Verona In 28/2011

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• TANGENTOPOLI 20 ANNI DOPO

VERONA

(Inchiesta) SCHIAVI DEL TERZO MILLENNIO

VERONA SOTTO SCORTA Ma ce n’è bisogno? www.veronainblog.it N° 28 - APRILE 2011 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) ART. 1, COMMA 1 - DCB VR



Primo piano In copertina: Piazza Erbe (Verona)

Ognuno faccia bene la sua parte

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Ambientalisti, associazioni, comitati e politici: quello delle opere di “mitigazione” proposte dal PD sul traforo è un caso emblematico per riflettere sui ruoli che competono a ciascuno. E per imparare a dialogare in modo costruttivo

in VERONA

A gennaio i gruppi consigliari del Partito Democratico, Per Verona Civica e dell’Ulivo per Verona hanno presentato al Consiglio e alla Giunta comunale alcune proposte per ridurre i danni sanitari e ambientali legati alla realizzazione del Traforo delle Torricelle. Le proposte di “mitigazione”, come sono state chiamate, erano riferite al devastante e costosissimo progetto che, se realizzato, non risolverà i gravi problemi per il quale è nato, ma ne creerà di nuovi. Le proposte sono state formalizzate l’indomani della presentazione in Consiglio di 912 emendamenti, la cui discussione avrebbe paralizzato per parecchi mesi la macchina amministrativa prima di giungere al voto. Gli accordi sono stati più o meno questi: «Tu Amministrazione accetti di rendere il traforo meno invasivo e introduci condizioni favorevoli per gli espropriandi, io opposizione ritiro parte degli emendamenti, pur ribadendo il mio no al progetto al quale voterò contro». Su questo modo di procedere si è aperta un’accesa discussione tra le parti interessate, che non ha riguardato solo maggioranza e opposizione in Comune, ma che ha coinvolto anche il mondo ambientalista, il Comitato contro il collegamento autostradale delle Torricelle, i Cittadini per il referendum, ecc. Infatti Legambiente, Italia Nostra, WWF, Amici della bicicletta, Comitato contro il traforo e Il Carpino, con sfumature diverse, hanno stigmatizzato l’iniziativa del PD e relativa cordata. Hanno cioè espresso contrarietà alle proposte di mitigazione per almeno tre motivi: 1) le hanno ritenute grossolane, prive di solide basi scientifiche; 2) perché prima di formularle sarebbe stata buona cosa consultare quella parte di società civile che da anni, con diverse e qualificate competenze, si oppone al progetto; 3) assomigliavano

un po’ troppo a un calare le brache. Sul fronte politico Sinistra ecologia e libertà, ma anche i Comunisti italiani e l’Ulivo, hanno accusato il PD di inciucio e di rafforzare, dialogando con il centrodestra, la posizione di Tosi a un anno dalle elezioni amministrative. Alla fine la variante è stata approvata lo scorso 23 febbraio con 31 voti favorevoli e 13 contrari. Un capitolo chiuso, questo della mitigazione, ma che ci offre lo spunto per alcune riflessioni a posteriori. L’orientamento politico della maggior parte dei soggetti coinvolti si colloca, con sfumature diverse, nell’area definita di centrosinistra. È qui che a una tesi si contrappone un’antitesi, da cui deriva la rappresentazione di un’eterna e lacerante coflittualità. Sarebbe invece auspicabile depurare ciascuna posizione da incrostazioni ideologiche, o interessi di parte, per giungere a una sintesi costruttiva. Le forze a sinistra del PD potrebbero, ad esempio, indicare un percorso praticabile per impedire la realizzazione del traforo, che non sia solo quello di invitare la popolazione a sdraiarsi davanti alle ruspe il giorno dell’apertura dei cantieri. Parlare di inciucio, demonizzando un alleato, senza fornire elementi concreti che suggeriscano alternative, è una tattica distruttiva perché mira al consenso spicciolo senza liberare energie positive (lo ha capito bene Vendola). Anche la nostra città è immersa in un anacronistico concetto di sviluppo e non ha mai opportunamente considerato le associazioni ambientaliste che, opponendosi alla cementificazione, sono ancora viste come un freno al progresso e all’espansione. Bisogna invece prendere atto che esse si sono sforzate di assumere nel tempo competenze specifiche e che continuano a impegnarsi per scrollarsi di

dosso alcuni pregiudizi ideologici guadagnando in autorevolezza. Il mondo della politica le dovrebbe quindi consultare, senza pretendere compromessi e appoggi incondizionati che ne sfalserebbero il ruolo. Ma queste associazioni dovrebbero a loro volta capire che la politica è il luogo della mediazione, non dell’intransigenza. Quindi, fatti i dovuti distinguo, è poi sbagliato l’attacco frontale nei confronti di ogni proposta (traforo corto?) che esce dal pensatoio delle sinistre, perché è anche questo modo di fare che crea i presupposti per la realizzazione di progetti mostruosi. L’ultimo pensiero è per il PD. Questa politica dei due forni non è nata dal nulla: ha comunque preso atto dell’intenso e ammirevole lavoro svolto dal Comitato contro il collegamento autostradale delle Torricelle e dai Cittadini per il referendum; ha registrato le difficoltà nell’impedire la realizzazione dell’opera e ha cercato di ridurre il danno in caso di sconfitta. Questa del PD è quindi un’azione che politicamente parlando ha un senso (se avviene in modo trasparente e senza secondi fini) perché al momento non si vedono altre strategie convincenti (e se ci sono saltino subito fuori). La questione diventa piuttosto un’altra: siamo sicuri che gli accordi tra PD e centrodestra saranno rispettati dall’entourage di Tosi? Si spera che politici di professione si siano posti e soprattutto abbiano risolto il problema delle garanzie: in politica il motto “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” non è più un consiglio, diventa un assioma. Davvero sarebbe poi difficile per i rappresentanti del PD spiegare alla gente cosa è successo senza passare per fessi. g.m.

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Primo piano

Verona avrà un nuovo giornale

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È iniziato il primo Corso pratico di giornalismo per la nuova Verona. Partecipare ai processi della comunicazione consente di rafforzare il legame con il territorio, oggetto dell’interesse giornalistico, contribuendo così alla costruzione di identità ben integrate e di modelli culturali al passo con i tempi

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19 marzo, primo incontro del Corso pratico di giornalismo per la nuova Verona

È iniziato lo scorso 19 marzo il primo Corso pratico di giornalismo per la nuova Verona organizzato da questo periodico in collaborazione con Associazione monastero del bene comune e Cisl. Al corso partecipano una decina di giovani tra i 17 e i 24 anni: immigrati di seconda generazione nati a Verona (G2), ma anche veronesi autoctoni. Il programma del corso si sviluppa in sei incontri. Dopo una parte teorica iniziale, con l’intervento di alcuni esperti (Raffaello Zordan di Nigrizia e Gabriele Colleoni de L’Arena) il lavoro è stato organizzato come in un giornale: la riunione dei redattori (i ragazzi), la stesura del timone e del menabò, la scelta degli argomenti e la distribuzione degli incarichi. Tra un incontro e l’altro, i corsisti svolgono attività autonoma seguiti da un tutor su Facebook, al fine di realizzare un giornale tabloid il cui nome sarà La nuova Verona. Una volta preparato il materiale, si procederà insieme alla titolazione, all’impaginazione elettronica, alla stampa e correzione delle bozze. Ciò che però rende il corso unico saranno i contenuti del giornale: nel nuovo tabloid non si parlerà di integrazione, intercultura, razzismo (solo marginalmente). I temi non riguarderanno cioè gli immigrati, ma la città in cui essi vivono e verso la quale si relazioneranno con la curiosità richiesta a un cronista: né più né meno di quanto

accade nelle altre redazioni veronesi. Perché questa iniziativa? C’è un significativo dato anagrafico: nel 2009 i minori figli di cittadini immigrati nel veronese erano 22.375, su una popolazione immigrata di 96.309 unità. Nel 2004 questi minori erano 11.116. Il loro numero è quindi raddoppiato in appena cinque anni. Ma ci sono anche considerazioni di carattere culturale: troppo spesso l’immigrato è percepito unicamente come fonte di problemi. A questa valutazione superficiale – che deriva anche da stereotipi creati dai media e da politiche razziste – si contrappone lo sforzo di diversi agenti sociali che operano per l’integrazione attraverso valide iniziative che hanno come soggetto l’immigrato, con tutti i suoi problemi. È però lecito iniziare a chiederci se non sia il momento di pensare a un ulteriore sforzo per uscire dal ghetto a cui inevitabilmente conducono le problematicità. L’idea del Corso pratico di giornalismo è nata dalla convinzione che partecipare attivamente ai processi della comunicazione consente di rafforzare il legame con il territorio favorendo la costruzione di identità ben integrate, consapevoli dei propri diritti e doveri, di modelli culturali al passo con i tempi. Il Corso pratico di giornalismo nasce nel 2008 nell’ambito degli impegni lavorativi dell’editore di questo giornale, che ha visto co-

involti gli studenti del triennio del Liceo Medi di Villafranca. Si tratta di giovani con un’età compresa tra i 16 e i 19 anni, più o meno l’età dei G2. Grazie all’impegno dei professori Elena Lonardi, Marino Rama e del preside Mario Giuseppe Bonini, l’esperimento ha dato buoni frutti: il 1314 novembre 2009 il giornale Mediavox, che è l’elaborato finale del Corso, è stato presentato al convegno dell'Università di Verona sul tema "Le radici dei diritti. Il diritto all'informazione" a cui hanno partecipato i giornalisti Riccardo Iacona e Gian Antonio Stella. La pubblicazione ha ricevuto il Premio Nazionale "Fare il giornale nelle scuole", edizione 2010, indetto dall'Ordine Nazionale dei Giornalisti Italiani. Altro primo premio nazionale è giunto in questi primi mesi del 2011 da Alboscuole, Associazione nazionale di giornalismo scolastico, Targa d’argento del Presidente della Repubblica. Infine il quotidiano la Repubblica ha messo a disposizione dei ragazzi del Medi una pagina web in cui possono pubblicare i loro articoli. Il Corso pratico di giornalismo per la nuova Verona si innesta quindi su questa ormai consolidata esperienza.

