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N째 25 - GIUGNO 2010 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N째 46) ART. 1, COMMA 1 - DCB VR
INSIEME FUORI DALLA CRISI
per difendere il lavoro e liberare i diritti a fianco dei lavoratori e dei pensionati contro il precariato giovanile e per salari pi첫 equi
CGIL - CISL - UIL VERONA
P r im o
p ian o
In copertina: studenti universitari
Così va il mondo, ma c’è rimedio
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L’approvazione della norma sul legittimo impedimento; la legge bavaglio che colpisce magistrati, editori e giornalisti; le insistenze del premier per una riforma della Costituzione; la mancata partecipazione dei ministri della Lega alla Festa della Repubblica; l’inchiesta G8 per far luce sul sistema di favori per prendere appalti ; gli scioperi in difesa dello Statuto dei lavoratori. Questo lo scenario italiano degli ultimi mesi. A livello locale possiamo elencare l’impoverimento della Fondazione Arena per effetto del decreto Bondi (e per una mancata ristrutturazione interna); i tagli ai finanziamenti statali che mettono in crisi il progetto per la tranvia; l’aumento delle multe (comprese quelle ai commercianti); la ricomparsa di vecchi nomi legati a “tangentopoli” nella gestione delle aziende comunali; l’aumento dei Consigli di amministrazione (e dei relativi stipendi) negli enti pubblici; la scomparsa delle ronde dalle strade cittadine; l’odioso CIE (Centro di identificazione e di espulsione) che potrebbe trovare sede a Verona. Poi c’è il traforo che non convince: i tempi per farlo, i soldi che costa, i possibili danni alla salute... (p. 9). Politicamente a Verona è stato un periodo di rimpasti, anche come conseguenza delle elezioni regionali. Nel momento in cui scriviamo abbiamo un sindaco che voleva tornare in Regione come governatore ma che alla fine ha dovuto cedere il passo a Luca Zaia. Anche il successivo tentativo di ricucire lo strappo con il Quirinale, invitando a Verona Napolitano, non sta producendo i risultati sperati. Flavio Tosi continua a dire che fare il sindaco di Verona è bellissimo, ma il rischio è che le sue parole vengano prese troppo sul serio. Del resto non sfuggono alcuni meriti: porta elegantemente la fascia tricolore per la festa del 2 giugno e si batte contro la sua stessa maggioranza, che siede nei dicasteri ro-
mani, per quel riconoscimento di Verona “città virtuosa” che dovrebbe ridimensionare i tagli della manovra e darci un po’ di ossigeno. Tra le novità abbiamo anche un veronese (d’adozione) a Palazzo Chigi: Aldo Brancher è infatti diventato ministro per il Decentramento e la sussidiarietà, mentre è in corso un processo a suo carico per appropriazione indebita per i fatti di Antonveneta. A proposito di federalismo fiscale: ve lo ricordate Bossi che voleva il Parlamento della Padania? Ebbene già togliendo l’ICI dalla prima casa il Governo aveva dato segno di dire una cosa e farne un’altra, ma adesso appare chiaro anche al popolo – che dalle nebbie padane piano piano sta uscendo – che con i tagli fatti agli enti locali nell’ultima finanziaria il federalismo fiscale farà la fine del parlamento Padano. Tagli, crisi economica, recessione. Finché sono parole può anche essere la solita propaganda comunista, ma quando i nostri figli non trovano lavoro o vengono licenziati, quando mancano i soldi per farli studiare, quando escono dall’università e rimangono disoccupati, allora uno si chiede cosa stiano facendo quelli giù a Roma per risolvere il problema. E se vedi che i figli che sistemano sono i loro ma non i tuoi, allora ti viene il sospetto di essere preso in giro. E ti arrabbi. Come accadeva prima degli anni Sessanta per le classi meno abbienti, oggi i figli dei nuovi poveri rischiano di non avere l’accesso all’università. Lo spiega bene l’inchiesta di Michele Marcolongo (p. 4): se non hai capitale sociale, cioè una famiglia con gli agganci giusti, certi lavori te li scordi. E questa gente, questo popolo sempre più alle corde, è la stesso che ha votato in massa Lega alle ultime consultazioni popolari. Che in parte è anche quello che lavora nelle fabbriche e che conserva in tasca la tessera sindacale, perché qualcuno che ti protegga dalle angherie alla fine ci vuole.
E qui ci sta anche un ragionamento sull’articolo 41 della Costituzione, che Berlusconi dice di voler modificare per favorire la libertà d’impresa. L’abbiamo riletto l’articolo 41 ed è paradossale che inizi con queste parole: “L’iniziativa economica privata è libera”. La stessa libertà che oggi permette a FIAT di decidere dove produrre la Panda: a Tychy in Polonia, dove si lavora sodo e si produce di più, o a Pomigliano d’Arco, in Campania, dove è vero che l’assenteismo ha toccato livelli deplorevoli. Sempre l’articolo 41 lega l’impresa all’utilità sociale, e quindi introduce valori come la solidarietà e la ricerca del bene comune, ponendo la persona e non il profitto al centrodella produzione. Valori messi in discussione da un capitalismo bieco dove l’unico dio è il denaro. La conclusione è ovvia: la lotta all’assenteismo non ha nulla a che fare con la riforma della Costituzione, i cui valori sono attuali e addirittura essenziali per uscire dalla crisi. A proposito di dio in questo numero di Verona In trovate una presentazione della comunità degli Stimmatini di Sezano (p. 26 ). Pare che tra le mura del monastero si svolga un’operazione archeologica di recupero del messaggio cristiano (e spirituale in genere). Chi frequenta l’ambiente dice che va bene per credenti e non credenti. Terremo d’occhio i frati perché qualcuno che faccia un po’ di luce riteniamo possa essere di qualche utilità. L’ultimo pensiero è per i sanzenati, alle prese con un parcheggio che non vogliono (p. 14). Li ricordiamo con le parole di Elisabetta Zampini (p. 30), nel suo articolo che parla del rapporto tra i luoghi e la gente che li abita: «Ogni individuo, così come ogni comunità, costruisce la propria mappa identitaria formata dai caratteri estetici di un paesaggio, dalla frequentazione, dall’agire, dalla formazione di memorie». Ma è così difficile da capire? g.m.
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SCUOLA E LAVORO
La fabbrica dei disoccupati Diplomati che finiscono in fabbrica e laureati che faticano a trovare (quando ci riescono) un’occupazione stabile. L’odissea dei giovani veronesi nel difficile passaggio dai banchi di scuola al mondo del lavoro, in tempi in cui i titoli di studio sembrano valere sempre meno di Michele Marcolongo
Nel lungo periodo l’investimento negli studi superiori è ancora conveniente tuttavia, considerando l’alta vocazione alla precarietà propria del nostro tessuto economico, il sistema condanna i candidati ad una lunga e spesso estenuante trafila verso la stabilizzazione
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C’è stato un tempo in cui, come recitava una nota canzone del periodo della Contestazione, anche l’operaio voleva il figlio “dottore”. La storia ha accontentato questa domanda di promozione sociale solo in parte. Se è vero, infatti, che la distribuzione dei laureati per classe sociale di provenienza risulta abbastanza omogeneamente ripartita tra borghesia, classe impiegatizia, piccola borghesia e classe operaia, è anche vero che negli ultimi quaranta anni i titoli di studio sono andati incontro ad una generale svalutazione, tanto che i diplomati di oggi spesso entrano in fabbrica partendo dalle qualifiche più umili, mentre i laureati devo-
no penare anni per trovare il loro spazio e superare la barriera dei mille euro mensili di retribuzione. La grande richiesta di diplomati da parte del tessuto produttivo (fino al 47% delle assunzioni previste), evidenziata ogni anno da ricerche come quelle del Sistema Excelsior, dipende più dall’accresciuta scolarizzazione degli ultimi decenni piuttosto che da una reale esigenza del sistema produttivo, che di certo non brilla per capacità di innovazione nemmeno in questo periodo di crisi. Come evidenziano chiaramente i dati Almalaurea (il più grande e completo database italiano in materia), tra gli stessi laureati il “pezzo di carta” viene ritenuto più “utile” che “necessario”. Nel migliore dei casi, la
laurea è un titolo che va preso perché viene richiesto dalla legge per accedere al praticantato in professioni protette tipo quelle forensi, i commercialisti o gli architetti. Ed è a questo punto, del resto, che riemergono le differenze (se non proprio quelle di classe almeno quelle) di ceto, perché l’accesso, nonché il successo, negli studi universitari, e successivamente nel campo lavorativo, è legato in misura significativa ad altri fattori sociologici quali il titolo di studio dei genitori e, più in generale, a quel “capitale sociale” fatto di relazioni, conoscenze ed “entrature” che si sviluppa sottotraccia portando ad una “naturale” selezione dei ragazzi fin in tenera età. Le statistiche assicurano che nel
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Inc hie sta L’accesso, nonché il successo, negli studi universitari, e successivamente nel campo lavorativo, è legato in misura significativa a fattori sociologici quali il titolo di studio dei genitori e, più in generale, a quel “capitale sociale” fatto di relazioni, e conoscenze che porta ad una selezione dei ragazzi fin dalla tenera età
lungo periodo l’investimento negli studi superiori è ancora relativamente conveniente sia in termini monetari che di soddisfazione lavorativa, tuttavia, considerando l’alta vocazione alla precarietà propria del nostro tessuto economico, il sistema condanna i candidati ad una lunga e spesso estenuante trafila verso la stabilizzazione che in questo periodo ha esposto alla mannaia della crisi decine di migliaia di giovani: quelli dei precari (20 mila solo a Verona, 115 mila nel Veneto) sono stati i primi posti di lavoro a venire tagliati all’inizio della crisi, tra ottobre 2009 e gennaio 2010. Partendo da una fotografia della condizione scolastica a Verona relativa all’anno scolastico 2008/2009, fornita dal database Arof per l’istruzione secondaria, cerchiamo allora di ricostruire (con le necessarie approssimazioni e senza pretesa di scientificità) la selezione che spinge i giovani in una direzione piuttosto che in un’altra. L’ISTRUZIONE SECONDARIA
Ogni anno escono dalle scuole medie di Verona (pubbliche e private) circa 8 mila studenti, con un tasso di bocciatura relativamente basso. Nell’anno scolastico
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2008/2009, ad esempio, hanno frequentato la terza media 8.585 studenti, con un livello di bocciatura del 3,9% (326 studenti). La grande scrematura comincia già dal primo anno delle superiori, per consolidarsi tra il secondo e il terzo anno, separando chi è “adatto” a frequentare corsi di studio che danno uno sbocco universitario e chi invece viene indirizzato verso percorsi professionalizzanti finalizzati all’inserimento diretto nel mercato di lavoro. Ogni anno, iscritti alle classi prime di un corso di studi superiori, troviamo infatti circa 10 mila studenti, che grossomodo corri-
spondono agli 8 mila che escono dalle medie più i circa 1.500 ripetenti. La parte del leone, in termini di iscrizioni alle classi prime, la fanno i licei e gli istituti tecnici, che concentrano quasi il 60% delle iscrizioni, equamente suddivise tra i due indirizzi di studio (30% circa ai licei e un altro 30% circa agli istituti tecnici). Poi vengono gli iscritti agli istituti professionali, che rappresentano circa il 20% del totale degli studenti veronesi, e quindi quelli iscritti ai corsi di formazione professionale di durata triennale (15% degli iscritti alle classi prime). Completano il quadro il 7% di studenti che si iscrivono alle magistrali (da quest’anno inglobate nei licei sotto l’indirizzo psico-pedagogico) e un residuo 1% che sceglie la formazione artistica (istituto o scuola d’arte). Nell’anno scolastico 2008/2009 al primo anno delle superiori è stato bocciato in media il 13% degli studenti, con punte del 22,5% tra i professionali e del 16,3% tra gli istituti tecnici. Al contrario, la percentuale di bocciature nei licei si mantiene abbondantemente al di sotto sotto alla media provinciale: 7,7%. La “strage” che si compie negli istituti professionali salta certo agli occhi, ma se guardiamo con più attenzione scopriremo che è dagli istituti tecnici che viene il maggior contributo, in termini assoluti, alle bocciature. Se infatti consideriamo i primi tre anni delle superiori (classi prime, classi seconde e terze), vediamo che su quasi 3 mila studenti bocciati ben mille (il 35%) pro-
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La grande scrematura comincia dal primo anno delle superiori, per consolidarsi tra il secondo e il terzo anno, separando chi è “adatto” a frequentare corsi di studio che preparano all’università e chi viene indirizzato verso percorsi professionalizzanti
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vengono dagli istituti tecnici, che logicamente pesano di più perché hanno più iscritti. IL SUCCESSO DEGLI ISTITUTI TECNICI
Il successo degli istituti tecnici, che ogni anno insidiano il tradizionale primato di iscrizioni dei licei, dipende, tra l’altro, dalla possibilità di offrire un corso di studi orientato all’inserimento nel mercato del lavoro senza tuttavia precludere l’accesso agli atenei. In effetti secondo molte rilevazioni empiriche, ogni anno il 50% dei diplomati tecnici prosegue per l’università e un altro 50% sceglie la strada del lavoro, contro la tendenza consolidata dei liceali che nel 90% dei casi scelgono di proseguire gli studi. Fu proprio la contestazione studentesca, nel 1969, a costringere ad aprire le porte degli atenei a questi studenti. E, ancora oggi, anche a Verona, troviamo moltissimi diplomati tecnici iscritti alle facoltà di Economia piuttosto che di Scienze fisiche e naturali. Perfino a Lettere e Lingue. Come osserva Dino Poli, preside
dell’Itis “Galileo Ferraris” di Verona, gli istituti tecnici sono attraenti non solo rispetto alla fascia “alta” dell’offerta formativa rappresentata dai licei (proprio perché garantiscono un inserimento a breve termine nel mercato del lavoro, mentre i liceali sono “costretti” ad andare all’università) ma anche rispetto alla fascia più “bassa” dell’offerta formativa: «Ormai gli studenti che escono come operai specializzati dagli istituti professionali e dalla formazione professionale comincia-
no a soffrire la concorrenza della manodopera immigrata» osserva Poli. Data la versatilità il corso di studi è molto ambito, ma tanti studenti (e le relative famiglie) sbagliano tuttavia i loro conti. Di fronte alla selettività della scuola, si trovano prima o poi costretti a ridimensionare le loro ambizioni, finendo per trasmigrare su corsi relativamente più abbordabili presso gli istituti professionali o i centri di formazione professionale. Secondo i dati forniti dalla Regione Veneto, il travaso di studenti da una tipologia di scuola all’altra è assolutamente rilevante. Nell’anno scolastico 2008-2009 nel Veneto risultano 837 gli studenti passati dalla formazione professionale all’istruzione e ben 2.012 dall’istruzione alla formazione professionale. La percentuale più elevata si registra, appunto, nel primo anno di corso. Fortemente orientati all’inserimento diretto nel mercato del lavoro (prevedendo un percorso di studio ridotto di tre anni, quindi senza possibilità di accesso all’università), i Cfp contano nell’anno scolastico 2008/2009 ben 5.911 studenti (classi prime, seconde e terze, tutte comprese), pari al 18% dei circa 32 mila studenti che frequentano i primi tre anni delle superiori. Dopo il primo anno di superiori le percentuali di bocciature diminuiscono gradualmente e notevolmente (passando dal 14% del primo anno al 6-7% dei due anni seguenti), ma l’indirizzo per miglia di studenti è già stato assegnato. Basti osservare che a fronte
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Inc hie sta dei 10-11 mila studenti che ogni anno frequentano una classe del triennio, solo 6-7 mila arrivano a frequentare una classe quarta o quinta. La scrematura quindi è del 35-40%. Nel biennio finale il livello di bocciature è bassissimo (5,8% in quarta e 1,6% in quinta con punte, rispettivamente, del 12% e del 6% sempre negli istituti professionali). CETI SOCIALI E LAUREE INFLAZIONATE
Sempre ragionando su dati di flusso si può tentare di indovinare quanti di questi 6-7 mila studenti che ogni anno arrivano al traguardo della quinta superiore riusciranno poi a terminare anche l’università. Sarà sufficiente osservare che con i nuovi corsi riformati (quindi con la generalizzazione della laurea triennale) ogni anno dall’ateneo scaligero escono dai 3 mila ai 3.600 laureati, di cui il 40% residenti fuori provincia. I laureati veronesi “doc” sono quindi circa 2 mila all’anno. Anche ammettendo che altrettanti si iscrivano in altre università limitrofe (Padova, piuttosto che Trento o Milano oppure Bologna) si può considerare che nella trafila degli studi universitari avviene un’ulteriore scrematura del 35-40%. Se ora ci soffermiamo a dare un’occhiata alle caratteristiche sociologiche dei laureati 2008 possiamo provare a tirare qualche conclusione parziale sul funzionamento del sistema di istruzione veronese (che poi è quello italiano): è pur vero che le varie classi sociali di origine (borghesia, classe media impiegatizia, piccola borghesia e classe operaia) si trovano abbastanza equamente rappresentati nell’ateneo scaligero e in quelli italiani, ma le classi “minori” sono notevolmente più rappresentate in corsi di studio già abbondantemente inflazionati come, nel caso di Verona, Scienze della Formazione (31% classe operaia) e Lettere e Filosofia (29% piccola borghesia), mentre le classi “superiori” sono più rappresentate in corsi finalizzati a professioni tradizionalmente più “nobili” come Giurisprudenza ed Economia (rispettivamente 32% e 28% borghesia) che notoria-
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mente hanno bisogno di un grosso “capitale sociale” alle spalle per poi riuscire entrare negli studi professionali più quotati o blasonati. Non a caso, mentre tra gli studenti dell’ateneo scaligero la quota di quanti hanno “uno o entrambi i genitori laureati” si attesta in media rispettivamente sul 13% e il 6%, nella facoltà di Giurisprudenza questi valori sono i più alti in assoluto e schizzano rispettivamente al 22% e al 12%. Al contrario, le punte più alte di studenti i cui genitori non possono vantare alcun titolo di studio o solamente la licenza media, si concentra in Scienze della Formazione e in Lettere e Filosofia. In breve, dove la laurea resta ancora efficace (perché, come abbiamo visto all’inizio, è un prerequisito di legge per l’accesso al praticantato), si accumula anche più capitale sociale. Lo si può vedere anche dal diploma posseduto dai laureati: quanti provengono dal liceo classico rappresentano, in generale, una stretta elite del 9,2%, ma sono il 31% tra i laureati di Giurisprudenza. Chi proviene dal liceo scientifico si distribuisce abbastanza equamente tra tutte le facoltà, con una presenza media del 30%. Anche i diplomati degli istituti tecnici spaziano da Economia a Scienze matematiche fino a Lettere e Lingue con una presenza media del 30%. Gli ex diplomati degli istituti professionali rappresentano invece una stretta minoranza del 4,4%, a testimonianza della scarsa propensione di questa tipologia di studenti ad inoltrarsi negli studi universitari. In quel 4,4% però c’è una punta molto significativa dell’8% tra i laureati in Medicina. In effetti i laureati alla Facoltà di Medicina rappresentano una felice eccezione: pur essendo privi di grande capitale sociale (il 32% degli studenti provengono da una famiglia di lavoratori e per l’80% dei casi i genitori hanno al massimo un titolo di scuola dell’obbligo) hanno ottimi riscontri su lato del lavoro: l’87% di loro si dichiara già impiegato nella Sanità, mentre i laureati degli altri corsi, ancora a tre anni dalla laurea nel 30% si arrangiano ancora col la-
Aumentano i suicidi tra gli imprenditori Attivato un numero verde Alla Camera di Commercio di Padova, dove il servizio è stato ideato e viene gestito, tengono a precisare: «Non è rivolto agli artigiani e tanto meno agli aspiranti suicidi». Vero è, invece, che il numero verde anti-crisi 800 510052, attivo da un po’ più di due mesi, offre un aiuto anche psicologico a molti imprenditori che in questo periodo navigano in bruttissime acque. È vero, inoltre che, in almeno un caso, a chiedere aiuto è stata la moglie di un piccolo imprenditore che meditava di farla finita. La tragica catena di suicidi di artigiani e piccoli imprenditori (una quindicina negli ultimi 16 mesi nel Nord-Est) ha scosso profondamente il Paese, attirando l’attenzione, in qualche caso morbosa, dei media su questo servizio innovativo. A Padova sono già pronti a sviluppare ulteriormente l’iniziativa, attraverso la costituzione di sportelli territoriali gestiti dagli enti locali, Comuni e Provincia in primis. Nella città del Santo un protocollo d’intesa tra gli enti è già stato firmato, ma è certo che anche altre città, tra le quali anche Verona, stiano pensando di seguirne l’esempio. Per banali ragioni di bilancio il servizio, nato l’8 marzo scorso, non prende in considerazione casi all’infuori della provincia di Padova, e basti dire che durante la prima settimana di attività ha ricevuto 120 richieste d’aiuto per la metà provenienti da tutto il territorio nazionale. Ad oggi ci sono stati incontri tra il presidente della Camera di Commercio di Verona e quello di Padova e a breve ci potrebbero essere ulteriori novità per il territorio scaligero. Nella concezione dei padovani, ciascun sportello dovrebbe funzionare come una “antenna” capace di captare il disagio di tante realtà imprenditoriali, e di individuare dei rimedi, delle vie d’uscita percorribili. Dietro la cornetta lavora infatti un pool di esperti in varie discipline, dai fiscalisti agli psicologi capaci di orientare al meglio chi si rivolge per chiedere aiuto. Nella gran parte dei casi a chiamare sono imprenditori fortemente indebitati che non sanno dove sbattere la testa. Una circostanza comprensibile, questa, visto che le ditte individuali di cui è ricco il territorio spesso non possono permettersi di spendere soldi in costose consulenze. Gli ultimi dati statistici disponibili per il numero verde risalgono al primo mese di attività: 237 telefonate totali ricevute, di cui 138 (pari al 58% del totale) provenienti dalla provincia di Padova, con una media di cinque chiamate al giorno. Di queste solo 195 sono state schedate e documentate, perché delle 42 chiamate anonime non si è tenuto conto. La maggior parte dei casi trattati riguardano situazioni di difficoltà di imprenditori, mentre in misura minore chiamano anche lavoratori, professionisti, consulenti. Le telefonate provenienti da fuori provincia non vengono processate perché esulano dalla competenza dei soggetti attuatori. A rigore, il servizio non sarebbe tagliato appositamente sui problemi degli imprenditori perché esso nasce nell’ambito del Tavolo istituzionale anticrisi di cui fanno parte Comune di Padova, Provincia e Camera di Commercio, ma anche i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, nonché le associazioni di categoria e dei consumatori del territorio. Lo scopo istituzionale è ascoltare tutti: imprenditori, lavoratori e rispettivi familiari, perché nessuno venga lasciato solo davanti alle difficoltà. (M.M.)
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Inc hie sta SPUNTI PER UN’AZIONE POLITICA MOBILITÀ SOCIALE – Precarietà del lavoro, svalutazione dei titoli di studio e un certo corporativismo nelle professioni appaiono i fenomeni alla base del basso livello di mobilità sociale di cui notoriamente soffre la nostra società, che si trova sostanzialmente divisa in moderne caste sociali: da una parte coloro che hanno risorse materiali e di relazione (cosiddetto capitale sociale) sufficienti a superare indenni o addirittura saltare i passaggi della trafila verso la realizzazione del progetto individuale di vita; dall'altra chi resta impigliato nei vari passaggi e deve accontentarsi di quel che passa il convento. Si deve ritenere questa una forma di selezione pure ingiusta ma necessaria? Al di là della retorica delle “riforme” e del “merito”, la politica può e saprebbe offrire un'idea diversa di società, indicando un orizzonte collettivo che contempli le differenze ma in un quadro di maggiore equità? E se sì, come, su quali basi e con quali azioni? IL LAVORO INDUSTRIALE – Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un eccezionale rigonfiamento della categoria economica dei Servizi, a danno del lavoro nell'industria a cui sostanzialmente sono state voltate le spalle in favore di più o meno fumose idee di società post-industriale. Paradossalmente, il valore di questo mondo, talvolta dato per estinto, ritorna proprio in questo periodo di crisi economica in cui si investono decine di miliardi di euro in ammortizzatori sociali. È opportuno cominciare a ripensare un rapporto, anche politico, col mondo del lavoro industriale, magari a partire dall'apporto che potrebbero dare forze fresche, anche intellettuali, dei giovani che escono dalle università e dagli istituti superiori? UNIVERSITÀ DI MASSA E STRUTTURE CARENTI Secondo alcune letture, il passaggio da una università di élite ad una più inclusiva non è stato accompagnato da un adeguato potenziamento delle strutture: corpi insegnanti insufficienti, aule piccole, dotazioni e strumentazioni scarse e non all'altezza del compito. Le recenti riforme non fanno altro che prendere atto di questa massificazione dell'università annacquando ulteriormente la qualità degli studi. Siamo difronte al fallimento di un'idea di società più inclusiva, basata sull'accesso agli studi superiori e universitari oppure un'inversione di tendenza è ancora possibile? Al di là delle riforme, qual è l'atteggiamento mentale e l'orizzonte simbolico verso cui si dovrebbe puntare?
