagonismo con la lingua italiana. Ma chi l’ha detto? Si può parlare uno splendido idioma veneto e contemporaneamente esibire una perfetta padronanza della lingua italiana e perché no, un ottimo inglese. Ecco come tutelare il patrimonio culturale locale senza rinunciare ad essere cittadini del mondo
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di Marta Bicego Una volta, per pura curiosità, bisogna proprio provare. Si compone il numero del centralino del Comune di Como (031.2521) e... Benvegnuu in dal siit di informaziun del Cumun de Com (Benvenuti nel sito delle informazioni del Comune di Como) si sente riecheggiare dall’altra parte del ricevitore. Nulla a che fare con le fredde ed anonime voci, talvolta – diciamocelo – pure un po’ metalliche, che hanno ormai invaso segreterie e telefoni. Anzi... sembra quasi di avere a che
fare con il lontano zio lombardo, disponibile a darti una mano se ti perdi nel labirinto del centralino telefonico di un ente pubblico: Per tornà indree in del sit de prima, schiscia ul butun zero (per tornare indietro al posto di prima schiacciare il tasto zero), suggerisce con fare estroso. Schiscia ul butun von per l’ufizi di tass, per la tasa sulla ca, che la sares l’Ici (schiacciare il tasto uno per la tassa sulla casa che sarebbe l’Ici), ul due per la tasa sula ruvera, che la sares la Tarsu» (e il due per la tassa sulla spazzatura che sarebbe la Tarsu). Potere del
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Cultura Siti internet scritti completamente in dialetto, con tanto di vocabolario on line, pagine di quotidiani, sulle quali si possono leggere interventi scritti nell’idioma veneto. Commedie che spodestano l’inglese del buon Shakespeare, e poi musical, fino alla proposta di legge, targata Lega, di affiancare allo studio della storia e delle tradizioni regionali quello del dialetto
dialetto che – usato o abusato, amato oppure bistrattato possa essere specialmente di questi tempi – ha contribuito a rendere le linee telefoniche del Comune di Como a dir poco “roventi” per il numero di contatti ricevuti: quasi 5mila, solo il secondo giorno dall’attivazione del servizio. «Ma tutto è lecito, se serve – ha dichiarato l’ideatore della simpatica iniziativa – a far sentire il cittadino a suo agio, come se fosse a casa propria insomma». Del resto, nulla stupisce. Soprattutto in periodi nei quali il dialetto viene propinato in tutte le salse. E non c’è che l’imbarazzo della scelta: si va dai siti internet scritti completamente in dialetto, con tanto di vocabolario on line (per rinfresca-
re, in caso di necessità, qualche termine che può sfuggire all’immediata comprensione) alle pagine dei quotidiani, sulle quali si possono leggere interventi scritti nell’idioma veneto. Dalle commedie (andando a spodestare addirittura l’inglese del buon Shakespeare), al musical. Fino alla proposta di legge, targata Lega, di affiancare allo studio della storia e delle tradizioni regionali quello... del dialetto. Moda passeggera? Bandiera politica? Tormentone estivo? Come spesso accade quando ci si lascia travolgere dalle polemiche (siano pro oppure contro), si tende a perdere di vista l’oggetto della contesa. E in tutto questo, il dialetto, in quale maniera ne esce?
IL VALORE CULTURALE DEI DIALETTI
«È il modo più genuino, spontaneo e sincero di parlare» spiega il linguista Giovanni Rapelli, perché quello della famiglia, della compagnia, degli affetti. Vogliamo mettere – per dirla con parole nostrane – la spontaneità di un te voio ben, rispetto ad un semplice ti amo? Non è questione di lingua, più o meno nobile si possa ritenere, ma di una differente maniera di esprimersi. C’è «l’italiano» che serve alla comunicazione tra tutti i cittadini della penisola. E poi ci sono «le parlate locali», che non escono dall’ambito ristretto (territoriale, storico, etnografico) al quale appartengono né
La statua di Berto Barbarani, giornalista e poeta dialettale veronese (1872 - 1945)
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Cultura
«Il nostro dialetto è la lingua della tradizione e possiede una grande dignità: è la nostra storia. Perdere l’uso del dialetto significa perdere le nostre radici con le conseguenze che possiamo immaginare dal punto di vista sociale» sostiene Riccardo Fagnani, primo cittadino di Bovolone
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«invadono in nessun modo il campo e le prerogative della lingua ufficiale». Due registri, nessuna competizione quindi, né tanto meno inferiorità. Certo, prosegue Rapelli, il veronese di oggi non è quello usato da Berto Barbarani alla fine dell’Ottocento: le lingue (e i dialetti) cambiano; si modificano nella pronuncia e nella sintassi, eliminano alcune parole per lasciare il posto ad altre. Anche l’italiano, il linguaggio ufficiale, si evolve “prendendo in prestito” nuove espressioni dalla letteratura, dalla burocrazia statale, dalla televisione, dalle lingue straniere e... anche dal dialetto. Qualche esempio? «Provengono dalla nostra zona le espressioni sopralluogo, restare in braghe di tela, pettegolezzo, essere nato con la camicia...» elenca il linguista con soddisfazione. Senza dimenticare termini veronesi quali «pearà, recioto, riso a la pilota, fasoi imbogonadi...». Ma non è tutto, perché il dialetto è utile anche in toponomastica, per conoscere cioè i nomi dei luoghi. Si scopre così che il rione scaligero della Caréga deriva il suo nome da sedia, perché fino ad un paio di secoli fa, al termine dell’attuale via c’era un cippo funerario romano che sembrava una seduta; la Giarina deriva dalla secca dell’Adige all’imbocco del Canale dell’Acqua Morta, dove si scavava quella sottile ghiaia che oggi chiamiamo giarin. Uscendo dalla città, troviamo invece i progni di Negrar, della Valpantena, di Illasi: «Questo è uno dei nostri termini più caratteristici – rivela Rapelli, che ad ottobre consegnerà alle stampe un volumetto su La lingua veneta e i suoi dialetti contenente tutte queste curiosità –, che ci viene addirittura dagli antichi Reti. La voce indicò in origine un “torrente pieno di macigni”, come sono in effetti i progni nel loro corso iniziale». Non si tratta di nostalgia, ci tiene a precisare lo studioso, ma di consapevolezza del «valore culturale» che il dialetto ha, anche per mantenere un legame con il passato. «Teniamoci care questa parlate, sia della città che dei paesi, perché in esse il popolo esprime la sua anima, la sua vera anima» ribadisce Rapelli, sottolineando come in campo linguistico non esistano ceti sociali. Quello che parleremo nel
2050 sarà un altro dialetto, conclude, ma comunque «una parlata popolare che adempirà un’importantissima funzione sociale: quella di dare libero sfogo alla creatività popolare e di contribuire nel contempo all’italiano, impantanato nella sua ufficialità». PATRIMONIO IN ESTINZIONE?
Da nord a sud, da est a ovest, l’Italia è una babele di parlate. È così in tutto il mondo, ma la penisola italiana è particolarmente ricca di varietà linguistiche. Restringendo il campo, il veronese conta nove varianti che risentono tutte dei vicini territori: il cittadino, il valpollicellese, quello della Val d’Adige, il gardesano, il sud occidentale di Valeggio, il villafranchese, quello della Bassa (diffuso a Legnago) e orientale della zona al confine con Vicenza; infine quello della Lessinia che, complice l’isolamento, conserva i termini più antichi. Soltanto a Verona città, tra fine Ottocento e inizio Novecento, si parlavano quattro dialetti. Al punto che, dalla bocca di una signora di San Zeno, uscivano vocaboli diversi da quelli dell’amica di Veronetta, se poi la terza compagna di chiacchiere era pure una nobildonna la faccenda si complicava ulteriormente. «Verona è sempre stata un territorio di confine, che ha preso molto (dal vicentino, bresciano, gardesano) e dato poco. Non ha imposto, ma piuttosto assimilato» precisa Francesco Cortellazzo, docente di latino e greco presso il liceo classico “Agli Angeli”. Per quella che è la sua esperienza quotidiana sui banchi di scuola «le giovani generazioni parlano poco il dialetto, usano più che altro un italiano con inflessioni dialettali. Quando lo utilizzo in classe, per gli aspetti linguisticamente interessanti che ha – dice –, il più delle volte non mi capiscono. Lo sentono, forse, come una cosa lontana». Un patrimonio importante che però, complice la mancanza di una codificazione scritta, per Cortellazzo è destinato inevitabilmente a scomparire. LINGUA E IDENTITÀ VENETA
Bene o male, l’importante è che se ne parli. Ma dietro alle iniziative che riempiono teatri e sale conve-
gni sullo sfondo di poesie, canzoni e testi in dialetto quale motivazione si nasconde? «Il nostro dialetto è la lingua della tradizione e possiede una grande dignità: è la nostra storia. Perdere l’uso del dialetto significa perdere le nostre radici con le conseguenze che possiamo immaginare dal punto di vista sociale» sostiene Riccardo Fagnani, primo cittadino di Bovolone, dove lo scorso settembre si è tenuto un incontro incentrato su “L’identità veneta: la tradizione quale veicolo turistico” ed è in programma per il prossimo anno un concorso internazionale di poesia dialettale. Dialetto sì, senza nostalgia, ma piuttosto rintracciando un legame con l’attualità e con il mondo dei giovani: «Noi della Lega siamo abituati a polemiche costruite ad arte su tematiche che poi si rivelano di limpido buon senso, se non di fondamentale valore sociale. Ciò che facciamo – aggiunge – deriva direttamente dall’ascolto delle esigenze delle persone. Per fortuna non solo la nostra gente l’ha capito». Dai Palazzi Scaligeri fa eco Marco Ambrosini, assessore alla cultura e all’identità veneta della Provincia di Verona, che definisce un «gossip estivo» la marea di parole spese nei mesi scorsi sull’utilizzo del dialetto, un «termine troppo spesso strumentalizzato in senso negativo» che ha in realtà la stessa dignità di una qualsiasi altra lingua. È necessario guardare oltre alla semplice apparenza. «Ne è esempio – evidenzia l’assessore – la seconda edizione del “Festival veneto”: un progetto che ha portato talenti artistici che utilizzano il linguaggio popolare (cantautori, gruppi ma anche canzonieri) a fare tappa in diverse città del Veneto». Lo spirito che muove iniziative come queste è «recuperare e valorizzare la lingua veneta – dice Ambrosini – intesa come espressione linguistica del vivere quotidiano, ma anche come manifestazione di una storia, tradizione e cultura ben precise che è fondamentale tramandare alle future generazioni». Il recupero di un patrimonio culturale, conclude Ambrosini, «nel quale il linguaggio è la punta di diamante. L’espressione più diretta ed immediata».
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Lettere Il testo qui riportato è una storia vera, raccolta da una studentessa del Liceo Medi di Villafranca. Volentieri pubblichiamo.