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Opinioni

Se la politica diventa narrazione Oggi chi studia da leader si rivolge ai cittadini come a veri e propri (e)lettori di una narrazione che mira a creare partecipazione e consenso

di Gianluca Sgreva egli ultimi dieci anni l’attenzione degli elettori si è sempre più spostata dalle narrazioni corali di partito a quelle del singolo personaggio politico. La capacità di raccontare la propria narrazione vivente in modo credibile, convincente, coinvolgente è diventato elemento fondamentale per chi vuole far conoscere e comprendere il proprio punto di vista. L’arte politica e l’arte di governare, hanno bisogno dell’arte di comunicare e, in particolare, dell’antica arte di raccontare. Ed eccoci allo storytelling politico, moderna applicazione tecnica della narrazione, per rendere facilmente comprensibili – attraverso comuni frame di senso – le proprie idee, valori, visioni di futuro per creare nella platea elettorale partecipazione, identificazione, consenso. Negli Stati Uniti d’America gli uomini politici che hanno aspirato alla Casa Bianca – e questo fin dal primo presidente George Washington – hanno sempre dovuto raccontare una storia persuasiva sulla loro vita, sulla loro azione politica, sulla nazione. E da questa base narrativa, attraverso la forza della loro leadership, hanno potuto far immaginare, in modo credibile, ciò pensavano potesse diventare il futuro per l’America e gli americani. Queste narrazioni sono state via via nel tempo sempre più attentamente costruite e presentate, con il fine di persuadere i cittadini. Poiché il medium narrativo offre questa grande possibilità di comunicare significati complessi in modo semplice emozionale e profondo, la politica ne fa sempre più uso. La narrazione è sempre più all’interno dei discorsi politici (lettere, pubblicazioni, interviste, manifesti pubblicitari, ecc.), ed è sempre più impiegata a livello strategico per costruire il personaggio. Dwight David Eisenhower, alle elezioni presidenziali del ’52, sfruttò la propria fortissima storia militare che lo raccontava come il grande stratega della vittoria della Seconda Guerra Mondiale in Europa e pri-

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mo comandante della Nato. «Andrò in Corea», fu lo slogan che usò durante quella campagna: sintesi efficace di una narrazione politica capace di catturare il popolo americano in quel preciso momento storico e di fargli immaginare un futuro desiderabile e credibile. Il celebre discorso di John Kennedy in cui lanciava gli Stati Uniti nella sfida politico-tecnologica di far atterrare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra, ha infiammato l’orgoglio degli americani in un particolare momento storico e li ha fatti sentire parte del racconto del loro Presidente. La narrazione di pacifica protesta fatta da Martin Luter King – riassunta nel celebre discorso I have a dream – era fatta di immagini capaci di connettersi al sentire della gente e di generare un grande sogno collettivo del vivere in pace senza distinzioni di razza. Per venire ai giorni nostri, in Francia, Nicolas Sarkozy, durante la campagna elettorale del 2007 condensò nella propria narrazione quanto più poté della storia del suo paese. Legò il proprio racconto ai valori storici dei luoghi che visitava in campagna assorbendone la forza, agganciando così la memoria della gente, guadagnando credibilità e fiducia. In Italia nel 1994 Silvio Berlusconi trasportò in politica la propria storia di imprenditore, indicando al pubblico elettorale una traiettoria che, partendo dalla solidità dei suoi successi imprenditoriali, puntava a far immaginare e sperare un futuro di cambiamento e di concretezza, in un momento di forte sfiducia verso la classe politica. Nichi Vendola – che più di tutti oggi sfrutta tecniche di storytelling – insiste sulla necessità di “creare una nuova narrazione” della sinistra, e si propone come riferimento di un popolo, quello del PD, alla ricerca di un leader carismatico, capace di far uscire il partito dalla crisi in cui versa. La narrazione semplifica, rende comprensibile, emoziona. Oggi il politico che non “scrive” e “pubblica” i propri “racconti politici”, commette l’errore di non consegnare al cittadino uno strumento attraverso cui farsi leggere e, se convincente, anche eleggere. www.storytellingpolitico.wordpress.com

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Opinioni

Due euro per gli alluvionati? Perché da decenni in Veneto si continua a costruire, senza ascoltare il parere di chi è in grado di valutare l’impatto sul territorio?

di Guido Gonzato i risiamo.Dopo le esondazioni dello scorso novembre,l'est veronese ha recentemente vissuto nuovamente l'incubo delle alluvioni. Ho sempre creduto che aiutare il prossimo sia un fondamentale dovere civico. Purtroppo le occasioni non mancano e ho sempre cercato di fare la mia parte. Ebbene, con riferimento ai danni causati dalle alluvioni dello scorso novembre (veniva chiesto di donare due euro), l'invito alla solidarietà per diversi motivi ha generato anche una grande amarezza e rabbia. Per cominciare, va detto che si è trattato di una catastrofe accuratamente preparata con anni di cementificazione. Ho studiato geologia all’università e, da sempre, ripeto che non possiamo continuare a consumare il territorio in questo modo; prima o poi la pagheremo cara, perché la natura ha i suoi equilibri. Ogni nuova casa, ogni nuova strada, capannone, centro commerciale, autodromo e così via, im-

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permeabilizza il suolo: impedisce cioè al terreno di assorbire la pioggia. L’acqua che non viene assorbita scorre e va a riempire i corsi d’acqua naturali e artificiali. La loro portata ha un limite e, se questo viene superato, avremo un’inondazione. Perché è stato consentito di coprire di cemento la nostra terra fino a questo punto? Sento dire: la crescita, l’economia, il PIL. Di queste risposte ho la nausea. A chi ragiona in questi termini vorrei chiedere: bene, non sei contento? Come tutti i disastri naturali, anche questo ha movimentato denaro per la ricostruzione: di fatto, l’alluvione ha contribuito a far crescere il PIL nazionale. Si, funziona proprio in questo modo: la gente muore, perde la casa e il lavoro, ma il PIL cresce. Verrà mai gettata alle ortiche questa ragioneria aberrante? Perché da decenni qui in Veneto si continua a costruire, senza ascoltare il parere di chi è in grado di valutare l’impatto sul territorio? Perché devono decidere i politici e non gli idrogeologi? E ancora: se proprio si è deciso di costruire, ci si è almeno preparati al peggio? Era stato previsto il potenziamento della rete di canali di drenaggio? Veniva effettuata regolarmente la manutenzione dei corsi d’acqua per assicurarsi la massima portata? Erano state previste zone di svaso in caso di alluvione? Per quale motivo le stesse piogge, dall’altra parte della Pianura Padana, non hanno provocato i disastri che sono successi da noi? L’Emilia e la Toscana hanno zone perfino più suscettibili delle nostre alle alluvioni. Ma chi ha gestito quelle regioni, a quanto pare, è stato molto più lungimirante e attento alla gestione del territorio. In Emilia e in Toscana non si costruisce a cuor leggero come in Veneto. Non a caso la Toscana è rimasta una terra meravigliosa, mentre la splendida campagna veneta di una volta non esiste più. Oltre al principio della solidarietà, credo fortemente in un antico principio “di destra”: chi sbaglia paga. E allora pretendo che chi ha sbagliato, chi ha contribuito a provocare l’alluvione, paghi. Chi ha gestito il territorio negli ultimi decenni, chi ha consentito di cementificare oltre ogni ragionevole limite, chi ha trasformato la campagna veneta di una volta nell’attuale distesa di capannoni, chi non ha provveduto alla manutenzione dei corsi d’acqua, dovrebbe essere chiamato a rispondere economicamente e penalmente di questo scempio. Così come vengo chiamato a rispondere io se combino dei guai sul lavoro. Vogliamo chiamare a contribuire anche gli evasori fiscali veneti? In un articolo sul Fatto quotidiano Natalino Balasso ha quantificato, provincia per provincia, l’ammontare dell’evasione accertata: più di un miliardo di euro. Prima o poi, capiremo che a gestire il territorio non possono essere i politici. Sono incompetenti nel migliore dei casi, corrotti nel peggiore. Io vorrei vedere idrogeologi, naturalisti, ingegneri prendere il posto dei vari assessori che hanno portato il Veneto a questa situazione. A quel punto sarò molto più contento di contribuire anche io con i miei soldi.