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voro che avevano da studenti. La differenza salta agli occhi anche sul grado con cui i laureati applicano nel lavoro le competenze acquisite durante gli studi. Se l’87% dei laureati in Medicina dichiara di applicare le competenze acquisite in misura “elevata”, questa percentuale scende al 38% per il laureati triennali e addirittura al 38% per i laureati della “specialistica” (cioè quelli che hanno i cinque anni). Queste valutazioni si rispecchiano anche sull’efficacia della laurea: mentre è efficace per il 96% dei laureati di Medicina, tra quelli dei corsi triennali il livello scende al 55% e al 42% per i laureati della “specialistica”. SCUOLA E LAVORO UN INCONTRO COMPLICATO
Beninteso, non è che manchi il lavoro: a un anno dalla laurea risulta occupato il 65% dei laureati; a tre anni il 71 % e a cinque anni il 95% (dato che la riforma universitaria è recente, gli ultimi due dati si riferiscono ai corsi del vecchio ordinamento, dove le lauree duravano 4 o 5 anni, senza possibilità di laurea triennale). Il punto è che non sempre il lavoro trovato è all’altezza degli studi: a conti fatti, il 54% dei laureati dell’ateneo scaligero sostiene che la laurea è “efficace” o “molto efficace”, tuttavia solo per il 12% dei casi risulta “necessaria” al fine della mansione concretamente svolta. Secondo il 39% degli intervistati essa è soltanto “utile”. Come si diceva all’inizio, per il
33% dei laureati (quelli che devono fare praticantato) essa è semplicemente “richiesta dalla legge”, mentre per il 16% non è “né necessaria né utile”. Dati che fanno pensare. Donata Gottardi, docente universitario ed ex europarlamentare critica la tendenza, avviata dalle recenti riforme politiche, «di trasformare l’università in una sorta di prosecuzione del liceo. Del resto – aggiunge – l’integrazione tra università e imprese è complicata in presenza di un tessuto di piccole e piccolissime imprese come il nostro». In effetti è semplicemente sorprendente che il 90% dei laureati scaligeri risultino impiegati nel settore dei servizi e solo il 7,8% nell’industria, ben al di sotto della media nazionale (12,5% di laureati impiegati nell’industria) e ben lontano dalle cifre degli atenei vicini (Padova 13,4%; Ferrara 16,8%; Modena 21%; Venezia Iuav 34,8%). Così come è sorprendente che la stragrande maggioranza degli studenti ambiscono ad impiegarsi nell’area organizzazione, marketing, comunicazione, pubbliche relazioni, formazione e pochissimi nella logistica o nelle vendite. Dall’ufficio orientamento dell’ateno scaligero fanno sapere che i dati si devono leggere bene e che compito dell’università è anche quello di dare un metodo di studio e di lavoro che poi sta allo studente sviluppare. Comunque sia quello col lavoro è un incontro assai complicato.
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A ttualità TRAFORO 1
La salute prima di tutto Sarà una Commisione dell’Istituto Superiore della Sanità a valutare se il Passante Nord è potenzialmente dannoso per la salute umana. L’importante è che il Comune affidi a questi esperti uno studio preciso e completo (VIS)
di Paolo Ricci *
Fanno parte della Commissione ricercatori la cui alta competenza e attenzione al rapporto ambiente-salute è ben nota. La VIS, Valutazione di impatto sanitario, è un percorso che si alimenta di una molteplicità di contributi proveniente dall’intero corpo della comunità coinvolta
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È stato ammesso il quesito referendario consultivo sulla necessità di una valutazione a priori, da parte di una commissione di esperti indipendente e di alto profilo, delle possibili conseguenze per la salute dei cittadini e sull’inquinamento derivanti dalla realizzazione del passante Nord-traforo Torricelle. In questo breve contributo alla discussione non si intende volutamente prendere parte sulla validità di quest’opera pubblica, quanto richiamare il percorso metodologico che scaturisce dalla legittimità di quella che si profila come una sorta di Valutazione di Impatto Sanitario, nota con l’acronimo VIS. La commissione di esperti indicati dal presidente di un autorevole organo istituzionale e scientificamente accreditato, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), è stata varata. Ne fanno parte ricercatori la cui alta competenza ed attenzione al rapporto ambiente-salute è ben nota. Questo passo compiuto dal sindaco Tosi equivale quindi all’aver votato anticipatamente egli stesso “sì” al quesito referendario. La questione si sposta allora sull’esito della valutazione, ma prima ancora – come si dirà – sul percorso tecnico, scientifico e sociale che essa implica, e infine sul peso che tale valutazione avrà sul decisore politico. Quest’ultimo aspetto costituisce infatti il cuore del problema e nulla è scontato. Si potrà obiettare che questo “vo-
to” è tardivo, ma è anche vero che una simile prassi non è ancora pacifica consuetudine in Italia. Esistono esperienze sparse, di solito in situazioni critiche, oppure nell’ambito del coinvolgimento di progetti europei. Quindi “i tempi supplementari” appaiono accettabili. Ciò che conta è il risultato. Le antitesi in discussione sono chiare. Intervento in grado di decongestionare il traffico di attraversamento di una parte della città, oppure corridoio autostradale candidato a catturare una significativa quota aggiuntiva di traffico pesante. Opera a forte impatto idrogeologico e paesaggistico oppure ragionevolmente mitigabile. Lavori cantieristici ad alto inquinamento e prolungati nel tempo oppure contenibili per durata ed intensità di aerodispersione degli inquinanti. Aree in prossimità degli svincoli con possibile destinazione d’uso commerciale e quindi ulteriormente attrattive di traffico, oppure zone di rispetto riservate unicamente a servizi stradali. Scadimento sostanziale del benessere abitativo ed economico delle frazioni comunali più coinvolte, oppure minimizzazione dello svantaggio di pochi a favore del vantaggio di molti. Ma percorriamo rapidamente le tappe storiche attraverso le quali si è giunti alla VIS. A partire soprattutto dagli anni ’90 sono stati condotti numerosi studi che hanno esplorato il complesso rapporto ambiente-salute e che hanno richiamato l’attenzione pubblica
sugli effetti dannosi derivanti dalle attività umane. Trattandosi per lo più di effetti a medio-lungo termine, cioè che seguono a distanza anche superiore al decennio l’esposizione agli inquinanti ambientali, risultano meno evidenti e più difficilmente riconducibili alle cause che hanno contribuito a generarli. In anni più recenti, le preoccupazioni per l’ambiente e per la salute sono lievitate in gran parte dei paesi occidentali e sono andate incontro ad una progressiva convergenza, tanto che prima l’OMS, poi l’Unione Europea e quindi l’ONU hanno posto in essere diverse convenzioni e trattati internazionali che affrontano il ruolo giocato dai fattori ambientali nel condizionare lo stato di salute della popolazione generale. Inizialmente si è affermata la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), cioè la valutazione di uno specifico impianto o di una singola opera che interviene a progettazione avvenuta e che quindi tende a prescindere dal contesto più generale in cui si colloca. La Commissione Europea ha però enfatizzato quest’ultima esigenza sostenendo che le tematiche ambientali devono essere integrate nelle politiche del territorio, fino al punto di orientare il mercato a lavorare in favore dell’ambiente. Si è quindi passati da una valutazione monotematica ad una sempre più integrata e strategica nei propri obiettivi (VAS). Ed è proprio lungo questa traiettoria culturale e metodologica che si è in-
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A ttualità
Racclta delle firme per l’indizione del Referendum
A partire soprattutto dagli anni ’90 sono stati condotti numerosi studi che hanno esplorato il complesso rapporto ambiente-salute e che hanno richiamato l’attenzione pubblica sugli effetti dannosi derivanti dalle attività umane. Trattandosi per lo più di effetti a medio-lungo termine risultano meno evidenti e più difficilmente riconducibili alle cause che hanno contribuito a generarli
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serita la VIS. Nel 1999 il Congresso di Gotheborg (OMS) ne ha dato una definizione ufficiale: “Una combinazione di procedure, metodi e strumenti tramite i quali una politica, un programma o un progetto possono essere giudicati sotto il profilo dei loro potenziali effetti sulla salute della popolazione e della loro distribuzione all’interno della stessa”. Ne scaturisce che la VIS deve fornire ai decisori politici ogni informazione sull’effetto che le proprie decisioni possono produrre sulla salute, nonché ogni raccomandazione, basata sull’evidenza scientifica, utile per favorire l’impatto positivo e per eliminare o ridurre quello negativo. La VIS quindi deve precedere non solo la realizzazione dell’intervento, ma la stessa fase di progettazione operativa. In estrema sintesi, la VIS deve essere strutturata e temporalmente collocata per poter influenzare concretamente le scelte dei decisori. È bene precisare però che la VIS
non costituisce una delega in bianco che i cittadini con i propri amministratori affidano ad un cenacolo di sapienti che, dopo lunga e solitaria meditazione, estraggono dal cilindro la soluzione magica. Si tratta viceversa di un percorso che si alimenta di una molteplicità di contributi proveniente proprio dall’intero corpo della comunità coinvolta, perché la salute, come per altro recita anche la Costituzione italiana, non rappresenta soltanto un bene dell’individuo ma anche un interesse della collettività. Quindi un processo a cui partecipano più soggetti portatori di interesse (stake-holders) per costruire uno strumento condiviso in grado di giustificare ed assumere delle decisioni. Si tratta di un percorso innovativo di protezione della salute pubblica rispetto a quello tradizionalmente basato sulla identificazione, quantificazione e gestione del rischio che rimanda ad una associazione causale semplificata tra
specifica esposizione e determinata malattia. L’associazione causale assume qui invece carattere plurale. Più fattori di rischio che raggiungono più bersagli, in cui il contesto (e quindi il territorio) mediato da variabili socio-economiche, diversità geografiche, suscettibilità individuali, background culturale, percezione, accettazione e comunicazione del rischio medesimo, produce una molteplicità di risposte (ampio spettro di outcomes) in grado di condizionare complessivamente lo stato di salute di una popolazione. Il percorso della VIS non si esprime quindi in un mero tecnicismo, ma presuppone dei valori sottostanti: apertura, perché implica la trasparenza di tutte le sue fasi; partecipazione, perché risulta migliore se attinge da conoscenze provenienti da settori differenti, a partire dalle comunità locali interessate all’intervento; democrazia, perché coinvolge i cittadini nell’intera cate-
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A ttualità Definizione di VIS: «Una combinazione di procedure, metodi e strumenti tramite i quali una politica, un programma o un progetto possono essere giudicati sotto il profilo dei loro potenziali effetti sulla salute della popolazione e della loro distribuzione all’interno della stessa» Congresso di Gotheborg 1999 (OMS) na decisionale; sostenibilità perché considerando l’insieme degli impatti sulla salute contribuisce allo sviluppo di proposte accettabili; equità, perché ponendo particolare attenzione alle fasce di popolazione più vulnerabili contrasta le diseguaglianze della salute. Più in generale la VIS consegue ad un mutato paradigma filosofico e scientifico che distingueva tra soggetto ed oggetto della conoscenza, tra osservatore ed osservazione sperimentale, tra cause ambientali delle malattie e cause genetiche riconducibili soltanto all’individuo. La dicotomia ha ceduto il passo alla relazione, per cui nulla è concepibile al di fuori del rapporto originario che l’uomo intrattiene con il mondo che abita. Non c’è l’uno senza l’altro, talché lo stesso concetto di salute ha finito per declinarsi indissolubilmente con l’ambiente. Tutelarlo equivale quindi a tutelare la nostra salute nella forma più radicale. L’istituzione della Commisione ISS si configura quindi per tutti come una grande opportunità che non va sprecata.
* Responsabile Osservatorio Epidemiologico, Asl prov incia di Mantova; Professore a contratto in Sanità pubblica, Università Ca’ Foscari di Venezia
in VERONA
«Dai cittadini un bell’esempio di partecipazione democratica» di Carlo Trentini * Vivendo in una società complessa, in cui le scelte, grandi o meno grandi, sono spesso il frutto di decisioni prese a livelli diversi, talora non sempre trasparenti, l’impressione che diffusamente si avverte è che la democrazia sia un sistema largamente imperfetto. E tale sensazione si manifesta non solo nelle critiche diffuse nei confronti della classe politica (i cui criteri di formazione e assunzione delle cariche restano spesso opachi e comunque non condivisi), ma anche – e forse più significativamente – attraverso un sentimento tanto diffuso quanto accettato di ampia rassegnazione rispetto alle cosiddette scelte di palazzo. Se è dunque comune l’accettazione di decisioni prese dall’alto, non è peraltro raro che, talora, proprio questa situazione provochi una reazione contraria, un invito a non subire senza far sentire la propria voce, senza interloquire, senza chiedere il perché delle decisioni, almeno di quelle più importanti. È questo sentimento di non volersi rassegnare che ha indotto dodici cittadini veronesi a presentare, il 9 febbraio scorso, la richiesta di avvio di un procedimento referendario, prospettando cinque distinti quesiti, tutti originati dall’esigenza di un’ampia riflessione circa la progettata realizzazione di una grande opera autostradale, volta a collegare la zona a Nord della città di Verona (ma più esattamente i caselli autostradali di Verona Est e Verona Nord, con un nuovo raccordo a Nord). Ai promotori del referendum è parso ineludibile che ai veronesi dovessero essere poste una serie di domande: quest’opera servirà? Che cosa costerà, in concreto? I suoi innegabili costi sono giustificati dai benefici che se ne trarrebbero? Quali saranno gli effetti sulla salute, sul territorio, sull’ambiente? Afferma l’Amministrazione comunale che quest’opera è un’opera storica, ch’essa è destinata a mutare il volto della città. Possiamo senz’altro convenire che, sul punto, l’Amministrazione ha ragione. Ma proprio perché si tratta di una scelta storica, irreversibile, destinata a cambiare la stessa struttura della città per parecchi secoli a venire, pare legittimo che una scelta siffatta sia ponderata, sia dibattuta e, alla fine, accettata o rifiutata dopo un dibattito consapevole, pubblico e generale. L’argomento che tale opera era nel programma elettorale dell’attuale Amministrazione non convince: e non convince non solo e non tanto perché nel programma l’opera era prevista con un percorso del tutto diverso (più a Nord, e non
I promotori del referendum
attraverso i quartieri), ma soprattutto perché chi ha votato per l’attuale maggioranza non necessariamente condivideva tutte, ma proprio tutte, le scelte del programma: si può dubitare che, di cento punti del programma, gli elettori ne possano, scegliendo un certo candidato, condividere novantanove, ma magari non proprio tutti e cento? E questa specifica è una questione molto importante, e sulle questioni molto importanti i cittadini vanno interpellati direttamente. Le vicende dell’iter referendario hanno comportato un “taglio” dei quesiti; è sopravvissuto il quarto, che ha per oggetto l’approfondimento dei temi relativi alle problematiche sanitarie e di rilievo nell’inquinamento atmosferico. L’Amministrazione – solo dopo che i Garanti hanno dichiarato ammissibile il referendum su tale quesito – ha provveduto a nominare la Commissione costituita da esperti messi a disposizione dall’Istituto Superiore della Sanità. Allo stato, l’iniziativa referendaria prosegue in attesa di altre necessarie verifiche: occorre che la Commissione nominata sia messa nelle condizioni di svolgere al meglio il proprio lavoro, che il quesito postole sia pertinente e puntuale; che il Comitato possa far pervenire le sue osservazioni, dare il suo contributo. La raccolta delle firme prosegue con grande concorso di cittadini; il numero di firme necessario, per l’indizione del referendum, di 7.500, è assai vicino ad essere raggiunto. Un bell’esempio di partecipazione per la nostra città. Ricordiamo che è dalla consapevolezza che nasce una democrazia compiuta e di democrazia non ce n’è mai abbastanza. * Rappresentante del Comitato promotore del referendum
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A ttualità TRAFORO 2 - INTERVISTA CON RENATO MANNHEIMER
Quando il sondaggio aiuta la democrazia C’è chi demonizza questo strumento vedendo in esso un metodo con cui il potere cerca il consenso. Invece può aiutarci a diventare tutti più consapevoli
di Michele Domaschio
«Nel sondaggio informato la cosa migliore è che i relatori vengano individuati di comune accordo tra chi si oppone e chi promuove l’opera, e che comunque venga garantita pari dignità e possibilità di esporre le problematiche in campo»
Renato Mannheimer è oggi il leader indiscusso dei sondaggi in Italia, oltre ad essere un volto noto al grande pubblico grazie alle numerose partecipazioni a trasmissioni televisive di punta (basti citare, tra queste, la presenza fissa a Porta a Porta). Nella fitta agenda di appuntamenti, ha accettato di rilasciare alcune dichiarazioni a Verona In sul tema delle consultazioni popolari (imminenti o remote, vere o verosimili ancora bene non si sa) che avranno come tema, nella nostra città, il progetto di traforo sotto le Torricelle. – Professor Mannheimer, un gruppo di cittadini veronesi ha chiesto all’Amministrazione comunale di indire un referendum per dare modo all’intera cittadinanza di esprimersi su questo tema; il sindaco ha tra l’altro ipotizzato lo svolgimento di un sondaggio. Può dirci qual è il rapporto e il diverso grado di attendibilità tra questi due strumenti? «La differenza tra il referendum e il sondaggio è che, paradossalmente, il sondaggio è più preciso. Mi spiego: nel referendum vota chi vuole, non tutti i cittadini partecipano. Pertanto, il risultato finale è molto influenzato da chi va e da quanti vanno a votare. Basti pensare che molto spesso, specialmente in occasione delle più re-
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Renato Mannheimer
centi consultazioni referendarie, non si è nemmeno raggiunto il numero minimo di partecipanti al voto. Oppure, può verificarsi il caso che solo i cittadini che la pensano in un certo modo si rechino alla urne. Così, per esempio, anche se va a votare il 55% o il 60% degli aventi diritto, resta comunque una larga parte della popolazione di cui non si conosce l’opinione. Il sondaggio, per così dire, “costringe” invece alla risposta: se è fatto come si deve, cioè su un campione effettivamente rappresentativo, allora si riesce ad avere un quadro attendibile dell’opinione dell’intera popolazione». – Anche se il presidente della Camera Gianfranco Fini ha affermato che non si governa a colpi di sondaggi... «Quello però è un altro discorso, si tratta di un ragionamento politico. Se lei chiede ora, ad esempio, se è giusta la pena di morte per gli
immigrati che commettono uno stupro, troverà che la maggioranza della gente risponde affermativamente. Non è detto che per questo si debba introdurre la pena di morte. Quello che Fini vuole dire, a mio avviso correttamente, è che la decisione politica non deve essere legata in modo indissolubile ai sondaggi. Ma di per sé, un sondaggio è in grado esprimere la volontà popolare: poi, mica sempre bisogna seguirla». – Quali sono i presupposti per l’attendibilità di un sondaggio? «Essenzialmente due: il campione rappresentativo, che viene individuato grazie a tecniche scientifiche ben note ai professionisti del settore, e la precisione dei quesiti. Per rendere più chiaro questo secondo punto, è ovvio che vi è una bella differenza se io domando “siete favorevoli al traforo?”, o se formulo la richiesta come “siete favorevoli alla realizzazione di un’opera che comporterà gravi danni alla salute dei cittadini?” (o, per converso, “di un intervento che ridurrà notevolmente il problema del traffico?”). Insomma, è chiaro che un sondaggio può essere “pilotato” attraverso la formulazione delle domande, ed è invece tanto più attendibile quanto più il quesito è neutro, oggettivo: questo sta, ovviamente, nella serietà e nella professionalità di chi lo svolge». – Anche in presenza di queste garanzie di correttezza e imparziali-
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A ttualità «A Verona penso che si potrebbero spiegare bene i pro e contro del traforo ad un campione rappresentativo, e poi raccogliere questa volontà popolare divenuta più consapevole. La cosa migliore è che i relatori vengano individuati di comune accordo tra chi si oppone e chi promuove l’opera, e che comunque venga garantita pari dignità e possibilità di esporre le problematiche in campo»
in VERONA
tà, l’esito di un sondaggio è poi comunque affidato a chi l’ha commissionato. «Certamente, ed è del tutto legittimo. È un po’ come se io decidessi di farmi fare una foto: chiamo il fotografo, che farà il suo lavoro, poi svilupperà l’immagine, quindi me la consegnerà. La foto, in ogni caso, è di mia proprietà, e deciderò io se voglio pubblicarla o meno. È altrettanto palese, poi, che io non posso divulgare un’altra immagine, falsa, al posto di quella che è stata scattata, perché questo vuol dire mentire, ma qui entriamo in un altro campo: non esiste nessuno che commissioni un sondaggio e poi renda noti risultati diversi da quelli che sono emersi. Al limite, come dicevo prima, decide di non renderli noti, ed è nel suo pieno diritto operare così». – Il classico sondaggio di opinione, sia pure nella sua formula più oggettiva e attendibile, rischia però di essere superato da una nuova modalità di consultazione popolare, il cosiddetto “sondaggio informato”. Se ne è parlato anche a Verona in queste settimane, proprio in merito alla “questione traforo”. Ci può dire di cosa si tratta, e quali vantaggi comporta? «Partiamo da un presupposto: qual è il problema che si cerca di superare con il sondaggio informato? Provo a spiegarlo ricorrendo a un esempio: energia nucleare. Se lei pone un interrogativo, ora, su questo tema troverà che metà della popolazione dice di sì, l’altra metà dice di no. Però la gente, allo stato attuale, dà una risposta molto emotiva, poco o nulla basata su conoscenze specifiche dell’argomento. Allora, alcuni esperti in materia di sondaggi hanno elaborato una nuova modalità di indagine, che si svolge in questo modo: viene estratto il solito campione rappresentativo, che viene non solo interpellato, bensì convocato per un’intera giornata, nel corso della quale si alternano interventi pro e contro l’argomento oggetto del quesito. Al termine, ciascuno esprime il proprio giudizio con il voto. Si è rilevato, ed è un dato di cui tenere conto, che alcune persone, al termine della giornata cambiano
idea rispetto a quella che avevano inizialmente. Si desume pertanto che, con questo modo di procedere, le risposte sono più “informate” e il cittadino vota con maggiore cognizione di causa». – Tutto questo applicato a Verona... «A Verona penso che si potrebbero spiegare bene i pro e contro del traforo ad un campione rappresentativo, e poi raccogliere questa volontà popolare divenuta più consapevole. Sia ben chiaro, non è detto che tutta questa procedura sia assolutamente indispensabile, perché magari i cittadini veronesi sono già sufficientemente informati». – Proprio a tale riguardo, c’è da tenere in debito conto da chi proviene questa informazione: in questo tipo di sondaggio, pare di capire, è cruciale definire a chi compete scegliere gli esperti che illustrano i pro e i contro del traforo, sempre per evitare il rischio del sondaggio pilotato. «Ovviamente: avendo seguito qualche realizzazione pratica di sondaggio informato, posso dire che la cosa migliore è che i relatori vengano individuati di comune accordo tra chi si oppone e chi promuove l’opera, e che comunque venga garantita pari dignità e possibilità di esporre le problematiche in campo. Questa, peraltro, è la prassi seguita generalmente da tutte le società che realizzano questo tipo di consultazioni». – Come varia, dal punto di vista numerico, l’entità del campione rappresentativo nel caso di un sondaggio normale e nella modalità di sondaggio informato? Ad esempio, in una realtà come la città di Verona che ha circa 260.000 abitanti. «Per la prima tipologia, tra le 800
e le 1.000 persone contattate sono più che sufficienti, mentre per il sondaggio informato si può scendere a 200. Si tenga conto, però, che è molto più complicato trovare persone disposte a passare un’intera giornata ad ascoltare e poi votare, rispetto al semplice quesito che può essere posto – ad esempio – con un contatto telefonico». – E i costi del sondaggio informato? «Sono elevati. Enormemente più cospicui, per essere chiari, di quelli relativi a un classico sondaggio. Basti pensare a cosa significa mobilitare qualche centinaio di persone, farle stare un giorno intero ad ascoltare gli esperti, quindi mettere in moto un’intera struttura organizzativa. Niente a che vedere con la raccolta di opinioni che si può effettuare telefonando alla gente a casa, dove l’unico costo è, alla fine, quello della chiamata. Insomma, bisognerebbe decidere chi si accolla l’onere di una procedura così sofisticata». – E questo ci riporta alla questione del committente e dell’utilizzo dei dati, di cui parlavamo prima. Ipotizzando, tuttavia, che si trovi questo finanziatore (la stessa Amministrazione comunale, o altro ente terzo) a suo giudizio, nel caso del traforo delle Torricelle, il sondaggio informato potrebbe costituire una valida alternativa sia al sondaggio classico, sia al referendum? «Non metterei la questione in termini di alternativa. Il mio suggerimento, nel caso specifico, è quello di fare prima di tutto un sondaggio classico, che tra l’altro è veloce da realizzare, e poi procedere con un sondaggio informato. Anzi, ora che ne abbiamo parlato mi sa che uno di questi giorni lo proporrò io stesso al sindaco Tosi».