Mi chiamo Angela, ho 39 anni e sono in Italia dal 2001. Vengo dalla Moldavia, da quel piccolo paese di cui tutti sanno il nome ma che solitamente nessuno sa dove si trovi. In fondo, basta dire “est Europa” e siamo lì, no? Quando ho deciso di andare all’estero, sapevo cosa mi aspettava solo per sentito dire. L’Italia sembrava un po’ come il paese delle meraviglie, dove il lavoro e la fatica vengono ricompensati come si deve. Sì, un lavoro ricompensato come si deve era per me una meraviglia. E con un investimento di circa 3000 dollari, questo sogno poteva diventare realtà. Fortunatamente era possibile pagare la somma dopo essere arrivati a destinazione. Con gli interessi, ovviamente, altrimenti che affare è? Se ne occupavano alcune agenzie di viaggio che, con un visto di dieci giorni ed un passaporto, erano in grado di catapultare i clienti in Italia come turisti (permanenti) senza grossi problemi. Ho preso la decisione di fare questo passo insieme a mia sorella, Anna, che condivideva i miei stessi sogni: comprare una casa ed avere una vita felice e tranquilla. Ma lasciare la famiglia non è stato per niente facile. Le mie due figlie, per fortuna, erano troppo piccole per capire la situazione ma mio marito, per non farmi soffrire ancora di più, evitava di parlarne troppo a lungo. A volte questo argomento era fonte di litigio, ma in fondo sapevamo entrambi che era la soluzione migliore per tutti. L’impatto con l’Italia è stato meno traumatico di quanto mi aspettassi. Ero insieme ad Anna e nel periodo iniziale siamo state ospitate da alcuni conoscenti che si trovavano qui già da qualche anno; tuttavia è stato difficile trovare un alloggio fisso perché dopo la scadenza del visto siamo diventate automaticamente delle clandestine. Fortunatamente non eravamo sole: c’era una sorpren-
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Angela ce l’ha fatta e ci racconta come
Dalla Moldavia per aiutare i nostri anziani «L’Italia mi sembrava il paese delle meraviglie, ma la fatica è stata tanta. Ora le mie figlie frequentano la scuola media; mio marito ed io abbiamo un posto di lavoro tranquillo e sicuro» dente rete di contatti che si era formata con il progressivo aumento dell’immigrazione moldava, per cui gli amici, e gli amici degli amici, si scambiavano costantemente informazioni su nuovi posti di lavoro o appartamenti disponibili. Questa rete è attiva ancora oggi e grazie ad essa anche una nuova arrivata può trovarsi un lavoro in poco tempo. Ad una distanza di circa due settimane dal mio arrivo facevo già da badante ad una signora anziana. La signora non mi parlava tanto, ma con l’aiuto del televisore e del dizionario, che poi è diventato il mio miglior amico, piano piano sono riuscita a capire e a farmi capire. La famiglia era sempre gentile ed estremamente paziente con me e questo mi era di grande aiuto. Facevo la badante a tempo pieno, giorno e notte: potevo uscire solo la domenica, ma soltanto dopo aver trovato qualcuno per sostituirmi. Sentivo la mia famiglia ogni settimana, ma le prime volte non riuscivo a concludere neppure una telefonata senza scoppiare in lacrime. Mi mancavano le mie piccole, mi mancava mio marito e a volte la solitudine mi catturava in un lungo e doloroso silenzio per giorni. Tuttavia, avendo una personalità forte e determinata, riuscivo ad
uscirne, pensando che sarebbe andato tutto bene, che ero lì per poco tempo e che presto sarebbe tutto finito. Dopo circa tre settimane, la signora anziana di cui mi ero presa cura è deceduta. Da una parte mi addolorava il fatto di non poterla più vedere: il lavoro di badante era stato stressante e difficile, ma era rimasto nel mio cuore come un’esperienza per certi aspetti bellissima. Ma la mia parte razionale vedeva svanire davanti a sé tutte le certezze, lasciando spazio alla disperazione. Fortunatamente la famiglia mi ha ospitato ancora per una settimana e ha iniziato a cercarmi un nuovo lavoro. Passato qualche giorno sono stata contattata da un’altra famiglia che aveva bisogno di una badante. Ormai avevo una certa padronanza della lingua per cui potevo agire in piena autonomia. Sapendo già cosa fare, è stato molto più facile gestire il mio secondo lavoro. La signora a cui facevo assistenza era fin troppo vivace e loquace, per cui nonostante tutte le notti in bianco fatte a causa sua, fra noi è nato un bellissimo rapporto. Ora non saprei dire se per me fosse più come una figlia o come una mamma, ma di sicuro l’affetto non le mancava; la domenica, quando la lasciavo insieme a qualche mia
amica per poter uscire di pomeriggio, per lei era un vero inferno. Da una parte capivo la sua situazione, in fondo stare insieme ad una perfetta sconosciuta non è facile, però si trattava solo di qualche ora. Quando tornavo a casa, la signora mi abbracciava forte e mi diceva sottovoce: «Non andare più via, ti voglio bene, resta sempre con me». Ancora oggi, quando mi ricordo di lei, non posso fare a meno di sorridere. Ho lavorato lì per quasi tre anni, periodo in cui è arrivata la tanto attesa legge Bossi-Fini, che ha permesso alla famiglia dove lavoravo di mettermi in regola. Per me avere il permesso di soggiorno era di fondamentale importanza: da un lato potevo camminare per strada senza la paura di essere fermata ed identificata come clandestina, dall’altro... finalmente potevo ritornare a casa, dalla mia famiglia. Il periodo successivo è stato poi particolarmente positivo: alla prima occasione sono andata in Moldavia a rivedere i miei cari. Ho preso poi la decisione di fare il ricongiungimento familiare e dopo circa due anni sono riuscita a portare in Italia tutta la mia famiglia. Ora le mie figlie fanno la scuola media; io e mio marito abbiamo un posto di lavoro tranquillo e sicuro. Certo, il fatto di essere stranieri pesa tanto dal punto di vista burocratico, perché anche dopo otto anni di permanenza in Italia, c’è sempre qualche documento da fare, da rinnovare o da confermare. Ma per quanto mi riguarda, questa è l’unica problematica che affronto con una certa difficoltà. Per il resto, sono riuscita ad integrarmi dandomi da fare fin dall’inizio e devo dire la verità: nessuno ha mai osato offendermi perché sono straniera. Oggi, quando qualcuno mi chiede se mi sento realizzata, rispondo con un sorriso sulle labbra. Sono qui insieme alla mia famiglia e con le mie forze sono riuscita ad offrirle una vita migliore. Sì, mi sento realizzata perché ce l’ho fatta. È stata dura, ma ce l’ho fatta. Irina Vranescu
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INTEGRAZIONE
Il volto femminile dell’immigrazione interroga la città di Verona di Jean-Pierre Piessou * Una mattina di venerdì di sette anni fa ebbi modo di conoscere una giovane donna africana dagli occhi tristi e pieni di lacrime; il suo nome è Elsy. Venne nel mio ufficio accompagnata da una signora di Verona. Elsy portava con sé suo figlio Thomas, di circa 8 anni. Parlava solo inglese ed era piuttosto disorientata. Proveniva da Accra, in Ghana, e doveva recarsi a Palermo. Un indirizzo era l’unico dato certo che la poteva ricongiungere al padre di suo figlio. Elsy era dunque alla ricerca del suo compagno che per molti anni, per motivi di lavoro, aveva frequentato il suo piccolo paese in Ghana. Erano stati anni belli, si erano innamorati. Poi lui aveva fatto ritorno in Italia e i due si persero di vista, ma nel frattempo era nato Thomas. Elsy credendo fermamente alla loro storia d’amore decise di richiedere il visto presso l’ambasciata italiana ad Accra, per poter partire per l’Italia e cercare a tutti i costi di raggiungere il padre di suo figlio. Con grande sforzo riuscì a mettere da parte il denaro per pagare il viaggio. Per errore confuse le città e arrivò a Verona. Una serie di ricerche la portarono a scoprire che il suo compagno era morto da tempo e che la città dove era arrivata non era la destinazione giusta. I risparmi erano ormai finiti, così si fermò definitivamente in riva all’Adige. Quella di Elsy è una delle tante storie di donne immigrate che vivono nella città di Giulietta e Romeo. Quella stessa città che vieta agli immigrati di sposarsi se non sono in regola con il permesso di soggiorno. È questa l’umiliazione che quattro donne immigrate hanno subito il 9 agosto scorso, l’indomani dell’entrata in vigore del pacchetto sicurezza. Bella Verona, sono tanti i volti delle immigrate che non sai guardare con occhi di stima. Sono i volti delle donne provenienti dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Europa dell’Est e che parlano il moldavo, il rumeno, l’ukraino, lo sri lankese, il peruviano, il ghanese, il nigeriano, il filippino, il cinese, il portoghese ecc... Sono donne islamiche, cristiane, ebree, copte, evangeliche,
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Varrebbe la pena entrare più in contatto con queste donne, perché con la loro difficile vita contribuiscono a disegnare il volto umano di questa città. Infine varrebbe la pena non sottovalutare il potenziale che esse rappresentano per tante famiglie, per il mondo culturale, per le imprese e i diversi settori lavorativi animiste, buddhiste, induiste, taoiste, confuciane, atee e non credenti. Se le cittadine immigrate presenti a Verona avessero l’occasione di dire la loro avrebbero tante domande da sottoporci: «Mentre ci chiamate clandestine, cioè ignote e sconosciute – spiega Elsy –, ci assegnate il compito di cura dei vostri genitori e dei vostri bambini. Passiamo giorno e notte nelle vostre case per svolgere mansioni di cui non vi volete occupare, ma dichiarate che la nostra presenza mette a repentaglio la vostra sicurezza. Ci chiedete di svolgere i lavori “in nero” per risparmiare, ma poi raccogliete le firme per mandarci via. Perché c’è così tanto accanimento nei nostri confronti? Il ministro Calderoli ci offende quando arriva a teorizzare che due terzi delle badanti sarebbero prostitute. Noi che siamo madri di famiglia, noi che abbiamo lasciato a casa i nostri cari per dedicarci alla salute e alla cura e al benessere dei cittadini di questa città guadagnando un misero salario che poi inviamo nei nostri paesi per mandare a scuola i figli e per il fabbisogno di parenti e familiari». «Cari cittadini di questa bella città – prosegue Elsy –, perché non provate ad intavolare una discussione seria e responsabile, magari coinvolgendo le amministrazioni pubbliche, Comune e Provincia, sulle nostre condizioni abitative e lavorative? Sapete quante di noi sono rimaste vedove in questi ultimi tempi dopo che i mariti sono caduti sui can-
tieri di lavoro, in particolar modo nelle imprese di costruzione? L’ultima vittima tra i nostri valenti uomini è Emmanuel Depar, della Costa d’Avorio. È morto a settembre. Se ne è andato come tanti altri, morto sul lavoro. Per questi morti solo un trafiletto sulle pagine di cronaca, mentre andrebbero raccontati i loro sogni e le loro fatiche. Tra di noi parecchie sono rimaste sole, separate e abbandonate. Altre subiscono quotidianamente violenze, soprattutto in casa, ma anche sui luoghi di lavoro, sui mezzi pubblici. Spesso facciamo silenzio per proteggerci, ma forse sbagliamo a non raccontare questi tristi e ormai frequenti episodi». Il volto femminile dell’immigrazione patisce, per alcuni aspetti, le stesse difficoltà di quello maschile: per esempio le lungaggini burocratiche per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno, per reperire un alloggio idoneo per sé o per i propri familiari, per l’accesso alle strutture pubbliche, mediche e quant’altro, per la mancanza di lavoro o per la sua precarietà, per l’assenza di un organismo di rappresentanza socio politica, come potrebbe essere una consulta comunale per l’immigrazione, perché quella creata è stata deliberatamente congelata dall’Amministrazione. In più, per le donne immigrate, ci sono i problemi della maternità, l’assenza di un luogo di ritrovo e di dialogo specifico. E infine come non parlare della difficoltà di integrazione dei molti figli di queste concittadine immigrate, che spesso fanno la spola tra lavoro, supermercati e famiglia. Varrebbe la pena entrare più in contatto con queste donne, perché con la loro difficile vita contribuiscono a disegnare il volto umano di questa città. Infine varrebbe la pena non sottovalutare il potenziale che esse rappresentano per tante famiglie, per il mondo culturale, per le imprese e i diversi settori lavorativi che non possono più fare a meno di loro. È tempo non solo di sottolineare i loro doveri, ma di mettere in evidenza anche i loro diritti. * Mediatore culturale Ufficio Immigrazione Cisl
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L’8 agosto è entrato il vigore il discusso “pacchetto sicurezza” che ha inasprito la già difficile condizione dei cittadini immigrati in Italia e a Verona. Al pari della legge “Bossi Fini”, questo provvedimento parte da una premessa che considera l’immigrazione degli stranieri in Italia come male necessario, ma da cui difendersi; vede la loro presenza congiunturale, i loro diritti sostanzialmente inferiori ai diritti dei lavoratori italiani.
volte all’integrazione di questi cittadini immigrati nel tessuto sociale e lavorativo veronese.