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«Donneinlettura» a Verona «Leggere, perché i libri ci rendono migliori, più allegri e più liberi» (Corrado Augias)

di Corinna Albolino idea di un gruppo di lettura, presso alcune librerie e associazioni della città di Verona, intende rappresentare per le donne un atto di resistenza, un gesto di etica del rifiuto al degrado culturale che ci circonda. Nasce infatti dalla consapevolezza che la lettura è cibo per la mente in quanto educa l’intelligenza emotiva, arricchisce il linguaggio, insegna a esprimersi e soprattutto dà forma al pensiero e sviluppa il senso critico. Una buona pratica intellettuale insomma per comprendere anche quello che sta succedendo alle donne, così da reagire, ribellarsi indignate a un Paese che da tempo, come bene ci ricorda la filosofa Marzano, le offende, violenta, uccide. Più oltre, la proposta muove dalla considerazione che oggi si assiste a un venir meno di questo interesse. Le inchieste sociali dicono che si legge molto poco, nonostante le librerie abbondino di testi perché tutti scrivono e pubblicano, nonostante i rinomati festival, sebbene le biblioteche si siano trasformate in spazi accoglienti, moderni e attrezzati. «Non ho tempo per leggere», questa frase è diventata un luogo comune nella nostra società. In una società del fare – che privilegia l’efficienza, la visibilità, l’utile immediato – questo esercizio è considerato un’occupazione faticosa, che richiede attenzione, impegno riflessione. Nell’accelerazione del quotidiano viene quindi vissuta come una perdita di tempo. Accade così che la lettura del testo, che forse abbiamo coltivato in un’epoca diversa della nostra esistenza, non costituisca più un nostro rifugio, un nostro interesse. Ebbene, questa iniziativa mira proprio a risvegliare questo piacere. Perché? Semplicemente perché leggere fa bene all’anima, ci rende migliori, più consapevoli come persone. Leggere per riappropriarci di questo gusto, per riscoprire che un romanzo ci può avvincere, un saggio farci meditare, la poesia toccare in profondità. Per riscontrare che sappiamo ancora immergerci nelle storie, identificarci con i personaggi, calarci nelle loro emozioni. Perché, come dice Emily Dickinson: Non c’è naviglio come un libro/ per portarci in terre lontane/ né destrieri come una pagina/ di poesia scalpitante. Tutti i libri sono un viaggio verso l’ignoto. Consci che ogni narrazione ha il potere di far crescere, di trasformarci dentro. Ma non solo. La peculiarità che contraddistingue invero questi gruppi di lettura è quella della condivisione, del dialogo, del confronto. La proposta consiste perciò nel leggere individualmente un libro suggerito e poi ritrovarsi, una volta al mese, per discuterne insieme. In questi incontri avviene allora che il racconto, nel cortocircuito dei diversi

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linguaggi emotivi, delle differenze di pensiero, sorprendentemente si apra alle mille interpretazioni, offrendo contributi di scambio, di riflessione. Capita spesso, in queste occasioni, che il leggere sia un ri-leggere, un soffermarsi su pagine, espressioni singolari del testo, passaggi che si rivelano, alla luce della discussione, più significativi. In particolare, per noi donne, questi appuntamenti sono diventati momenti speciali per stare insieme, una piccola cura dell’anima, un’amorevole concessione strappata a un tempo convulso, a una quotidianità sovraccaricata da mille opache incombenze. Scandiscono finalmente quel tempo per sé importante per conoscersi, per imparare a saper scegliere. Sono l’opportunità di ripensarsi rispetto al proprio vissuto, alle battaglie in tema di emancipazione, uguaglianza e diritti, conquiste rispetto alle quali ci troviamo oggi incredibilmente regredite. In un’Italia che festeggia i suoi 150 anni negli scandali e nelle nefandezze, in cui si è perso il senso delle istituzioni e lo spirito della legge, forse solo la cultura può soccorrerci e offrire gli strumenti per imporci come rinnovati soggetti nel teatro della storia. La lettura, la riflessione, lo stare in colloquio, diventano allora per noi donne dispositivi necessari, indispensabili per capire, riacquisire responsabilità, per non cadere nella rassegnazione, nella sudditanza, nella strumentalizzazione di un potere ignobile. Una risposta all’indignazione morale che, come ci ricorda, Etty Hillesum è la virtù del non volersi assuefare alle ingiustizie, del non diventare vittime dell’indifferenza e dell’impotenza che potrebbero giustificare così il nostro disinteresse e la nostra passività. Per essere donne che fanno della disobbedienza la propria virtù.

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Opinioni

Le tentazioni del dio denaro di Rino Beoni*

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uando ero studente di Teologia mi era stato insegnato a dare giusto peso, significato e valore vincolante ai pronunciamenti del magistero pontificio. Gli atti che il Santo Padre firma non hanno però tutti lo stesso valore: in certi casi, pur non essendo richiesta l’obbedienza nella fede, ad essi vengono attribuiti autorevolezza e rispetto. Appartengono sempre alla responsabilità del servizio papale: nella sua articolazione di magistero, governo pastorale e giuridico. Se non ricordo male il motu proprio è un documento di iniziativa personale del Santo Padre su di un problema o un aspetto della vita della Chiesa affidata alla sua cura. Un documento che pur non rivestendo i caratteri del magistero infallibile o solenne, come sarebbe un documento di proclamazione dogmatica o una enciclica, appartiene pur sempre all’esercizio dell’autorità e dell’autorevolezza di chi lo firma. La stampa ha abbondantemente commentato un documento pontificio, un motu proprio appunto, del Santo Padre Benedetto XVI su un argomento e un problema almeno inconsueto per questo tipo di pronunciamenti: l’adeguamento delle norme contro il riciclaggio di denaro e il flusso di somme all’interno delle strutture economiche e finanziarie, anche della Città del Vaticano. Credo di intendermi più di cose teologiche e pastorali che di quelle pecuniarie, ma leggendo i giornali sono venuto anche a conoscenza di sospetti sollevati dalla Magistratura italiana su operazioni del famoso Istituto Opere Religiose. Un documento su questioni pontificie e fatti di questo tipo, sospetti giudiziari e altro, mi hanno ricordato il lamento dell’allora Cardinale Ratzinger durante la Via Crucis di un Venerdì Santo al Colosseo: «Quanta sporcizia nella Chiesa!». Non credo si riferisse solo ai fatti di pedofilia del clero. Il coraggio di una presa di posizione, come risulta essere un motu proprio, dice abbondantemente il disagio che il Papa avverte, quasi come somma del disagio di tanti credenti e offre un’ulteriore chiave di lettura della determinazione

Il denaro rimane pur sempre l’unica realtà che Gesù, nel suo insegnamento, oppone a Dio. La gravità di operazioni di riciclaggio, che possono coinvolgere strutture e uomini di Chiesa, solleva tanti interrogativi

con cui egli opera, perché le ombre e le cose poco chiare di una struttura umana come l’apparato amministrativo vaticano non si allunghino, offuscando altri aspetti di vitalità e serietà, di coerenza e testimonianza evangelica della Chiesa nel suo insieme. L’equità ed eguaglianza legislativa, la gravità di operazioni di riciclaggio che possono coinvolgere strutture e uomini di Chiesa, sollevano tanti interrogativi. Non è il caso di indulgere a lamenti o pauperismi ideologici, dal momento che anche la complessità della struttura organizzativa ecclesiale necessita di denaro. Realismo vuole si prenda atto che il denaro è e deve rimanere uno strumento utile e necessario, ma che egualmente la sua provenienza va attentamente vagliata. Il denaro rimane pur sempre l’unica realtà che Gesù, nel suo insegnamento, oppone a Dio, avvertendo i suoi discepoli che non si può essere servi contemporaneamente di Dio e del denaro. Non è possibile ignorare l’eco dell’iniziativa di centinaia di Padri Conciliari che avevano promosso un documento sul tema della “povertà nella Chiesa”. Era un invito per tutta la gerarchia della Chiesa ad abbandonare titoli onorifici, insegne e abbigliamenti non liturgici, dimore prestigiose, strumenti apostolici appariscenti e talvolta concorrenziali a quelli di una serietà opulente e consumistica. Il dibattuto non fu dibattuto in Aula conciliare, ma l’eco fu conservata nei cuori e nelle decisioni di tanti vescovi. Dall’adeguamento di norme legislative vaticane, alla vigilanza su possibili abusi pecuniari, alle risonanze negative nell’animo di troppi credenti: è un allargarsi, a macchia d’olio, di ripercussioni, sospetti e amarezze. Il ministero fondamentale della Chiesa è la predicazione del Vangelo, dove alcune pagine inchiodano a precise responsabilità di fronte alle ricchezze, al denaro e al categorico dire “sì quando è sì, e no quando è no”. Se la massima autorità ecclesiale interviene in prima persona in questi ambiti, è perché la comunità cristiana – Vaticano compreso – necessita di un richiamo preciso per evitare scelte contrarie al secondo comandamento sinaitico: “Non avrai altro Dio…”. *Rettore di San Lorenzo

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DIARIO ACIDO di Gianni Falcone


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ACCADEMIA CIGNAROLI L’Accademia Cignaroli di Verona conta circa 560 iscritti tra scuola legalizzata e scuola libera, il tutto diviso in un’offerta formativa che comprende sei scuole e più di 100 discipline

L'Accademia di Pittura "G.B. Cignaroli" fu fondata il 18 dicembre del 1764. Direttore perpetuo fu nominato Gian Bettino Cignaroli, pittore veronese. Dal 1869, per volontà del Conte Paolo Brenzoni, fu istituita la Libera Scuola Brenzoni di Pittura e Scultura che tuttora affianca l'Accademia Cignaroli. È una delle cinque accademie storiche legalmente riconosciute finanziate dagli enti locali, insieme a quelle di Bergamo, Genova, Perugia e Ravenna. Come le altre istituzioni appartenenti al sistema dell'Alta formazione artistica e musicale del ministero dell'Università e della Ricerca, l'Accademia Cignaroli rilascia diplomi di primo livello al termine di un percorso di studi triennale e diplomi di secondo livello al termine del biennio specialistico. Accanto a Pittura, Scultura, Decorazione e Scenografia, in anni recenti sono nati nuovi indirizzi: Progettazione Artistica per l’im-

Il laboratorio di Pittura

In alto: il laboratorio di Decorazione A destra: il laboratorio di Restauro

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presa (Design) e Restauro, corsi in grado di offrire un diretto collegamento con il mondo del lavoro. L’Accademia Cignaroli conta circa 560 iscritti tra scuola legalizzata e scuola libera, il tutto diviso in un’offerta formativa che comprende sei scuole e più di 100 discipline. L’istituto sta vivendo un momento di particolare trasformazione. Dalla funzione ottocentesca della “salvaguardia della tradizione”, la formazione artistica terziaria si è spostata verso il ruolo di “scuola-laboratorio”, operativa non solo sotto l’aspetto pratico, ma anche sotto quello teorico-scientifico. A partire da quest’anno, grazie all’approvazione della legge 87, che definisce i profili di competenza dei restauratori e degli altri operatori che svolgono attività di conservazione dei beni culturali e architettonici, l’Accademia è una delle dieci in Italia a proporre il corso quinquennale per restauratori qualificati abilitati ad intervenire su beni culturali vincolati. In quest’ambito si inserisce la recente firma della convenzione per il restauro di parte della cantoria in legno della Scuola Grande di San Rocco di Venezia. Inoltre l’offerta didattica

dell’Accademia si è arricchita con 80 nuovi corsi in materie innovative, come web design, ergonomia delle esposizioni, light design ed eco-design, tenuti da docenti a contratto tra cui figurano artisti e critici emergenti che affiancano i docenti di ruolo. Nel 2011 l’Accademia sarà presente alla Biennale di Venezia con una selezione di diplomati negli ultimi 10 anni.