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A ttualità PARCHEGGIO
A piazza Corrubbio ci sentiamo soli di Chiara Bazzanella
«Dove sono le radici culturali di cui parla la Lega?» si chiede il veterinario della zona, Davide Marchesini, che nel quartiere ci è cresciuto e che, senza vergogna, confessa di aver persino pianto il giorno in cui gli alberi sono stati abbattuti
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Il parcheggio interrato non lo vuole nessuno, non ha alcuna utilità. Non in quello che finora è rimasto uno dei rari borghi cittadini a misura d’uomo, piccolo microcosmo di tradizioni, dove tutti si conoscono. Piazza popolare, luogo di incontro e punto di riferimento per chi qui è nato, vive e lavora: questa è piazza Corrubbio per i sanzenati, tutti fortemente contrariati per la ferita che ha squarciato il quartiere. Dal medico all’abate, dal farmacista al presidente del Bacanal del gnoco, fino al veterinario e all’Ordine dei costruttori, per non parlare dei commercianti e dei residenti: ognuno, a modo suo, ha una ragione valida per sollevare perplessità su quella che rischia di essere una delle opere pubbliche più contestate tra
quelle realizzate a Verona negli ultimi tempi. E se la politica rimbalza le responsabilità a ritroso negli anni, chi questa piazza l’ha sempre vissuta fatica a credere che non ci fossero alternative per arrestare le ruspe, uno scempio reso ancora più doloroso dal taglio di sedici alberi avvenuto l’indomani delle ultime elezioni regionali e per questo da molti vissuto come una sorta di sfregio. «Dove sono le radici culturali di cui parla la Lega?» si chiede il veterinario della zona, Davide Marchesini, che nel quartiere ci è cresciuto e che, senza vergogna, confessa di aver persino pianto il giorno in cui gli alberi sono stati abbattuti. «In quale città europea si tagliano piante per fare parcheggi in centro? Il parcheggio poteva essere realizzato vicino alle case popolari, o intorno al val-
lo, non a due passi da una basilica come San Zeno. Ci dicono che è colpa delle precedenti amministrazioni, ma i politici passano, noi no. E poi altre opere sono state fermate, ad esempio il parcheggio di San Giorgio. E intanto mio padre, che da trent’anni vive a San Zeno, più di una volta ha parlato di andarsene». Se per chi abita nel quartiere da una vita la scelta di mollare tutto fa a pugni con il legame dei luoghi familiari, per chi qui si è trasferito da poco fare le valigie risulta più facile, se non urgente. Christian Stovini viveva in piazza Corrubbio, ma dopo mesi di cantiere sotto casa non ce l’ha più fatta e si è trasferito altrove con la famiglia. «Ho un bambino di due anni e un altro in arrivo. La piazza è diventata invivibile. Si fatica persino a fare due passi con il passeggino e poi ci sono macchine
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A ttualità Chi questa piazza l’ha sempre vissuta fatica a credere che non ci fossero alternative per arrestare le ruspe, uno scempio reso ancora più doloroso dal taglio di sedici alberi avvenuto l’indomani delle ultime elezioni regionali e per questo da molti vissuto come una sorta di sfregio
Il patron del Bacanal del Gnoco, Luigi D’Agostino: «Siamo demoralizzati. Spariscono le piazzette popolari con un po’ di alberi, e con esse anche i ricordi. È un disastro che lascia senza parole e adesso speriamo almeno che facciano presto, perché il disagio per i negozi, le auto e i residenti possa cessare il prima possibile
in VERONA
ovunque: è pericoloso oltre che snervante». Nulla è più come prima. Anche per colui che, a San Zeno, rappresenta la tradizione popolare, incarnata nel Carnevale veronese: il patron del Bacanal del Gnoco, Luigi D’Agostino. «Siamo demoralizzati. Spariscono le piazzette popolari con un po’ di alberi, e con esse anche i ricordi. È un disastro che lascia senza parole e adesso speriamo almeno che facciano presto, perché il disagio per i negozi, le auto e i residentipossa cessare prima possibile». Gli fa eco Fabio Sembenini, titolare della farmacia San Zeno: «Il quartiere è spezzato e a questo punto la gente chiede di conoscere i tempi per uscire da questa situazione di disagio. Dopo l’incontro iniziale con il sindaco Flavio Tosi e l’assessore alla viabilità Enrico Corsi non si è più saputo nulla di concreto. Sono passati sette mesi e i lavori per il parcheggio non sono ancora iniziati, anche se gli alberi sono stati tagliati. Si è parlato di plateatici più ampi per i commercianti e di aiuole. Ma servono tempi certi e incontri con la popolazione per definire quale aspetto avrà la piazza. Speriamo di poter dire la nostra a riguardo. Abitanti e operatori economici hanno diritto di sapere». Sull’importanza di avere delle risposte definitive e sulla rapidità nei tempi ha le idee chiare anche don Gianni Ballarini, da pochi mesi abate della Basilica, giusto in tempo per vedere la piazza prima del via ai carotaggi. Trasferito da Isola della scala, don Gianni si è subito accorto di come stanno le cose. «Corrubbio è una piazza con un forte valore storico. Un luogo di aggregazione fortemente sentito dai sanzenati, che vivono di contatti quotidiani, parlano sulla strada, al bar e sono affezionati ai loro posti. Ho la sensazione che siano molto arrabbiati anche perché non sanno bene a cosa andranno incontro né i tempi in cui resteranno in questa situazione di precarietà: non sapendo, ci si agita di più. Ma sono convinto che, piena di risorse com’è, questa gente saprà muoversi e reagire». Per il momento la reazione forte è solo quella contro chi viene ritenuto responsabile dei lavori in
corso. Per qualcuno la precedente Amministrazione, per altri quella attuale. Ma per molti la stessa ditta Rettondini, rea di non aver “mollato il colpo” trovando eventualmente una collocazione diversa. UN PO’ DI STORIA
L’idea di inserire un parcheggio a mezza via tra il pertinenziale e lo scambiatore nella zona di San Zeno ha origini lontane. La prima a lanciare la proposta nel 1999 era stata infatti l’Amministrazione Sironi, senza però fare un riferimento preciso a piazza Corrubbio. Una location, quella attuale, individuata nell’era Zanotto che ha dichiarato il park interrato opera di pubblica utilità e ottenuto lo svincolo dei giardini dal Paque, il Piano territoriale della Regione. Strada spianata per l’attuale Amministrazione, che si è poi ritrovata a seguire l’iter della gara d’appalto confermandone la gestione, nel luglio del 2007, alla Rettondini spa di Angiari, specializzata – come è chiaro dal sito in cui si presenta – in costruzioni residenziali. Il resto è storia attuale. Dopo un sondaggio nel 2008, a ottobre del 2009 la piazza è stata definitivamente chiusa in un cantiere per dare il via alle indagini archeologiche, tutte a spese della Rettondini. A oggi i carotaggi proseguono, ma l’eventualità di trovare qualche reperto che possa bloccare la costruzione del parcheggio è ormai talmente ridotta da potersi ritenere impossibile. Anche se qualcuno ancora crede nel miracolo. LO SPETTRO DI PIAZZA ISOLO
Come il dottor Franco Colletta, medico della zona che ha lo studio in via Barbarani, la cosiddetta via di mezzo. Per lui – che ancora confida in un qualche ritrovamento provvidenziale – il parcheggio andrà a sconvolgere il centro delle attività sociali del quartiere e rovinerà due piazze (Corrubbio e Pozza) senza dare nulla ai sanzenati, visto che «posti macchina e garage nei dintorni sono tutti vuoti», per fare invece emergere una seconda piazza Isolo, «obbrobrio urbanistico triste
anche in termini di arredo urbano». Sulle responsabilità della ditta, il medico non usa mezzi termini: «La colpa ultima spetta alla Rettondini, che non ha mai accettato proposte alternative. E per la sua determinazione nel voler andare avanti a tutti i costi le auguro di pagarne le conseguenze in termini di flop economico». Di diversa opinione il Collegio dei costruttori edili di Verona, di cui la Rettondini è impresa associata. Sottolineando i cinque anni di pratiche burocratiche necessari a rendere cantierabile un’area, il presidente del collegio, Andrea Marani, fa notare che si tratta di un lasso di tempo che ha dato ampio spazio a ulteriori valutazioni. «I tempi per cambiare le cose c’erano. La licenza è stata data da questa Amministrazione e lo scarica barile a noi costruttori non interessa: è il male della burocrazia italiana». Dello stesso avviso Francesco Farinelli, presidente onorario del Collegio, secondo cui è evidente che la Rettondini non ha nessuna colpa. «Sono contrario al parcheggio per motivi storici, estetici e di convivenza – riferisce Farinelli, che vive a pochi metri da piazza Corubbio – ma l’impresa è esecutrice per volontà del Comune. I sanzenati sbagliano ad accusarla. Le critiche vanno invece alle varie amministrazioni. La Sironi ha programmato il park, Zanotto gli ha dato il via e l’attuale Amministrazione è stata incapace – o non ha avuto la volontà – di fermare il progetto al momento giusto. L’accomodamento ci poteva essere, anche perché lavorare con l’ostilità della popolazione non è mai piacevole». Che non sia piacevole se ne è di certo accorto chi in questi giorni sta scavando nella piazza alla ricerca di reperti archeologici, sotto gli occhi accusatori della gente del quartiere che non risparmia battute e qualche insulto. E dai sanzenati più “eversivi”, all’interno del cantiere è persino arrivato qualche bicchiere di vetro scagliato in segno di protesta. IL REPERTO CHE NON SALTA FUORI
Se per la maggior parte delle persone è chiaro che chi sta scavando
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A ttualità non sta che facendo il suo lavoro, per qualcuno gli archeologi sono infatti purtroppo diventati il capro espiatorio della situazione. Forse anche perché, deludendo le ultime speranze, sono “colpevoli” di non trovare l’introvabile: un reperto che possa effettivamente sancire lo stop della Soprintendenza alla realizzazione dei posti auto sotterranei. Per ora la bonifica, scavando a una profondità di circa due metri, ha fatto emergere oltre un centinaio di tombe dell’età tardo antica e dell’alto medioevo, già tutte trasportate nei magazzini della Soprintendenza. Una necropoli di grande valore per la storia di Verona, ma che nulla può fare per restituire la piazza ai sanzenati. Si tratta di tombe a inumazione ritrovate a poca profondità che, nel momento stesso in cui vengono scavate, diventano trasportabili. Nessuna traccia invece della famosa via Gallica per Brescia, che avrebbe rappresentato l’unica possibilità concreta per impedire il procedere dei lavori e che si sospetta sia stata già rimossa in passato. Intanto la bonifica prosegue e al suo termine non servirà che il nullaosta della Soprintendenza per dare il via, in un primo momento, alla posa dei sottoservizi, da trasferire ai lati della piazza. Il che provocherà un ulteriore allar-
Già dieci anni fa, alla prima ipotesi di costruire un park a San Zeno, i residenti avevano raccolto oltre 700 firme di protesta. Ignorate, allora come oggi. A nulla sono infatti servite le iniziative realizzate in questi mesi dal Comitato Salviamo Piazza Corrubbio, che si è formato lo scorso settembre dopo l’assemblea popolare nel quartiere
gamento del cantiere verso via Barbarani. Danno aggiuntivo per i commercianti, che stanno già subendo gravi perdite economiche e che, a questo punto, si augurano almeno sia rimandato a dopo la stagione estiva. FATTURATI IN CADUTA LIBERA
Baristi e ristoratori assistono impotenti al precipitare dei loro fatturati, ridotti fino del 40-50 per cento. E intanto arrivano l’Inps
da pagare, la tassa per i rifiuti. «Quella almeno ce la potrebbero togliere!» lamentano in molti, che la ricordano come una delle promesse non mantenute dall’assessore Corsi. Si va al risparmio e senza grandi investimenti per il futuro. C’è chi non cambia il tendone del suo negozio – come la Merceria Mara – perché l’anno prossimo scadrà il contratto e «si vedrà», e chi, pur sopravvivendo, si lamenta dei disagi forti e si aspetta il peggio.
«Sono uno dei pochi artigiani rimasti» dice il proprietario della Tappezzeria Zambelli, deciso a continuare la sua attività. «Certo che non avere la possibilità di carico e scarico davanti al negozio, per chi consegna poltrone e divani è un bel problema». «Io da qui non me ne vado» afferma orgoglioso il macellaio Claudio Accordini, attivo nella piazza ormai da 35 anni. Ma poi, arrabbiato e amareggiato, ritorna sui suoi passi: «Con i lavori per i sottoservizi il cantiere si allargherà fino a un metro e 20 dal mio negozio e scaricare la merce diventerà complicato. Il prossimo anno andrò in pensione e con la strada chiusa cosa resto a fare? A pagare le tasse?». A preoccupare Claudio infatti – oltre all’inevitabile taglio degli alberi sul marciapiede che incrocia via Barbarani, già risistemato l’anno scorso e adesso in procinto di essere nuovamente distrutto per il cantiere – è la clientela che ha già iniziato a diminuire. «Anche i clienti affezionati non possono permettersi di perdere tempo per venire fin qui, non trovare un posto in cui sostare e rischiare pure di prendere la multa». ARRIVANO I CINESI
Le attività economiche in crisi sono almeno una trentina. E alcune hanno già iniziato a chiudere i
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A ttualità battenti o a svendere. Come l’arrotino, ricordato con nostalgia dal quartiere, ma anche il kebabbaro, il negozio di arti sacre, la sanitaria e uno studio di architetti. E se Ivo Spada del “Du de Spade” ha già venduto ai cinesi, gira voce che altri abbiano la stessa intenzione, anche per le proposte continue che vengono loro fatte. Eppure le agenzie immobiliari della zona riferiscono di prezzi degli immobili ancora stabili. Quasi a confermare la tesi dei pochi che hanno il coraggio di guardare con fiducia al futuro. Non tutti cinesi. Luigi Legnaro, titolare dei muri del bar “El canton de San Zen” è convinto che alla fine verrà fuori una bella piazza. «Ci fosse anche un deprezzamento durante i lavori, poi ci sarà la rivalutazione. Piuttosto i commercianti dovevano chiedere i risarcimenti per i danni subiti». GENTE ABBANDONATA E DESOLATA
Richieste fatte ma inascoltate, secondo i negozianti. Che non solo speravano di non pagare la tassa sui rifiuti, ma confidavano anche in una serie di altri interventi. «Le insegne dei negozi che ci avevano promesso sulla struttura del cantiere ce le siamo affisse da soli», tuona scocciato Paolo Simeoni della pizza al taglio all’angolo con via San Procolo. Oltre al disagio sociale chi vive nel quartiere lamenta anche una mancanza di sicurezza, prima sconosciuta. Francesca Bertoncelli vive in una casa all’angolo di piazza Corrubbio: «San Zeno era un quartiere felice e adesso ho paura a girare sola di notte. Il giardino con gli alberi era un luogo di incontro per bambini, giovani, anziani, dove io e mia sorella abbiamo imparato ad andare in bicicletta e sui pattini. Adesso il quartiere è deserto. Apro la finestra e sembra di stare sopra un aeroporto».
E anche Giuliano, che ha solo 17 anni, soffre già di nostalgia: «Con gli amici ci ritrovavamo nei giardini. Adesso ci siamo spostati in piazza Bra, ma non è la stessa cosa». Eppure, secondo l’architetto e funzionario pubblico Alberto Lorini, residente nel quartiere, quei giardini in qualche modo potevano essere salvati pur procedendo nell’opera. «Tutti i progetti sono migliorabili se davvero si vuole andare incontro alla gente. Gestendo lo scavo in maniera diversa, gli alberi più vecchi potevano essere salvati. Magari rinunciando a quattro o cinque posti auto per un muro di contenimento adeguato a tenere la terra». A preoccupare i residenti sono anche le case vecchie, alcune senza fondamenta, dicono, e che per questo potrebbero subire danni dagli smottamenti del terreno. E poi, oltre a qualche topo avvistato a scorrazzare fuori dal cantiere e ad acqua ed elettricità che saltano, per qualcuno manca anche un altro tipo di sicurezza nella piazza, che con i corridoi in cui è costretta, rende impossibile il passaggio di un’autobotte dei vigili del fuoco in caso di qualche calamità. Sfumature, impressioni, note tecniche. Ma su una cosa – è certo – tutti sono allineati: quei 300 po-
SPUNTI PER UN’AZIONE POLITICA SEGUIRE LA TRASFORMAZIONE Com’è possibile salvaguardare le tradizioni e le abitudini della comunità che risiede o lavora vicino a una nuova opera pubblica nel momento in cui l’opera stessa rischia di trasformarle? COMUNICAZIONE E GARANZIE Come garantire una maggiore chiarezza nel corso della realizzazione di opere pubbliche ai residenti e i commercianti dell’area interessata? E come garantire loro anche un beneficio futuro a fronte del forte disagio subito? CONSULTARE I CITTADINI È realistico pensare che, prima dell’avvio di un’opera pubblica, i cittadini possano esprimere la propria opinione circa la necessità o meno dell’opera, soprattutto se, come nel caso di piazza Corrubbio, si tratta di un intervento voluto dalla precedente Amministrazione?
sti auto interrati rappresentano un sacrificio troppo grande per il quartiere. «Non lo useremo mai, costa troppo». E anche l’ipotesi di comprarne uno pertinenziale non quadra. «Dopo 34 anni di cessione alla Rettondini, la proprietà del park passerà al Comune. Ma se io ho comprato un posto auto, lo ridò al Comune?», si chiede qualcuno. Già dieci anni fa, alla prima ipotesi di costruire un park a San Zeno, i residenti avevano raccolto oltre 700 firme di protesta. Ignorate, allora come oggi. A nulla sono infatti servite le iniziative realizzate in questi mesi dal Comita-
to Salviamo Piazza Corrubbio, che si è formato lo scorso settembre dopo l’assemblea popolare nel quartiere. Alberi vestiti, lacci neri in segno di lutto, marcia dei mille, una sfilata davanti al Comune, volti dipinti appesi alla finestra, e persino un appello di aiuto al patrono della città. «Ma a quanto pare – dichiara ancora sconsolato il medico della via di mezzo – nemmeno la fantasia dei sanzenati è riuscita a fermare l’Amministrazione, insensibile e sorda a quel grido di dolore che arriva dall’ultimo quartiere popolare che ancora esiste a Verona».