Prescindendo dal diritto fondamentale di ogni persona di risiedere dove ritiene più opportuno, per il sindacato l’immigrazione non è un male da cui difendersi ma una risorsa senza la quale il declino demografico e di sviluppo dell’Italia e di Verona sarebbe inarrestabile.
La Cisl ritiene che sia giunto il momento di attivare politiche inclusive che corrispondano alla reale situazione di questo paese e che fotografino il vero volto multietnico che L’Italia e Verona rappresentano.
In questo senso vanno messi in opera tutti gli strumenti necessari a rendere funzionali al mercato del lavoro ed alla società le politiche di accoglienza e d’integrazione economica sociale e culturale dei cittadini immigrati. La politica di rifiuto dei cittadini immigrati, che sta alla base delle leggi sull’immigrazione in vigore (Bossi – Fini e Pacchetto sicurezza), sta di fatto vanificando gli effetti positivi delle varie regolarizzazioni, e delle iniziative
La Cisl veronese ritiene grave l’atteggiamento dei nostri governanti che promulgano leggi la cui filosofia è quella di sottolinearne i doveri e si dimentica dei diritti, discriminando quotidianamente i lavoratori stranieri e le loro famiglie privandoli dei diritti fondamentali di cittadinanza.
Riteniamo pertanto importante fare alcune proposte di merito per riaffermare i valori dell’accoglienza, dei diritti e della solidarietà: • estensione del diritto di voto e riforma della legge sulla cittadinanza (meno difficoltà ad ottenerla); • ratifica della Convenzione ONU sui diritti dei migranti; • aumento della durata del permesso di soggiorno per motivi di lavoro a più di 2 anni; • proroga del permesso di soggiorno;
• accorciamento dei tempi per il rilascio del permesso di soggiorno; • accorciamento dei tempi per la richiesta ed ottenimento della cittadinanza italiana; • superamento del meccanismo delle quote, istituzione di un permesso per la ricerca di occupazione, riconoscimento a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti nel nostro paese, a qualsiasi titolo, della possibilità di ottenere un permesso per lavoro; • trasferimento di competenze burocratiche e di controllo agli Enti Locali per il rinnovo del permesso di soggiorno e per l’ottenimento della Carta di soggiorno; • adeguamento degli uffici delle Questure e degli uffici Consolari all’estero per facilitare la richiesta dei vari visti d’ingresso; • superamento dei CTP e CPI e costituzione di un circuito qualificato di accoglienza; • riorganizzazione delle tutele e della lotta al sommerso anche per i lavoratori immigrati; • attuazione di nuove norme per il Diritto d’Asilo e per la tutela e il sostegno dei rifugiati (vedi Convenzioni ONU e direttive europee). ANOLF CISL UST CISL VERONA
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Territorio Nacque il 18 agosto del 1750
Antonio Salieri musicista di gran pregio Dopo la distruzione del 1945 il Teatro Filarmonico riprese la sua stagione nel 1975 con il “Falstaff ” del maestro legnaghese Secondo voci calunniose diffuse nel sec. XIX, risultate poi infondate, Salieri avrebbe tramato contro Mozart provocandone la morte con il veleno. Antonio Salieri morì a Vienna il 7 maggio 1825. Fu sepolto nel Matzleinsdorfer Friedhof e le sue spoglie vennero poi trasferite al Zentralfriedhof (Cimitero Maggiore) di Vienna
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di Nicola Guerini Salieri nacque il 18 agosto 1750 a Legnago, in una casa di cui è rimasto solo l’arco della porta, oggi incorporato nel Museo Fioroni, dedicato solo in parte alla memoria del Maestro. Poco più che adolescente intraprese lo studio del violino con il fratello Francesco, allievo di Giuseppe Tartini, e del clavicembalo con G.Simoni, organista della città. All’età di 15 anni si recò a Venezia, sotto la protezione della famiglia Mocenigo, presso la scuola di S. Marco, dove fu allievo di F. Pacini per il canto e G.B.Pascetti per la composizione. Proprio a Venezia incontrò Leopold Gassmann, maestro della cappella imperiale, il quale lo condusse a Vienna dandogli la conoscenza della cultura letteraria tedesca, latina e francese oltre che un’ottima istruzione musicale. Introdotto a corte, ormai noto come compositore di musica sacra, dal 1769 diresse le prove d’opera del Teatro di corte viennese e nel 1770 esordì come operista con “Le donne letterate”. Salieri, che a Venezia aveva conosciuto Metastasio e Haydn, del quale fu molto amico, viaggiò molto nella sua vita per seguire le rappresentazioni delle sue molte opere, abitando per qualche tempo anche a Parigi,
dove conobbe Gluck, Piccinni ed Hasse. Il 10 ottobre 1774 sposò Teresa Helfersdorfer e l’unione, a dispetto di qualche chiacchiera successiva, fu felice e allietata da otto figli. Morto Gassmann nel 1774, Salieri gli succedette nella prestigiosa carica di compositore di corte e direttore d’orchestra del Teatro imperiale e i successi ottenuti dalle sue opere teatrali lo portarono all’interessamento dei teatri italiani che lo invitarono a Milano, Venezia, Roma e Napoli. Ebbe così inizio una carriera per certi versi sfolgorante che lo avrebbe portato a diventare Maestro di cappella alla corte asburgica (sia pure per un breve periodo, dal 1778 al 1790, poiché a tale carica preferì quella di compositore ed insegnante di corte). Dopo il felice debutto della prima opera si aggiunse il successo dell’Armida del 1771, alla quale fece seguito il lavoro che lo avrebbe consacrato nel panorama musicale dell’epoca, l’“Europa riconosciuta”, commissionatagli dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria e che fu destinata all’inaugurazione, il 3 agosto del 1778, del Nuovo Regio Ducal Teatro (l’attuale Teatro alla Scala) fatto erigere a Milano (ricordiamo che la medesima opera ha salutato il 7 dicembre 2004 la riapertura del teatro scaligero dopo un lungo lavoro di restauro). Fra le sue trentanove composizioni per il teatro si ricordano: La Scuola de’ gelosi (1778), Der Rauchfangkehrer (1781), Les Danaïdes (1784, at-
tribuita in un primo tempo allo stesso Gluck), Tarare (1787), La grotta di Trofonio, Eraclito e Democrito, Axur, re d’Ormus (1788), Palmira, Regina di Persia (1795), Falstaff , ossia Le tre burle (1799, tema tratto da Le allegre comari di Windsor di Shakespeare che sarà poi ripreso da Giuseppe Verdi per il suo Falstaff) e Il mondo alla rovescia, dramma giocoso in due atti su libretto di Caterino Mazzolà, il quale si basa a sua volta su un dramma giocoso, Il mondo alla roversa, prodotto da Carlo Goldoni nel 1750 e messo in musica lo stesso anno da Baldassare Galuppi. La prima messa in scena dell’opera fu il 13 gennaio 1795 al Burgtheater di Vienna. Salieri pose a mano a questo lavoro che aveva già in gran parte preparato precendemente, in quanto avrebbe dovuto andare in scena a Venezia nel 1779 sotto il titolo L’isola capricciosa; tuttavia l’improvvisa morte dell’impresario non permise la realizzazione del progetto. Poiché nel 1792 era attivo presso la corte imperiale di Vienna come poeta il librettista Caterino Mazzolà, Salieri poté portare a termine l’opera. Oggi non è più possibile ricostruire le eventuali arie e abbozzi prodotti dal compositore per la prima versione del dramma giocoso e successivamente modificati. L’ouverture di quest’opera si basa in gran parte su quella del divertimento teatrale Don Chisciotte alle nozze di Gamace (1770/71)
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Cultura dello stesso compositore. Questa venne inoltre impiegata come preludio alternativo della sua successiva opera comica L’Angiolina (1800). Fra le composizioni strumentali spiccano invece due concerti per pianoforte e orchestra ed un concerto per organo scritti nel 1773, un concerto per flauto, oboe e orchestra del 1774, un insieme di ventisei variazioni su La Follia di Spagna (1815) e le numerose serenate. Quando il maestro della cappella di corte G.Bonno si ritirò, Salieri prese il suo posto e, ritiratosi dall’attività di direttore del teatro, continuò, con l’assunzione al trono di Leopordo II, a ricoprire l’incarico di compositore di corte e di vicepresidente della “TonkunstlerSocietà”, di cui diresse i concerti fino al 1818. Membro di diverse società tedesche e francesi (associé étranger dell’Istitut, dal 1806; correspondant étranger del Conservatorio di Parigi, cavaliere della Legion d’Honneur nel 1815, membro dell’Académie Royale des Beaux Arts), nel 50° anniversario delle sue attività viennesi gli vennero tributate grandi onorificenze e fu decorato con la Civil-Ehrenmedaille d’oro. All’attività di composizione affiancò quella, stimatissima, di insegnante: fu tra i fondatori del Conservatorio di Vienna (1817) ed ebbe fra gli allievi una schiera di nomi illustri, fra cui Beethoven (che gli dedicò le tre sonate per violino e pianoforte Op.12, e compose 10 variazioni per pianoforte su un’aria del Falstaff ), J.N.Hummel, Liszt, Meyerbeer, C.G.Reissiger, F.Schubert, J.H.Stuntz, F.X.Sussmayr. Fra i suoi pupilli vi fu anche uno dei figli dello stesso Mozart, Franz Xaver Wolfgang, mentre fra gli allievi di canto, numerissimi, ricordiamo Caterina Cavalieri, la principessa E. di Wurttemberg, Fortunata Fianchetti. Lasciò erede della sua ricca biblioteca musicale la “Tonkunstler-Società”, che la donò a sua volta alla Biblioteca Nazionale di Vienna. Nel 1821 le sue le condizioni mentali, già scosse da quando aveva perduto l’unico figlio (1805) e la moglie (1807), si aggravarono anche per una malattia agli occhi; nel 1823 la sua mente fu completamente offuscata tanto che l’anno successivo fu mandato in pensione (a pieno stipendio). Questa circo-
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stanza portò inevitabilmente all’attenzione la sua presunta relazione con Mozart in quanto, proprio durante il suo periodo di ricovero, il compositore si sarebbe autoaccusato della morte del grande compositore salisburghese. Secondo voci calunniose diffuse nel sec XIX, risultate poi infondate, Salieri avrebbe tramato contro Mozart provocandone la morte con il veleno. Antonio Salieri morì a Vienna il 7 maggio 1825. Fu sepolto nel Matzleinsdorfer Friedhof e le sue spoglie vennero poi trasferite al Zentralfriedhof (Cimitero Maggiore) di Vienna. Al suo funerale Schubert – suo allievo prediletto – diresse il Requiem in Do minore che lo stesso Salieri aveva scritto diverso tempo prima (nel 1804) per la propria morte. Il suo monumento funebre è ornato da una iscrizione composta da un suo allievo, Joseph Weigl: Riposa in pace! Non coperta di polvere / l’eternità ti è riservata. / Riposa in pace! In eterne armonie si è dissolto il tuo spirito. / Egli ha espresso se stesso in note incantevoli / ora è salpato verso l’eterna bellezza. SALIERI OGGI