Aprile 2008 2011 Luglio


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CENTRO SERVIZIO PER IL VOLONTARIATO Gli obiettivi del CSV sono quelli di promuovere la costituzione di associazioni e sostenerle Diamo una mano a chi dà una mano... è il motto del Csv, Centro Servizio per il Volontariato, che opera nel Veronese dal 1997. L’ente gestore è un’Organizzazione di volontariato (OdV) di secondo livello (ovvero un’associazione di associazioni), iscritta al Registro regionale del volontariato della Regione Veneto. Il CSV offre gratuitamente servizi di consulenza, formazione, progettazione sociale, informazione e promozione a tutti i cittadini e a tutte le realtà del volontariato che, in città e nella provincia,

(iscritte o non iscritte al Registro regionale del volontariato) operano nelle quattro aree tematiche previste dalla legge: valorizzazione e assistenza alla persona, ambito socio-sanitario, tutela dell'ambiente e dei beni culturali, soccorso e protezione civile. Gli obiettivi del CSV sono quelli di promuovere la costituzione di associazioni e sostenerle nella gestione, organizzazione e progettazione, valorizzandone le esperienze e le competenze, coinvolgendo inoltre nelle proprie iniziative, oltre agli organismi di volontariato stesso, anche le istituzioni pubbliche, gli enti locali e di ricerca. Nella promozione del mondo del volontariato locale, l’impegno del Centro passa inoltre attraverso un’azione di ascolto in modo da calibrare gli interventi sulle

reali esigenze del territorio di riferimento e attraverso un’attenta azione di formazione dei volontari che operano nei vari settori. I dati del 2010 confermano il grande lavoro svolto, nonostante il calo del 21 per cento dei fondi disponibili rispetto al 2009, con 510 associazioni che hanno beneficiato dei servizi offerti . In particolare nell’anno appena trascorso sono state effettuate 1.014 consulenze (amministrative, fiscali, giuridiche, progettuali) presso il Centro, a cui si aggiungono le 28.704 offerte dal servizio on line delle Faq (accessibile dal sito web www.csv.verona.it. ) e le informazioni fornite dall’ente attraverso gli strumenti disponibili: 87.529 visite al sito internet; 25 newsletter; 18.485 download dal sito.

Per il settore formazione sono stati organizzati 37 corsi e formati 1.014 volontari Nell’ambito della progettazione sociale, nel corso del 2010, il Csv ha finanziato 241 progetti con il coinvolgimento di ben 17.868 cittadini bisognosi che hanno beneficiato così dei servizi attivati.

CANI E GATTI A VERONA

A Verona si registra la presenza di 155 colonie di gatti di cui quattro giudicate in condizioni di benessere ottime, 57 buone, 91 discrete e tre insufficienti. Raffrontando i dati con quelli del precedente censimento straordinario (risalente all’anno 2000), il numero di gatti è sensibilmente calato passando da 1.500 a 1.385 nel 2009, dei quali 1.126 steriliz-

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zati (l’81,30 per cento del totale). I dati sono quelli dell’ultima relazione sanitaria stilata dal Dipartimento di Prevenzione che contiene le informazioni sulla presenza di determinate specie animali nel territorio dell’Ulss 20. Da quanto si legge aumentano i casi di esposti di persone che non sopportano la presenza di gatti liberi, “per ataviche superstizioni o talvolta per reali problemi di tipo igienico”. Gli interventi in ambito del randagismo canino nell’ultimo quinquennio hanno avuto un forte incremento con 1.016 catture nel 2009 e un aumento dei cani non identificati. Rispetto all’anno precedente si nota un incremento delle catture (+ 152) e contestualmente un aumento del numero di adozioni, da 452 a 526. Parallelamente all’aumento

della presenza di randagi, sono aumentati gli interventi terapeutici e di prevenzione: 228 sterilizzazioni, 702 applicazioni di microchip, 1.384 trattamenti antiparassitari, 1.231 vaccinazioni, 3.723 visite cliniche, 78 certificati internazionali, 626 passaporti e 80 verbali di contravvenzione. Al Servizio veterinario multizonale (Svm) è affidato il compito di tutelare la salute degli animali, controllandoli demograficamente e ricorrendo anche alle sterilizzazioni. Il Servizio controlla anche il randagismo canino in tutta la Provincia di Verona attraverso l’attuazione di una convenzione tra l’Ulss 20 e le Aziende Ulss 21, 22 e gli operatori dell’Associazione protezionistica San Francesco. L’incremento del numero di adozioni è stato raggiunto con il per-

sonale volontario e con la vetrina di cani adottabili visibile sul sito del Dipartimento di Prevenzione. Nel Comune di Verona, a seguito del peggioramento sanitario e dei danni provocati dall’eccessiva proliferazione di colombi in alcune zone del centro urbano, nel 2008 è stato somministrato ai volatili del mangime antifecondativo. Il risultato atteso è una diminuzione che varia del 30-70 per cento il numero delle effettive presenze a medio termine. Da notare che la somministrazione è avvenuta evitando assunzioni da parte dell’avifauna diversa dai colombi.

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Attualità

VERONA SOTTO SCORTA Ma ce n’è bisogno?

Abbiamo l’impressione di vivere in una situazione di pericolo permanente ma i dati sulla criminalità che riportiamo mostrano una Verona tutto sommato tranquilla. Allora perché tante forze dell’ordine soprattutto in centro? Le immagini che vedete sono state scattate in 45 minuti passeggiando tra Piazza Erbe e Piazza Bra. Da tempo si parla di sicurezza reale e percepita; capire la differenza è fondamentale (anche per vincere le elezioni)

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Nel 2010, 75 militari dell’Esercito hanno affiancato le pattuglie delle forze dell’ordine, con compiti di vigilanza e controllo, soprattutto nelle aree ritenute sensibili. Dal primo gennaio 2010 all’8 dicembre scorso, le pattuglie hanno identificato 11.738 persone: di queste, 48 sono state denunciate, 39 arrestate e dieci poste in stato di fermo

di Adele Turri Due volti, diversi e contrapposti, per un’unica città: la Verona che i veronesi frequentano, vivono e conoscono. Da un lato, le strade battute ogni giorno dalle camionette militari; dall’altro, i quartieri che la sera si svuotano perché «passeggiare con il buio fa paura». Da un lato, le campagne elettorali portate avanti a suon di slogan sulla presunta “emergenza sicurezza”; dall’altro, i dati, che vedono il numero di crimini commessi nella provincia scaligera in calo quasi costante negli ultimi anni. I giornali e le televisioni locali, di volta in volta, fanno l’occhiolino all’una o all’altra faccia di una medaglia, che è lo specchio della Verona di oggi.

La città scaligera è diventata negli ultimi anni sempre più tranquilla, ciò non ha portato però i suoi cittadini ad avvertire questo senso di sicurezza. A testimoniarlo, una recente ricerca elaborata da docenti e ricercatori della facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Verona guarda gli omicidi volontari: lo scorso anno ne è stato commesso uno solo, mentre nel 2009 la cronaca nera ne aveva contati ben cinque. Peraltro, si è trattato di un delitto avvenuto all’interno delle mura domestiche: in maggio, Piergiorgio Zorzi, un ragazzo di venti anni con gravi disturbi psichici, ha ucciso il padre Giorgio nell’appartamento di famiglia a San Massimo, tagliandone poi il corpo a pezzi per nasconderlo nel garage. Una tragedia che è stata

l’apice di anni di incomprensioni, rabbia e dolore cresciute nel tempo, fino al gesto estremo, probabilmente frutto di un momento di follia omicida. Il numero più consistente di reati è relativo ai furti (sulle auto, in casa, nei negozi e gli scippi): nel 2010 ne sono stati registrati 15.932, in calo del 13 per cento rispetto al 2009 (18.310) e del 19 per cento rispetto al 2008 (19.664). Sono diminuite considerevolmente anche le rapine:

I DATI A fare il bilancio di un anno di attività delle forze dell’ordine (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di finanza e Polizia municipale) è la Prefettura: tra il primo gennaio e il 30 novembre 2010, il numero complessivo di reati ha toccato quota 29.915, a fronte dei 36.096 delitti registrati nello stesso periodo del 2009 e dei 37.232 del 2008. Secondo i Palazzi scaligeri, dunque, i crimini sarebbero diminuiti del 17,12 per cento rispetto al 2009 e del 19,65 per cento rispetto al 2008. Il dato più significativo ri-