Quei 300 posti auto interrati rappresentano un sacrificio troppo grande per il quartiere. «Non lo useremo mai, costa troppo»
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A ttualità COLORI NATURALI
Le terre di Verona viaggiano per il mondo Estratte dalle colline scaligere e lavorate tra le mura del colorificio Dolci vengono trasformate in pigmenti variopinti per artisti e restauratori, in coloranti naturali per l’industria tessile e cosmetica
di Marta Bicego
Nella Verona che non ha nessuna intenzione di cedere alla tentazione delle tinte acriliche, i Dolci – ormai da un secolo – producono coloranti naturali grazie a tecniche tramandate di generazione in generazione
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Le terre gialle di Avesa o delle Torricelle, della Valpantena o della Valle di Illasi, creano sfumature simili all’oro; quelle provenienti dalle cave di Prun o di Brentonico hanno un’inconfondibile tonalità verde tenue; quelle rosse di San Giovanni Ilarione rivelano calde tonalità, che mutano a seconda della luce. Nelle colline nei dintorni di Verona, ha origine dalla terra la magia del colore: piccoli frammenti di pietra estratti con cura dal sottosuolo che, una volta lavorati e ridotti in polvere, si trasformano in pigmenti, creando così infinite gra-
dazioni. Nella Verona picta che non ha nessuna intenzione di cedere alla tentazione delle tinte acriliche, esiste una fabbrica che – ormai da un secolo – produce con professionalità e passione coloranti naturali grazie a tecniche tramandate, di generazione in generazione, fino ai giorni nostri. Ed è proprio guardando agli insegnamenti del passato che polveri gialle, rosse e verdi si traducono quasi magicamente in variopinte tonalità nelle abili mani di artisti e restauratori, di imbianchini e chimici, di artigiani e decoratori; per ravvivare stoffe e rossetti, queste preziose polveri vengono utilizzate addirittura al-
l’interno dei laboratori che operano nell’industria tessile e in quella della cosmesi naturale. LA FUCINA DEL COLORE NEL CUORE DI VERONETTA
Ha una sede nascosta tra i palazzi di Veronetta, al civico 16 di via Cantarane, la ditta (unica in Italia e una tra le poche ancora esistenti in Europa) che produce colori ricavandoli dalla terra: si tratta del Colorificio Dolci la cui lunga storia – nota forse più all’estero che agli stessi abitanti di Verona – è iniziata nel lontano 1910 quando il fondatore, Arturo Dolci, ha avuto l’intuizione di tra-
Giugno 2010 foto di Elena Sartorari
A ttualità sformare in colore i frammenti di pietra estratti (allora con una particolare abbondanza) nei dintorni di Verona. Per fare ciò, non ha fatto altro che prendere esempio dal passato: quando, cioè, le popolazioni preistoriche riducevano le materie prime (pigmenti minerali gialli, rossi, bruni, neri e bianchi) in sottile polvere, utilizzando pestelli d’ossa e ardesia, impastando il tutto con acqua e grassi animali. Senza dimenticare che a Verona, Urbs picta del Cinquecento, le facciate di palazzi prestigiosi o gli interni delle chiese più belle sono diventati grandi “tavole” sulle quali pittori, locali e non, hanno realizzato straordinari cicli di affreschi. Quando l’attività estrattiva in Italia era ancora fiorente, vale a dire fino alla prima metà del Novecento, nel Veronese esistevano circa una ventina di industrie dedite alla produzione di terre coloranti. Realtà che negli anni hanno chiuso, una dopo l’altra, i battenti: vittime di conflitti e crisi economiche, non ultimo della concorrenza (in termini di costi, ma non certo di qualità) delle tinte acriliche. Malgrado tutto, i Dolci hanno sempre creduto di essere depositari di un patrimonio di esperienza e tradizioni straordinario. È testimonianza di ciò la tenacia con la quale la famiglia veronese ha difeso, e continua tuttora a difendere, la propria pro-
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fessione. Alla fine della Seconda Guerra mondiale Mario Dolci, figlio del fondatore del Colorificio, ha deciso di proseguire (tra non poche difficoltà) l’attività aziendale: ha rimesso in piedi la fabbrica distrutta dai bombardamenti del 1944; ha affrontato gli anni della crisi sociale e l’inevitabile mancanza di clientela; ha assistito alla comparsa sul mercato delle emulsioni viniliche e acriliche, che hanno sostituito quasi completamente l’utilizzo delle terre naturali. Non però in riva all’Adige, dove i figli di Mario Dolci, Alberto e Giuliano assieme al nipote Andrea, hanno continuato la loro opera di ricerca, reperimento e lavorazione di coloranti di estrazione naturale. DALLA NATURA, INFINITE SFUMATURE
«Da cent’anni ci occupiamo della macinazione di terre naturali» spiega Andrea Dolci, perfettamente a suo agio in mezzo a sacchi ricolmi di polveri variopinte che, solo con la loro presenza, colorano lo stabilimento di via Cantarane. «Si tratta di materiali conosciuti fin dall’antichità: utilizzati per la coloritura murale e ad uso artistico, e prediletti per caratteristiche quali resistenza, trasparenza e brillantezza». Ed è proprio grazie a queste peculiarità se i toni generati dalla natura vincono la competizione contro quelli acrilici. «Un tempo, in centro città, tutte le facciate delle abitazioni erano dipinte con terre naturali. Una tradizione che si è persa a metà Novecento, con l’invenzione dei colori sintetici. Negli ultimi anni, per fortuna, stiamo assistendo ad un progressivo ritorno alle colorazioni naturali, perché – come ci tiene a precisare – si è capito che, in termini di bellezza di tono, sono inimitabili». Nulla a che fare, insomma, con la tinta acrilica che, specialmente se utilizzata per i restauri, «crea una pellicola che non fa respirare la muratura, conferendo una colorazione piatta e opaca». Non è un caso se i prodotti della ditta Dolci sono richiesti, oltre che in Italia, soprattutto all’estero: dal Canada all’Australia, dagli Stati Uniti al
Dolci Andrea
Giappone. Provengono da Verona anche i pigmenti che vanno a ravvivare i colori per artisti prodotti dalle prestigiose aziende Maimeri, Talens, Sennelier e Winsor & Newton per quanto riguarda gli acquerelli. I SEGRETI DELLE TERRE VERONESI
Quello del colore è un universo ricco di segreti e curiosità. Per
rendersene conto, è sufficiente visitare il Colorificio della famiglia Dolci o il negozio dedito alla vendita al dettaglio che affianca la storica fabbrica di via Cantarane, dove c’è sempre chi può dare un suggerimento utile. Tra barattoli di vetro e scaffali variopinti, si scopre così che le terre colorate danno origine a una gamma di venti colori. Quelle veronesi sono per la maggior parte tendenti al
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A ttualità
«Qualche anno fa è venuto a farci visita il fondatore della Diesel, Adriano Goldsmith, che attualmente vive e lavora negli Stati Uniti. È l’inventore di un sistema di colorazione per creare un effetto vintage, utilizzando i nostri pigmenti colorati che vengono fissati sui tessuti attraverso una serie di lavaggi in lavatrice»
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giallo ocra, al rosso mattone, al bruno: le terre gialle (provenienti dalle Torricelle, dalla Valpantena e da Illasi) sono idrossidi di ferro associate ad argille; quelle rosse contengono ossidi uniti ad argille e silicati amorfi. A queste si aggiungono il verde tenue (che proviene dalle zone del Monte Baldo e dai dintorni di Negrar) ottenuto da due minerali argillosi quali la celadonite e la glauconite; ci sono infine il nero estratto in Val d’Alpone e il gesso cavato a Marcellise. Altre, come le terre d’ombra, arrivano in riva all’Adige perché importate da Cipro e dalla Francia dove esistono ricche miniere a cielo aperto. In natura, le terre vengono raccolte dalle mani esperte degli ultimi cavatori rimasti nel Veronese: si tratta di appassionati che conoscono i luoghi nei quali andare a scavare e, nel tempo libero, si dedicano a questo antico mestiere per passione più che per vero guadagno. «L’attività estrattiva vera e propria è chiusa da decenni» prosegue Andrea Dolci. «Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, ad esempio, si scavavano le terre gialle nelle gallerie naturali presenti sotto le Torricelle, specie nella parte della Valdonega. Piccoli giacimenti sotterranei sono presenti in Valpolicella e Val d’Alpone, dove i proprietari dei terreni ci forniscono ancora oggi le materie prime. Altro materiale lo recuperiamo nelle cave di marmo dove affiorano, di tanto in tanto, venature colorate. Si tratta comunque di quantità molto limitate che permetto-
no di mantenere in vita una produzione che destiniamo, in modo mirato, al restauro artistico e ai settori che richiedono un prodotto di qualità». DALLE CAVE, ALLA FABBRICA
La materia prima, in origine sotto forma di pezzi, arriva allo stato grezzo al Colorificio di Veronetta conservata all’interno di capienti sacchi del peso di circa mille chili ciascuno. Prima di essere lavorato, il prezioso materiale deve essere disteso e asciugato in maniera naturale; raccolto entro barattoli di latta per la fase della calcinatura, viene in parte bruciato all’interno di un forno a gas metano, alla temperatura di 350 gradi. Si producono con questo procedimento le terre che vanno scurite: dopo la cottura i pigmenti gialli subiscono una trasformazione mineralogica e diventano di un rosso vivace. Attraverso grosse macine con la mola in granito, simili a quelle presenti nei frantoi, vengono sminuzzate grossolanamente le pietre più grosse e avviene la prima raffinazione del prodotto. All’interno di altri macchinari, i mulini a martelli, le terre diventano polvere sottilissima, che – dopo essere stata miscelata e controllata con attenzione per vagliare eventuali disomogeneità – ritorna a riempire capienti sacchi per essere portata in ogni parte del mondo. Si producono fino a 40-50 quintali di pigmenti alla volta. È così che le polveri colorate vengono vendute ad altri colorifici per preparare prodotti pronti o a negozi specializzati presenti in città d’arte come Roma e Firenze. Arrivano anche nelle mani di artisti e restauratori; di architetti e de-
coratori; di artigiani del legno che, secondo antiche lavorazioni, le miscelano con la colla di coniglio per trattare vecchie tavole lignee; di manovali che, per dipingere interni ed esterni di palazzi o per le murature di pregio, le miscelano con il grassello di calce. Gli utilizzi delle terre colorate sono infiniti ed altrettanto impensabili, e forse è anche per questo motivo che il Colorificio Dolci vanta una clientela internazionale. «Qualche anno fa è venuto a farci visita il fondatore della Diesel, Adriano Goldsmith, che attualmente vive e lavora negli Stati Uniti» rivela Andrea Dolci. «È l'inventore di un sistema di colorazione del denim, per creare un effetto vintage, utilizzando i nostri pigmenti colorati che vengono fissati sui tessuti attraverso una serie di lavaggi in lavatrice. Ne risultano dei jeans invecchiati, che tuttora sono venduti in America». Altre ditte tessili, magari meno conosciute, ma che operano alle spalle di altre importanti realtà, utilizzano procedure simili per dipingere in maniera naturale stoffe e pellami. Le grandi industrie poco rivelano delle proprie lavorazioni, sempre di segreti del mestiere si tratta in fondo, ma «ci sono brevetti sperimentati da aziende come la L’Oréal, i cui tecnici sono venuti qui a testare la compatibilità delle terre con la loro produzione» aggiunge, mostrando una corposa documentazione costituita da e-mail e analisi di laboratorio. «Dopo due anni di test, che hanno ottenuto risultati positivi, hanno selezionato alcuni pigmenti da utilizzare per creare prodotti cosmetici naturali». L’interesse c’è e l’intenzione dei fondatori della ditta Dolci «è, mercato permettendo, di mantenere una lavorazione che è una passione di famiglia. I costi di manutenzione dei macchinari sono elevati, ma le soddisfazioni (soprattutto dall’estero) ripagano di tanti sacrifici». È necessario «ricordare gli insegnamenti che vengono dal passato», conclude Dolci, «ma la nostra forza è stata quella di affiancare la tradizione a innovazione e ricerca. L’intenzione è, quindi di proseguire lungo la stessa strada».
Giugno 2010
LA STORIA DI AGSM AZIENDA GENERALE SERVIZI MUNICIPALIZZATI
L’ENERGIA CHE FA CRESCERE VERONA
«Il primo impianto realizzato da Agsm all’inizio del Novecento sfruttava l’energia del fiume Adige. Molta strada è stata percorsa da quel tempo lontano...»
Un futuro nel segno della continuità
Avv. Gian Paolo Sardos Albertini, Presidente di Agsm
Nel 2009 oltre il 10% dell’energia elettrica prodotta da Agsm é stata originata da fonti rinnovabili idroelettriche e eoliche. Questa percentuale è in continua crescita, grazie soprattutto alla realizzazione di nuovi impianti eolici e al potenziamento degli impianti idroelettrici esistenti. Il primo impianto realizzato da Agsm all’inizio del Novecento sfruttava l’energia del fiume Adige. Molta strada è stata percorsa da quel tempo lontano. Se, infatti, il Canale Camuzzoni rappresentò l’opera pubblica che segnò l’inizio dell’era industriale per lo sviluppo sociale ed economico di Verona, oggi le energie rinnovabili, la razionalizzazione e il potenziamento degli impianti idroelettrici, la ricerca fotovoltaica, i parchi eolici, il teleriscaldamento e le biomasse costituiscono quella che in molti definiscono ormai la “nuova frontiera” per l’approvvigionamento energetico senza minacciare un equilibrio ambientale sempre più compromesso. In questa pubblicazione viene ripercorsa l’intensa attività di Agsm nel Novecento. Le prospettive per il futuro sono straordinarie. Perché il primo secolo del terzo Millennio assisterà alla quarta rivoluzione industriale dopo la meccanizzazione del primo Ottocento, l’elettrificazione del primo Novecento e l’informatizzazione iniziata nella seconda metà del Novecento ed oggi diffusa in ogni pertugio di vita quotidiana. Il quarto passo sarà rappresentato dalla rivoluzione della produzione energetica. Con il lusinghiero obiettivo di produrre energia in modo naturale, cioè con il sole e il vento. Esattamente come fecero i tecnici di Agsm alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento sfruttando l’elemento naturale per eccellenza, l’acqua, e trasformandola prima in energia idraulica e poi in energia idroelettrica. Ma se allora la sfida era per alimentare il primo volano produttivo su scala industriale, oggi l’impegno è volto a ridurre progressivamente la dipendenza da fonti fossili, spezzare la catena che ci lega al petrolio per far muovere le attività industriali del nostro pianeta. Dal punto di vista energetico l’Italia è in posizione molto vulnerabile. Il nostro Paese dipende nella misura del 90% dall’energia prodotta all’estero e importata in Italia. Se oggi la produzione energetica fotovoltaica può costare fino a cinque volte di più di quanto costi produrre analoghi volumi energetici da fonti fossili, è auspicabile che massicci investimenti in questo comparto potranno generare una spirale virtuosa che stimolerà altri investimenti, concorrenza, innovazione e dunque progresso e rispetto ambientale.
Avv. Gian Paolo Sardos Albertini Presidente Agsm Verona Spa
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LA STORIA DI AGSM L’energia che fa crescere Verona
In basso: l’energia pulita prodotta dallo stadio Bentegodi, grazie al tetto fotovoltaico di Agsm (potenza complessiva pari a 996 Kilowatt), permette di evitare le emissioni nell’atmosfera di 550 tonnellate di anidride carbonica l’anno. L’intervento – iniziato nell’estate 2009 e concluso alla fine dello stesso anno – ha interessato una superficie di quasi 20 mila metri quadrati, sulla quale sono stati installati 13.328 moduli. I costi di realizzazione – circa 4 milioni di euro – saranno ammortizzati in vent’anni grazie al meccanismo della messa in rete dell’energia, per un volume pari a 935 mila Kilowattora annui. La resa energetica dei pannelli potrà essere visualizzata dai cittadini grazie a un contatore posto all’esterno dello stadio.
L’ENERGIA CHE FA CRESCERE VERONA
Claude Raffestin ci insegna che lo spazio è preesistente ad ogni azione, è una materia prima, è il luogo dei “possibili”. Il territorio invece è generato, è il prodotto di un attore, richiede e testimonia l’intermediazione dell’uomo, è il risultato di un’appropriazione, è la sede delle relazioni. Lo spazio è la prigione originale mentre il territorio è la prigione che gli uomini si danno, ma è anche lo spiraglio, ampio e stimolante, in cui svolgiamo la nostra missione di uomini. Possiamo leggere in questa prospettiva la storia dell’Azienda Generale dei Servizi Municipalizzati (Agsm) in relazione a quella della città di Verona, della sua industrializzazione.
VERONA, ULTIMI DECENNI DELL’OTTOCENTO In apertura del suo L’industria italiana dall’Ottocento ad oggi Valerio Castronovo descrive la situazione economica post-unitaria dell’Italia: una nazione relativamente arretrata e inserita in un mercato internazionale in cui dominavano già forti sistemi industriali egemonici, un sottosuolo povero, un tessuto economico essenzialmente agricolo. A tutto questo si aggiunge, per la città di Verona, la terribile piena dell’Adige del 17 settembre 1882. La provincia dipende – nelle cifre e nello spirito – dal mondo agricolo, come indicano alcuni dati statistici che si riferiscono al 1881 e riportati nella Monografia statistico economica amministrativa del Sormani Moretti: gli addetti all’agricoltura sono 69.198 maschi e 22.980 femmine (i numeri indicano la popolazione dai 9 anni in poi). L’autore evidenzia inoltre che “sapere e operosità, prendendo il posto della neghittosità e dell’ignoranza, hanno da vinceVERONA
re le cieche consuetudini”. Lo dimostra il numero degli analfabeti che, nel censimento del 1871, per quanto riguarda Verona e provincia sono 104.069 maschi e 126.843 femmine, su un totale di 394.868 abitanti. La sfida è grande e altre città sono in competizione: si tratta di pensare il futuro, di agire responsabilmente e di immaginare quali stimoli ed energie possano essere messi in moto per superare un periodo difficile, con orizzonti angusti e deleteri, dove a soffrire sono soprattutto gli strati più deboli della popolazione. È così che a Verona vediamo affacciarsi alla fine dell’Ottocento una borghesia, come afferma Maurizio Zangarini, colta e prudente, che cerca un equilibrio tra i rischi della modernità e le sicurezze della proprietà fondiaria. Cresce una classe intellettuale in grado di concepire infrastrutture innovative e si forma una massa di manodopera, di bracciantato, che chiede di lavorare per sfuggire allo spettro della fame e al dramma dell’emigrazione che – sono sempre dati del Sormani Moretti – nel 1888 raggiunge le 10.184 partenze definitive. Il 1887 è una data importante per Verona, perché in quell’anno viene inaugurato il canale industriale che porta il nome di Giulio Camuzzoni, sindaco della città dal 1867 al 1883. Di lui e dell’ingegner Enrico Carli, a cui fu affidata la costruzione dell’opera, gli annali hanno conservato memoria. Dobbiamo invece essere grati al Lotze, al Bressanini e ad altri fotografi per aver immortalato, assieme al crescere delle strutture, anche chi quelle opere le costruì: gli operai e gli scariolanti che vediamo a Chievo, in posa, immobili, sull’impalcatura più alta, protagonisti assieme ai tecnici e ai borghesi. Si tratta di sinergie, che sicuramente hanno avuto momenti di tensione e contraddizioni, ma che hanno consentito di guidare una città fuori dalle sabbie mobili del conservatorismo e qualche volta dell’inedia.
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LA STORIA DI AGSM
In questa pagina: la diga del Chievo alimenta il canale Camuzzoni e la centrale idroelettrica di Tombetta. Proprio nella conca di navigazione della diga, sede storica del Consorzio Camuzzoni, Agsm ha recentemente realizzato un nuovo impianto il cui scopo è valorizzare la cospicua portata dell’Adige rilasciata a valle per produrre energia idroelettrica. Nella pagina accanto: La centrale idroelettrica di Tombetta è stata dotata, nel tempo, di nuove tecnologie. L’intervento più importante ha riguardato il posizionamento, in verticale rispetto all’acqua, degli assi delle turbine: una scelta che ha permesso di aumentare significativamente la produzione elettrica. La centrale sviluppa una potenza complessiva di 12 Megawatt.
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L’ENERGIA CHE FA CRESCERE VERONA
Agsm viene ufficialmente istituita con delibera consigliare del 24 ottobre 1931. Sono gli anni della grande depressione dopo il venerdì nero di Wall Street e che ha, in poco tempo, attraversato l’oceano e investito le economie di tutti i paesi industrializzati
Le industrie di Basso Acquar – a cui il nuovo canale fornirà energia idroelettrica – nasceranno per scelta strategica in un luogo apparentemente privo di risorse, mentre la vicina Montorio (definita la Manchester d’Italia), che deteneva una vocazione industriale, sorgeva nel sito di scaturigine delle acque. L’area a Sud della città presentava però anche dei vantaggi, come la disponibilità di abbondante manodopera, la vicinanza della ferrovia e spazi adeguati. Forse l’iconografia delle città padane incastellate entro mura possenti offertaci dalla carta di Giovanni Pisato (1440) è, con questa scelta, definitivamente superata. Ridisegnare lo sviluppo di Verona fu una scelta complessa ma necessaria. Gli Austriaci avevano lasciato una città la cui economia ruotava attorno alle guarnigioni militari, creando con la loro partenza una miriade di disoccupati. Ci volle poi del tempo per liberarsi dalle servitù militari, per espropriare i terreni agricoli e forse anche per cambiare mentalità. Se il canale industriale sfondava le mura anguste di una prigione – giusto per riprendere l’efficace immagine di Raffestin – certo apriva ad altre schiavitù, da individuarsi sul piano estetico, metaforico o relativo alla percezione dei luoghi. È ciò che fa scrivere a Michela Morgante che c’è stato di sicuro un impat-
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to critico del nuovo assetto “sul tessuto sociale preesistente e su una risorsa costitutiva del paesaggio urbano, con profondi risvolti per la definizione di una identità locale”, perché è chiaro che a Verona “le acque rivestono fortemente una valenza simbolica”. In questo quadro nasce l’Officina elettrica, municipalizzata nel 1898 e gestita dall’Azienda Elettrica Comunale (Aec). Nel 1923, per aumentare l’immissione di acqua nel canale, viene costruita la diga di Chievo. Nel 1927 viene portata a termine la centrale di Tombetta I, dove l’acqua del Camuzzoni confluisce producendo energia elettrica. Nel 1957, come risposta alla crescente domanda di energia, viene costruita la centrale di Maso Corona (Ala-Tn). Il canale Camuzzoni e la centra-
le di Tombetta (come più tardi le ciminiere della cogenerazione, il termovalorizzatore o, proiettandoci in un futuro che incalza, le pale eoliche e i pannelli fotovoltaici) marchiano per sempre il territorio. Questi manufatti hanno però la stessa dignità di un castelliere preistorico o dell’ala dell’Arena, perché documentano una dimensione inestinguibile dell’homo faber: quella dell’inventare e del costruire. È ancora Raffestin che ci avverte come si debba accettare l’incessante fatica di Sisifo di reinventare continuamente il nostro territorio, perché “immaginare una rappresentazione stabile è immaginare l’immobilità, dunque la morte”. Il clima in cui matura la nascita di Agsm lo spiegano P. P. Poggio e M. Zane in Storia delle aziende elettriche municipalizzate in Italia. Nel testo sono riportate le parole della Commissione reale per il credito comunale e provinciale in cui si nota come l’Amministrazione di Verona, in questo esordio di secolo, abbia dato “larga applicazione alla municipalizzazione dei pubblici servizi”, con diversi obiettivi, ma certamente con la coscienza di porre un freno “all’ingiusto e crescente aumento dei prezzi dei generi alimentari” e per impedire che “una ristretta categoria di lavoratori… possa danneggiare gli interessi dell’intera popolazione”. Il riferi-
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LA STORIA DI AGSM
L’Arena del 10 luglio 1906 scriveva: “L’Assemblea della Società dei Tram Elettrici di Bruxelles approvò il contratto con il Municipio per la trasformazione del tram a cavalli in tram elettrico e domani arriveranno da Bruxelles due consiglieri per la firma di detto contratto, il quale verrà poi sottoposto all’approvazione del Consiglio. A quanto ci consta i patti che si debbono stipulare sono favorevolissimi per il Comune il quale, oltre aver imposto la costruzione di due linee nuove, avrà una cointeressenza negli utili e la facoltà del riscatto dopo il decennio a condizioni stabilite assai vantaggiose. Delle due nuove linee, una partendo da Piazza Erbe attraverserebbe il ponte Umberto, costeggiando i muraglioni a sinistra proseguirebbe per le vie S. Stefano e S. Alessio fino a borgo Trento, l’altra da Castelvecchio arriverebbe fino a S. Zeno. I lavori cominceranno entro il più breve termine sotto la direzione del Presidente della Società Ing. Cav. Paolo Milani”.
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L’ENERGIA CHE FA CRESCERE VERONA
La città esce dalla seconda guerra mondiale gravata da profonde ferite: la centrale idroelettrica di Tombetta è completamente distrutta; l’impianto d’illuminazione e la rete idrica sono gravemente compromessi
mento è ad iniziative importantissime sotto il profilo sociale, come l’Azienda dei servizi o come la breve esperienza del Forno comunale. LA NASCITA DI AGSM Agsm viene ufficialmente istituita con delibera consigliare del 24 ottobre 1931. Sono gli anni della grande depressione dopo il venerdì nero di Wall Street e che ha, in poco tempo, attraversato l’oceano e investito le economie di tutti i paesi industrializzati. Non solo, ma a parte alcune rarissime eccezioni – in Italia la Fiat, l’Ilva, la Breda e la Cogne –, come osserva ancora Castronovo, “la razionalizzazione delle tecniche di gestione e di produzione si diffuse con molto ritardo e non compì sostanziali progressi”. Eppure, nonostante il contesto, le paure, le stanchezze e i ritardi, Verona trova la forza di reagire e anche l’istituzione di Agsm rientra in questo alveo. Sono gli anni del fascismo e ci stiamo avviando verso il secondo conflitto mondiale. Ma è proprio in questo periodo che iniziano i lavori dell’Ospedale di borgo Trento e vengono inaugurati i Magazzini Generali; in Basso Acquar prendono forma i capannoni delle Cartiere di Verona, in borgo Venezia apre il calzaturificio Cipriani, mentre a San Michele Extra vengono costruite le case per gli operai della Tiberghien. Attività, questa degli opifici, che risponde in parte alla forte disoccupazione, che non solo appesantiva l’economia ma costituiva un grave problema sociale. Una realtà in movimento costante di cui possiamo, a distanza di decenni, avvertire la dinamica leggendo la storia dell’industrializzazione veronese, ma anche scorrendo le pagine del libro fotografico dei fratelli Bassotto, Lo stato dei luoghi. Questa dinamica volta al futuro è presente anche nella neonata Agsm, attenta a garantire ai cit-
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tadini i servizi essenziali, alla quale viene affidata, oltre al fondamentale settore dell’energia elettrica, anche la gestione dell’acquedotto, la fabbrica del ghiaccio, la produzione e la distribuzione del gas, la tramvia. Attività che hanno già una loro storia. L’acquedotto richiama un elemento più che mai vitale: riporta all’idea delle sorgenti e ai miti che attorno ad esse sono sorti nei secoli. La fabbrica del ghiaccio riporta nella vecchia Lessinia, alle pozze di raccolta, alle giassare (“frigoriferi” naturali capaci di conservare il ghiaccio); ai carrettieri che, di notte, trasportano la preziosa materia in città. È inoltre affascinante immaginare le 5.840 fonti luminose alimentate a gas nella Verona del 1860. Come ricorda Danilo Castellarin in Cento anni insieme “Ogni notte appositi addetti dovevano provvedere alla loro accensione con un lungo bastone che terminava con uno stoppino”: quasi una pagina del Piccolo Principe riportata in Piazza delle Erbe, in Corso Santa Anastasia, a Castelvecchio. Altrettanto suggestivo è il racconto, pubblicato da L’Arena del 23-24 novembre 1914, dove il cronista, in attesa a borgo Trento del tramway VeronaAvesa, nel giorno della sua inaugurazione, si lascia andare allo sconforto e scrive: “Sono battute e ribattute le dieci e la carrozza inaugurale ancora non spunta”. Il cielo è “sporco di nuvole” e cade qualche goccia, poi finalmente qualcuno grida, tra l’entusiasmo generale: “L’è qua ch’el vien!”. Negli anni Trenta Agsm eredita queste realtà ampliandole, in modo tale da divenire protagonista della crescita della città e del suo territorio proprio negli anni in cui i governi, in seguito alla crisi del ’29, erano indotti “non solo a promuovere un intervento attivo ed efficace dello Stato… ma a sostituire talora l’iniziativa pubblica a quella privata”, come scrive Valerio Castronovo nell’enaudiana Storia d’I-
talia. Ma Verona più che assecondare questa svolta si muove già nel solco di una lungimirante tradizione di un intervento pubblico efficace e al servizio della comunità. E i risultati, nel caso di Agsm, si vedono. L’acquedotto si è trasformato in una struttura che oggi pompa annualmente 47 miliardi di litri d’acqua; nel 1939, entro le mura cittadine, la rete del gas contava 114 chilometri di tubature e serviva 13 mila utenze, mentre oggi questi numeri sono rispettivamente 1.000 e 128 mila; la prima linea tramviaria, inaugurata nel febbraio 1908, si è trasformata in 21 linee urbane feriali; l’illuminazione a gas voluta dal Municipio, e realizzata dai francesi della Società Lionese del Gas nel 1845, conta oggi 35 mila fonti luminose su 1.000 chilometri di strade. LO SVILUPPO DI AGSM NEL DOPOGUERRA La città esce dalla seconda guerra mondiale gravata da profonde ferite, che vanno dalla totale assenza di ponti sull’Adige, ai danni provocati dai bombardamenti a causa della collocazione strategica di Verona, centro nevralgico del dopo 8 settembre. La centrale idroelettrica di Tombetta, bombardata a più riprese, è completamente distrutta; l’impianto d’illuminazione e la rete idrica sono gravemente compromessi. La Biblioteca Capitolare è devastata e solo la preventiva e lungimirante opera di monsignor Giuseppe Turrini ha potuto salvare codici e volumi rari, trasportandoli altrove evitando perdite irreparabili; uguale sorte è toccata alla Biblioteca Civica, a numerose chiese, alla stazione di Porta Nuova. Il tessuto industriale è ridotto ai minimi termini e solo industrie come Galtarossa e Mondadori sono in grado di espandersi e di creare posti di lavoro. È proprio su questa disponibilità di manodopera a costi competitivi che punta la possibilità di una ripre-
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Dal 1952 al 1958 la richiesta di energia a Verona raddoppia, salendo a 10 milioni di Kilowattora. Per questi motivi a Raossi di Vallarsa (Rovereto), a 800 metri d’altezza, Agsm ha inaugurato nel 1958 la diga di Speccheri, alta 156 metri. In questo lago artificiale, la cui capienza è di oltre 10 milioni di metri cubi, vengono raccolte parte delle acque del fiume Leno, provenienti dal Pasubio e dalle Piccole Dolomiti del gruppo del Carega. L’acqua viene poi immessa in una galleria a pressione che collega la Vallarsa alla Vallagarina e da lì fatta scendere in una condotta forzata, con un salto di circa 650 metri, alla centrale idroelettrica di Maso Corona (Ala-Tn). L’acqua, la cui velocità raggiunge i 380 chilometri orari, muove una turbina idraulica a cui è accoppiato un generatore di potenza elettrica. Oggi, a seguito degli interventi di rifacimento conclusi alla fine del 2008, nella centrale sono presenti due gruppi idroelettrici da 20 mila Kilowatt, per un valore di potenza complessiva pari a 40 mila Kilowatt.