L’attività artistica di Salieri ha visto e vede riconosciuta in tempi recenti una rivalutazione. È importante ricordare che, dopo la distruzione del 1945, il Teatro Filarmonico di Verona riprese la sua stagione nel 1975 proprio con il “Falstaff ” di Antonio Salieri diretto dal M° Sergio Failoni. Nel Teatro Salieri di Legnago (VR), sua città natale, è attiva invece una Fondazione culturale anch’essa intitolata al nome del compositore dove si svolge regolarmente il “Festival Antonio Salieri”. Nell’ambito di questa manifestazione si è tenuta nell’autunno 2004 la prima rappresentazione in epoca moderna di una sua rara opera,“Il ricco d’un giorno”, scritta su testo del librettista principe del “rivale” Mozart, Lorenzo Da Ponte. Per gli Amici del Filarmonico l’11 novembre, in Sala Maffeiana, alle 18 si terrà una conferenza su: “Caratteri e stili nelle tendenze drammaturgiche del teatro di Antonio Salieri”
La leggenda Mozart-Salieri Accadde negli anni intorno al 1790 che Mozart, allora all’apice della notorietà, accusasse Salieri – allora in calo della notorietà – di plagio e della volontà di attentare alla sua vita. Secondo lo storico Alexander Wheelock Thayer i sospetti di Mozart potrebbero essere stati determinati da un episodio accaduto una decina di anni prima, quando il compositore salisburghese si vide sottrarre da Salieri il ruolo di insegnante di musica della principessa del Württemberg. L’anno seguente Mozart non riuscì a farsi nominare neppure insegnante di piano della principessa. Quando poi le sue Nozze di Figaro registrarono al debutto il negativo giudizio sia del pubblico che dell’imperatore in persona, il compositore accusò del fallimento Salieri, reo di averne boicottato l’esecuzione. In realtà a quell’epoca Salieri era impegnato in Francia per la rappresentazione della sua opera Les Horaces, il che fa pensare come gli sarebbe stato difficile determinare da tale distanza il successo o l’insuccesso di un’opera. Molto probabilmente – sempre stando a Thayer – ad istigare Mozart contro Salieri potrebbe essere stato il poeta Giovanni Battista Casti, rivale del poeta di corte Lorenzo da Ponte, autore del libretto di Figaro. Una conferma indiretta di quanto la diatriba Mozart-Salieri possa essere stata più che altro un caso montato ad arte, viene dal fatto che quando – nel 1788 – quest’ultimo venne chiamato alla carica di Kapellmeister, anziché proporre per l’occasione un’opera propria preferì curare l’allestimento di una riedizione delle stesse Nozze di Figaro. Nel corso dei decenni nacque e si diffuse la leggenda secondo la quale Mozart sarebbe stato avvelenato, per gelosia, da Salieri. Questa diceria, priva di fondamento, ha ispirato diversi artisti nel corso dei secoli. Il poeta e scrittore russo Aleksàndr Sergeeviã Puskin credette a queste voci, e nel 1830 scrisse Mozart e Salieri (precedentemente intitolato Invidia), un brevissimo dramma in versi, in cui un Salieri roso dalla gelosia commissiona all’odiato rivale Mozart un Requiem, con l’intento di rubarglielo, una volta avvelenato, e spacciarlo per suo. Per la trovata, l’autore russo si ispirò probabilmente al fatto che il Requiem di Mozart fu commissionato dal conte Fritz Von Walsegg, che infatti voleva spacciarlo per proprio durante le esequie della propria consorte. In merito all’opera di Puskin si è detto: «Se Salieri non ha ucciso Mozart, di sicuro Puskin ha ucciso Salieri». Il 25 novembre 1898, al Teatro Solodovnikov di Mosca, va in scena la prima dell’opera Mozart e Salieri del compositore russo Nikolaj Rimskij-Korsakov. La musica è ispirata e dedicata al compositore Alexandr Dargomyzskij, mentre il libretto è scritto da Rimskij-Korsakov stesso, basandosi sulla tragedia di Puskin, e come questa l’opera si divide in due sole scene. La sera della prima, le variazioni sulla musica di Mozart sono eseguite dal pianista e compositore Sergej Rachmaninov. È del 1978 un successivo adattamento della vicenda mozartiana: con Amadeus, infatti, il drammaturgo Peter Shaffer conquista i teatri di Londra. La vicenda prende le basi del lavoro di Puskin e ne amplia la portata. Rimane l’invidia di Salieri e il Requiem commissionato da un uomo vestito di nero (Salieri mascherato), ma il tutto viene approfondito e, soprattutto, la narrazione avviene ad opera di Salieri stesso. Il testo subisce diverse modifiche, fino alla versione definitiva del 1981. Nel 1984 il dramma di Shaffer viene portato al cinema da Milos Forman con Amadeus, dove però vengono ammorbiditi i lati negativi del personaggio di Salieri: anche se nella versione rimasterizzata del film del 2002 verranno ripristinate alcune scene “forti”, il Salieri cinematografico (interpretato da F. Murray Abraham) è decisamente meno “negativo” di quello del dramma di Shaffer.
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Spettacoli POLO ZANOTTO
«Mare primo» Uno spettacolo ideato dalla veronese Elisabetta Zampini (voce) a cui si sono affiancati altri artisti nostri concittadini: i musicisti Luca Donini (sax), Francesco “Sbibu” Sguazzabia (percussioni) e il grafico e scenografo Marco Campedelli
di Laura Muraro Suoni, colori, segni, parole... e il mare, origine della vita e dell’esistente, diventa il non luogo dove si incontrano linguaggi diversi e differenti mondi e culture, tutti volti a riscoprire la creatura umana più profonda, in un’evocazione delle origini stesse dell’umanità e di ogni singolo uomo. Questi elementi costituiscono l’ossatura di Mare primo. I racconti delle origini, spettacolo ideato dalla veronese Elisabetta Zampini (voce) e a cui si sono affiancati altri artisti nostri concittadini: i musicisti Luca Donini (sax), Francesco “Sbibu” Sguazzabia (percussioni) e il grafico e scenografo Marco Campedelli. L’ideatrice, nonché voce recitante, Elisabetta Zampini, dopo l’esperienza nell’arte dei burattini e nella musica popolare, ed alcuni reading di poesia contemporanea e narrativa con sperimentazioni
musicali, ha proposto questo spettacolo come lavoro conclusivo del Master in Antropologia e Bibbia dell’Università di Verona, per l’anno accademico 2008/2009. Lo spunto le è venuto dalla lettura di un libro di Ellen van Wolde Racconti dell’Inizio che «mi ha suggerito – spiega – il taglio multiculturale, le suggestioni archetipe e la valorizzazione della dimensione creaturale del mondo e dell’uomo». Presentato per la prima volta al Festival biblico di Vicenza e successivamente a Sorrivoli nell’ambito della rassegna Borgo sonoro di Cesena è arrivato a Verona il 15 ottobre al Polo Zanotto. Il lavoro si snoda attraverso vari momenti fra loro sapientemente amalgamati. Dopo un prologo di carattere scientifico tratto da testi del geografo veronese Eugenio Turri e curato dal geologo Guido Gonzato, due testi poetici (Sopra una conchiglia fossile di G. Zanella
Elisabetta Zampini e Marco Campedelli durante la rappresentazione di “Mare Primo”
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Presentato per la prima volta al Festival biblico di Vicenza, quindi a Sorrivoli nell’ambito della rassegna Borgo sonoro di Cesena lo spettacolo è arrivato a Verona il 15 ottobre al Polo Zanotto e Nasciamo di R. M. Rilke) fanno da cornice di apertura e di chiusura alle letture dei miti delle origini legate all’acqua e al mare che toccano tutti i continenti e le civiltà (America latina e America del nord, Mesopotamia, Hawai, Israele, Grecia arcaica...): tutte accompagnate, evocate, sottolineate e interpretate da musica e segni grafici proiettati su uno schermo. Il titolo infatti rimanda ad un duplice significato del mare: a livello storico il mare tropicale che nel passato preistorico ricopriva proprio il territorio veronese; a livello simbolico il mare primordiale e arcaico da dove prende origine la vita. Da trasmettere c’è infatti «un invito a cercare la propria identità – sottolinea Elisabetta – e le proprie radici in modo evocativo ed emozionale, attraverso il linguaggio dell’arte che arriva dove la comunicazione quotidiana non riesce ad accedere»: messaggio che pur provenendo da mondi diversi ha però sempre in comune l’elemento acqua e l’essere creati. Questa dimensione favorisce il ritorno in sé, in un passato lontanissimo che appartiene ad ogni uomo.
Il progetto è stato condiviso e portato avanti con tre amici artisti di cui l’ideatrice apprezza la «capacità di improvvisare e mettersi in gioco in situazioni diverse e nuove», oltre alla sensibilità poetica mostrata in vari spettacoli. «Di Marco conoscevo il percorso personale, da tempo avviato, che lo ha portato a trasformare la musica in segno e gesto; le percussioni di Sbiru e i fiati di Luca (che avevano già una lunga esperienza di musica e parola) erano gli strumenti primordiali dell’uomo che cercavo e che potevano anche amplificare la loro valenza simbolica, rimandando l’uno alla materialità della terra, l’altro all’idea di spirito vitale». Per questo non è stato difficile mettere insieme e coordinare queste diverse forme espressive che, oltre ad un canovaccio comune a cui guardare, avevano poi ampia libertà espressiva. E la sintonia degli artisti, la bellezza dei testi scelti, unita ad una leggerezza dello spettacolo capace di far passare contenuti profondi, coinvolgere ed emozionare gli spettatori senza pesare, sono obiettivi raggiunti e verificati a fine spettacolo con il pubblico stesso, invitato a scrivere emozioni, impressioni e commenti. Questo riscontro positivo conforta Elisabetta nei progetti per il futuro. Infatti ha in mente altri due spettacoli che rappresenterebbero il seguito e la conclusione di Mare Primo e che prendono avvio sempre dal territorio veronese «...ma di più non voglio dire » ci confida scaramanticamente.