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Focus STRADE PERICOLOSE

Ciclisti e pedoni: dove l’insicurezza oltre che percepita è anche reale di Luciano Butti* Ho in questo momento sotto mano dati non recentissimi (Guido Viale, Tutti in taxi, Feltrinelli, 1996, pp. 208 e seguenti), ma affidabili. Senza voler sottovalutare le preoccupazioni riferibili alla criminalità di vario genere, la vera e più grave “insicurezza” che ci colpisce tutti è la probabilità di diventare vittime di un grave incidente stradale. Oppure che le vittime siano nostri familiari o amici. Le cifre mostrano un vero e proprio olocausto: migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti ogni anno nella sola Italia. Dal punto di vista percentuale, per giovani e giovanissimi, si tratta del pericolo più serio per la vita e l’incolumità fisica. Come sempre, il rischio è particolarmente grave per i soggetti più deboli, ciclisti e pedoni. Inutile sottolineare che si tratta, prima di tutto e soprattutto, di un problema di cultura (di ciascuno di noi, non “degli altri”). Provate ad attraversare la strada sulle strisce a Verona – non è necessario andare a Napoli per provare l’ebbrezza del rischio – e provate a farlo in una qualsiasi città del Nord Europa. Il confronto mostra drammaticamente la lunga strada davanti a noi. Qualsiasi governo o amministrazione locale che davvero volesse ispirarsi alle politiche e alla cultura del “Nord” metterebbe oggi al primo posto la promozione della mobilità alternativa e non – come avviene a Verona – quella dell’auto privata. In mancanza di adeguate politiche promozionali del traffico sostenibile, ci resta purtroppo una sola strada per convincerci e per convincere a un uso moderato, prudente e rispettoso dell’auto: il timore delle sanzioni. Da questo punto di vista, la situazione è leggermente migliorata rispetto al passato, ad esempio per la recente introduzione della soglia zero di alcool per i neopatentati: quando questo Governo fa una cosa giusta, bisogna dirlo, non accade spesso... Moltissime cose restano tuttavia da fare e da cambiare. Ne vorrei citare tre. La prima è quella di eliminare – subito, senza eccezioni né ripensamenti – l’obbligo e la

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Qualsiasi Governo o Amministrazione locale che davvero volesse ispirarsi alle politiche e alla cultura del “Nord” metterebbe oggi al primo posto la promozione della mobilità alternativa e non – come avviene a Verona – quella dell’auto privata prassi di segnalare in anticipo (si tratta di uno degli articoli più letti ogni settimana sul quotidiano cittadino) le strade lungo le quali verranno installati nella settimana successiva i controlli della velocità. Si tratta di un’evidente stupidaggine, sarebbe come se avvertissimo i rapinatori del percorso e degli orari delle volanti della Polizia! Il timore della sanzione e della perdita di punti collegati alla velocità eccessiva costituisce una delle poche remore che tutti noi abbiamo ad adottare stili di guida ancora più spericolati. E i controlli sulla strada costano un sacco di soldi a tutti noi. Non ha senso che veniamo aiutati a eluderli! Per ottenere l’eliminazione di queste allucinanti segnalazioni sarei anche disposto ad accettare, in casi limitati, una revisione in aumento di alcuni limiti di velocità, che in effetti in qualche contesto sono forse troppo restrittivi. Ma allo stesso

modo occorrerebbe introdurre e far rispettare numerose “zone 30”, come avviene in tutto il Nord Europa: l’assessore Corsi lo sa? La seconda è quella di spostare l’asse delle sanzioni dalle multe e dai giorni di reclusione (per lo più teorici, come è ovvio che sia) alle revoche della patente e alla confisca dei veicoli, utilizzando i quali si sono violate gravemente le regole di prudenza nella circolazione. Occorre colpire, pesantemente, nel portafogli e negli interessi. La terza è quella di comprendere che – nei casi di gravissima violazione delle più elementari norme di prudenza (pensiamo a un incidente mortale provocato guidando a tutta velocità contromano o in stato di ubriachezza) – il reato che può essere contestato non è quello di omicidio colposo, bensì quello (assai più grave) di omicidio doloso: nella forma del dolo eventuale, che si verifica quando teniamo un determinato comportamento “accettando il rischio” di produrre una conseguenza tragica che pure non desideriamo. La vita e l’incolumità fisica sono i valori più importanti da salvaguardare: anche con il timore di sanzioni pesantissime, quanto meno sino a quando la politica dell’incompetenza e della chiacchiera, non sarà sostituita da una nuova generazione di amministratori locali esperti che sappiano davvero guardare ai modelli virtuosi del “Nord”. *Avvocato e docente di Diritto internazionale dell’Ambiente presso l’Università di Padova

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Attualità 190 nel 2010, rispetto alle 298 del 2009 (-36 per cento) e alle 284 del 2008. Diversi i bersagli presi di mira dai malviventi: 73 colpi sono stati messi a segno per le vie della città e della provincia, 49 nei negozi, undici in abitazione e quattro negli uffici postali. In particolare, possono tirare un sospiro di sollievo i dipendenti delle banche: le rapine sono passate da 21 nel 2009 a sette nel 2010. Ma non basta. Perché anche il fenomeno delle estorsioni è risultato in calo, con 34 episodi commessi nel 2010, 17 in meno rispetto al 2009, nonostante il territorio scaligero continui a rimanere appetibile per le associazioni criminali, provenienti anche da altre aree geografiche, proprio per l’alto dinamismo del suo tessuto socio-economico. Sono sette, invece, i casi rilevati di usura, anche se il dato non viene considerato rappresentativo, poiché raramente le vittime sono disposte a denunciare i soprusi. Per quanto riguarda l’immigrazione clandestina e la legge Bossi-Fini, nel 2010 sono stati adottati 619 decreti prefettizi di espulsione (rispetto ai 523 dell’anno precedente); inoltre, 35 persone sono state accompagnate alla frontiera e 89 ai Centri di identificazione ed espulsione.

GRISFO, per una conoscenza delle sicurezze Promuovere iniziative storiche, sociologiche e giuridiche che garantiscano una qualificata diffusione della conoscenza sulle forze dell’ordine e sulla sicurezza o, più propriamente, sulle sicurezze: è questo l’obiettivo primario che si è prefissato Grisfo (Gruppo di ricerca interdisciplinare sulle sicurezze e le forze dell’ordine), nato nel gennaio del 2008. A fondare il comitato promotore, Antonio Mazzei, coordinatore provinciale della Cisl Fp-Ministero dell’Interno di Verona, Pasquale Marchetto, imprenditore polesano con alle spalle due anni nell’Arma dei Carabinieri, e Paolo Valer, commissario della Polizia di Stato in pensione. Grisfo, che ha sede a Cantalupa (in provincia di Torino), al momento usufruisce solo di elargizioni di privati e dell’interesse istituzionale della Provincia di Rovigo. Il lavoro del Comitato è portato avanti principalmente attraverso confronti e collegamenti con i corpi di polizia, le organizzazioni politiche, sindacali, economiche, accademiche, associazioni europee e organismi comunitari e internazionali. In que-

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sti venticinque mesi di attività, è stato redatto un Dizionario minimo di sicurezza massima (curato per la Provincia di Rovigo) ed è stata organizzata una giornata di studio sull’Amministrazione civile dell’Interno nell’aula magna della Scuola allievi agenti della Polizia di Stato di Peschiera del Garda. Prossimamente, il Comitato promotore ha in programma due pubblicazioni sulla cittadinanza e sulla difesa civile, oltre a una giornata di studio sulla sindacalizzazione nel Ministero dell’Interno, con pubblicazione degli atti. «Con questo lavoro vogliamo dare un contributo teorico e pratico a quanti si confrontano con i problemi più frequenti della sicurezza, non dimenticando la sua complessità», è il commento di Mazzei, «è evidente che approfondire il poliedrico concetto di sicurezza non è possibile senza l’appoggio della dimensione politico-amministrativa, senza l’attivazione di risorse e la disponibilità, da parte di tutti i centri, a un vero e proprio dialogo con gli studiosi». (A.T.)

Relativamente al fenomeno della prostituzione, come spiegato dalla Prefettura, «le aree maggiormente interessate sono state, anche nel 2010, le zone limitrofe al centro urbano del capoluogo e la strada regionale 11 “Verona-Brescia”». L’ESERCITO Nel 2010, 75 militari dell’Esercito hanno affiancato le pattuglie delle forze dell’ordine, con compiti di vigilanza e controllo, soprattutto nelle aree ritenute particolarmente “sensibili” sotto il profilo della sicurezza, sia del centro storico, sia degli altri quartieri cittadini. In particolare, sono state presidiate la zona della stazione ferroviaria, piazza Pradaval, i Bastioni, Veronetta, San Zeno, Borgo Venezia, Borgo Trieste, Ca’ di David, Borgo Nuovo, Borgo Roma, Saval, Corso Milano e, da ultimo (in fase sperimentale) anche Santa Lucia, le Golosine e Borgo Trento. Dal primo gennaio 2010 all’8 dicembre scorso, le pattuglie hanno identificato 11.738 persone: di queste, 48 sono state denunciate, 39 arrestate e dieci poste in stato di fermo. Inoltre, sono stati controllati 1.406 veicoli e sequestrati 56 grammi di droga, quattro auto e nove armi bianche. L’ADDIO DEL QUESTORE «Il nemico principale da sconfiggere è la percezione di insicurezza: fino a quando la gente non si sentirà rassicurata, non saremo mai del tutto soddisfatti». Non ha usato mezzi termini il questore di Verona Vincenzo Stingone prima di passare il testimone al suo successore Michele Rosato, per trasferirsi a Bologna: «Se vogliamo raggiungere questo obiettivo, dobbiamo lavorare tutti insieme, non solo la Polizia, ma anche le istituzioni e i media». Si dice soddisfatto per i risultati raggiunti nei tre anni di permanenza a Verona: «I dati sono confortanti, le statistiche e i numeri parlano di una criminalità in costante diminuzione, ma non bisogna mai abbassare la guardia». Professionalità ed entusiasmo delle forze dell’ordine, gioco di squadra e sinergia tra le istituzioni: secondo Stingone la ricetta per garantire sicurezza ai cittadini non è poi così complessa. «La nostra arma invisibile è la prevenzione: in