Nel periodo compreso fra il 1964 e il 1972, la domanda di energia a Verona tocca la vetta di 300 milioni di Kilowattora. A queste nuove esigenze Agsm ha risposto con la centrale termoelettrica di Ponti sul Mincio, vicino a Peschiera del Garda, completata nel 1966, potenziata nel 1983 e nel 2003 e attualmente caratterizzata da una potenza di 380 Megawatt con una producibilità di circa un miliardo e mezzo di Kilowattora in un anno per fornire energia a Verona (45%), Brescia (45%), Rovereto (5%) e Vicenza (5%). Da questo impianto le utenze Agsm ricavano il 60% del proprio fabbisogno energetico.
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Le scelte espansionistiche di Agsm procedono in totale armonia con lo sviluppo della città
sa. Né si può dimenticare che il Piano Marshall consente di rinnovare, talvolta in maniera quasi totale, gli impianti industriali. Di lì a poco – ma con il concorso di una miriade di fattori – sarà infatti boom economico anche a Verona, pur con tutte le cautele e i distinguo necessari, come la ripresa dell’emigrazione. Questi anni si possono definire straordinari. Azzerata la produzione di elettricità a causa dei bombardamenti Agsm, già nel 1948, mette a disposizione della crescente domanda di energia gli impianti di Tombetta. Accanto alla cura dei gioielli di casa, l’Azienda si rivolge anche alle comunità contermini e nascono collaborazioni fondamentali: a Nord con Ala e Rovereto e a Ovest con Brescia. Le cronologie riescono talvolta a dare l’idea di un’evoluzione meglio di tante parole, eccone una centrata sull’attività di Agsm: 1946 ripristino Tombetta I 1948 inaugurazione Tombetta II 1952 stipula della convenzione con l’Agip-Snam per la distribuzione del metano in città 1957 costruzione dell’impianto idroelettrico di Maso Corona di Ala con lo sbarramento di Speccheri in Vallarsa (Rovereto) 1966 costruzione dell’impianto idroelettrico di San Colombano, a Trambileno (Trento), in collaborazione con Rovereto. 1966: attivazione della centrale termoelettrica del Mincio, in collaborazione con Brescia Le scelte espansionistiche di Agsm procedono in totale armonia con lo sviluppo della città. Si guardi, solo per fare alcuni esempi, agli avvenimenti che seguono e la concomitanza delle date. Il 3 marzo 1946 si conclude la ricostruzione del Ponte della Pietra, che assume per Verona un valore simbolico. Il 10 marzo dello stesso anno ritorna l’appuntamento con la Fiera dell’Agricoltura. Nel 1948, nell’edizio-
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ne del Cinquantesimo, nasce il quartiere fieristico di borgo Roma nel cuore della nuova ZAI, che parte con la vocazione di trasformare i prodotti agricoli, ma che diventa ben presto fitto di attività artigianali e industriali. Nel 1960 la cerimonia di inaugurazione delle “Fiere de marso” (come vengono popolarmente chiamate) viene trasmessa in diretta dalla RAI. Nel frattempo in Italia (dal 1941 al 1971) la produzione di vino raddoppia, quella di agrumi quadruplica, quella di olio quintuplica. Tra il ’50 e il ’60 la Mondadori si trasferisce e si amplia a Est della città e proprio in quegli anni inizia la metanizzazione di Verona, come avviene nel resto d’Italia sotto la spinta di Enrico Mattei, presidente dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi). Gli anni Sessanta vedono la costruzione dello stadio e del policlinico di borgo Roma, lo sviluppo dell’Università, l’individuazione della Bassona e di altre zone a Sud-Ovest come future aree industriali. L’impegno di Agsm nella produzione di energia continua a marciare parallelo alla progressione industriale e tecnologica della città: le centrali di Maso Corona e di San Colombano ne sono la testimonianza. La prima, inaugurata nel 1958, trova la sua origine nella diga Speccheri, in Vallarsa (Rovereto). Si tratta di una “muraglia” alta 156 metri, larga alla base 16 metri, contenente 10 milioni di metri cubi d’acqua: è imponente e visibile da tutte le creste del Carega rivolte a Est, sulla Vallarsa e verso il Pasubio. “La popolazione approvò subito la costruzione della diga – racconta nonno Augusto, la cui testimonianza è raccolta in una ricerca scolastica recuperata tra le pagine di internet –. In quegli anni in valle c’era poco lavoro e le famiglie erano spesso costrette a emigrare per cercare un’occupazione”. Certo, tutto va storicizzato, anche la sensibilità dei valligiani nei confronti di un’opera di que-
ste proporzioni, ma le parole di nonno Augusto contengono un’indubbia filosofia di vita di cui non si può non tener conto. La seconda centrale, quella di San Colombano, prende il nome dall’omonimo sito eremitico, un luogo la cui suggestione è pari a quella dei più noti eremi medievali. Si trova nel comune di Trambileno (Trento) ed è stata costruita con quote paritarie assieme all’Asm di Rovereto. Quelle di Speccheri e di San Colombano sono due centrali che producono energia utilizzando la forza di gravità e l’acqua. Un sogno per gli ecologisti (ma c’è anche chi ha censito sbarramenti, prelievi e altro, mostrandone la voracità dannosa), un vantaggio per tutti. Diverso è il caso della centrale di Ponti sul Mincio – completata nel 1966, potenziata nel 1983 e nel 2003 – dalla quale Agsm ricava il 60% della produzione energetica complessiva. Anch’essa è il frutto di una collaborazione, questa volta con l’Asm di Brescia. Nel progetto le due aziende partecipano con quote paritarie. Ciò che distingue gli impianti trentini da quest’ultimo è l’energia utilizzata per produrre l’elettricità. Quella di Ponti sul Mincio è infatti una centrale termoelettrica, dunque per produrre energia deve bruciare qualcos’altro, olio combustibile o metano, e per questo ci sono elettrofiltri che riducono al minimo gli scarichi della combustione e i fumi sono costantemente controllati. L’obiettivo che le municipalizzate perseguono con determinazione in questo periodo di grande richiesta di energia è quello dell’autosufficienza. Ma proprio negli anni Sessanta all’orizzonte compare l’Enel (Ente Nazionale Energia Elettrica) che si oppone a questa politica. Si va verso un tentativo di “graduale marginalizzazione… del servizio elettrico municipalizzato” (P. P. Poggio e M. Zane nel già cita-
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L’impianto di teleriscaldamento di Forte Procolo, il primo costruito a Verona negli anni ’70. Successivamente venne trasformato in centrale di cogenerazione, ossia in un impianto capace di produrre simultaneamente energia elettrica e termica: parte dell’energia termica deriva dal calore recuperato nel processo di produzione di energia elettrica. Agsm si colloca al quarto posto in Italia (dopo Brescia, Torino e Reggio Emilia) per volumetria di edifici serviti da questo servizio, con un totale di circa 10 milioni di metri cubi riscaldati. Le attuali reti di teleriscaldamento sono alimentate da cinque centrali di cogenerazione la cui potenza complessiva è di 60 Megawatt, con una produzione contemporanea di energia di 300 Gigawattora elettrici l’anno. Le centrali si trovano in borgo Venezia, Centro Città, borgo Trento, Saval e Golosine. I quartieri in cui è disponibile il servizio di teleriscaldamento sono: borgo Venezia, borgo Trieste, Centro Città, borgo Trento, quartiere Pindemonte, Ponte Crencano, Saval, quartiere Navigatori, quartiere Ponte Catena e Golosine. Il teleriscaldamento a Verona permette una notevole riduzione dell’inquinamento atmosferico.
Nel depuratore Città di Verona, oggi gestito da Acque Veronesi, ogni giorno vengono trattati 90 mila metri cubi di reflui civili e industriali (provenienti dalle reti fognarie dei Comuni di Verona, Negrar, Grezzana e Buttapietra), con la produzione di oltre 50 tonnellate di fanghi, vale a dire il concentrato inquinante sottratto alle acque veronesi e al fiume Adige grazie al ciclo depurativo. La portata media giornaliera depurata è di 1.050 litri al secondo, pari a 90.500 metri cubi al giorno.
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Difficilmente i grandi movimenti possiedono una data di nascita, ma nel 1975, con il teleriscaldamento e la cogenerazione, è davvero possibile far iniziare un periodo che introduce nuove politiche, nelle quali il risparmio energetico e il rispetto ambientale diventano per Agsm denominatori comuni di tutte le iniziative industriali
to volume edito da Laterza). Braccio di ferro che tuttavia non espropria Agsm del patrimonio tecnico e dell’esperienza amministrativa accumulati in decenni di storia, né della possibilità di interagire ancora, e a lungo, con la città di cui è espressione. Si può sostenere che difficilmente i grandi movimenti possiedono una data di nascita, ma nel 1975, con il teleriscaldamento e la cogenerazione, è davvero possibile far iniziare un periodo che introduce nuove politiche, nelle quali il risparmio energetico e il rispetto ambientale diventano per Agsm denominatori comuni di tutte le iniziative industriali. L’IMPERATIVO AMBIENTALE Il periodo delle domeniche senza automobile è fissato indelebilmente nella memoria di chi nel 1973 era nell’età della ragione. Già a fine novembre gli intellettuali italiani si chiedevano se avremmo assistito alla morte del week-end, e con puntualità proverbiale la classe politica richiamava sulla necessità di un “serio ripensamento dello sviluppo economico” (Corriere della Sera, 26 novembre 1973). Ma è proprio a partire dalla crisi energetica di quegli anni che si rafforza un nuovo modo di guardare la produzione di energia e calore, anche per liberarsi, almeno in parte, dalla dipendenza dall’estero per quanto riguarda le forniture di petrolio. Una prima intuizione “verde” a Verona spetta proprio ad Agsm con gli impianti di cogenerazione e il teleriscaldamento: nella stessa centrale si producono sia energia elettrica, attraverso la combustione di metano, sia acqua calda da inviare negli appartamenti, negli uffici, negli ospedali cittadini di borgo Trento e borgo Roma. Nel numero di settembre-ottobre 1985, il periodico Verona oggi scrive: “Nel 1972 Agsm costruì la prima di queste centrali di teleriscaldamento nel quartiere di Forte Procolo, entrata in funzio-
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ne nel 1975. L’impianto, al quale sono già allacciati 1.900 appartamenti, ne potrà servire 2.500”. La centralizzazione del servizio manifesta immediatamente una serie di importanti vantaggi, tra cui la scomparsa di centinaia di caldaie e comignoli. Si prosegue costruendo gli impianti di cogenerazione di Saval (1975), di Golosine (1984), di Banchette in borgo Venezia (1987), di Centro Città in Basso Acquar (1988) e infine di borgo Trento (1994). La produzione centralizzata di energia e calore permette il risparmio annuo di quasi 20 mila tonnellate di petrolio, preservando l’ambiente dalle emissioni relative alla loro combustione. Nel 1978 iniziano i lavori per la costruzione del depuratore Città di Verona, in Basso Acquar. È un sistema complesso gestito da Agsm fino al primo marzo 2007 e poi passato ad Acque Veronesi Scarl. L’impianto occupa una superficie di circa 110 mila metri quadrati e tratta i reflui civili e industriali che confluiscono nella rete fognaria dei Comuni di Verona, Negrar, Grezzana e Buttapietra. Vi sono stazioni di sollevamento e unità dissabbiatrici, decantazioni e ossidazioni, sedimentazioni e stabilizzazioni, disidratazione meccanica e digestione anaerobica. L’idea è semplice: “Affidare a milioni di minuscoli animaletti il compito di inghiottire tutti gli agenti inquinanti biodegradabili” (Agsm notizie, 1989). Agsm, in seguito a decisioni politiche dell’epoca, dalla fine degli anni Novanta gestisce anche il termovalorizzatore di Ca’ del Bue, progettato per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani. L’esigenza di proseguire la ricerca nel settore delle energie rinnovabili diventa per la municipalizzata veronese un imperativo categorico. Nasce così nel 1984 il Progetto Zambelli, un impianto che utilizza l’energia solare per fornire l’energia necessaria a sollevare l’acqua da contrada Zambelli, appena a Nord di Cer-
ro, al Comune di Bosco Chiesanuova. Negli anni successivi (1988 e 1989) Agsm costruisce altri due impianti fotovoltaici ad alta quota: uno presso il rifugio Biasi al Bicchiere, vicino a Vipiteno, a 3.200 metri slm; l’altro al rifugio Val Martello, a 2.610 slm, nel Parco nazionale dello Stelvio. Infine, insieme all’utilizzo del sole, il rispetto per l’ambiente trova nel vento un altro importante alleato. L’ATTUALITÀ L’ultima parte di questa sintetica storia di Agsm riguarda l’attualità. Ci facciamo guidare in questo percorso dalla sintesi che conclude il volume Agsm: l’energia a Verona. “Quale ruolo per il futuro” è l’eloquente titolo dell’ultima parte. Il capitolo contiene quattro interventi: uno a firma di Roberto Redivo, “Il nuovo impianto di Chievo”; gli altri tre sono redazionali e recitano: “Il ruolo delle rinnovabili”, “Agsm per la natura”, “I sevizi Agsm fra innovazione e tecnologia”. Sono i temi del terzo millennio. Costituiscono delle frontiere. Leggiamo a pagina 249 del libro che l’attuale fase di industrializzazione sarà rappresentata dalla rivoluzione della produzione energetica, con l’obiettivo di ottenere energia in modo naturale, cioè con il sole e il vento. Esattamente come fecero i tecnici di Agsm alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento: sfruttando l’elemento naturale per eccellenza, l’acqua, trasformandola prima in energia idraulica e poi in energia idroelettrica. Uno stupendo elemento di continuità, dunque, ma anche un’impegnativa cornice entro la quale inserire i prossimi decenni. Nel 2009 oltre il 10% dell’energia elettrica prodotta da Agsm è stata originata da fonti rinnovabili idroelettriche e eoliche. Questa percentuale è in continua crescita, grazie soprattutto alla realizzazione dei parchi eolici e al potenziamento degli impianti idroelettrici esistenti. Na-
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Sopra: impianti fotovoltaici del Rifugio Biasi al Bicchiere, impianto di ridotta potenza installata (circa 2 Kilowatt). A destra: impianto fotovoltaico della Val Martello, impianto di ridotta potenza installata (circa 2 Kilowatt).
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In alto: nel 1984, vicino a Cerro Veronese, Agsm ha inaugurato la centrale fotovoltaica di Zambelli, una delle prime in Europa in grado di sfruttare la luce del sole per produrre energia. L’impianto è stato rinnovato nel dicembre del 2009 e portato a livelli di assoluta avanguardia: sono state installate nuove strutture metalliche costituite da 756 profili, sono stati montati 992 pannelli completati da quadri di campo ed inverter, è stata realizzata una nuova connessione alla rete elettrica. Migliorie che hanno permesso alla centrale di passare dalla produzionedi 70 a quella di 178 Kilowatt picco. Dopo lo Stadio Bentegodi, anche sui tetti del Consorzio Zai è stato realizzato un impianto fotovoltaico da 3,5 Megawatt. L’intervento interessa 11 tetti industriali per una superficie complessiva di 71.440 metri quadrati. L’installazione dei pannelli fotovoltaici consente ad Agsm di produrre energia pulita per circa 3.700.000 Kilowattora l’anno: quantitativo sufficiente a coprire il fabbisogno di 1.500 famiglie e in grado di evitare l’emissione in atmosfera di 1.860 tonnellate l’anno di anidride carbonica.
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In alto: il parco eolico di Monte Vitalba, in Toscana. Ultimato nel dicembre del 2006 è costituito da 7 aerogeneratori da 850 Kilowatt ciascuno, con una potenza complessiva di 5,95 Megawatt e una produzione di circa 14 milioni di Kilowattora l’anno (pari al consumo di circa 5 mila famiglie). In basso: a Casoni di Romagna, sull’Appennino emiliano, Agsm Verona ha inaugurato nel 2009 l’impianto eolico più grande del Nord Italia. La presenza di 16 aerogeneratori della potenza di 800 Kilowatt ciascuno, collocati nei Comuni di Monteterenzio e di Castel del Rio, permette di produrre 25 milioni di Kilowattora l’anno (pari al fabbisogno energetico di 8 mila famiglie).
sce così l’impianto eolico di Casoni di Romagna, sull’Appennino emiliano, in provincia di Bologna. Progettato e realizzato interamente da Agsm, è in funzione dal gennaio del 2009 ed è costituito da 16 aerogeneratori da 800 Kilowatt ciascuno, per una potenza complessiva di circa 13 Megawatt. Nel 2006 entra in funzione il parco eolico di Monte Vitalba, in provincia di Pisa, con i suoi 7 aerogeneratori di potenza unitaria pari a 850 Kilowatt, per complessivi 5,95 Megawatt, in comproprietà tra Agsm e la società danese European Wind Farm. Anche questa è una continuità: non ci siamo infatti dimenticati le sinergie che hanno caratterizzato la politica di Agsm nella seconda metà del XX secolo con Brescia e con il Trentino. Sempre nel settore eolico Agsm ha l’esclusiva nella progettazione, costruzione e nell’esercizio dell’impianto nel Comune di Rivoli Veronese, che una volta terminato sarà costituito da 4 aerogeneratori alti 80 metri, da 2 Megawatt ciascuno, per una potenza nominale complessiva di 8 Megawatt: produrrà circa 18 milioni di Kilowattora l’anno, pari al fabbisogno di 20 mila persone, circa dieci volte il consumo residenziale del Comune di Rivoli. Recentemente sia lo stadio Bentegodi, sia i tetti del Consorzio ZAI, sono stati ricoperti con pannelli fotovoltaici. Per quanto
riguarda lo stadio, da un lato sono stupefacenti i tempi di realizzazione – sei mesi nel corso della seconda metà del 2009 –, dall’altro è affascinante la valutazione complessiva dell’opera, che ha permesso di iscrivere la centrale fotovoltaica del Bentegodi fra i più rilevanti impianti fotovoltaici d’Italia e tra i più importanti realizzati su strutture sportive in Europa. Altri spunti sono forniti dal numero 61 di Verona pubblica, dove si apprende che l’assessorato all’Ecologia e all’Ambiente del Comune di Verona ha incaricato Agsm di effettuare una serie di studi di fattibilità per la realizzazione di impianti fotovoltaici sugli edifici delle aziende a partecipazione comunale della città. Se si considera che i metri quadrati di tetti disponibili sono ben 55 mila, possiamo affermare che l’autosufficienza energetica di queste strutture, comprese le scuole, sta per diventare una realtà. L’evoluzione tecnologica, le nuove scoperte che accompagnano il cammino umano vengono usate per sfruttare al meglio le risorse ambientali e le
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strutture per la produzione energetica. Tra la fine del 2008 e il 2009 l’impianto Zambelli, pioniere a Verona nell’utilizzo del sole per produrre energia, è oggetto di una sostanziale rivisitazione con la posa di nuovi pannelli fotovoltaici che consentono, a parità di superficie occupata, un incremento della potenza installata da 70 a 178 Kilowatt. La consapevolezza ambientale si unisce alla tecnologia e il motto “meno sprechi, più energia”, utile per il comune cittadino, diventa imperativo per un produttore che abbia l’ambizione di stare al passo con i tempi. È con questa filosofia che vengono realizzati interventi in numerose altre strutture: a Maso Corona si sostituiscono tutti i gruppi turbina-alternatore e grazie a questa ottimizzazione oggi si producono mediamente oltre 50 milioni di Kilowattora l’anno; l’upgrade della storica centrale idroelettrica di Tombetta permette di aumentare significativamente la produzione di energia a parità di impatto ambientale e flusso idrico utilizzato. Alla diga del Chievo viene realizzato nel 2009 un nuovo impianto (1,45 Megawatt
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Agsm Distribuzione provvede al trasporto di oltre 290 milioni di metri cubi di gas che servono più di 128 mila clienti tra industrie, condomini, abitazioni e impianti di teleriscaldamento
di potenza installata con una producibilità di oltre 10 milioni di Kilowattora annui) con lo scopo di valorizzare sempre più l’imponente massa d’acqua che viene rilasciata a valle della diga. Oggi la fornitura di metano alla città avviene attraverso più di 1.000 chilometri di condotte. Il gas viene fornito da Snam (Società Nazionale Aziende Metano) grazie a lunghi gasdotti che importano il metano dall’Olanda, dalla Russia e dall’Algeria. Agsm Distribuzione provvede al trasporto di oltre 290 milioni di metri cubi di gas che servono più di 128 mila clienti tra industrie, condomini, abitazioni e impianti di teleriscaldamento. Dopo la liberalizzazione del mercato, alla società Agsm Distribuzione compete la responsabilità dell’erogazione del metano, mentre Agsm Energia ha un ruolo commerciale che va dall’acquisto della materia prima alla successiva vendita al cliente. Agsm oggi gestisce oltre 35 mila fonti luminose distribuite su più di mille chilometri di strade. L’88% dei punti luminosi è costituito da lampade ai vapori di sodio ad alta pressione che assicurano una maggiore durata, un minor consumo e un’ottima efficienza. Grazie all’illuminazione di centri, strade e piazze, Agsm migliora la qualità della vita e rende più sicuro l’ambiente urbano, oltre a valorizzare il patrimonio artistico e architettonico di Verona. Nel settore delle telecomunicazioni, dal 2000 l’Azienda gestisce 200 chilometri di fibre ottiche che assicurano cablaggio, servizi ad alta velocità e di e-governement alla città e ai comuni limitrofi. Infine, nel settore della Cartografia, Agsm cura la gestione e l’elaborazione elettronica della cartografia numerica, dei dati e delle mappe dell’area veronese e delle proprie reti. Accanto agli impianti, visibili e concreti, si svolgono quotidia-
namente attività meno note, a “bassa visibilità”, si potrebbe dire. È il caso delle certificazioni di qualità, qualcosa che assomiglia a un “diploma” rilasciato dall’autorità europea a riconoscimento dell’efficacia delle più diverse procedure produttive aziendali. In questo settore Agsm ha ottenuto le certificazioni del sistema qualità secondo gli standard internazionali conseguendo inoltre la certificazione ambientale ISO 14.001, per i propri siti produttivi di cogenerazione. Non sappiamo se attorno allo srotolarsi dell’attualità sia possibile formulare una sintesi di ciò che sta accadendo, se, come scrive Jesse Ausbel – uno dei principali organizzatori della I Conferenza mondiale sul clima (Ginevra 1979) –, l’età del metano sia semplicemente l’annuncio dell’età dell’idrogeno. È certo però che benefici e rischi si mescolano senza posa, che esiste uno spazio prezioso per il confronto instancabile e per l’impegno massiccio e che, per ora, non ci sono segni sicuri che l’uomo abbia rinunciato a porsi questioni attorno a se stesso e al suo mondo. In tutto questo Agsm si muove assecondando, da più di 100 anni (la prima Officina elettrica comunale, costola d’Adamo dell’odierna Agsm, venne infatti costituita nel 1898) le necessità energetiche e strategiche della città. In fondo se oggi Verona, crocevia del Nord Italia, è tra le città più ricche dell’Europa lo deve anche a mirabili intuizioni di politici cittadini che nel passato hanno saputo operare, anche attraverso Agsm, scelte i cui frutti sono radicati nella storia delle nostra gente e dei nostri luoghi.