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Spettacoli TEATRO TRINITÀ
«Benessere teatro» La rassegna nasce dalla collaborazione tra La Formica e il Teatro Impiria. Con lo slogan “La cura per il tuo bel vivere” vengono offerti spettacoli comici e drammatici all’insegna della qualità. Biglietto ridotto per gli abbonati a Verona In
Dopo il successo dello scorso anno, si ripresenta al Teatro Trinità la rassegna teatrale “Benessere Teatro”, che con lo slogan “la cura per il tuo bel vivere” si propone di offrire spettacoli comici e drammatici all’insegna della qualità e del buon teatro. La rassegna vede per la prima volta una stretta collaborazione tra La Formica, storica compagnia teatrale veronese ed una delle migliori d’Italia, ed il Teatro Impiria, compagnia recentemente premiata col Sele d’Oro come miglior compagnia emergente a livello nazionale. Il cartellone alterna la miglior produzione delle due compagnie, presentando sette titoli ciascuna, a cui si affiancano artisti ospiti, offrendo al pubblico spettacoli di pregio già premiati in alcuni dei più importanti festival nazionali ed applauditi da pubblico e critica. Un cartellone molto particolare ed invitante quindi. E particolare ed invitante è anche la politica dei prezzi. Al biglietto intero (10 euro) sono infatti affiancate diverse possibilità di usufruire di biglietti ridotti. Il ridotto (7 euro) è riservato a tutti i giovani sino ai 18 e agli anziani over 65, ma anche a chi si reca a Teatro in bicicletta e a tutti coloro che praticano attività teatrale (ossia chi recita in compagnie, amatoriali e non, chi frequenta corsi di teatro, eccetera). Biglietto ridotto anche per tutti gli abbo-
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Il cartellone è composto da ben 16 spettacoli, con replica sia il sabato che la domenica, da ottobre a marzo. Invitante è anche la politica dei prezzi. Al biglietto intero (10 euro) sono infatti affiancate diverse possibilità di usufruire di biglietti ridotti (7 euro)
nati a Verona In, nonché a tutti i soci e tesserati Fnac, Circolo Unicredit, Excellence Club e Amici della Bicicletta. I bimbi sino a 12 anni entrano gratuitamente. Il cartellone è composto da ben 16 spettacoli, con replica sia il sabato che la domenica, da ottobre a marzo. Gli spettacoli proposti dal Teatro Impiria sono “Ultima chiamata” (10-11 ott), “Italiani, che commedia!! (14-15 nov), “Sognavamo di vivere nell’assoluto” (28-29 nov), “Chiuso per Western” (6-7 feb), “Il ponte sugli ocani. Amori” (6 mar), “Toccata e fuga” (20-21-27-28 mar) ed una serata di cabaret dal titolo “You, tu!” che prende in giro i veronesi e la veronesità, il 20 e 21 feb. La Formica risponde con “Il giardino dei ciliegi” (24-25 ott e 7-8 nov), “Danza di morte” (2122 nov), “Buona notte mamma” (5-6 dic), “Mai stata sul cammello?” (12-13 dic), “Ma tu di che sesso sei?” (16-17-23-24 gen), “Aspettando Godot” (30-31 gen), “L’impresario delle Smirne” (2728 feb). Tutto il programma è scaricabile dal sito www.teatroimpiria.net L’iniziativa riporta in vita il Teatro Trinità, recentemente restaurato, un teatro del centro storico poco utilizzato, regalando così alla città uno spazio rinnovato nel cuore della città, dove trascorrere piacevoli serate nel segno della cultura, del divertimento e dello stare insieme. (A.G.)
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Mostre CENTRO STUDI IL FIORE DI LOTO
«Ioedio» percorso e mostra di arterapia Un evento singolare perché le opere sono state realizzate da persone che escono dal coma. In collaborazione con Fase 3 Associazione Traumi Cranici e Periagogè
Lo scopo della mostra è quello di far conoscere sia le opere e i percorsi dei pazienti, sia l’eccellenza delle strutture riabilitative Dal 13 al 22 novembre in Via Locchi 10
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di Cinzia Inguanta “Ioedio” è il nome della mostra d’arte che si svolgerà dal 13 al 22 novembre prossimi a Verona, nella sede del “Centro Studi il Fiore di Loto” in Via Locchi 10. Si tratta di un evento assolutamente singolare perché le opere in mostra sono state realizzate attraverso un percorso di arteterapia umanistica, da persone che escono dal coma. L’idea di questa esposizione è nata dall’ incontro di tre associazioni (Centro Studi il Fiore di Loto, Fase 3 Associazione Traumi Cranici e Periagogè) che hanno condiviso l’obiettivo di dare valore e visibilità alle realizzazioni dei pazienti in riabilitazione, che l’arteterapia ha messo in condizione di comunicare ritrovando, attraverso forme e colori, una parte di se stessi. L’arterapia è un trattamento psicologico che compare a partire dal 1950, ma solo da poco codificata e utilizzata in affiancamento alle terapie riabilitative tradizionali. È passata attraverso sperimentazioni, tentativi personali, a volte casuali, sino a diventare una vera e propria disciplina che si integra con gli atti riabilitativi classici, sia di tipo cognitivo, che motorio o logopedico. Attraverso l’uso dei colori con tecniche non convenzionali, a volte si colloca il colore su un foglio di carta con una parte del corpo, stabilendo un livello di comunicazio-
Saranno esposte circa una novantina di opere di singolare valenza artistica ne con persone, che in gran parte sono afasiche e incapaci di esprimersi in modo verbale o gestuale. L’obiettivo è quello di recuperare al massimo le abilità precedenti al trauma e di valorizzare, potenziare quelle residue. Si cerca di aprire nuove prospettive per un futuro che sarà diverso da quello progettato in precedenza. L’arteterapia umanistica si inserisce, subito dopo la rianimazione, in un momento che è di grande confusione in tutti i sensi, e cerca di costruire un percorso positivo su un evento negativo. Lo scopo della mostra è quello di far conoscere sia le opere e i percorsi dei pazienti, sia l’eccellenza di strutture riabilitative come quella del Dipartimento di Riabilitazione del l’ospedale Sacro Cuore - Don Calabria di Negrar, dove sono state prodotte la maggior parte delle opere. Saranno esposti anche alcuni lavori creati nel laboratorio di Terapia Occupazionale del Centro Don Calabria di via S. Marco a Verona. Questi manufatti sono prodotti da persone che hanno una maggiore capacità di esprimersi e che sono in grado di usare anche tecniche tradizionali e che perciò realizza-
no non più dei quadri istintivi, ma anche piccoli mosaici, piccoli oggetti. In tutto saranno esposte circa una novantina di opere di singolare valenza artistica. L’iniziativa sta suscitando molto interesse, tanto che tutto il lavoro preparatorio di studio, progettazione, organizzazione viene svolto dai volontari delle tre associazioni ai quali si sono affiancati, a titolo gratuito, professionisti per le fotografie, la progettazione degli allestimenti, le riprese televisive, la realizzazione della documentazione multimediale, la creazione del sito internet (www.ioedio.org) e l’organizzazione degli eventi collaterali. Secondo gli organizzatori della mostra, purtroppo, poca sensibilità è stata dimostrata dai media locali che non hanno contribuito alla diffusione dell’evento. Un’altra difficoltà per gli organizzatori consiste nel reperimento di sponsor che vogliano condividere il progetto sostenendolo con un contributo finanziario o il conferimento di materiali. Eppure l’iniziativa si preannuncia come un grande successo, tanto che la mostra è già stata prenotata a Roma e a Caserta, ancora prima di essere vista.
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Per informazioni Patronato Ital-UIL Verona, via Giolfino, 1 - 37133 Verona Telefono 045.8873111 - verona@ital-uil.it
Territorio TRA VERITÀ E LEGGENDA
Briganti in agguato e strade pericolose Nell’immaginario collettivo erano personaggi come il mitico Falasco, mentre spesso erano solo poveracci che si davano al brigantaggio per fame
Ogni anno che passa si va perdendo sempre più il ricordo di ciò che poteva succedere fino all’inizio della prima guerra mondiale anche sulle nostre strade. Naturalmente non su tutte, ma su quelle che portano dal centro città verso la montagna. In certi punti, lungo i tornanti, era abbastanza facile seguire la lenta ascesa dei carrettieri che con carretto e cavallo o asino tornavano dalla città, spesso stanchi ed assonnati, per la sveglia antelucana. Portavano con sé o merce di scambio o le scarse lire guadagnate, dopo aver portato al mercato quella poca verdura o frutta che potevano raccogliere nei poveri orti improvvisati lungo i versanti scoscesi della montagna. E così, in certi punti più o meno prestabiliti, venivano accolti con i fucili – quasi mai usati per uccidere – e costretti a consegnare quanto avevano con loro. Certe strade, in modo particolare dell’Alta Valpantena o dell’Alta Valpolicella, erano note perché, si diceva, “c’erano i briganti” appostati. Ma non solo verso la montagna. Ad esempio anche le varie strade e stradine che dal lago di Garda portano verso Calmasino, o verso altri paesi dell’interno, soffrivano dello stesso male. Gli “ortolani”, come spesso venivano chiamati, vendevano la loro mercanzia, di solito frutta e verdura di stagione, e verso sera ritornavano a casa, raccon-
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Certe vie di comunicazione, in modo particolare dell’Alta Valpantena o dell’Alta Valpolicella, erano note perché si diceva che là “c’erano i briganti” tando talvolta i loro incontri poco desiderati. E quello di cui si parla oggi è più che altro passato nel mito. I briganti, nell’immaginario collettivo, erano sempre personaggi come il leggendario Falasco, mentre invece si trattava spesso, da quanto è possibile arguire dalle notizie di quel tempo, specie dal quotidiano L’Arena, di poveri esseri umani che si davano al cosiddetto brigantaggio più che altro per fame e per la miseria più nera. Nei ricordi del Prof. Angelico Brugnoli vive ancora qualche racconto del nonno nato nel 1861. In quel periodo abitava a Fumane di Valpolicella ed era chiamato l’“ortolano” perché aveva un piccolo appezzamento di terreno dove coltivava in modo particolare verdura per la famiglia ma soprattutto da vendere in città. La vita a quel tempo in tutto il Veneto era veramente dura e in più il nonno di Angelic aveva quattro figli da mantenere. Si era verso la fine del secolo diciannovesimo, o
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Territorio Costumi tardo ottocenteschi che ricordano quelli dei briganti toscani, altro fenomeno di costume sociale certamente diverso da quello veronese
“Il Campion delle strade del territorio veronese formato l’anno 1589” è un documento prezioso che mostra una viabilità sorprendente, in grado di garantire i collegamenti dell’altopiano con la città ai primi del ventesimo, quando era all’incirca quarantenne. Qualche volta succedeva che tornando a casa, in quel di Pedemonte, più o meno alla curva di Villa Santa Sofia, venisse fermato e invitato, quando andava bene, a lasciare metà del guadagno. Ma l’avo di Angelico, alto e molto robusto, non si lasciava certo intimorire, tanto che un giorno, stanco di tutte quelle angherie e soprusi, prese uno dei “briganti” e lo gettò oltre il muro di cinta della villa, che era alto circa due metri. Da quel giorno venne lasciato in pace. Come ben si deduce da quanto fin qui raccontato, i famosi “briganti”, tranne qualcuno che fece storia a sé, erano più che altro fannulloni o sfaccendati, che volevano vivere alle spalle degli altri. Per cui, almeno nel veronese, tutto il resto viaggia solo nell’immaginario collettivo mitizzato e privo di fondamenti reali, se non in qualche caso ben documentato e ben lontano da quel brigantaggio che caratterizzò la storia del centro-sud Italia nell’Ottocento. GEOGRAFIA E ANTROPOLOGIA DELLE STRADE
La strada diventa dunque il luogo nel quale il brigante trova la sua nicchia vitale. Già la lingua si è impossessata del termine ed ha coniato alcune espressioni capaci di dare alla “strada” uno dei suoi valori primigeni e fondanti.“Mettere