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Attualità

Piazza Pradaval “bonificata” da drogati, spacciatori e clochard

questi anni, abbiamo lavorato molto e spesso nell’ombra, ma i risultati ora si vedono», spiega, «noi non abbiamo l’obbligo di scoprire il colpevole di un determinato reato, abbiamo l’obbligo di fare tutto il possibile per riuscirci, con i mezzi e gli strumenti che abbiamo a disposizione». In particolare, resta ancora una battaglia – la “madre di tutte le battaglie”, come l’ha definita il Questore – da vincere: quella contro la droga. Gli anni di Verona Bangkok d’Italia sono ormai un lontano ricordo, eppure questa rimane una delle piaghe sociali più pericolose e diffuse. Quale via percorrere? «È fondamentale far arrivare ai giovani il messaggio che la droga è schiavitù», conclude Stingone, «e questo è un compito delle agenzie educative: la famiglia, la scuola, le parrocchie devono diffondere la cultura della legalità. Quando la droga diventa un problema della Polizia, spesso è troppo tardi». LA RICERCA Se, dunque, la città scaligera è diventata negli ultimi anni sempre più tranquilla, ciò non ha portato però i suoi cittadini ad avvertire questo senso di sicurezza. A testimoniarlo, una recente ricerca elaborata da alcuni docenti e ricercatori della facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Verona: Paola Di Nicola, Sandro

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Stanzani e Luigi Tronca. Lo studio, dal titolo Forme e contenuti delle reti di sostegno: il capitale sociale a Verona, mira ad analizzare il tema della coesione sociale che lega i veronesi tra loro e con la società nel suo complesso. Tra le varie domande poste agli intervistati, ce n’era una che puntava a rilevare il livello di “sicurezza percepita”: «In che misura vi sentite sicuri nella zona in cui vivete?». Il quadro che emerge per il campione di veronesi non sembra particolarmente positivo, soprattutto se posto in relazione con quello nazionale e con quello del Nordest. Da un’indagine che gli autori hanno svolto su un campione nazionale di individui, infatti, risulterebbe che il 14,1 per cento degli italiani e solo il 9,5 per cento dei residenti nel Nordest si sente poco o per nulla sicuro, contro il 17,1 per cento dei veronesi. Il campione di italiani si considera molto o completamente sicuro nel 35,5 per cento dei casi e quello di residenti nel Nordest addirittura nel 40,1 per cento: i veronesi intervistati si sentono invece molto o completamente sicuri solo nel 22 per cento dei casi. E sempre a livello di sicurezza percepita, Verona risulta essere una città divisa in due: da un lato, un centro a vocazione residenziale, commerciale e turistica, che consente di registrare livelli di sicurezza simili ai valori nazionali e propri del Triveneto; dall’altro, una periferia sentita come meno sicura, basti pensare alla zona di Veronetta, spesso definita sarcasticamente il “Bronx di Verona” o anche “Negronetta”. PAROLA ALLA SOCIOLOGA Ma quanto può influire questo genere di sensazioni sulla vita di una persona? La risposta a questa domanda la dà Paola Di Nicola, docente di Sociologia dei processi

culturali e comunicativi, nonché autrice della ricerca. «La percezione di sicurezza è uno degli indicatori determinanti della qualità della vita», spiega la docente, «vivere o avvertire di vivere in un palazzo, in una via, in un quartiere poco sicuri, spinge una persona a cambiare il proprio rapporto con gli altri: si esce di meno e sempre con il terrore di venire aggrediti, si diventa prigionieri delle proprie paure e della propria casa, si vive inevitabilmente peggio». A esserne colpite sono soprattutto le fasce più deboli e, in particolare, gli anziani. Due i principali responsabili di questo fenomeno, secondo la Di Nicola: mass media e politica. «Pensiamo al caso Cogne: la stampa ha cavalcato l’onda di questa tragedia, al punto da far credere alla gente che le madri stessero perdendo il senso della realtà», commenta la professoressa, «in realtà, il numero di infanticidi era esattamente in linea con i dati degli altri anni». E un mea culpa dovrebbe arrivare, a suo avviso, anche dalla politica, colpevole di aver incentrato le ultime campagne elettorali proprio sul tema della sicurezza. «Cercano di fare leva sulle paure dei cittadini, che in realtà non hanno riscontri reali», prosegue, «in questo modo, distolgono l’attenzione da quelle che sono le vere priorità: la precarizzazione del lavoro, l’aumento del costo della vita, etc.». E se stanziare più fondi da destinare alle forze di Polizia, potrebbe aiutarle nelle attività di controllo del territorio, a nulla serve invece reclamare l’intervento dell’esercito. O almeno di ciò è convinta la Di Nicola. «Per aumentare la fiducia dei cittadini, non servono i soldati», spiega la docente, «bisogna far vivere le città, organizzare eventi, tenere accesa l’illuminazione: se le strade sono piene di gente, non c’è bisogno di altri presidi».


Attualità POLITICA E AFFARI

Tangenti: 20 anni dopo il lupo ha perso il pelo... «In democrazia c’è un modo solo per cautelarsi contro la corruzione politica e sta nell’aumentare la trasparenza degli atti amministrativi e il coinvolgimento del cittadino. L’esatto contrario di quanto sta avvenendo da 20 anni a questa parte» di Francesca Lorandi «Un antico proverbio dice: sbagliando si impara. Ma per imparare, bisogna sapere dov’è lo sbaglio. Se si continua a ripetere che “Mani pulite” fu una campagna di moralizzazione, si continua a sbagliare, e dunque non si impara. E allora ci sorprendiamo che il marcio non sia solo nella politica ma anche nella società civile. Bando allora alle generalizzazioni. Disonesto è, o può essere, un uomo politico, come un avvocato, un giornalista o un operaio metalmeccanico. In democrazia c’è un modo solo per cautelarsi contro la corruzione politica e sta nell’aumentare la trasparenza degli atti amministrativi e il coinvolgimento del cittadino. L’esatto contrario di quanto sta avvenendo da 20 anni a questa parte». Angelo Cresco era onorevole alla Camera dei deputati quando venne indagato nel 1993 per ricettazione e violazioni delle norme in materia di contributi allo Stato e

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finanziamento ai partiti politici. Non andò in carcere, ma continuò la sua carriera politica, muovendosi all’interno di quegli ambienti, veronesi e romani, che a suo dire non sarebbero mai cambiati. «Lo stupore di oggi assomiglia a quello di ieri – sostiene Qualcuno definirebbe chi si stupisce un marziano sceso improvvisamente sulla terra». Viene da chiedersi se qualcosa sia cambiato, guardando alcuni dei nomi di persone che siedono oggi sulle poltrone di presidenze e consigli d’amministrazione di enti e municipalizzate, su quelle di sindaci, o addirittura nomi che per qualche ora hanno sfiorato la poltrona di un ministero. Rivedendoli, questi nomi, osservando la loro parabola, c’è da domandarsi se la politica non sia rimasta tale e quale. O se quegli uomini, durante la loro parabola, siano magari cambiati.

IL CASO BRANCHER Aldo Brancher è probabilmente il più celebre. Quantomeno per essere quello arrivato più in alto, seduto (anche se solo per pochi giorni), sulla poltrona di un ministero. Era successo lo scorso anno: ci aveva provato Berlusconi a dargli la promozione. Ma per sua sfortuna, benché fossero passati vent’anni, in pochi avevano dimenticato il suo ruolo in Tangentopoli. Brancher venne arrestato dal pool di Mani Pulite nella primavera del 1993 con l’accusa di aver versato tangenti per 300 milioni di lire al Psi e per altri 300 a Giovanni Marone, segretario dell’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, in cambio di una serie di spot antiAids sulle reti Fininvest. In cella Brancher era rimasto tre mesi, te-

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Attualità guai ai tempi di Tangentopoli. Un passato nella Dc – corrente rumoriana con Gastone Savio – Venturini era stato assessore comunale dal 1980 al 1985 (con il sindaco Gabriele Sboarina) e poi presidente dell’Istituto autonomo case popolari, lo Iacp. Fu allora che lavorò alla legge sulla case popolari con il ministro Gianni Prandini. Da consigliere regionale, dal 1990 al 1995, Venturini aveva anche gestito il passaggio dagli Iacp alle Ater, le Aziende territoriali per l’edilizia residenziale. All’inizio degli anni Novanta fu toccato da Mani pulite per la vicenda delle tangenti di Ca’ del Bue. Finì al Campone per ricettazione – dove conquistò fra i detenuti fama di grande cuoco –; ne uscì con un patteggiamento. CA’ DEL BUE

Ca’ del Bue fu una delle inchieste simbolo di Mani Pulite. Una bomba che esplose nel 1992, dopo un esposto presentato da Nadir Welponer, dal quale emersero tangenti per 10 miliardi di lire, per un sistema che prevedeva la spartizione del 5 per cento sull’importo dei lavori dell’appalto dell’impianto

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nendo sempre la bocca chiusa. Il 3 giugno 1993, interrogato dal giudice Italo Ghitti, Brancher dichiarò di voler finalmente rispondere e ammise il versamento delle tangenti assicurando però che il tutto venne stato fatto a giovamento di una sua personale società. È lo stesso Silvio Berlusconi a ricordare «quando il nostro collaboratore Brancher era a San Vittore io e Confalonieri giravamo intorno al carcere. Volevamo metterci in comunicazione con lui». Brancher fu condannato a due anni e otto mesi per finanziamento illecito ai partiti e falso in bilancio. Il primo reato cadde in Cassazione per avvenuta prescrizione, il secondo fu depenalizzato dal governo Berlusconi. Su di lui i riflettori si erano riaccesi lo scorso anno, perché il deputato del Pdl – appena nominato ministro senza portafoglio – aveva presentato legittimo impedimento il 24 giugno proprio in prossimità di un processo che si doveva aprire che lo vedeva imputato per appropriazione indebita e ricettazione in uno stralcio dell’inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Ne erano seguite numerose reazioni polemiche dal mondo della politica e il 7 luglio, proprio nell’aula del processo, il ministro aveva annunciato le sue dimissioni. Brancher era accusato di appropriazione indebita e ricettazione per una somma complessiva di circa 827 mila euro che, secondo l’accusa, sarebbero stati a lui girati da Giampiero Fiorani, ex Ad di Bpi, o da persone a lui vicine, tra il 2001 e il 2005. Soldi sottratti dalle casse della banca, che sarebbero serviti per appoggi nel mondo politico e istituzionale. In primo grado Brancher era stato condannato per quattro episodi, due di ricettazione e due di appropriazione indebita, mentre per altri due era stato assolto. Recentemente i giudici della Corte d’Appello di Milano hanno confermato la condanna a due anni. In Veneto Brancher vanta oggi una sua corte: Davide Bendinelli, che ha fatto eleggere in Consiglio regionale, Daniele Polato, assessore al Comune di Verona, Giuseppe Venturini, presidente della funivia del Monte Baldo e di Agec, l’ente che gestisce l’edilizia popolare a Verona, finito con lui nei