Aldo Ridolfi, autore di questa ricerca, è nato e vive a Tregnago. Laureatosi in pedagogia, ha esercitato la professione di insegnante effettuando con i suoi alunni numerose ricerche di carattere storico-geografico sul proprio territorio. Ha prodotto diversi studi storico-geografici, tutti pubblicati su riviste locali (“Cimbri/Tzimbar”, “La Lessinia Ieri oggi domani” e “Verona In”); ha collaborato alla realizzazione di film e documentari, sempre di carattere locale; è stato responsabile della Redazione della rivista “Cimbri/Tzimbar” dal 2003 al 2008; ha collaborato a vario titolo alla realizzazione di libri (es. “L’itinerario di Marin Sanuto nella terraferma veneta del 1483”, a cura di Luisa Bellini, Roberto Bruni, Cleup 2008); suoi racconti sono presenti su diverse antologie di premi letterari. Ha viaggiato in Europa con borse e bici ed ha dato alle stampe “Ciclisti in Lessinia” (La Grafica Vago di Lavagno, 2006). Bibliografia AA.VV, Agsm: l’energia a Verona, Consorzio Canale Industriale Giulio Camuzzoni, s.d. Bassotto E., Bassotto R., Lo stato dei luoghi, Cierre 2008. Bolchini P., Balzani R., Storia delle aziende elettriche municipalizzate, Laterza 1999. Brugnoli G., La città e la fiera, in AA.VV., 90 anni di fiere a Verona. Storia e prospettive dell’agricoltura, Ente autonomo Fiere di Verona 1988. Castellarin D., Chiaroscuro, Cierre editore, 2000. Castronovo V., La storia economica, in Romano R., Vivanti C., a cura di, Storia d’Italia Einaudi, Einaudi, Vol. 4 t. 1, Einaudi 1985. Castronovo V., L’industria italiana dall’Ottocento ad oggi, Mondadori, 1980. Chiese V., Agostini P., Una banca una città la sua gente. 140 anni di storia della Banca Popolare di Verona (1867-2007), Banca Popolare di Verona 2007. Fontana L. A., a cura di, Immagini di archeologia industriale nel territorio di Verona, Vicenza, Rovigo, Bertoncello Art. 1992. Morgante M., Il canale e la città. Il Consorzio Camuzzoni nel primo Novecento, Cierre 2006. Raffestin Claude, Per una geografia del potere, Unicopli 1981. Sormani Moretti, La provincia di Verona. Monografia statistico economica amministrativa, Olschky 1904. Verona oggi, settembre-ottobre 1985. AGSM notizie, n° 1, gennaio-aprile 1989. Ringraziamenti Grazie a Danilo Castellarin, capo ufficio stampa di Agsm, per la collaborazione nel recupero delle fonti. Grazie a Serena Marchi per la ricerca iconografica. Grazie a Marco Burato, Consigliere di amministrazione di Agsm, per aver ispirato l’iniziativa. Realizzazione Studio Editoriale Giorgio Montolli (Verona). Speciale pubblicitario.
RIFLESSIONI
Quando la comunicazione diventa ambiguità ed equivoco di Rino A. Breoni*
La verità non ha bisogno di false difese, perché si impone da sola e non va neppure scambiata con la sincerità. Essere sinceri non vuol dire essere veri, condizione che si raggiunge con una fatica crescente, ma deve essere chiaro che tale fatica suppone la sincerità
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Negli anni andati, si attribuiva ad un prete anziano, il cui profilo umano stava tra il santo e l’ingenuo, un’espressione reattiva da lui usata durante il ministero della confessione. Si diceva che ascoltasse, in silenzio attento, anche l’accusa di pesanti inadempienze e violazioni della legge di Dio e della dimensione morale e che reagisse solo quando udiva il penitente accusarsi d’aver detto qualche bugia. Allora scattava e diceva: «Adagio. Qui le cose si complicano». Forse era l’attribuzione fantasiosa di una battuta ad un sacerdote per sottolinearne la bonomia o l’ingenuità, ma egualmente quella battuta lascia ancora oggi pensierosi. “Le cose si complicano...” proprio a motivo di una generalizzata banalizzazione di comportamenti, di locuzioni, di complicità che negano la realtà dei fatti, la interpretano riduttivamente. La bugia è un capitolo assolutamente trascurato nella definizione delle relazioni interpersonali: si mente sapendo di mentire, bugia rimane bugia. Quando, nel mio lavoro di insegnante di religione, affronto l’ottavo dei comandamenti sinaitici “non dire falsa testimonianza” e chiedo quali siano le ragioni della discutibilità morale della bugia, la risposta è sempre identica: essa danneggia la relazione interpersonale. Solo una volta, da un liceale di raro spessore intellettuale, ho sentito sottolineare che la più vera discutibilità e immoralità della bugia va ricondotta alla sua origine: nella persona che la pronuncia, essa è la palese negazione di ciò che la persona stessa conosce essere la realtà. La contraddizione va posta nel rapporto fra ciò che l’uomo sa e pensa e quanto invece afferma con le parole. Dire bugie, mancare di sincerità, significa accettare pacificamente che si crei, nella nostra interiorità, una contraddizione: quanto si pensa, quanto si conosce della realtà, viene negato dalle parole. La parola, che è strumento di comunicazione, di reciprocità, diventa inganno, negazione, ambiguità ed equivoco. Devo confessare un antico disagio nel sen-
tire parlare di bugie giocose, di restrizioni mentali. Era una teologia morale casistica e scarsamente convincente, capace di condurre (attraverso uno slalom spirituale) a cavarsi d’impaccio, alla rinuncia delle proprie responsabilità pur di non dire la semplice, disarmante verità. C’è un’espressione evangelica che merita di essere ricordata, riferita da Matteo nel “discorso della montagna”, espressione che può essere accolta anche da una coscienza laica: “Sia il vostro linguaggio, sì quando è sì e no quando è no” (Mt. 5,37). Apodittica nella sua formulazione, ma altrettanto difficile nel farla propria e attuarla. È una provocazione da ricondurre ad armonia, quanto nella persona che mente si rivela disarmonico e contraddittorio, ma è anche un invito a restituire limpidezza, sincerità e chiarezza alle relazioni interpersonali. Dire sì quando è sì, e non quando è no, può significare l’ammissione di qualche propria scelta discutibile, facendo credito di intelligenza e comprensione al proprio interlocutore. La verità non ha bisogno di false difese, perché si impone da sola e non va neppure scambiata con la sincerità. Essere sinceri non vuol dire essere veri, condizione che si raggiunge con una fatica crescente, ma deve essere chiaro che tale fatica suppone la sincerità. Dire sì quando è sì, e non quando è no, può creare imbarazzo perché una falsa concezione della prudenza suggerisce la piccola bugia per trarsi d’impaccio. Ma la prudenza non è la piccola bugia, non è il silenzio ammiccante e ambiguo che delude e genera sospetti. La “prudenza”, nel suo significato più vero, è la capacità di scegliere gli strumenti più idonei e adatti per raggiungere un fine. Se il fine è la qualità della relazione interpersonale. La circolazione di fiducia, la tolleranza, la benevolenza, lo strumento più idoneo potrebbe essere l’indicazione evangelica, l’ammissione della propria fragilità o un silenzio dignitoso. Già, dimenticavo che il testo evangelico conclude “...perché il di più, viene dal maligno”. Comunque lo si voglia intendere. * Rettore di San Lorenzo in Verona
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FRAGILITÀ DEL NOSTRO TEMPO
La vulnerabilità della tecnoscienza che semina sofferenza e spaesamento di Corinna Albolino Tutto è cominciato con la morte di Dio, annunciata da Nietzsche, uno dei più grandi filosofi del ’900. Il passo risale al 1881. Risentiamolo. Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “Si è forse perduto?”disse uno. “Si è smarrito come un bambino?” fece un altro [...]. “Si è imbarcato? È emigrato?”gridavano e ridevano in una grande confusione. L’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio?”, gridò. “Ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso, voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!”. La sentenza suona inaudita, dice che Dio è morto! In modo incalzante seguono immagini, metafore forti. Esprimono tutta la disperazione che questa azione, di cui non ne esiste una più blasfema, comporta nell’uomo, colpevole di questa empietà. La descrizione si concentra poi sul sommovimento, spaesamento, che il vuoto di Dio lascia sulla terra. “Un eterno precipitare” del tutto, privato della sua luce. Si racconta ancora che di fronte allo stupore generale l’uomo folle abbia esclamato: “Vengo ancora troppo presto[...] non è ancora il mio tempo. Questo enorme evento è ancora per strada [...]. Fulmine e tuono vogliono tempo, la luce delle stelle vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano viste e ascoltate”. L’espressione nietzscheana “Dio è morto” diretta al nostro Dio cristiano, va correttamente intesa. Qui non è in discussione il dato di fede e cioè l’esistenza o meno di Dio, ma ciò che questa idea ha rappresentato per la nostra tradizione. Pensata fino in fondo, essa infatti ha designato quell’apparato di valori metafisici, supremi che costituendo il fine della vita terrena, hanno declinato ab initio la nostra esistenza. Eternità, assolutezza, immutabilità, verità, sono questi i valori che gradualmente perdono
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“L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione [...]”. Emanuele Severino, Essenza del nichilismo, 1982 di consistenza. Tale evanescenza va sotto il nome di nichilismo. Quando Nietzsche dice: “Siamo noi i suoi assassini”, intende dire che causa di tutto ciò è l’uomo nel progressivo affermarsi della modernità, caratterizzata da un mondo diventato adulto attraverso l’ausilio della scienza e la forza della tecnica. Le nuove prospettive scientifiche
hanno poi fatto sì che l’uomo, non avendo più bisogno della credenza in un Dio per la sua sopravvivenza, si emancipasse da lui. È in questi termini che il filosofo consegna all’“uomo nuovo” la terra, in nome di una trasvalutazione di tutti i valori, pensata all’insegna di una esaltazione della vita, della finitezza. Ma è accaduto che pure quella scienza, quella tecnica a cui ci siamo affidati perché ci hanno illuso di garantirci qui e ora, su questa terra, la verità e salvezza, abbiano mancato le promesse. Anche queste imponenti torri, erette, come il Dio cristiano, per dare un senso all’esistenza, stanno rivelando, afferma il filosofo Emanuele Severino, i loro “piedi di argilla”. Così è, se basta oggi il risveglio di un piccolo vulcano islandese, un vulcano da niente, a fermare il mondo. A paralizzare a terra migliaia di velivoli, a produrre la confusione in tutte le economie dei Paesi, a scompaginare tutti i sofisticati strumenti di previsione e d’intervento. La vulnerabilità della tecnoscienza semina sofferenza, spaesamento. L’insensatezza appare di fronte alla sua incapacità di bloccare i suoi clamorosi disastri, quando ad esempio la ricaduta della catastrofe è sull’ecosistema, come nel caso dell’“onda nera” che ha travolto il Golfo del Messico. Viviamo una vita “liquida”, come dice il sociologo Bauman, una vita precaria, in condizioni di continua incertezza. Dove la sopravvivenza della società dipende dalla rapidità dei consumi e dall’efficienza della rimozione dei rifiuti. E dove fondamentale è rimanere a galla, al passo del vorticoso cambiamento, per non ritrovarsi anche noi tra le scorie da smaltire. Abitatori di un tempo in cui quanto preannunciato dall’uomo folle di Nietzsche sembra essere arrivato a compimento, non vigono più comandamenti, imperativi che regolino le nostre azioni. Anche il bene ha perso le sue antiche connotazioni scambiandosi con l’utile, il vantaggioso. Che fare? Forse la lezione ci viene proprio da quel piccolo vulcano che ci invita all’umiltà del pensiero, alla misura della nostra finitezza, ad una pausa di riflessione. Come dice il vulcano: «Silenzio».
Giugno 2010
A ttualità FESTA DEI POPOLI
Generazioni oltre... La diciannovesima edizione della festa dei Popoli è stata dedicata al tema delle seconde generazioni di immigrati
di Giordano Fenzi L’apporto degli immigrati all’economia italiana è notevole: secondo Unioncamere, si tratta di 134 miliardi di euro, pari al 9,5% del PIL. Dai dati messi a disposizione dal Cestim, aggiornati al primo gennaio 2009, i minori, figli di immigrati tra Verona e provincia sono 22.375 su una popolazione immigrata di circa 96.000 unità. L’incremento di questi giovani rispetto al 2004 è stato del 50%: sei anni fa, infatti, questi minori erano 11.116.
La Festa dei Popoli, che il 23 maggio si è tenuta nella bella cornice di Villa Buri, ha compiuto 19 anni e dal 1991 è diventata un appuntamento fisso per l’intera città. Allestita nel giorno della Pentecoste è organizzata dalla Diocesi di Verona attraverso il “Comitato Festa dei Popoli” e gode del patrocinio del Comune di Verona. Fanno parte del comitato organizzatore, il Centro Pastorale Immigrati, il Centro Missionario Diocesano, la Caritas diocesana veronese, i missionari Comboniani, il Cestim, le Associazioni degli Immigrati, il Movimento dei Focolari, l’Associazione Villa
CGIL, CISL e UIL di Verona esprimono netta contrarietà alla realizzazione del CIE che si configura come una vera e propria struttura di detenzione per gli immigrati irregolari. I CIE (al pari dei CPT istituiti con la legge TurcoNapolitano nel 1994 e ridefiniti con il Decreto Maroni nel 2009) rappresentano un oltraggio alla dignità e alla libertà delle persone. La detenzione nei CIE separa le famiglie. Un esempio vissuto: un lavoratore immigrato in Italia da quindici anni con due figli nati a Verona, viene licenziato a causa della crisi, dopo sei mesi perde il diritto al permesso di soggiorno, viene fermato e condotto in un CIE per sei mesi e poi espulso. I due bambini e la moglie? Che colpe avevano? A loro chi dovrà pensare? Ancora una volta in materia di immigrazione, si cercano scorciatoie anziché affrontare i problemi. La diffusione dell’immigrazione irregolare e clandestina nasce infatti già per effetto della stessa legge Bossi-Fini che prevede che il migrante possa entrare in Italia solo quando è in possesso di un regolare contratto di lavoro. Il che è come dire che se una famiglia veronese avesse bisogno di una colf o di una “badante”
in VERONA
Buri onlus e i tre sindacati Cgil, Cisl e Uil. «Dopo aver fatto alcune riflessioni all’interno del Comitato organizzatore», afferma Stefano Gaiga del Centro Missionario Diocesano «abbiamo deciso che quest’anno era giusto mettere in evidenza il tema delle seconde generazioni. Molto spesso questi ragazzi devono affrontare una doppia difficoltà», continua Gaiga, «dalla famiglia vengono accusati di aver rinunciato alla propria cultura e dalla società vengono trattati come “stranieri”. Molte persone non si accorgono che questi ragazzi sono i veronesi del futuro e, con le nostre iniziative, vogliamo dare loro la possibilità di farsi conoscere».
I CIE, un oltraggio alla dignità delle persone dovrebbe cercarla direttamente nel Paese d’origine. Le cose, come tutti sanno, stanno in maniera ben diversa. Non a caso, al di là dei proclami, tutti i governi – nessuno escluso – hanno dovuto operare sanatorie per consentire a quanti già lavoravano nel nostro territorio di continuare a farlo. Quello che serve è una programmazione seria dei flussi migratori, che dev’essere coordinata con le regioni e i comuni; servono provvedimenti che permettano ai migranti che hanno perso il lavoro di avere a disposizione più tempo per cercare e trovare un’altra occupazione. Spesso si tratta di famiglie che vivono e lavorano da anni nel nostro territorio, che si sono integrate e che per effetto delle nuove norme rischiano l’espulsione dal nostro Paese. L’immigrazione è stata spesso strumentalizzata per motivi esclusivamente elettorali. L’immigrazione via mare (i famosi sbarchi di clande-
TRE CONTINENTI, TRE STORIE
Gideci (Brasile), Jamal (Marocco) e Balbir (India) apparentemente non hanno niente in comune, ma il destino ha voluto che le loro vite s’incrociassero a Verona. Gideci Semprebon è una ragazza di 22 anni. Nata in una favela di Bahia, all’età di quattro anni è stata adottata da una famiglia veronese. Dopo aver preso il diploma all’istituto Buonarroti, ha svolto il servizio civile regionale, poi quello internazionale e ora frequenta un corso per operatore socio-sanitario presso l’ospedale di borgo Trento. La giovane è consapevole
stini) è rappresentata per il 60% da persone aventi diritto di asilo politico e rappresenta solo il 2% degli ingressi ma è stata utilizzata per dimostrare la pericolosità del fenomeno e la forza del governo nel bloccare i “flussi”. Non è certo con i CIE che si combatte l’immigrazione clandestina che, è del tutto evidente, non sempre è sinonimo di criminalità. A meno di voler considerare criminali le migliaia di colf e badanti o di operai tutt’ora in attesa di regolarizzazione nonostante l’avvio delle pratiche. Lo Stato italiano ha già a disposizione altri strumenti per contrastare la criminalità italiana e straniera. Occorre rafforzare gli strumenti per agevolare e sostenere le famiglie degli immigrati regolari nelle pratiche per ottenere con maggiore facilità il rinnovo dei permessi di soggiorno e il riconoscimento della cittadinanza, anche con l’obiettivo (per chi ha la cittadinanza) di arrivare all’introduzione del diritto di voto amministrativo.CGIL CISL e UIL chiedono al Comune di Verona di ricostituire la Consulta per l’immigrazione e cioè una sede istituzionale nella quale sia possibile un confronto fra tutti i soggetti che operano su questo terreno.
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A ttualità di essere una ragazza fortunata e forse, anche per questo, sogna di diventare missionaria laica in Africa. «Sono una volontaria alla Ronda della Carità – spiega – tante persone pensano che sia una perdita di tempo, ma per me non è così… Perché lo faccio? Credo sia giusto farlo e poi mi sono resa conto che un grazie vale molto più di tante parole». Gideci ha la pelle nera e ha dovuto spesso fare finta di niente. «Il mio accento è veronese, la mia famiglia è veronese, ma il colore della mia pelle per qualcuno, a volte, rappresenta un problema. Sono persone chiuse che hanno paura di ciò che non conoscono». «Gli stranieri? Li farei votare», afferma: «Non sono solo lavoratori, ma prima di tutto cittadini». Gideci ha la doppia cittadinanza, ma quando le chiedo se si sente italiana o brasiliana, risponde con sicurezza: «Mi sento cittadina del mondo». Anche Jamal Elbakhour è andato alla Festa dei Popoli, perché il clima che si respira gli ricorda un po’ le feste che si fanno in Marocco. Ha 34 anni, una vita fatta di poche certezze e di tanta fatica. È in Italia dal 2003, a Verona dalla fine del 2006, dopo aver lasciato il Paese d’origine per lavorare e costruirsi un futuro. Ha lavorato in campagna come stagionale, ha fatto l’operaio, il muratore; ha caricato e scaricato il bestiame e ha imparato a fabbricare condizionatori per i treni in una ditta di Desenzano. La sua religione, l’Islam, troppo spesso al centro di dibattiti superficiali, gli ha insegnato che la solidarietà non ha cittadinanza e risponde a un logica semplicissima e disarmante. A una settimana dal terremoto de L’Aquila, Jamal, con alcuni amici della comunità islamica di Verona, è andato a Onna per aiutare chi aveva bisogno. «Aiutare chi è in difficoltà è una cosa normale», spiega sorridendo: «La mia religione dice che se vedi uno che non sa nuotare lo devi salvare». Spesso il marocchino è lo spacciatore, il delinquente, continua, «ma per conquistare la fiducia degli altri, bisogna dare l’esempio, far vedere che sei una brava persona». Lottare contro i pregiudizi è una fatica che Jamal non ha fatto nulla per meritarsi, ma ha deciso di lasciar parlare i suoi comportamen-
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ti. In luglio farà ritorno in Marocco, poi probabilmente sarà di nuovo a Verona per cercare un lavoro. «Verona è una bella città», dice, «ma i veronesi sono un po’ chiusi e a volte considerano i marocchini tutti spacciatori. Del mio paese mi mancano la famiglia, gli amici… anche l’aria. Il mio sogno – confessa – è trovare una donna, vivere una vita tranquilla e far studiare i miei figli». Incontro Mall Balbir alle 12.30 nella sala in cui gli operai della Euroduto, azienda di Sona che produce scaffalature metalliche, trascorrono la pausa pranzo riscaldandosi un piatto di pasta e riposando come possono. Ha 56 anni, ed è in Italia dal 1983. A 28 anni ha deciso di lasciare il suo paese nella regione del Punjab, al confine col Pakistan, dove insegnava inglese e matematica. Arrivato in Italia, ha iniziato a lavorare in un circo come barista e, nel 1987, è stato assunto dalla Euroduto come custode. Nel 1995, la moglie e i suoi tre figli l’hanno raggiunto a Verona. «Ora faccio il metalmeccanico», sostiene orgoglioso: «Seguo cinque presse e, per dieci anni, ho fatto il sindacalista in questa fabbrica. Anche se in India facevo l’insegnante» continua, «non mi pesa fare questo mestiere». Con i suoi risparmi Balbir ha aperto un negozio di alimentari a Pradelle di Nogarole Rocca, dove ora vive con la famiglia. «Sono anche presidente dell’Associazione indiana Shri Guru Ravidass» che nelle province di Verona, Vicenza, Mantova e Reggio Emilia raccoglie più di 3.000 indiani. «Non conta di che religione sei o di quale casta fai parte – ci tiene a precisare –: è un luogo d’aggregazione dove manteniamo vive le nostre tradizioni. La Festa dei Popoli? Le ho viste tutte e partecipo sempre volentieri. Da quando sono in Italia ho aiutato molte persone, ma tutte a una condizione. Quando dò una mano a una persona, mi faccio promettere che a sua volta lui ne aiuti altre dieci». Mancano 5 minuti all’una e la pausa sta terminando. «Da due anni sono anche cittadino italiano», rivela con una punta d’orgoglio, «l’India mi manca, ma i miei figli studiano e lavorano qui e voglio che loro siano felici».