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sulla strada” allude alla brutalità e alla solitudine che una strada può indurre nell’individuo isolato; e così espressioni come “essere fuori strada” o “darsi alla strada” o ancora “tagliare la strada” alludono alla dimensione negativa, agonistica e ferina della strada. Alla strada, dunque, pertiene inequivocabilmente una dimensione antropologica, radicale, fondante. Perciò è corretto e affascinante il quesito che si pongono Chelidonio, Sauro e Zanini (“Quaderno culturale” n° 29) a proposito di ritrovamenti preistorici a Passo Malera: “Capire se e quanto percorsi alpini storici possano ricalcare non solo piste pastorali tardo-preistoriche ma forse anche tracciati di caccia in quota prati-
Anche i registri dei tribunali mantengono la memoria di fatti accaduti lungo le strade a riprova della valenza profondamente antropologica che la strada ha sempre posseduto cati dalla fine dell’ultima glaciazione”. Come dire: contributi per una viabilità lessinica di circa 15 mila anni fa! In tempi più recenti l’amministrazione della Serenissima decide di redigere un elenco delle strade per
il Veronese; ne nasce il Campion delle strade del territorio veronese formato l’anno 1589. È un documento prezioso conservato presso l’Archivio di Stato di Verona e ci mostra una viabilità sorprendente, in grado di garantire i collegamenti dell’altopiano con la città che si sviluppa e chiede al contado continui approvvigionamenti di derrate alimentari e di legname. Ed è a quella realtà lontana che risalgono le tracce documentali scritte di strade “famose” la via Cara, la via Vesentina e la strada di Messer Can (per restare nell’area orientale) o la via dei Lessini o la via Grande (per riferirsi, invece, all’area più occidentale). Su queste strade – ma anche su altre che solcano trasversalmente la
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Territorio Lessinia (alcune delle quali sono ormai fagocitate dal bosco, ma andare alla loro ricerca è come aprire un libro di favole) – si svolge il commercio della lana e del ghiaccio, del legname e del formaggio. Ma, su di esse viaggiano i vescovi per portare a termine le loro visite pastorali. Non sono poche le lamentele che gli stessi prelati, ma anche gli abitanti, rivolgono alle autorità. Basti questa, datata 12 febbraio 1836, presa dalle carte dell’Archivio comunale di Selva di Progno: “Le strade son tutte disastrose, scabrose, erte e quasi impraticabili, pericolose alle bestie e alla gente ancora”. Anche i registri dei tribunali mantengono la memoria di fatti accaduti lungo le strade a riprova della valenza profondamente antropologica che la strada ha sempre posseduto. In tal modo apprendiamo che il 20 gennaio 1872 viene emessa una sentenza con la quale tale Giuseppe dalla Riva, veronese di 27 anni, di mestiere fabbro ferraio, recidivo, viene condannato a due anni di carcere e alle spese processuali per aver sottratto a Leso Andrea un sacco contenente stoffe per un valore di 50 lire. Il furto avviene lungo la strada da Verona a Bosco. Ancora una volta la strada è il luogo in cui si consuma la vita con le sue emozioni e le sue pulsioni. Essa è – oltre, è ovvio, a tante altre cose – paura, rischio, destino, audacia, criminalità. Non per nulla una antichissima metafora paragona la vita alla strada. IL BRIGANTE FALASCO
Tra Grezzana e Stallavena si possono ancora vedere i resti del castello edificato nel XII secolo dalla famiglia Turrisendi e divenuto rifugio, intorno al 1600, di Francesco Falasco. Francesco Falasco era stato un piccolo possidente locale, messosi a servizio della famiglia Cozza, diventando un “bravo” suo malgrado. A quei tempi era frequente che alcune famiglie nobili con diritti feudali, mantenessero al soldo alcuni uomini chiamati “bravi” o “buli” che eseguivano i loro ordini. Francesco Falasco non va confuso con Paolo Bianchi di Bregantin (detto “il Falasco” in memoria delle leggende del luogo). Que-
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Tra Grezzana e Stallavena si possono ancora vedere i resti del castello divenuto rifugio, intorno al 1600, di Francesco Falasco. Verso la fine del XVII secolo numerose bande di briganti operavano per eseguire vendette personali di alcuni nobili st’ultimo era un brigante con lo pseudonimo di Francesco Falasco; egli era considerato “uomo di fama obbrobriosa, farabutto e spietato assassino”; si racconta che con la sua banda commise un’infinità di delitti, alcuni dei quali commissionati dai signorotti della Valpantena. Siamo verso la fine del XVII secolo e numerose bande di briganti, oltre ad assaltare i viandanti per rubare loro quanto avevano, operavano per eseguire vendette personali di alcuni nobili. La tradizione popolare racconta che i contatti tra famiglie nobili e la banda “Falasco” erano tenuti da un certo Piedelungo, cantastorie, nano, ben accetto anche da altre famiglie. La leggenda narra che con il suo aiuto il conte Provolo (della famiglia Giusti), organizzò il rapimento di Angiolina, figlia di messer Lonardi, ragazza di cui si era invaghito senza essere corrisposto. Secondo la leggenda fu proprio Piedelungo a far incontrare il conte e la banda Falasco nel loro rifugio per ideare il piano. Un bel giorno, quindi, il conte Provolo, entrato con i briganti in casa di messer Lonardi, rapì la figlia Angiolina fuggendo poi verso Ferrara, lontano dalla Serenissima. L’intento del conte era di sposare Angiolina di nascosto e forzatamente. Si narra che Angiolina fosse già segretamente fidanzata con il marchese Sagramoso, il quale, venuto a conoscenza dell’accaduto, cominciò ad indagare seguendo le tracce lasciate dalla banda. Nel frattempo anche il cantastorie Piedelungo, sentendosi in colpa, si mise alla ricerca della ragazza; giunto a Ferrara, dove si teneva nascosta Angiolina, andò a parlare con il Cardinal Legato (che governava la città) il quale fece il possibile per liberare la poveretta. Pochi giorni dopo l’arresto del conte Provolo, i banditori della Serenissima proclamarono la distruzione del Palazzo Giusti di Santa Maria in Stelle. La banda fuggì, ma Fala-
sco venne fermato ed impiccato sotto le mura di Verona mentre cercava di rientrare in città per compiere un’altra sua bravata. I BRIGANTI NEL RICORDO DEGLI ANZIANI
Nell’Alta Valpantena, il vaio sottostante Cappella Fasani veniva chiamato il “Vajo dei Ladri”. Secondo le testimonianze orali: «Quando passavano i carrettieri che facevano ritorno dalla città, dopo aver venduto i carichi di legna, spesso venivano derubati dai briganti». La strada di cui parla un abitante del luogo venne costruita dal Genio Militare durante la Prima Guerra Mondiale, quando la viabilità prese quella nuova direzione, spostando anche i punti di appostamento dei briganti. In merito ai luoghi di appostamento i testimoni riportano che oltre al luogo su citato v’era anche il Ponte delle Cavasse (che si trova tra Lugo e Stallavena); entrambi i punti sono passaggi obbligatori che non permettevano al viandante (soprattutto se stava conducendo un carro) di poter cambiare strada evitando l’assalto. Dura vita quella del carrettiere, che doveva lasciare la casa alle due del mattino per raggiungere la città in tempo utile per il mercato cittadino, ove poter vendere il carico di legna. Sulla strada del ritorno, poi, la notte, poteva essere assaltato più volte e quindi rendere vana quella giornata di lavoro e quelle precedenti per la raccolta del legname. Nei ricordi degli anziani si trova anche un certo brigante “Allegro” che era più feroce degli altri e pertanto più temuto; come capita spesso in queste circostanze, in merito a simili figure, la storia diviene leggenda ed è difficile distinguere l’una cosa dall’altra. Il fenomeno del brigantaggio continuò in Lessinia fino agli anni ’30’40 del secolo scorso, ovvero fin-
tantoché c’era l’uso domestico della legna, e i carrettieri andavano a venderla in città. La stanchezza dei montanari per le continue vessazioni e soprusi li indusse in alcuni casi a reagire. Gli informatori ricordano ancora quando tre boscaioli si appostarono in un luogo nascosto coi s-ciòpi (fucili) ed uccisero un brigante. Si occupò della cosa un brigadiere che esaminata la situazione disse: «Son andato in tal posto e m’han dito che stava ben morto, e son ndà n’un altro posto e m’han dito la stessa cosa, ho provato in un terzo e m’han dito la stessa cosa. Quindi se sta ben a lori sta ben anca a me». Questa, che può apparire una sorta di legge del taglione, era una delle rappresentazioni dell’aspra realtà di un tempo. Anche se fin qui abbiamo parlato in riferimento al tema in termini forse condizionati dalla leggenda del Brigante Falasco, di briganti e brigantaggio gli informatori non si riferiscono mai in tal modo, ma parlano piuttosto di ladri e ladroni, riportandoci ad una realtà forse meno romantica ma più affine alle realistiche condizioni dell’epoca. Il tempo non ha modificato di molto i luoghi dove i briganti si appostavano per i loro agguati, e procedendo per la strada che conduce da Verona ad Erbezzo sono ancora ben visibili quei punti dai quali ci si può immaginare uscissero allo scoperto i rapinatori. Può sembrare strano, ai nostri giorni, pensare che fino a settant’anni fa luoghi come la Lessinia e l’alta Valpantena (20 Km circa dalla città) esistessero aree così fuori dalla civiltà dove c’erano briganti e amministrazione privata della giustizia; ma se lo rapportiamo alla realtà del tempo lo possiamo ben comprendere: basti considerare che nelle aree rurali in genere, fino agli anni ’40, quando iniziò a svilupparsi la meccanizzazione del lavoro, alcuni aspetti della vita sociale non erano cambiati molto rispetto al Medio Evo. A cura del Centro Documentazione e Ricerca Antropologica Frazer Autori: Alessandro Norsa , Aldo Ridolfi, Marisa Fabbro, Angelico Brugnoli
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Territorio La stazione di Cologna venne inaugurata il 19 aprile 1925 e fu un vanto del periodo fascista. Nella seconda guerra mondiale fu tristemente nota come crocevia di treni della morte, destinati ai lager del Reich, in Germania e Polonia, con passaggi continui di prigionieri stremati che le SS sottoponevano a rigidi controlli e disumane umiliazioni
La stazione di Cologna Veneta il giorno dell’inaugurazione
LEGNAGO-COLOGNA VENETA
Una linea ferroviaria perduta nella nebbia Mirko Rizzotto ha creato un Comitato per ripristinare la vecchia strada ferrata Sul filo della nostalgia, ha scritto il romanzo horror investigativo “Ghost train”
di Stefano Vicentini Calano le tenebre a Cologna Veneta e nella vecchia consunta ex stazione, che da sempre imbeve la nebbia di esalazioni ferrose, s’attarda un frate salmodiante: scorge in lontananza una luce, sente uno sbuffo ritmico, avverte il tremore del pavimento e lungo i binari abbandonati vede prender forma una locomotiva a vapore, proveniente da Caselle. Com’è possibile, se a Cologna non passa un treno da oltre vent’anni? Ma se tutti sanno che si tratta di binari morti, arbitrariamente smantellati per dimenticare per sempre quella li-
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nea? E che ci fa una locomotiva a vapore nel nuovo millennio? Domande più che legittime, ma che trovano una risposta plausibile solo sapendo che si tratta di un romanzo nero, dove quindi tutto può succedere. Allora padre Gaius è il monaco detective che vuol capire il mistero della linea ferroviaria scomparsa, mentre Kurt Keaton sarebbe lo scrittore americano che si è inventato questa storia, mostrando un curioso interesse per una strada ferrata che pochissimi conoscono. Tuttavia è d’obbligo usare il condizionale: il giallo “Ghost train” (Runde Taarn edizioni), per la verità, non pote-
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Sopra: la stazione di Cologna in una cartolina degli anni ’20. In basso nel 1987