Ca’ del Bue, il megaimpianto da 104 miliardi, fu una delle inchieste simbolo di Mani Pulite a Verona. Una bomba che esplose nel 1992, dopo un esposto presentato da Nadir Welponer, dal quale emersero tangenti per 10 miliardi di lire, per un sistema che prevedeva la spartizione del 5 per cento sull’importo dei lavori dell’appalto dell’impianto. Tra i principali registi c’era l’allora consigliere regionale, già segretario provinciale della Dc, il centurione Roberto Bissoli detto “Rambo”, che rese ampia confessione, in cambio della libertà. Stessa strategia utilizzata da Carlo Olivieri, allora assessore all’Ambiente democristiano, accusato di aver intascato 300 milioni dai costruttori per permettere loro di lavorare a Verona. La sua parabola lo portò a diventare da stradino a portaborse di Gianni Fontana (futuro ministro dell’Agricoltura). Poi si consegnò ai giudici, iniziò a confessare e in carcere a Verona non ci mise piede, se non per solo 24 ore in un’inchiesta parallela partita dalla procura di Roma. Ma da quel momento si ritirò dalla vita politica. Scelta non condivisa da Rambo Bissoli, classe di ferro 1947, che all’impegno civico non ha mai rinunciato. Dopo Mani pulite divenne esponente di punta dell’Udc (fu

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Attualità INTERVISTA CON GUIDO PAPALIA

È cambiato il sistema «Oggi vengono create leggi inutili per fronteggiare situazioni di emergenza, ma spesso dietro si nascondono interessi privati» Non gli è mai piaciuta l’espressione “Mani pulite”. Lui, Guido Papalia, simbolo di quella giustizia che a Verona voleva estirpare un sistema fatto di politica, affari e mazzette, preferisce parlare di inchieste. Le cui radici affondavano in anni precedenti al 1990, quando scoppiò lo scandalo “Siepi d’oro”. – Tangentopoli a Verona esplose all’improvviso: la classe dirigente della città crollò da un giorno all’altro. «In realtà si trattava di un sistema illegale, che da tempo veniva esercitato nella gestione del potere. Ma a un certo punto venne meno la possibilità di continuare con quel sistema. Infatti la Magistratura aveva individuato situazioni allarmanti ed eravamo ormai pronti per intervenire. Erano già stati fatti numerosi controlli patrimoniali, analizzati rapporti economici tra politici e imprenditori». – Lei era visto con terrore dal potere politico ed economico veronese. Per anni al Campone, ha incontrato e interrogato indagati: alcuni colpevoli, altri poi assolti. Che atteggiamento avevano nei suoi confronti? «La maggior parte parlava, raccontava, confessava spontaneamente. Molti confermavano le accuse, aggiungendo ulteriori dettagli che ci hanno aiutato nelle indagini. E tanti patteggiavano, risarcendo allo Stato i soldi delle tangenti». – Ma cosa c’era alla base di quel sistema di politica e tangenti che si era creato? «Dalle indagini emerse il concetto di “appartenenza” che portava a privilegiare l’interesse privato, del singolo o del partito, all’interesse collettivo. A Verona si era creato un comitato d’affari che gestiva la cosa pubblica sotto tutti i punti di vista: da quello economico, a quello politico, alla distribuzione degli incarichi. E in questo modo venivano anche distribuiti i proventi dell’attività illecita». – È quanto emerse con Ca’ del Bue, madre di tutte le inchieste di Tangentopoli. «I protagonisti raccontarono che si erano divisi le tangenti imposte alle imprese, il 60 per cento andava al partito per poi essere suddiviso nelle varie correnti». – Guardando la situazione attuale della politica, è cambiato qualcosa da allora? «Dai tempi di Tangentopoli la politica è cambiata: non c’è più una gestione generalizzata da

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Dall’oggi al domani la città aveva scoperto cos’era la politica: un impasto di porcherie e affari. Tutto era andato giù, crollato, nel giro di un anno, con i toni della tragedia e talvolta della farsa. Con episodi anche boccacceschi

Guido Papalia, già Procuratore capo di Verona. Oggi è Procuratore generale della Corte d'Appello di Brescia

«Sono diventate più frequenti la creazione e l’uso di leggi, apparentemente ispirate al bene collettivo, sfruttate per interessi privati» parte di un comitato d’affari cittadino. Tuttavia la corruzione non si elimina con campagne giudiziarie, né con i pentimenti. La corruzione si elimina modificando il modo di gestire la cosa pubblica. Messi da parte i politici, la corruzione si è spostata ai livelli dei grandi burocrati. Così sono diventate più frequenti la creazione e l’uso di leggi apparentemente ispirate al bene collettivo, sfruttate invece per interessi privati. La storia recente insegna: le tangenti nel post-terremoto in Irpinia, poi quelle che sarebbero state versate per i Mondiali di nuoto e, in generale, per tutte le grandi opere urgenti.Vengono create leggi per fronteggiare situazioni d’emergenza, ma spesso dietro si nascondono interessi privati». – Da Tangentopoli, è cambiato il rapporto tra potere politico e Magistratura? «È sempre stato difficile il rapporto tra chi gestisce il potere esecutivo e la Magistratura, quando quest’ultima, in nome della legge, contrasta le posizioni di chi amministra. Spesso viene meno il rispetto, che altro non è che la mancanza di rispetto nei confronti della legalità. La Magistratura deve avere i mezzi necessari per far rispettare le leggi e deve poter intervenire nei casi di illegalità, Devo dire che sono davvero rari i casi nei quali il magistrato esagera nell’esercitare i suoi poteri utilizzando strumenti in modo improprio». F.L.

vicesegretario del partito), per confluire poi tra le varie anime del Popolo delle Libertà, accasandosi infine in zona Brancher e accompagnando la lunga corsa del golden boy gardesano Davide Bendinelli alle ultime elezioni regionali. Ora è consigliere di Veneto Sviluppo, la società finanziaria della Regione Veneto. LE POLTRONE DI AGSM Nell’inchiesta di Agsm ci finì anche Francesco Sorio, accusato di tangenti e corruzione. Patteggiò in un processo nel quale sia il Comune che l’Agsm, l’azienda di energia proprietaria dell’inceneritore di cui il Comune è socio unico, si costituirono parte civile. Ebbene oggi, dopo vent’anni, Sorio è tornato ad Agsm, piazzato per volontà del destino (e di qualche politico) nel Cda. Al momento della sua nomina si levarono delle proteste dall’opposizione: «Ma come, ha pateggiato per reati che hanno danneggiato AGSM e ora diventa dirigente della stessa?». Proteste finite nel cassetto. Sorio se ne sta ancora là, negli uffici di lungadige Galtarossa. È andata peggio, quanto a cariche, a Virgilio Asileppi, altro

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Attualità tre a quella di Ca’ del Bue, ce n’era stata un’altra, precedente: 24 ottobre 1990,“Siepi d’oro”. L’INCHIESTA SIEPI D’ORO

Nelle loro confessioni Bissoli e Olivieri fecero molti nomi aiutando la Magistratura a far luce su appalti sospetti e tangenti. 180 arresti a Verona. Erano state due le inchieste simbolo: Ca’ del Bue,ma prima ancora quella denominata “Siepi d’oro”

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“centurione” della Dc, ex segretario provinciale ed ex vice presidente della Provincia, negli anni di Tangentopoli giovane presidente dell’aeroporto Valerio Catullo. Era stato accusato di aver fatto pressioni su un sindaco dell’Alto Veronese: i magistrati gli avrebbero contestato d’aver avuto un ruolo di mediazione interessata, quando era segretario provinciale della Democrazia cristiana, nell’assegnazione di alcuni lavori pubblici. I giudici avrebbero poi puntato l’attenzione, dopo aver raccolto testimonianze dettagliate, su due lavori: la costruzione di un campo di calcio e la revisione di una galleria ferroviaria, a Ceraino. Asileppi patteggiò e, da due mandati, è sindaco del suo paese natale, Brentino Belluno. Nelle loro confessioni Bissoli e Olivieri fecero molti altri nomi. Aiutando la Magistratura a togliere il coperchio dalla pentola dove ribollivano appalti sospetti e tangenti che coinvolgevano buona parte della politica scaligera. Pochi furono i volti noti che, in quei cinque anni, non vennero sfiorati da qualche inchiesta: i big dei partiti entravano e uscivano di prigione. Era scoppiata una montagna di tritolo ai piedi dell’Arena. Solo che, a saltare in aria, era il potere politico della città. Centottanta arresti, a Verona. Più che in qualsiasi altra città d’Italia, se si esclude Milano, dove Mani Pulite era iniziata nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio. Ma nella democristiana Verona, Tangentopoli era iniziata ben prima. Erano state due le inchieste simbolo: ol-