Essere buoni cittadini si impara anche a scuola di Jean-Pierre Sourou Piessou * Perché vedano più lontano di noi è stato lo slogan, volutamente provocatorio, scelto quest’anno per la Festa dei Popoli. Questo appuntamento ha voluto riportare le questioni e le sfide dei ragazzi di seconda generazione all’attenzione dei cittadini veronesi de soca. Non basta, infatti, iscrivere i ragazzi a scuola se poi non si offrono loro occasioni di socializzazione, contaminazione e meticciato culturale. L’attuale crisi (che non è solo economica) rischia di minare la già fragile base di amicizia tra gli immigrati di seconda generazione e i coetanei, se tutte le realtà territoriali scaligere – a partire dalle istituzioni pubbliche (scuola, Comune, ULSS) e dalle associazioni – non pongono in essere una serie di strumenti culturali, sociali e pedagogici per favorire il riconoscimento di cittadinanza responsabile a questi “nuovi cittadini” e offrire loro un’occasione di partecipazione democratica all’assetto politico cittadino. In questo percorso, che inizia sui banchi di scuola, siamo appena all’inizio. Fin dal 1990 per i cittadini immigrati adulti le aule scolastiche rappresentavano luoghi concreti di emancipazione culturale e di rielaborazione del proprio progetto migratorio. In quegli anni sono nate le prime esperienze di scuola di alfabetizzazione in alcuni quartieri come Veronetta (Duca d’Aosta), Santa Lucia (Scuola Manzoni), San Michele Extra (Scuola Betteloni), borgo Trento (Scuola Dante Alighieri) con il contributo del centro “Tante tinte” e di altre realtà veronesi. Dei 96 mila immigrati residenti oggi in provincia di Verona, più del 60% sono passati da questi centri di alfabetizzazione, che aprivano le porte anche di sera, per accompagnare i nuovi cittadini immigrati in un percorso di studio e conoscenza della lingua italiana e del territorio scaligero. Oggi, nel Veronese, gli studenti immigrati fino ai 18 anni di età superano le 20 mila unità. Tuttavia la scuola non è più considerata dai cittadini immigrati il luogo dove affilare le prime “armi” per interagire con il nuovo contesto sociale, ma piuttosto un’esperienza nella quale far ripartire la prospettiva di vita a partire dai figli. A me capita spesso di parlare con gli adulti immigrati e con i loro figli. Gli adulti si fermano a raccontarmi – spesso con le lacrime agli occhi – la loro avventura migratoria, il passaggio (quasi obbligato) a Napoli o ai Magazzini generali di Borgo Roma, il profondo senso di smarrimento iniziale, infine l’orgoglio del loro paese d’origine; mi dicono che non accetteranno mai che i loro figli facciano bassa manovalanza. I figli, invece, mi parlano di tutt’altro: raccontano le storie dei genitori senza grande coinvolgimento, come se queste storie non li toccassero. I G2, gli immigrati di seconda generazione, mi confidano il loro sogno segreto (se così si può dire) di volersi allontanare per conoscere posti nuovi, altre realtà. I giovani sognano Usa, Canada, Inghilterra e Paesi Bassi: luoghi, a loro dire, di libertà e di benessere. Quasi mai, invece, nominano i paesi d’origine dei propri genitori. La loro battaglia è fondata sull’essere cittadini italiani alla stregua dei coetanei o dei compagni di banco e la scuola rappresenta un luogo di socialità e rivendicazione di cittadinanza. * Mediatore culturale
Giugno 2010
Foto Pino Agostini
A ttualità di Pasquale Saturni È l’ultimo dei borghi che, aggrappati alla pendici delle colline a Est di Verona, si susseguono in direzione Nord lungo la linea delle risorgive. Se ne sta seminascosto là in fondo, ormai in vista di Grezzana, e lo conoscono in pochi perché Sezano è fuori mano ed è davvero un piccolo paese. Che ci facevano allora in quel luogo, la sera del 9 gennaio, 470 persone? Erano lì per ascoltare Giancarlo Caselli, invitato dal monastero degli Stimmatini. La venuta di Caselli si è rivelata un evento, anche per la grande partecipazione. Come è stata un evento a fine aprile la presenza di Antonietta Potente, una teologa tra le più conosciute, che vive da anni in Bolivia condividendo la vita dei campesinos e che dieci anni fa ha preso parte alla “guerra” per la ri-pubblicizzazione dell’acqua. Queste sono state le iniziative più clamorose degli ultimi tempi ma l’attività del monastero è così intensa che Sezano sembra un por to di mare: Facoltà dell’Acqua, Scuola del Vivere Insieme, dialogo interreligioso tra le fedi, corsi seminariali di liturgia, percorsi per un’economia responsabile... Detto così, viene da pensare che quello di Sezano sia uno dei tanti centri pastorali e/o culturali presenti nel mondo cattolico. In realtà il monastero degli Stimmatini è un’altra cosa. Perché a Sezano non ci si va solo per ascoltare una conferenza o per frequentare un corso, prendere appunti e andarsene. La prima volta, forse sì, si viene solo perché interessa la conferenza. Ma se poi si decide di tornare, ci si rende conto che qui ci sono ampi spazi di dialogo, percorsi non precostituiti e che le persone, pur con diverse idee, si confrontano per trovare strade da intraprendere insieme. Cammini di incontro li chiama il responsabile, Padre Silvano Nicoletto.
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STIMMATINI
Le «porte aperte» del monastero di Sezano L’ultimo dei borghi alle pendici delle colline a Est di Verona è divenuto un’oasi della cultura e della riflessione
Di certo il monastero non va in cerca di eventi con lo spirito della promozione aziendale. Queste occasioni sono le benvenute se accompagnano la Comunità sulla strada della Chiesa minore che nella giustizia, nella com-passione, nei diritti per tutti e per tutto vede un Cristianesimo più responsabile e più capace di condividere. Ed è stato proprio per affermare il concetto di condivisione che gli amici di Sezano, cogliendo al volo con entusiasmo il suggerimento della rivista AltrEconomia, nel dare vita alla loro associazione hanno voluto attribuirle il nome di Monastero del Bene Comune. Del resto è la convinzione di lavorare attorno al bene comune che induce nella gente la volontà di proporsi e la disponibilità a mettersi in gioco. Ed è con la volontà di compartecipazione che si spiega il clima di accoglienza che si respira a Sezano. Un’accoglienza al monastero ha uno spessore ben più pregnante di quella offerta dalla serenità dei luoghi. Chi arriva qui è accolto per quello che è. Nessuno gli chiede che cosa sia mai venuto a fare o dove lui voglia andare o che cosa abbia portato. Facilmente se ne andrà con nuove domande, piuttosto che con risposte precostituite e vincolanti. Accoglienza qui vuol dire che in ogni caso tu sei degno del luogo e del pane: basta che tu abbia il cuore e la mente aperti. Che tipi sono dunque quelli che frequentano Sezano? «Persone normali – dice Padre Silvano – spesso col desiderio di ricominciare un cammino di fede o di impegno dopo un periodo di allontanamento o di delusione. Ricominciano a sperare che sia possibile vivere con uno scopo buono, ricominciano a provare gusto per la riflessione. Per alcuni (non pochi per la verità) parole come fede, preghiera, Dio riacquistano valore».
Giugno 2010
A ttualità ALTRA ECONOMIA
Terzo Settore a Verona Molto più che buone intenzioni di Lucia Dal Negro
La Fondazione Zanotto è uno dei donatori locali che dal 2002 finanzia progetti e studi per lo sviluppo economico-sociale del territorio veronese : «Da una parte tutti risentiamo della crisi economica, dall’altra parte il territorio veronese sembra non cogliere appieno il valore di questi investimenti, rendendo sempre più difficile il reperimento dei fondi»
in VERONA
Il Terzo Settore viene definito ciò che non è Stato né mercato ed include sia attività di volontariato, che attività realizzate da strutture specializzate in progetti sul territorio italiano o estero. All’interno di questa ampia definizione ricadono da un lato tutte quelle realtà a cui il settore pubblico appalta servizi per la comunità che da solo non riesce a realizzare, dall’altro, quelle strutture cui le aziende si rivolgono per rispondere alle richieste avanzate dalla comunità in cui operano. Da qui deriva l’importanza non soltanto etica o simbolica del Terzo Settore, sempre più orientato ad una razionalità economica del proprio operare e, quindi, sempre più lontano dal modello filantropico di un certo associazionismo. All’interno di questo settore, anche definito non-Profit, esistono due principali categorie: gli enti realizzatori ed enti donatori. Tra gli enti realizzatori presenti nel territorio veronese incontriamo Samir Chaudhuri, Presidente di CINI International, e Daniele Saibene Responsabile di CINI-Italia. L’associazione nasce per sostenere il Child in Need Institute (CINI) India, una ONG fondata a Calcutta nel 1974 attiva ambito sanitario e nutrizionale su donne e bambini estremamente poveri. CINI si definisce una learning organization nel senso che, spiega Chadhuri: «Circa il 60% della popolazione indiana vive con meno di 2 dollari al giorno, capire come fanno ci aiuta a soluzioni che abbiano senso». Domandiamo co-
me sia possibile coniugare i saperi locali con una metodologia di intervento che risolva le carenze sul campo. «Occorre associare un alto livello di professionalità che garantisca il miglior uso dei soldi donati. Non si può più dare un servizio di basso livello solo perché siamo in un paese a basso reddito». Questo approccio emerge dai progetti portati avanti da CINI che utilizza lo strumento Life Cycle Approach (usato nella produzione industriale per differenziare le fasi di vita del prodotto) per associare ad ogni aspetto del problema da risolvere, un diverso tipo di intervento. A questa razionalizzazione di stampo industriale del da farsi, si associa un’ottica di intervento che mira ad eliminare i problemi alla radice. «Prendiamo il problema della malnutrizione. L’approccio vincente non è quello di regalare ricostituenti alle mamme. Bisogna puntare all’educazione alimentare e studiare soluzioni a basso costo. Questa è la professionalità al servizio dei poveri». A proposito di professionalità domandiamo se le dimensioni e le caratteristiche del Terzo Settore italiano sono realmente in grado di assorbire i moltissimi giovani che si avvicinano a questo mondo. Pensiamo a tutti gli studenti che vorrebbero fare della gestione del non Profit una professione retribuita e a quelle università che continuano ad aprire corsi in materia: nel caso di CINI, ad esempio, si impiega solo personale locale e non si accettano volontari da espatriare. «Sul campo non servono persone che vengano da
altri continenti per aiutare, anzi, spesso queste tolgono lavoro ai locali». Un’occhiata al nostro territorio ce la offre Romano Tavella, segretario della Fondazione Zanotto, uno dei donatori locali che dal 2002 finanzia progetti e studi per lo sviluppo economico-sociale del territorio veronese promuovendo iniziative culturali, sociali e scientifiche. «Da una parte tutti risentiamo della crisi economica che ha fortemente ridotto la liquidità a disposizione delle Fondazioni e, dall’altra parte, il territorio veronese sembra non cogliere appieno il valore di questi investimenti, rendendo sempre più difficile il reperimento dei fondi. Mi occupo personalmente di questo aspetto andando a testare la disponibilità di aziende, associazioni, altre fondazioni o istituzioni ad investire in progetti sociali. Nonostante le difficoltà, siamo riusciti a sostenere progetti importanti tra cui voglio ricordare quello di certificazione etica nello sport. Quest’ ultimo, dal 2007 ad oggi, promuove la diffusione dei valori e dei comportamenti etici nello sport di eccellenza». Lo sport come contesto dove premiare l’etica e certificare le associazioni sportive più virtuose: un’idea inattesa, così come lo è quella dei NATs, Ninos y Adolescentes Trabajadores, sostenuta dalla Ong Progettomondo. MLAL. Il direttore, Valentino Piazza, spiega: «Fermo restando la condanna dello sfruttamento del lavoro minorile, nei contesti disagiati un minimo di formazio-
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A ttualità ne lavorativa permette ai bambini di poter accedere al godimento di altri diritti, quali lo studio. Non a caso progetti di questo tipo hanno superato le selezioni di donatori importanti come l’Unione Europea». Per molte realtà del non Profit concepire che un minore possa lavorare rimane un forte tabù, salvo poi ammettere che sul campo la realtà è un’altra. In merito al ruolo giocato dai sentimenti nel trasmettere le richieste di aiuto di cui le ONG si fanno ambasciatrici ci viene detto: «La credibilità di una ONG sta nel passare un messaggio, che susciterà delle reazioni, e poi far leva sul reale radicamento nel territorio in cui si sviluppa il progetto. Non è possibile rivolgersi alle persone solo per chiedere soldi e poi sparire. Il messaggio emotivo trova nella rappresentanza territoriale il suo equilibrio. Se l’ONG non è presente davvero sul territorio, allora è solo strumentalizzazione dei sentimenti e ciò è molto pericoloso per tutto il sistema». Questo rapporto tra smaterializzazione dell’aiuto e legame col terreno ricorda da vicino l’opposizione tra l’economia finanziaria e quella reale. È recente la notizia che Mark Zuckerberg (uno dei due inventori di Facebook) lancerà JUMO: la prima piattaforma web per orientare potenziali donatori. In base al profilo, JUMO assocerà ad ogni soggetto una serie di cause sociali da poter supportare con soldi, tempo o competenze. Visionario o precursore, ce lo dirà il tempo. Da ultimo chiediamo un parere sui numerosi network del nonProfit: l’associazionismo tra associazioni aiuta o polarizza il Terzo settore? «In parte aiuta perché nello scenario italiano ci sono troppi campanili e questo riduce la portata del Sistema nel complesso. Questo localismo, peraltro, tocca anche i donatori nazionali, che ultimamente scelgono di non co-finanziare progetti supportati da enti internazionali perché preferiscono avere un progetto più piccolo ma tutto loro. Poi tra i donatori c’è anche un po’ di populismo quando si pensa che le associazioni migliori siano quelle con bassi costi di gestione. Non è così. Bisogna valorizzare i
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L’aumento delle tariffe postali per l’editoria penalizza il Terzo settore. Da un lato le istituzioni permettono di recuperare fondi con il 5x1000, dall’altro i costi per raggiungere i sostenitori sono lievitati in modo considerevole, in attesa dell’adeguamento alle tariffe europee soldi raccolti, anche utilizzando professionalità italiane, che ovviamente hanno un costo. Ad esempio in Marocco ci siamo occupati di migrazione, scoprendo che i migranti sanno perfettamente i rischi che corrono: quello che li motiva è spesso la dimensione mitologica del migrare. La prevenzione va quindi affrontata dal punto di vista psicologico, smontando il mito del migrante e incoraggiando a mettersi in gioco nella propria patria. Non trovando esperti locali abbiamo formato un team misto di italiani e marocchini ed abbiamo sviluppato un percorso educativo testato prima in Italia, con marocchini già emigrati, e poi nel Distretto di Beni Mellal. Il risultato è stato che ora affianchiamo il Ministero dell’Educazione locale. Un approccio del genere ovviamente costa, ma la vera cooperazione è interscambio, altrimenti aiutare significa ancora una volta dominare». Proseguiamo incontrando Marco Valdinoci, vicedirettore Attività istituzionali della Fondazione Cariverona: «Ci consideriamo un’ opportunità per il territorio, con un ruolo di sussidiarietà nei confronti di altri soggetti dediti al sociale. Per legge abbiamo il compito di promuovere progetti innovativi. Dal 1992 ad oggi abbiamo erogato 1 miliardo e 308 milioni di euro, frutto delle rendite delle azioni Unicredito al netto dei costi di gestione (che per l’anno 2009 si sono attestati al 4,3%)». Le fondazioni di origine bancaria sono anche definite “in-
frastrutture del pluralismo” per la loro natura equidistante dal settore pubblico e dal settore privato. Questo carattere originale permette loro di ragionare con logiche autonome. I dati mostrati da Valdinoci sono aggiornatissimi: dal 1992 ad oggi nel settore sanitario sono stati erogati 265 milioni di euro (di cui 103 milioni per l’Ospedale di borgo Trento), per le scuole e l’istruzione 271 milioni mentre l’arte e la cultura rappresentano il settore d’intervento prioritario con 398 milioni di euro erogati. Passando dalle cifre aggregate all’operatività concreta, chiedo quale sia il rapporto tra la Fondazione e gli enti realizzatori. «La Fondazione Cariverona copre una media del 50% dei costi totali dei progetti presentati. Una volta finanziata l’attività, monitoriamo e valutiamo l’impatto del progetto fino a due anni dopo la sua conclusione. Con circa 1500-1700 progetti l’anno, l’Ufficio di monitoraggio riesce a controllarne circa il 40%, una campionatura orientata dai volumi dei contributi erogati». L’incontro con Serafino Sordato, presidente della onlus Rete Guinea Bissau, ci porta a tu per tu con un protagonista del Terzo Settore veronese in Africa. L’associazione opera dal 1999 quando su impulso del primo vescovo locale (padre Settimio Ferrazzetta, originario di Selva di Progno) nasce una rete di volontari per aiutare le missioni cattoliche in Guinea Bissau. «Noi lavoriamo nei settori dell’ istruzione e della salute, tentando di portare uno sviluppo che è ben rappresentato dal progetto agricolo di San Francisco de la Foresta: si tratta di un’azienda agricola nella zona di Bafatà dove si coltivano riso, anacardi, ananas e arance. Assieme alle Associazioni Crescere Insieme e Amici di Vittorio Bicego aiutiamo i locali a portare avanti l’azienda, all’interno della quale abbiamo allestito un centro sanitario ed una scuola. Lavoro, sanità ed istruzione: questo è lo sviluppo che offriamo». Domando se questi progetti facciano la differenza in contesti in cui la classe politica, seppure decolonizzata da ormai quarant’anni, sembra disinteressarsi ai bisogni della
gente. «Dove agiscono le missioni la situazione cambia davvero. Con l’istruzione si influisce sulla mentalità della gente ed ecco, per esempio, che accanto ai rimedi tradizionali le persone cominciano a fidarsi dei nostri centri sanitari. Certo, più ci si allontana dalla missione e più il quadro cambia: niente luce elettrica, rete idrica o impianti fognari. Ciò nonostante noi andiamo avanti sperando che i missionari resistano e si sviluppi una classe dirigente al servizio della gente». Alla fine di questa carrellata rivolgiamo le ultime domande ad un Cartello di associazioni del Terzo Settore chiamato “Nella mia città nessuno è straniero”. «Il Cartello – ci dice Matteo Danese, portavoce – nasce nel 1995 per promuovere una serie di attività culturali che stimolino l’opinione pubblica veronese a sconfiggere le paure indotte ed assumere un atteggiamento costruttivo verso gli immigrati». Concretamente mi domando quali potrebbero essere, secondo il Cartello, i primi due interventi da realizzare a livello locale e scopro che «investire nella formazione delle seconde generazioni è fondamentale, poi bisogna ripensare i servizi pubblici: non devono più considerare gli immigrati come cittadini di serie B». Queste sono le opinioni di quanti, nel territorio locale, hanno il privilegio e l’onere di toccare con mano le realtà con cui lavorano, spesso per conto di un settore pubblico che arranca in materia socio-ambientale. Ironia della sorte, il decreto ministeriale del 30 marzo 2010 elimina le agevolazioni sulle spedizioni postali per l’editoria e così, il Terzo Settore, che per promuoversi e sovvenzionarsi spedisce giornalini e aggiornamenti ai propri sostenitori spenderà 28 centesimi di euro per singolo invio (fino a 200 gr) contro gli 0,06 precedentemente fissati. Da un lato le istituzioni permettono al Terzo Settore di recuperare fondi con il 5x1000, dall’altro i costi per raggiungere i sostenitori sono lievitati in modo considerevole, in attesa dell’adeguamento alle tariffe europee. Si prevede un calo nelle informazioni a nostra disposizione.
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Cultura MICROCOSMO CITTADINO
Quei luoghi segreti che non ti aspetti... Tanti palcoscenici sparsi per la città dove si mette in scena il vivere quotidiano. Un viaggio per capire l’essenza e dunque il valore di questi spazi
di Elisabetta Zampini Il paesaggio è anche quello urbano; un tessuto di strade, case, piazze, monumenti, movimenti, stratificazioni storiche, periferie. È il palcoscenico dove si mette in scena il vivere, “la maniera propria degli oggetti sociali – per dirla con le parole dell’indimenticabile Eugenio Turri – di ordinarsi e di rivelarsi nel territorio”. Turri non poteva usare termine più bello e appassionato di quel “rivelarsi” perché sconfina nel campo semantico poetico-mistico-simbolico, ricordando dunque i tanti legami, di natura diversa, tra l’uomo e i luoghi. Anzi. Proprio questi intrecci trasformano un territorio, un’area, in un luogo. Sono rapporti spesso deleteri, asimmetrici, dove lo spazio è subordinato ai processi di trasformazione antropica “usa e getta”; spazio consumato, dato per scontato, utilizzato senza gratitudine: i capannoni, i centri commerciali, le operose attività edilizie onnipresenti. Altre volte invece lo spazio è teatro di legami creativi. Di luoghi salvati per mezzo di uomini e di uomini salvati per mezzo di luoghi. Verona è una città di luoghi eclatanti e luoghi nascosti. Questa volta si vuole parlare dei luoghi nascosti, non meta d’obbligo per i turisti in visita della città. Si mettono da parte le icone da depliant. Non è necessario, ma certo preferibile fare questo piccolo tour in
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bicicletta o a piedi, se sia ha del tempo. Perché il paesaggio è prima di tutto una questione di percezioni sensoriali. Visive, olfattive, uditive. Relazionali. IL BUSO DEL GATO
Ed inizia al Porto San Pancrazio. Precisamente in quel passaggio sotterraneo, tra le case, sotto i binari,che collega il quartiere con la stazione ferroviaria di Porta Vescovo, noto a tutti come il “Buso del gato”. La curiosità toponomastica si mescola a una certa sim-
patia per la natura popolare, un po’ da fiaba, da aneddoto, di questo nome. Ogni nome locale, come ogni parola, sia essa in dialetto o in lingua, ha la sua storia. E più i nomi sono insoliti e connotati localmente più dicono della capacità creativa degli abitanti. «Ho trattato diffusamente questo toponimo in vari lavori, ma soprattutto nel mio libro “Prontuario toponomastico del comune di Verona”» – racconta Giovanni Rapelli –. In origine, fu uno stretto passaggio pedonale previsto dagli austriaci nel 1849 sotto la
ferrovia che loro inaugurarono quell’anno; la denominazione originaria fu “Busegato” cioè budello, passaggio lungo, stretto e buio, alterato quasi subito in Buso del Gato per influsso dell’altra espressione veronese “buso del gato”, gattaiola, pertugio nella porta per lasciar andare avanti e indietro i gatti”. Rapelli prosegue in una suggestiva indagine linguistica: «Qualche tempo fa ho avanzato un’ipotesi nella quale credo fermamente: dalla stessa parola veneta “busegàto” ritengo derivato l’italiano bugigàttolo. Infatti, il
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“Il Buso del gato” a Porto San Pancrazio
suffisso è lo stesso di giocàttolo; e quest’ultimo termine è riconosciuto di origine veneta dai linguisti, da un veneto zugàtolo». CORTICELLA VETRI
Entrando da Est in città, si arriva nel quartiere di Veronetta, un vero regno di angoli appartati, giardini e cortili nascosti. Piccole oasi inattese che fanno dimenticare di essere a due passi da strade troppo trafficate. Molti di questi giardini sono segreti, chiusi dietro cancelli, in un gioco di “vedo e non vedo” che ne fa aumentare la bellezza (e l’invidia di chi li può solo guardare). Ma imboccato vicolo Vetri ad un certo punto, svoltando a sinistra, si percorre vicoletto Vetri e ci si ritrova in Corticella Vetri. È come essere in un paesino di Liguria, con l’ulivo, le biciclette appoggiate al muro e un pozzo. La sorpresa si mescola all’attenuarsi degli usuali rumori urbani, insieme al profumo e al colore del glicine che scende dal muricciolo di sasso. Ed è una piazzetta pubblica. Solo che essendo così appartata, oltre ai residenti, ci capitano soltanto dei turisti che han perso la strada principale, qualche veronese in passeggiata senza meta e i postini, quando la trovano. «Tra vicini ci conosciamo bene – racconta la signora Germana Bagattini –. Il silenzio, la quiete, la mancanza delle macchine (che qui non entrano) favoriscono le relazioni
in VERONA
tra gli abitanti. Ci si incontra, ci si parla dalle finestre aperte. I ritmi sono più tranquilli. E tutti spontaneamente abbelliscono questo luogo, lo curano e lo accudiscono». E il luogo restituisce a chi se ne prende cura una bellezza che aumenta la qualità della vita e di certo assicura un maggior benessere psicofisico. La bellezza che cura. E se, stando ad alcune ricerche scientifiche, l’uniformità di forme, luoghi senza storia e senza colore determinano nell’organismo un abbassamento dei livelli di serotonina (“l’ormone del buonumore”), qui avviene l’esatto contrario. La cura dell’ambiente, soprattutto quando questa avviene attraverso un lavoro partecipato, collaborativo tra le persone, ha un ritorno di gratificazione enorme, oltre a creare per chi ci vive un riferimento di identità, un’iconema, come amava definire Turri le marche caratteristiche e tipiche di un luogo, gli elementi che ne danno il carattere e che assumono per chi li percepisce un valore simbolico. Ecco perché in una città, anche l’abbattimento di un albero può costituire una rottura emotivamente forte nel proprio sistema di percezione dello spazio. Ogni individuo, così come ogni comunità, costruisce la propria mappa identitaria formata dai caratteri estetici di un paesaggio, dalla frequentazione, dall’agire, dalla formazione di memorie. Tutto il contesto abitativo che
I giardini di via Riva San Lorenzo
La cura dell’ambiente, soprattutto quando questa avviene attraverso un lavoro partecipato, collaborativo tra le persone, ha un ritorno di gratificazione enorme, oltre a creare per chi ci vive un riferimento di identità si affaccia sulla piazzetta Vetri è antico. La sua storia va oltre le memorie degli attuali abitanti ma ne lascia affiorare delle tracce. «Mentre sistemavo la casa – prosegue la signora Germana – in giardino ho trovato alcune monete. Non sono preziose in sé ma sono interessanti perché ricordano quattro tappe salienti delle vicende amministrative della città e non solo. La più antica è una moneta del 1600 con il nome del Doge Antonio Priuli, il primo a coniare moneta con il proprio nome; di seguito un centesimo datato 1809 con Napoleone, un
kreuzer austriaco, un centesimo del 1867 con Vittorio Emanuele II e uno del 1859 con il re Umberto I». Il luogo diventa allora un contenitore di memorie personali e collettive, di ricostruzione di un passato e di costruzione di una identità. Dove per identità non si intende un a priori monolitico dato una volta per tutte e da tramandare pedissequamente. Un senso di appartenenza e di riconoscimento a partire da una esperienza condivisa. Un’identità che si costruisce nel fare comune e che diventa visibile, appunto, attraverso i segni lasciati sul territorio. In costante costruzione e ricostruzione. LA CORTE DEL DUCA
Un esempio in tal senso è il parco giochi “Corte del Duca”, nei pressi di San Giovanni in Valle. Per posizione e cura è uno dei più bei parchi pubblici della città. Punto di riferimento e di richiamo per tanti bambini e mamme, non solo del quartiere: «Vengono anche da Borgo Venezia – spiega Michele Corocher, presidente del Comitato genitori che gestisce il parco – ogni
Cultura giorno, dopo le quattro, questi spazi si riempiono. Conosciamo ormai tutti i bambini, le mamme. Il parco è molto frequentato perché è protetto dalle mura, ha un solo accesso, è grande, pulito e ben tenuto». Ogni mattina un gruppo di volontarie del Comitato si occupa della pulizia del parco e dei bagni. Durante il giorno altri del Comitato sono presenti nel parco. Quando è al completo, il Comitato è formato da quattordici membri. Nel pomeriggio si danno appuntamento qui queste persone che sono amiche e per le quali il parco è diventato un punto quotidiano di aggregazione, luogo significativo e di affetti. Con il bel tempo si siedono all’aperto, sotto un albero, attorno ad un tavolino, vicino all’entrata: «Molte mamme ci ringraziano, ci fanno i complimenti – racconta una signora del Comitato – per come teniamo il parco. Per noi questa è una grande soddisfazione. Ci sentiamo responsabili non solo del luogo ma anche delle persone che lo frequentano, con un occhio di riguardo per i bambini». Uno spazio, quello di Corte del Duca, riconquistato e restituito alla città dopo manifestazioni, occupazioni, la tenacia del Comitato, la mobilitazione di associazioni, di privati cittadini e di personaggi pubblici, da Roberto Puliero a Dario Fo, che culminarono agli inizi degli anni ’70 e che sollecitarono il Comune di Verona ad acquistare da un ordine religioso questo spazio abbandonato e inutilizzato. «Ci sarebbero molti altri luoghi in città – prosegue Corocher – che potrebbero diventare parchi, aree verdi. È possibile, come abbiam fatto noi. Certo, la cosa più difficile è poi la costanza, la continuità degli interventi. Non solo rivalorizzare uno spazio ma anche mantenerlo vivo».