«Esiste un decreto del 1984 del presidente Pertini che dice chiaramente che la linea ColognaLegnago (il tratto veronese dell’OstigliaGrisignano) di 14 chilometri deve rimanere attiva in regime di raccordo. Invece, oltre al trasporto passeggeri, dal 1987 ha cessato pure il servizio merci, rimanendo inutilizzata»
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va che venire da una brillante penna colognese, quella del giovane storico locale Mirko Rizzotto, che ha preso a cuore tale linea ferroviaria da tempo smantellata diventando presidente del Comitato “Una stazione per Cologna” per perorare la causa del ripristino. Sotto pseudonimo americano, così da dare un’efficace risonanza, e rendendo protagonista un monaco che porta nel nome un barlume di ottimismo (Gaius), Rizzotto s’è dunque dilettato nella letteratura col fermo criterio dell’investigazione e uno sfondo non così avulso dalla realtà. A quanto pare, infatti, verità e mistero non viaggiano poi in grande contraddizione: se è vero che i binari sono stati tolti ed esistono ora solo per brevi tratti, è oltremodo strano che il percorso in questione, la linea “Ostiglia-Grisignano di Zocco”, che con i suoi 118 chilometri tra il mantovano e il trevigiano è la più lunga inattiva in Europa, non sia mai stata ufficialmente cancellata dagli atti. Smessi i panni di scrittore, il pre-
sidente Rizzotto si dedica insomma da tempo ad una personale investigazione: «Esiste un decreto del 1984 del presidente della Repubblica Sandro Pertini, ratificato poi dal ministro dei trasporti Travaglini nell’87, che dice chiaramente che la linea Cologna-Legnago (il tratto veronese dell’Ostiglia-Grisignano) di 14 chilometri deve rimanere attiva in regime di raccordo. Invece, oltre al trasporto passeggeri, dal 1987 ha cessato pure il servizio merci, rimanendo inutilizzata e finendo pertanto ogni funzione. Ma le Ferrovie dello Stato confermano che questa è attiva, nonostante dal 1997 si sia iniziato ad asportarne i binari, poiché gli armamenti fanno legalmente parte del patrimonio non alienabile delle FFSS. È vietato togliere i binari senza il consenso dei ministeri dei Trasporti e della Difesa, quindi per disarmare serve l’autorizzazione». Il Comitato, nato spontaneamente nell’ottobre 2008 – oggi conta 300 membri, tra cui vari professionisti ed una trentina di ferrovieri – vuol incamerare quella decina di chilometri che ritiene importanti per vari motivi, come spiega diffusamente nel sito internet www.stazionecologna.it: sensibile calo dell’emissione di gas inquinanti e tossici, come Pm10, CO e Nox, diminuzione del traffico stradale abbattendo gli incidenti ed aumentando la sicurezza, ridimensionamento del costo di trasporto passeggeri e merci, basso impatto ambientale per l’uso d’una linea ferroviaria elettrica, dotazione di un sistema di movimento merci più efficace per gli impianti industriali, utilità per studenti e lavoratori pendolari. I benefici riguarderebbero un territorio di circa 60 mila abitanti, compresi i comuni intorno al colognese. Il Comitato sta cercando un coinvolgimento a largo raggio, dalla Regione alle Ferrovie dello Stato, fino alle amministrazioni comunali e ai cittadini che abitano lungo l’ex ferrovia, che passa anche da Minerbe e Pressana. Per il ripristino si stanno cercando tutti i canali possibili di sensibilizzazione tanto che, oltre all’eco nei mass media, è arrivata da poco una lettera aperta persino al Presidente
Dal 1958 al 1962 la stazione ha ricevuto vivi riconoscimenti per essere “la più bella d’Italia”, con giardini pubblici molto frequentati. Il Comitato per il ripristino della stazione, nato nell’ottobre 2008, oggi conta 300 membri, tra cui vari professionisti e una trentina di ferrovieri della Repubblica che, a quanto pare, avrebbe attivato i suoi organi per una perizia generale documentativa. Lo storico e scrittore Rizzotto accampa anche motivi culturali per esprimere l’importanza dell’ex ferrovia. Passeggiando alla vecchia stazione, dov’è stato ricreato l’ambiente suggestivo di “Ghost train”, pur tra le sterpaglie si vedono elementi di una bellezza antica, come fregi architettonici decorativi, i resti di un ameno giardino, stanze e magazzini ben organizzati, ampi corridoi che testimoniano una ricchezza di convogli. Il presidente del comitato ricorda, a proposito, che dal 1958 al 1962 la stazione aveva ricevuto vivi riconoscimenti per essere stata giudicata “la più bella d’Italia”, simile ad un locus amoenus con giardini pubblici molto frequentati. La valorizzazione di Cologna, però, veniva già dal merito, qualche decennio prima, del deputato (dal 1909 al 1919) Giberto Arrivabene che scommetteva sulla stazione proprio come elemento di sviluppo socio-economico del paese: il piazzale antistante ne porta tuttora il suo nome, con una targa in marmo del tutto ignota alle nuove generazioni. Rizzotto spiega che l’edificio è servito negli anni Novanta da centro d’accoglienza per extracomunitari, ma dopo una decina d’anni sono stati spodestati, abbandonando di nuovo quell’area. La ragione culturale più forte è, invece, legata all’interessante storia della stazione: venne, infatti, inaugurata il 19 aprile 1925 e fu un vanto del periodo fascista. Nel-
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Territorio Verità e mistero non sono sempre in contraddizione: se è vero che i binari sono stati tolti ed esistono ora solo per brevi tratti, è oltremodo strano che il percorso in questione, la linea Ostiglia-Grisignano di Zocco, che con i suoi 118 chilometri tra il mantovano e il trevigiano è la più lunga inattiva in Europa, non sia mai stata ufficialmente cancellata dagli atti
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la seconda guerra mondiale, però, fu tristemente nota come crocevia di treni della morte, destinati ai lager del Reich, in Germania e Polonia, con passaggi continui di prigionieri stremati che le SS sottoponevano a rigidi controlli e disumane umiliazioni. Ad un paio di chilometri da lì, alla Madonna di San Felice di Cologna Veneta, i detenuti si raccomandavano per l’ultima volta con le preghiere, tanto da rendere l’icona mariana una “patrona dei deportati”. E proprio il nonno di Rizzotto, Piero Bolognese, pur salito su uno di quei treni, riuscì incredibilmente a tornare a casa, ritenendosi un miracolato: sciolse il suo voto salvando una decina di ebrei, come racconta con incisiva testimonianza in un memoriale. Poi ci furono i bombardamenti degli Alleati tra il ‘44 e il ‘45, la ritirata dei tedeschi che appiccarono un principio d’incendio all’interno della stazione, la sospensione momentanea dei trasporti; nel dopoguerra ripartirono al minimo le corse, con due tragitti giornalieri. Il richiamo della storia diventa funzionale in quanto i grandi spazi della stazione abbandonata garantirebbero la possibilità di creare un “parco della memoria” per restituire dignità alle vittime della Shoah, facendo transitare un simbolico treno d’epoca nelle ricorrenze del 25 aprile e del 27 gen-
Il capostazione con la moglie in una foto degli anni ’40
naio, nonché creando un museo. Queste iniziative di valore storico e morale hanno trovato il plauso anche di Roberto Israel, assessore alla cultura ebraica di Verona, contattato dal Comitato per condividere la sensibilizzazione. Per accendere un qualche interesse
turistico si è, invece, attivata di recente la Regione, che ha approvato una delibera per affiancare all’ex linea ferroviaria una pista ciclabile. Rizzotto col suo Comitato possono dirsi moderatamente soddisfatti delle conquiste fatte nel tempo, avendo acceso una pluralità di interessi. Ma l’obiettivo di ripristinare la vecchia ferrovia e ritrovare i treni d’un tempo sembra ancora lontano. E così l’idea rivive solo in un romanzo: il monaco padre Gaius rappresenterebbe il cittadino medio colognese che oggi si sente lasciato solo ma è desideroso di capire, di andare in fondo al mistero della ferrovia mai dismessa, con un pizzico di ottimismo. Rizzotto, alias Kurt Keaton, conoscendo bene la nostalgia dei colognesi per la propria bella stazione, insiste sul tasto del sentimento, a tinte fosche: «Gli abitanti dei dintorni non dormono di notte; vedono treni materializzarsi e vapori salire da dietro gli alberi, sentono locomotive fischiare e sferragliare imperterrite...». Sono suggestionati da treni demoniaci? Ma questa è solo letteratura.
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Steellife: quando l’arte si sposa con l’acciaio
Antonio Marcegaglia:
«Oggi l’imprenditore moderno non ha un ruolo prettamente economico: deve farsi carico e sentire la responsabilità sociale. Deve fare la differenza, attraverso dei progetti per il territorio che allargano i confini dell’impresa e ne fanno un attore della società» Dall’alto in basso: il tavolo dei relatori; il pubblico; l’opera DIN A4 War Games realizzata da Julia Bornenfeld; Steno Marcegaglia, fondatore e Presidente dell’omonima azienda
Dopo Milano ha fatto tappa ad ArtVerona una delle opere presentate a Steellife, la prima Mostra internazionale di arte contemporanea dedicata all’acciaio che è stata organizzata alla Triennale per celebrare il cinquantesimo anniversario della Marcegaglia. Dal 17 al 21 settembre protagonista di uno dei padiglioni della fiera è stata la scultura DIN A4 War Games realizzata da Julia Bornenfeld, giovane artista tedesca vincitrice due anni fa di uno dei premi di ArtVerona. Una presenza che ha voluto rinnovare lo spirito dell’incontro, tra mondo dell’ar te e della cultura d’impresa, in una conversazione che si è tenuta il 19 settembre presso lo Spazio Aletti della fiera sul tema “Steellife. L’arte di fare industria, l’industria di fare arte”. «Oggi l’imprenditore moderno non ha un ruolo prettamente economico: deve farsi carico e sentire la responsabilità sociale. Deve fare la differenza, attraverso dei progetti per il territorio che allargano i confini dell’impresa e ne fanno un attore della società» ha esordito Antonio Marcegaglia, amministratore delegato del Gruppo leader in Europa nel campo della trasformazione dell’acciaio. È stata la volontà di andare oltre i propri confini – impulso che avvicina l’agire dell’imprenditore all’atto creativo – a spingere l’azienda mantovana a festeggiare il mezzo secolo di attività con un’iniziativa «che lasciasse il segno e facesse dell’acciaio un elemento centrale, che è la nostra materia di lavoro e passione». L’intuizione è stata ricercare giovani ar tisti che avessero familiarità con questa materia: «Li abbiamo invitati nei nostri stabilimenti, messi a contatto con i nostri tecnici, abbiamo coinvolto l’intera filiera produttiva». L’azienda è diventata committente e ispiratore nella realizzazione del progetto. «La valenza di un’impresa che guarda lontano è lasciare un segno sul territorio, anche al di fuori degli ambiti nei quali opera». Più che una mostra «si è trattato di un progetto unico e speciale. Vissuto con semplicità e condivisione, con una osmosi di saperi quasi naturale» ha spiegato Elisabetta Pozzetti, curatrice della rassegna. Un’esperienza internazionale che ha dimostrato l’esistenza di «una maniera diversa di osser vare, toccare e lavorare l’acciaio». Gli otto scultori coinvolti – solo uno italiano – hanno ideato i loro progetti sulla carta e li hanno tradotti poi in creazioni artistiche. «Dal confronto con le competenze di maestranze quali fabbri, artigiani e ingegneri hanno dato origine a opere che, forse, nel proprio atelier non sarebbero riusciti a creare». Con Steellife l’acciaio vive e continua a raccontare una storia: «Quella di ciascun artista e del rapporto con un materiale che può sembrare semplice, senza particolari caratteristiche. Ma se conosciuto ha peculiarità e potenzialità espressive sorprendenti che, almeno nel campo dell’arte, non sono state ancora del tutto esplorate».
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AGSM: Azienda leader delle energie rinnovabili • STADIO BENTEGODI
13.328 pannelli fotovoltaici sull’arena del calcio veronese. L’impianto produrrà energia pulita per quasi 1 megawatt e risponderà a tre esigenze: energia pulita, rifacimento completo del tetto, riduzione delle immissioni di anidride carbonica in atmosfera nel rispetto del Protocollo di Kyoto
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Sarà davvero energia pulita quella prodotta dallo stadio Bentegodi di Verona grazie al tetto fotovoltaico di Agsm, l’azienda multiservizi scaligera leader delle energie rinnovabili. Il progetto prevede una superficie coperta di moduli di quasi ventimila metri quadrati, quanto basta per diventare uno dei più rilevanti impianti fotovoltaici d’Italia e tra i più importanti d’Europa. L’installazione dei 13.328 pannelli sull’arena del calcio veronese nel cuore dell’estate, poche settimane fa. Alla cerimonia inaugurale hanno preso parte il sindaco Flavio Tosi, l’assessore allo sport Federico Sboarina e il presidente di Agsm Gianpaolo Sardos Albertini. L’impianto produrrà energia pulita per quasi 1 megawatt e risponderà a tre esigenze: energia pulita, rifacimento completo del tetto, riduzione delle immissioni di anidride carbonica in atmosfera nel rispetto del Protocollo di
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Kyoto. La spesa di circa quattro milioni di euro sarà ammortizzata in venti anni grazie al meccanismo della messa in rete dell’energia, per un volume pari a 935 mila kilowattora annui. L’impianto è totalmente integrato e per questo gode del massimo contributo statale per l’energia prodotta. In questo modo il Comune non spenderà nulla e potrà avere una copertura a norma sui 18.435 metri quadrati dello stadio. Ma non è tutto. La resa energetica dei pannelli potrà essere visualizzata dai cittadini grazie a un contatore che verrà posto fuori dal Bentegodi. È stato calcolato che, grazie alla produzione ecologica di energia fotovoltaica, verranno risparmiate all’ambiente le emissioni di 550 tonnellate all’anno di anidride carbonica. Un vantaggio non trascurabile per le generazioni future. Anche questa iniziativa della multiservizi di lungadige Galtarossa conferma la sua vocazione per le energie rinnovabili.
È stato calcolato che, grazie alla produzione ecologica di energia fotovoltaica, verranno risparmiate all’ambiente le emissioni di 550 tonnellate all’anno di anidride carbonica
• IMPIANTI EOLICI Dal 2009 funziona a pieno ritmo l’impianto eolico di Casoni di Romagna (Bologna), sull’Appennino tosco-emiliano dove i 16 aerogeneratori da 800 kW ciascuno producono 25 milioni di kWh l’anno pari al consumo di 8 mila famiglie, facendone la centrale eolica più grande del nord Italia. Il parco eolico, progettato e realizzato da Agsm, farà risparmiare 20 mila barili di petrolio l’anno, riducendo di 20 mila tonnellate le emissioni di
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Ottobre 2009
Il parco eolico, progettato e realizzato da Agsm, farà risparmiare 20 mila barili di petrolio l’anno, riducendo di 20 mila tonnellate le emissioni di CO2 in atmosfera
CO2 in atmosfera. A Monte Vitalba (Pisa) funziona una centrale eolica che produce circa 14 milioni di kWh all’anno: è in comproprietà tra Agsm ed Enerteq e la parte elettrica è stata progettata da Agsm. A Rivoli Veronese Agsm ha approntato un progetto in fase di iter autorizzativo per un nuovo impianto eolico con 5 aerogeneratori da 2 megawatt ciascuno. Produrrà circa 22 milioni di kWh l’anno, pari al fabbisogno di oltre 7 mila famiglie, dodici volte il consumo residenziale del Comune. Agsm ha anche redatto un progetto, in fase di autorizzazione, per un nuovo impianto eolico nel comune di San Benedetto Val di Sambro (Bologna): 24 aerogeneratori da 850 kW per produrre circa 38 milioni di kWh l’anno, pari al fabbisogno di 13 mila famiglie. In fase progettuale altri otto impianti eolici in diverse regioni d’Italia. «Per noi gli impianti eolici – spiega Gian Paolo Sardos Albertini, presidente Agsm – riuniscono tradizione e futuro della ricerca energetica. La tradizione, perché Agsm è nata grazie all’energia idroelettrica, prima fra le energie rinnovabili. Il futuro, perché la difesa dell’ambiente e la ricerca tecnologica sono indispensabili per la tutela dell’ecosistema».
• IMPIANTI FOTOVOLTAICI IDROELETTRICI Agsm è impegnata anche nel rifacimento dell’impianto fotovoltaico di Zambelli a Boscochiesanuova, uno dei primi impianti sperimentali in Italia e della centrale idroelettrica di Maso Corona (Ala - Trento) con potenza di 40 megawatt che produce 50 milioni di kWh l’anno, pari al consumo di 15 mila famiglie, investimento da 7 milioni di euro. L’investimento per la ricostruzione dell’impianto idroelettrico di Valbona-Ala (Trento) è di 5 milioni di euro: potenza 2 megawatt, produzione di 7 milioni di kWh l’anno, pari al consumo di circa 2 mila famiglie. Sempre nel settore idroelettrico sono previsti investimenti di circa 8 milioni per il rifacimento completo della centrale di San Colombano, nel Comune di Trambileno (Trento) che ha una potenza installata di 20 megawatt e produce 37 milioni di kWh l’anno. La centrale di Chievo a Verona sarà potenziata con cinque turbine ad immersione, tecnologia assolutamente innovativa con impatto visivo zero, per la prima volta utilizzata in Italia.
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La centrale di Chievo a Verona sarà potenziata con cinque turbine ad immersione, tecnologia assolutamente innovativa con impatto visivo zero, per la prima volta utilizzata in Italia
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Perosini Editore Maria Fiorita Pezzolati Come fiore nella crepa Euro 12,00 Ne hanno di forza quei fiori che crescono nelle crepe delle rocce o dei muri, quasi senza terra, esposti, fragili. Eppure ne vediamo tanti, e sono bellissimi e ci emozionano sempre. La storia di vita raccontata in questo libro ha uguale forza e bellezza. Maria Fiorita Pezzolati, scrittrice esordiente, ha saputo tradurre in romanzo la propria storia senza cadere nell’avvitamento autoreferenziale ma, semplicemente, lasciando che la scrittura racconti, quasi da sé, le sfide e le prove che l’autrice ha trovato fin dalla nascita. La poliomelite, il Cottolengo, gli incontri non sempre felici, la difficile tenacia, il canto e la musica e, infine, il dono più bello e atteso, la nascita della figlia, “che ha rischiarato in un solo attimo tutti gli angoli bui della mia esistenza” diventano momenti narrativi concatenati e coinvolgenti. Un romanzo che si legge tutto d’un fiato, come avviene quando si incontra un testo sincero, senza fronzoli, vero e profondo.
Edizioni Cercate Oreste Valdinoci, Micaela Voltan Passi nel silenzio. Cammino sulle tracce del lavoro e della storia Euro 15,00 Più che una guida escursionistica, è un vero e proprio compagno di viaggio. Ed un invito a mettersi in cammino tra le bellezze naturali della montagna veronese, ma con un atteggiamento del tutto nuovo: guardandosi attorno, assaporando il silenzio, riflettendo. È questo lo spirito che accompagna la lettura delle pagine di Passi nel silenzio, volume scritto a due mani da
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Oreste Valdinoci e Micaela Voltan. La pubblicazione, che celebra i primi ottanta anni della sezione veronese dell’associazione Giovane Montagna, propone quattordici itinerari da percorrere alla scoperta (o riscoperta) della Lessinia: dal Vaio di Squaranto a San Giorgio, passando da San Francesco e Valdiporro; da Erbezzo al bivio per Limar; da Podestaria fino ad arrivare a Castelberto. Lungo le strade e i sentieri, che un tempo collegavano la città agli alti pascoli, il libro propone una maniera inedita di “fare montagna”: con un’attenzione non solo all’ambiente naturale, ma anche alle testimonianze (culturali, storiche ed artistiche) lasciate dall’uomo.
Lindau editore Lorenzo Fazzini Nuovi cristiani d’Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione Euro 16,00 Anche degli intellettuali d’Europa si convertono al cristianesimo. Ne dà conto un libro-inchiesta di Lorenzo Fazzini, giornalista veronese di Avvenire. Si tratta di una serie di interviste a dieci uomini e donne della cultura europea che hanno (ri)scoperto la religione cristiana come risposta alle inquietudini dell’era attuale. Scrive Lucetta Scaraffia nella prefazione: “Le interviste di Fazzini ci restituiscono quello che costituisce il carattere più vitale ed entusiasmante della conversione, e cioè il fatto che tutti i protagonisti vedono come nuove delle realtà che al resto dei fedeli sembrano polverose e risapute”. Tra gli intervistati vi sono lo scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt, il cantante Giovanni Lindo Ferretti, il giornalista Marco Tosatti, il critico letterario Joseph Pearce, l’editorialista John Waters.
Arcadia editore Marcel Martin Abrasax. Complotto in Vaticano Euro 16,00 Chi è l’autore Marcel/ Martin? È un doppio misto, un’accoppiata vincente composta da Marcello Lattuca e Martina Carli, uniti nello pseudonimo di Marcel Martin. Due autori alla loro prima esperienza letteraria: lui sardo, lavora come promoter dei vini della sua terra e lei, laureata in giurisprudenza, è impiegata dell’Unicredit. All’avvincente racconto di Marcello, un intrigo internazionale in cui si mischiano complotti, lotte intestine fra prelati, spionaggio, omicidi e molto altro, Martina ha aggiunto le sue puntuali ricostruzioni dell’ambiente ucraino e russo, lingua questa di cui lei ha ottima padronanza. Ne è scaturito un testo che avvince dalla prima all’ultima riga. La vicenda spazia e trasporta il lettore dal Vaticano a New York, da New York all’Ucraina, e a Mosca e ancora a Roma. Il gran pregio di questo thriller sta proprio in questo costante filo, mantenuto anche nei capitoli che narrano avvenimenti “in contemporanea”. Il titolo, beh quello è l’enigma, il rebus che accompagna il lettore sino in fondo. Abrasax... parola dall’oscuro significato... rompicapo assoluto... per chi legge e chi indaga. I personaggi sono tutti molto reali, umanissimi. Il Papa è una figura che intenerisce, ma che stupisce anche per il sangue freddo di cui dà prova. Capitano di un vascello (la Chiesa), in grave pericolo, come lui stesso, trova il modo di sorridere e far sorridere. L’investigatore, Ray Hamilton, puro stile americano, grinta da vendere, senza picchi da super man, coinvolge per la sua umanità oltre che per la sagacia. Francesco Mendoza, fedele segretario del Papa, conquista d’acchito con la sua umile tenacia e spiccano, ritratte in poche ma incisive pagine, le personalità di due alti prelati: uno americano e l’altro ucraino. C’è anche un pizzico di rosa in questo noir dalla suspence
crescente. Una giovane ucraina che emerge a metà racconto e che ritroveremo nell’altro libro che Marcello e Martina stanno già scrivendo. L’atmosfera assorbe pienamente il lettore e lo rimbalza dalla metropoli americana, all’essenzialità gelida dell’Ucraina con i suoi personaggi enigmatici e i paesaggi desolanti, alle tensioni segrete del concistoro Vaticano, facendo assaporare ogni particolare: gli intrighi, le vendette, i sotterfugi e i complotti incredibili che si consumano all’ombra del Cupolone. Anche l’Opus Dei è fra i protagonisti coi suoi misteri, il suo potere, la sua parte di luce e quella d’ombra, inquietante. Il colpo di scena che precede la conclusione è sbalorditivo. Un libro ricco di notazioni e descrizioni, ma privo di lungaggini. Equilibrato e scorrevole, forte, ma mai eccessivo. Si legge d’un fiato. Paola Bozzini
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Ottobre 2009
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Dicembre 2003