La grotta con la Madonna nei pressi di via della Repubblica VIA DELLA REPUBBLICA
Infine, attraversato il ponte della Vittoria, si arriva in via della Repubblica, alle spalle dell’Arsenale. Qui vie, incroci, strisce pedonali, parcheggi a pettine si susseguono come in ogni zona prettamente residenziale. La cosa sorprendente è che ad un certo punto, proprio sulla strada principale, un vialetto di palme che conduce a una costruzione bianca, dalla forma singolare, invita ad entrare. C’è molto silenzioso, nonostante il via vai continuo di persone e gli alti palazzi attorno. Sul retro si nasconde una grotta con la Madonna, costruita sul modello della grotta di Lourdes.
L’abbattimento di un albero può costituire una rottura emotivamente forte nel proprio sistema di percezione dello spazio. Ogni individuo, così come ogni comunità, costruisce la propria mappa identitaria formata dai caratteri estetici di un paesaggio, dalla frequentazione, dall’agire, dalla formazione di memorie
Ai piedi della Madonna, un vivace tappeto di vasi fioriti e colorati; appeso un cartello con l’indicazione del rosario letto ogni sera alle 21 e poi una targa commemorativa che spiega il perché di questo luogo, un ex voto per lo scampato pericolo di un’intera comunità: “L’ultima guerra qui con più di 5.000 bombe distruzione seminò. La popolazione di Campagnola nell’angoscia la Madonna invocò (...) Maria tutti salvò. Come testimonianza questa grotta riconoscente a lei dedicò”. È un luogo di devozione e di preghiera, di raccoglimento palpabile tanto che non viene per niente la tentazione di intervistare qualcuno per saperne di più. Già lo scatto delle foto sembra essere di troppo in questo luogo senza retorica, umile pur nella cura che riceve. È negli ultimi anni frequentato in maniera assidua dai “nuovi veronesi”, specialmente asiatici, che hanno riconosciuto in questo luogo nato sulle macerie (sia materiali che morali) della seconda guerra mondiale un punto accogliente dove esprimere la propria fede. Il continuo farsi dell’identità, si diceva. Un bel passaggio di testimone e di umanità dalle vecchie alle nuove generazioni di cittadini. In fondo gli spazi devono consentire all’essere umano di sognare.
RIVA SAN LORENZO
Il viaggio prosegue con una breve sosta in Riva San Lorenzo, luogo riposante, ombreggiato, con paesaggi da ammirare su tutti i quattro punti cardinali. Davanti il fiume, alle spalle la chiesa di San Lorenzo, da un lato la cupola di San Giorgio e dall’altro il ponte di Castelvecchio. La Corte del Duca a San Giovanni in Valle, luogo di ritrovo per giovani e meno giovani
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Cultura PROFESSIONI
Suoni quotidiani Il giovane audiodocumentarista Jonathan Zenti svela i segreti di una professione insolita, ma affascinante Jonathan Zenti
di Cinzia Inguanta
«Una buona registrazione sonora riesce a far percepire tutta la sfera all’interno della quale il soggetto è inserito, mentre con la videocamera si può sceglierne solo una porzione, non è meglio l’uno o l’altro, hanno due specifiche diverse e all’interno di queste si può lavorare, trovando il massimo della specificità»
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Difficile dare significato e collocare una realtà come quella dell’audiodocumentario in un’epoca fortemente condizionata dall’immagine come la nostra. Per fare un po’ di chiarezza abbiamo incontrato Jonathan Zenti, un giovane audiodocumentarista veronese, che ci conferma che il fatto di fare questo tipo di lavoro desta sempre molta curiosità nelle persone. In realtà, però, ogni audiodocumentarista è come un qualsiasi autore video o della carta stampata e i loro lavori presentano alcune analogie, come ad esempio, uscire sul campo, avere un tema, registrare, costruire i rapporti. Qualcosa in più è dato dalla possibilità di riuscire ad entrare in luoghi dove un giornalista, un cameraman o un fotografo non potrebbero entrare, un microfono risulta meno invasivo, facile da nascondere e poi soprattutto fare documentari permette di avere più tempo, non si lavora sullo scoop, sull’immediatezza si lavora sulla costruzione del senso e questo vuol dire avere la possibilità di lasciar fermentare i propri racconti, le proprie registrazioni, di farle crescere, di capire se erano giuste o no, se era giusta l’intuizione di essere andati in un luogo piuttosto che in un altro. Jonathan spiega che «un audiodocumentarista tanto più è bravo quanto più riesce ad individuare
nella costruzione del suo lavoro lo specifico sonoro, ovvero quando il suono diventa documento indipendentemente da tutti quegli aspetti della realtà che stimolano gli altri sensi, soprattutto indipendentemente dal video. Una buona registrazione sonora riesce a far percepire tutta la sfera all’interno della quale il soggetto è inserito, mentre con la videocamera si può sceglierne solo una porzione, non è meglio l’una o l’altra, hanno due dimensioni diverse e all’interno di queste si può lavorare, trovando il massimo della specificità». Come nasce l’idea di esercitare una professione così insolita? Jonathan racconta che l’idea per lui è nata a Milano mentre lavorava in uno studio di produzione, l’Istituto Barlumen, durante la realizzazione di un fakeumentary, cioè un finto documentario radiofonico, per Radiorai, intitolato The Leon Country Tapes. «Lavorando a questo documentario» spiega Jonathan «mi sono reso conto che mi piaceva molto di più stare per strada a registrare e lavorare sul campo piuttosto che stare chiuso in studio. Inoltre sentivo la necessità di lasciare quel tipo di meccanismo tipico della produzione dello spettacolo italiano che comportava tutta una serie di condizioni umilianti dal punto di vista economico e
dell’autostima. Avevo deciso di autodeterminarmi come autore e provare a vedere se riuscivo a mettermi sul mercato senza però accettare le condizioni di cui sopra, da parte degli editori». Nasce così Suoni Quotidiani, un osservatorio sociale sulle normalità che utilizza l’audiodocumentario come strumento di analisi e la trasmissione orale come mezzo di diffusione dei risultati ottenuti. All’interno di questo concetto rientra il modo di lavorare di Zenti e del gruppo che compone lo staff di Suoni Quotidiani. Questo vuol dire produrre audiodocumentari e spettacoli dal vivo che possano diffondere anche al di fuori dell’ambiente radiofonico i contenuti del percorso di ricerca. Suoni Quotidiani inoltre sviluppa e realizza percorsi didattici sulle normalità per scuole, università, associazioni e ONG. È iniziato a maggio un seminario per la Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova che ha come tema: l’audiodocumentario come possibile strumento di approfondimento della costruzione della realtà. Rimangono molte altre cose da dire sull’argomento, chi fosse interessato a saperne di più, e ne vale la pena, può andare a visitare il sito internet www.suoniquotidiani.it e il sito dell’Associazione Italiana Audiodocumentaristi www.audiodoc.it.
Giugno 2010
Cultura MUSICA
Club Il Giardino La formula del locale di Lugagnano di Sona funziona, perché si sono ricreati l’atmosfera e lo spirito dei club londinesi degli anni ’70, quando quello che contava era fare e ascoltare musica dal vivo. Largo spazio alle band veronesi
di Cinzia Inguanta La formula del successo? Giamprimo Zorzan, socio fondatore e art director del Club Il Giardino, non ha dubbi in proposito, la formula è una sola: la passione. La storia del locale inizia nel 2000 con un gruppo di amici amanti della musica di qualità suonata dal vivo, che organizzandosi, in quella che era poco più di una taverna, fa suonare gruppi veronesi di rhythm & blues (tra loro la Morblus Band). Piano piano la cosa cresce, il giro degli amici si allarga (attualmente sono 1.300 soci). Nel locale iniziano a suonare anche nomi importanti e così nel 2004 nasce ufficialmente il circolo culturale Il Giardino. Il concerto della serata d’inaugurazione è tenuto da una band veronese, proprio per ribadire che il circolo vuole essere uno spazio aperto ai gruppi giovanili che difficilmente troverebbero luoghi in
cui esibirsi e farsi conoscere. Dopo sei anni di attività, il locale è diventato una garanzia di qualità non solo a Verona, ma in tutta Italia e punto di riferimento per tutti gli amanti del progressive, il genere musicale prediletto dai soci fondatori del club. Tanti gli artisti di fama internazionale che si sono esibiti sul palco de Il Giardino, tra questi basterà ricordare alcuni nomi come Peter Hammill dei Van der Graaf Generator o i Fairport Convention o tra i nomi italiani Elio e le Storie Tese e davvero molti altri. E a tutti piace suonare al Giardino, tutti tornano volentieri di anno in anno. Perché? La spiegazione che da Peter Hammill è che in questo locale è bello suonare perché si sono ricreati l’atmosfera e lo spirito dei club londinesi degli anni ’70, quando tutto quello che contava era fare e ascoltare musica dal vivo. La prerogativa che ha determinato il
successo del locale è quella di avere il palco allo stesso piano del pubblico, senza divisioni. Questo piace molto sia agli spettatori, che si sentono partecipi dello spettacolo, sia agli artisti che si sentono tutt’uno con il loro pubblico. La programmazione degli eventi è fatta in modo da lasciare spazio alle band locali il giovedì e il venerdì sera, che tra l’altro sono serate ad ingresso libero, mentre il sabato è riservato a gruppi più affermati. Il progetto ha avuto molto successo soprattutto tra i giovanissimi, cioè quelle formazioni composte da ragazzi di diciannovevent’anni che non troverebbero posto per esibirsi, perché chi organizza serate, generalmente è interessato solo a nomi che possano garantire un incasso sicuro. L’intraprendenza e l’amore per il progressive di Zorzan e dello staff de Il Giardino non si ferma qui. Da cinque anni, infatti, sono tra
gli organizzatori e i promotori del Verona Prog Fest, manifestazione, nell’ambito della musica progressiva, tra le più importanti in Italia e non solo. Anche qui lo spirito che promuove l’iniziativa è lo stesso, così il cartellone dà molto spazio a band emergenti italiane e veronesi. Ecco allora che vicino ai mostri sacri David Jackson, Truy Gunn, Gianni Leone, Lino Vaieretti, Fabrizio Fariselli, padri del genere prog, ci sono gruppi come i Conqueror di Messina, VIII Strada di Milano, gli emiliani Altare Thotemico, i veronesi Logos e Gran Torino che parlano una loro lingua nel panorama del prog, non imitando i grandi del passato, ma prendendone spunto percorrono strade nuove, consapevoli della difficoltà del cammino intrapreso. Il Club Il Giardino è a Lugagnano di Sona e ha un sito web: www.clubilgiardino.org.
Giamprimo Zorzan, Filippo Perbellini, Sonny Rhodes
in VERONA
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Cultura
Paola Bozzini
di Cinzia Inguanta La luce è uno degli elementi rivelatori della vita, illumina e contemporaneamente genera ombra. La luce, la sua ricerca è anche una costante nelle opere di Paola Bozzini, varie per tecnica e temi – tanto da sembrare eseguite da mani diverse, – ma in tutte è la luce a prevalere, il traguardo da raggiungere. Paola senza mai stancarsi, nella vita come nell’arte insegue la luce: per questo i suoi quadri sono coinvolgenti, emozionanti, istanti di una vita che sembra scritta da uno sceneggiatore, istanti fermati sulle tele con il colore. Paola nasce figlia d’arte in una famiglia alto borghese. La madre, attrice teatrale e fondatrice di un’accademia d’arte dalla quale sono usciti grandi artisti (Alessandro Haber un nome per tutti), ha un salotto letterario frequentato dai più bei nomi della cultura dell’epoca. Per una ragazza che cresce in un simile ambiente è impossibile non essere coinvolta dal fascino dell’arte e iniziare a sognare un futuro in cui poter esprimere la propria creatività sotto il profilo della forma e del colore. La prematura morte del padre sconvolge la vita della famiglia e il futuro diventa incerto, precario. Paola che sa essere anche molto concreta, cambia indirizzo di studi diplomandosi alle magistrali senza rinunciare al sogno di frequentare l’accademia di Brera. La madre però contrasta le aspirazioni artisti-
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I colori dell’anima I ricordi dell’artista e giornalista Paola Bozzini raccontati attraverso la pittura
che della figlia spingendola verso un matrimonio di convenienza, in cui Paola si sente intrappolata. Sono anni emotivamente difficili, così tormentati che alla fine l’unica cosa da fare è dare un taglio netto. Così Paola lascia tutto e tutti per ricominciare da sola a riscrivere le pagine di una vita da protagonista. Si reca a Roma, poi in Toscana dove inizia la collaborazione con una casa editrice, comincia a scrivere poesie e riprende in mano il blocco degli schizzi. È un periodo fecondo, la vita sembra tornare luminosa. Il lavoro e tutto quello che ha fatto parlano per lei: scrittrice, giornalista per Il Tempo, Il Gazzettino, Verona Magazine, insegnante e poi... poi le sue poesie, i suoi quadri. L’opera pittorica di Paola ci svela la sua vita, i ricordi, le sensazioni, racconta il colore della sua anima attraverso paesaggi che rivivono in tagli di luce colti per lo più nella natura. Ai ricordi appartengono anche i luoghi amati come Venezia, ritratta più volte cercando di cogliere le sfumature suggestive degli scorci novembrini. La luce che nei suoi vari aspetti – naturalistico, simbolico, emotivo – diviene il mezzo di comunicazione visiva della complessa personalità dell’artista. Non importa quante e quante volte la luce fugga via o inganni, quante volte vada ricominciata la ricerca; importa che la corsa continui e dia vita ad altre suggestioni, ad altri lavori, alimentando nuove scoperte e nuove idee.
Giugno 2010
Cultura EDITORIA
Bookcrossing: la liberazione dei libri Abbandonare testi in luoghi pubblici della città perché possano essere letti: è il principio dell’attività nata dieci anni fa negli USA e praticata anche a Verona
di Alvise Pettoello
Il bookcrossing ha come principali nemici le case editrici che lo vedono come una minaccia seria a propri affari, vista la rapidità con la quale sta prendendo piede. I bookcrosser invece sono convinti che questa libera iniziativa favorisca lo sviluppo del mercato editoriale in quanto la libera circolazione dei volumi stimola nuove letture e quindi anche nuovi acquisti
in VERONA
Il 12-13 giugno si è tenuto a Verona il meetup nazionale dei bookcrosser o book corsari, coloro i quali si dedicano al bookcrossing, una pratica gratuita e volontaria iniziata circa dieci anni fa negli Stati Uniti, dove esiste la comunità più numerosa, e che negli anni successivi ha avuto diffusione in altri 130 paesi, nei cinque continenti. Il bookcrossing prevede la liberazione di libri: il libro viene lasciato volutamente in luoghi pubblici allo scopo di farlo recuperare da altre persone favorendone la circolazione e quindi la diffusione dei contenuti. Ma nel suo percorso il libro viene costantemente seguito: dietro al bookcrossing esiste una procedura che consiste nel registrare sul sito www.bookcrossing-italy.com il libro. Con la registrazione viene assegnato un numero univoco (il BCID) che deve essere applicato sulla copertina tramite un etichetta, reperibile sul sito. Il BCID è la chiave del successo di questa pratica: permette il riconoscimento del libro, consente di segnalarne sul sito il ritrovamento in un determinato luogo e di lasciare commenti e pensieri ispirati dal libro che tracceranno il suo percorso. Nel 2001 Ron Hornbaker ebbe l’intuizione di progettare un sito internet allo scopo di tracciare e seguire i libri. Il sito riscosse un
successo immediato. Ad oggi sono quasi 500 mila iscritti in tutto il mondo. Al sito gemello italiano sono registrati quasi 3.000 utenti. Il bookcrossing ha come principali nemici le case editrici che lo vedono come una minaccia seria a propri affari, vista la rapidità con la quale sta prendendo piede. I bookcrosser invece sono convinti che questa libera iniziativa favorisca lo sviluppo del mercato editoriale in quanto la libera circolazione dei volumi stimola nuove letture e quindi anche nuovi acquisti. A chi si registra sul sito vengono consigliate delle Official Crossing Zone (OCZ), luoghi officiali, segnalati solitamente con locandine o poster, dove i bookcrosser possono depositare o prelevare i loro libri con una frequenza maggiore rispetto a luoghi non ufficiali. Anche a Verona, se pur quasi sconosciute, esistono delle OCZ: il Comitato territoriale dell’ARCI di Verona, il Buri Bar presso Villa Buri, il Cinema Fiume, la pizzeria
al taglio “Zio Lele”, il Centro culturale “Corte Salvi” a Bovolone, la Cooperativa PaneVino a Pedemonte. È sempre possibile registrarne anche di nuove, collegandosi semplicemente al sito e dandone comunicazione. Quasi nulla viene lasciato al caso: sul sito sono riportate regole per rendere facilmente riconoscibile il libro e agevolare lo scambio. L’etichetta deve essere posta in maniera visibile e chiara, magari sulla copertina o sul retro del libro. All’interno del libro meglio descrivere brevemente cos’è il bookcrossing, perché chi raccoglie il libro, specialmente se lasciato non in zone OCZ, deve capire rapidamente che il libro non è stato perso o dimenticato ma che sta facendo un percorso. A Verona sono circa una ventina i corsari più attivi. Più quasi 300 iscritti al forum ufficiale forum.bookcrossing-italy.com. Si incontrano una volta al mese, solitamente in qualche locale del centro storico o presso una OCZ.
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Lib ri NEWS DAL MONDO EDITORIALE di Giordano Fenzi
Perosini Editore Bozidar Stanisic Il cane alato Euro 14,00 Una fragile linea di confine alle porte di casa, poco lontano da Trieste, separa il mondo occidentale da quello dell’Est. Stanisic, intellettuale bosniaco, ha attraversato questa linea sia fisicamente, da esule pacifista, sia come scrittore che osserva il nostro “Nord-Est”: un modello di sviluppo, con i suoi eroiprotagonisti e i suoi modelli. I racconti di Stanisic sono storie individuali che si dibattono nel “migliore dei mondi possibili”, il quale, tra successo e ipocrisia, mostra un grande vuoto morale. Stanisic ci ricorda che c’è un impegno necessario per tutti: recuperare il senso della comune umanità al di là di ogni frontiera, anche da quella illusoria del benessere.
Perosini Editore Italo Bosetto La luce di Emmaus Euro 13,00 Il Vangelo di Luca riscritto in versi. Italo Bosetto, poeta veronese, interpreta l’intero Vangelo lucano, dando vita a un’opera che costituisce un’assoluta
novità. Le cinque sezioni della raccolta accompagnano, come lungo uno stesso cammino, il testo di Luca e la poesia di Bosetto regala intense emozioni e fa vivere la narrazione di una particolare luce, capace di evocare la vita della Palestina ai tempi di Gesù. Nel testo s’incontra un Gesù di Nazareth vicino all’uomo di oggi, una Miriàm, una Madre simbolo universale, alla quale sono dedicati i versi più profondi e delicati.
EMI Giampaolo Trevisi Fogli di via. Racconti di un vice questore Euro 8,00 I Fogli di via hanno il timbro delle Questure e le firme dei Vice Questori, proprio come questo primo libro scritto da Giampaolo Trevisi, Vice Questore di Verona. I racconti, pieni d’umanità, prendono il posto delle statistiche, fatte di numeri freddi e impersonali. L’autore porta a sognare un mondo le cui uniche frontiere invalicabili sono quelle dell’emarginazione del più debole, del diritto alla vita e del rispetto per tutti nella diversità delle culture. Presentazione di Gad Lerner.
Cierre edizioni in coedizione con IVRR Alessia Bussola «Parto domani, tornerò certamente». Verona dalle leggi razziali alla deportazione (1938-1945). Euro 12,50 Le leggi razziali del 1938, furono accolte dai veronesi con “sostanziale indifferenza”. Attraverso nuove ricerche d’archivio e preziose testimonianze, l’autrice dà un’interpretazione storica impietosa del periodo, dando spazio a una memoria «che molti avrebbero preferito tenere sopita». L’indifferenza dei veronesi per quelle leggi vergognose è analoga a quella che si registra nello stesso periodo nei confronti di fascisti e partigiani, tanto che i primi parlano di una popolazione lontana dal fascismo e i secondi si lamentano perché Verona si risveglia solo a cose fatte, il 26 aprile 1945, «con la mascherata della cosiddetta insurrezione».
Cierre edizioni in coedizione con IVRR Beppe Muraro, Lorenzo Rocca, Marco Solazzi Sui sentieri della libertà. I luoghi della Resistenza sulla montagna veronese Euro 12,50
di liberazione partigiana dall’occupazione nazifascista. Attraverso interviste e documenti d’epoca, gli autori ci guidano alla scoperta di una pagina spesso dimenticata della resistenza veronese, meritevole di essere raccontata. Questo libro è un invito ad andare in montagna con spirito diverso, per sentirsi liberi. Oggi come ieri.
Bonaccorso Editore Filippo Bombara Il violino di York e altri racconti Euro 14,00 L’infanzia e le sue ingenuità, l’amore e i suoi risvolti anche drammatici, l’amicizia e i rapporti familiari. Sono questi i temi dei 18 racconti che compongono il primo libro di Filippo Bombara. Ufficiale dell’Esercito, l’autore vive a Verona dal 1991 e fin da adolescente coltiva la passione per la scrittura. In questa sua prima pubblicazione, Bombara racconta quadri di vita quotidiana, alla riscoperta di sentimenti del passato. Con uno stile sobrio e penetrante, l’autore accompagna il lettore nei suoi racconti attraverso splendidi paesaggi meridionali.
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Descrivendo quattordici itinerari tra Baldo e Lessini, “Sui sentieri della Libertà” è una guida escursionistica e un percorso storico attraverso le vicende della guerra
Giornale di attualità e cultura Direttore Giorgio Montolli
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Giugno 2010
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