Il procuratore Capo Guido Papalia firmò un’ordinanza di custodia cautelare per il leader doroteo Gianni Pandolfo, presidente democristiano della Società autostradale Serenissima. Pesante l’imputazione: corruzione e associazione a delinquere. Qualcuno aveva parlato, alcune lettere anonime parlavano di appalti sospetti e, sui tavoli della Procura, si erano accumulate denunce relative ai bandi, per le quali la Società aveva stanziato cifre superiori ai 100 miliardi di lire: nel dettaglio, undici volumi di prove e quarantacinque richieste di rinvio a giudizio. Tutto era filato liscio per mesi, forse per anni. Era stata la Guardia di Finanza a scoprire alcuni floppy disk con la registrazione delle tangenti intascate dagli amministratori durante i lavori di ampliamento e miglioramento dell’autostrada. Doveva essere un maquillage all’altezza del suo nome, Serenissima per l’appunto, in grado di garantire all’automobilista il massimo del comfort: asfalti fonoassorbenti, barriere arboree antirumore e cespugli antismog. Tanto di quel verde (“avrebbero potuto rimboschire la Sila”, ricorda Danilo Castellarin in un articolo di la Repubblica del 25 ottobre 1990) che veniva regolarmente fornito da un vivaista, il quale, una volta arrestato, accusò Pandolfo di aver intascato tangenti. Il nuovo look della Serenissima, 150 chilometri d’oro, era stato affidato a un architetto che, guarda caso, aveva costituito insieme alla figlia di Gianni Pandolfo una società di moda per realizzare le nuove divise dei dipendenti della Brescia-Cremona-Piacenza. Sempre per corruzione e associazione a delinquere il presidente della A21, il socialista Enrico Vidali, venne arrestato, insieme a Pandolfo. Il quale, l’anno successivo, nel 1991, tornò in libertà e a sedere sulla sua vecchia poltrona di presidente della Serenissima. Poltrona viziosa, dato che l’uomo, secondo l’accusa, continuò con le vecchie abitudini. Papalia non lo

aveva però perso di vista: diede l’ordine di arresto nel 1993, ma Pandolfo scappò prima, latitò per un anno, e nel 1994 si costituì. Da anni la gente sapeva, non fu un fulmine a cielo sereno, ma ora c’erano le prove di cos’era la politica: un impasto di porcherie e di affari. Tutto era andato giù, crollato, nel giro di un anno, con i toni della tragedia e talvolta della farsa. Con episodi anche boccacceschi. Indimenticabile quello ricordato da Giuseppe Turani sulle pagine di la Repubblica, che vide protagonista un importante boss democristiano, sospettato anche lui di avere un giro di mazzette. Il suo telefono è sotto controllo. Anche il giorno in cui l’uomo decide di chiamare da un ufficio ministeriale un altrettanto noto uomo d’affari veronese. Risponde però la moglie dell’imprenditore: una rossa di fuoco, bollente come la conversazione fra i due, registrata dai Carabinieri. Erano gli anni durante i quali i magistrati restavano fino a tarda notte al Campone per interrogare indagati “eccellenti”. Mentre fuori, chiusi nelle loro auto, i cronisti aspettavano notizie, scoop. Raccontano confidenzialmente alcuni colleghi che spesso, dopo essere stati interrogati, questi politici avevano bisogno di un mezzo di trasporto per raggiungere la stazione o l’aeroporto. E c’era sempre qualche giornalista all’uscita del carcere pronto a dare uno strappo in cambio di confidenze che arrivavano puntuali, spesso come sfogo di chi aveva dovuto reggere lo stress di un interrogatorio. Anche la curia osservava con disgusto il teatrino messo in piedi dai “suoi” democristiani. Il buon Giuseppe Amari venne sostituito con Attilio Nicora: a lui, che il clero locale chiamava K2 (alto e gelido), il compito di fare un po’ di pulizia tra parrocchiani diventati ormai poco presentabili.

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«SCHIAVI» INCHIESTA

del terzo millennio

Anche il Comune di Verona si affida a cooperative che per sopravvivere alle leggi di mercato utilizzano lavoratori pagati una miseria e senza tutele. Siamo andati a scavare e abbiamo scoperto un mondo in caduta libera. A cercare una parola che descriva la situazione ne viene in mente una sola: vergogna

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di Michele Marcolongo Gestione delle biblioteche; controllo varchi Ztl; ufficio permessi; mense scolastiche; biglietterie e bookshop dei musei. Persino il servizio di recapito delle bollette dell’acqua: da quando il governo centrale ha messo il lucchetto alla spesa degli enti locali sottoponendoli alle rigide regole del patto di stabilità interno, la soluzione di esternalizzare o appaltare al massimo ribasso i servizi pubblici è diventata sempre più gettonata, anche dal Comune di Verona. Dubbi, o per lo meno non evidenti, i benefici sui bilanci degli enti locali, che malgrado i presunti risparmi realizzati sulla carta, continuano imperterriti a tendere verso il rosso. Quasi sempre positivi, invece, gli effetti dal

punto di vista politico. Passando la spesa da una posta di bilancio all’altra, l’assessore di turno riesce a dimostrare di aver ridotto i costi del personale e, se è bravo, a liberare un po’ di risorse da gestire secondo logiche più propriamente “politiche”. A uscirne male sono quasi sempre i lavoratori (soprattutto donne, come vedremo) che ogni due, massimo quattro anni, vengono messi a gara assieme all’appalto del servizio che stanno svolgendo. E con la logica del massimo ribasso si vedono compressi a ogni giro salario e diritti. Beninteso, tutto avviene a norma di legge. Quasi sempre. Quand’anche il capitolato di gara redatto dagli uffici comunali preveda il rispetto di un contratto nazionale di settore e la cosiddetta

“clausola sociale” (cioè quella norma che obbliga la ditta appaltante ad assumere tutto il personale che già sta lavorando al servizio), la ditta vincente può comprimere il salario ricorrendo alla riduzione dell’orario di lavoro. In modo tale che, se i lavoratori vorranno mantenere l’appalto e dunque anche il loro lavoro, dovranno lavorare più intensamente. È il caso, ad esempio, delle addette ai varchi della Zona traffico limitato (Ztl) che con l’ultimo appalto sono state passate a parttime. Con gare troppo tirate, e ribassi che possono raggiungere anche il 40 per cento, non si va troppo per il sottile: è così possibile che a somministrare i pasti nelle mense scolastiche (storicamente in gestione al Comune) si trovi una

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Inchiesta Le lavoratrici addette al controllo dei varchi Ztl sono una ventina. Nell’autunno del 2010, per mantenere bassi i costi, viene loro applicato un nuovo contratto ma la novità è l’introduzione del part time. Le operatrici passano da 36 a 20 ore settimanali mentre la mole di lavoro nel corso degli anni è aumentata. E allora cosa fare? «Quando si arriva a guadagnare soltanto 6-700 euro al mese va a finire che ci si trova un secondo lavoro»

ditta di pulizie o, per meglio dire, di multi-servizi. Capita persino che l’Amministrazione si “dimentichi” di inserire nel capitolato di gara sia la clausola sociale che il riferimento al contratto nazionale; ne sanno qualcosa le lavoratrici delle biglietterie dei musei, metà delle quali sono state “epurate” dopo l’ultimo appalto. Esistono di certo anche appalti buoni, come quello che ha interessato le cuoche delle mense scolastiche, “cedute” non a una ditta privata qualunque, ma ad Agec, società controllata al 100 per cento dal Comune, il che ha consentito di mantenere inalterati diritti e salario. Almeno per ora. Ma ci sono casi di esternalizzazioni ad aziende partecipate che non sono finiti benissimo, come quello delle precarie dell’Ufficio Permessi passate ad Amt (azienda del trasporto pubblico locale) in nove e assunte soltanto in sette dopo anni di promesse di stabilizzazione. Sempre a proposito di aziende partecipate, cioè pubbliche o a maggioranza pubblica, appare clamoroso il caso dei postini privati che consegnano le bollette per conto di Acque Veronesi per pochi euro al mese e in condizioni di lavoro spaventose. Se si ha la pazienza di passare in rassegna tutti i casi noti (ma andando a cercare se ne possono trovare degli altri) si potranno raccogliere spunti e materiale sufficiente per redigere un prontuario del dumping sociale, cioè una collezione di pratiche che mirano a trasformare un’esperienza potenzialmente gratificante – come quella di fornire un servizio al

pubblico nel campo della cultura, della scuola e degli altri servizi pubblici – in un vero e proprio inferno lavorativo. Su queste storie personali e di gruppo stride il silenzio della politica, che se da una parte ha rinunciato a dare voce al mondo del lavoro, dall’altra potrebbe per lo meno soffermarsi sulla qualità dei servizi che in questa girandola di appalti al massimo ribasso esce alquanto scadente. Dovrebbe dare da pensare, inoltre, che nella stragrande maggioranza dei casi di dumping sono coinvolte delle donne, lavoratrici e madri. È proprio con loro che abbiamo provato a confrontarci, raccogliendo scarne informazioni, che riproponiamo in maniera assolutamente anonima, onde scongiurare il pericolo di ritorsioni. Quello in appalto non è, infatti, un bel lavorare. La paura di “esporsi”, di raccontare e parlare è tanta e spesso si preferisce il silenzio. Queste persone si sentono totalmente sole e abbandonate. ADDETTE AL CONTROLLO ZTL

Il primo dei casi da “manuale” riguarda le lavoratrici addette al controllo dei varchi Ztl, una ventina in tutto. Assunte anni fa dal Comune di Verona, in parte come interinali (oggi si chiama lavoro somministrato) e in parte a tempo determinato hanno il compito di controllare le targhe delle automobili che entrano senza permesso nella Zona a traffico limitato (Ztl). Verso la metà degli anni Duemila vengono tutte esternalizzate a una ditta privata di servizi con sede a Belgioiso (Pavia) che si aggiudica l’appalto del

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servizio. Sulla carta sono dunque stabilizzate. «E in effetti il trattamento economico all’inizio bene o male garantiva le stesse condizioni di prima – raccontano –, il contratto era quello dei metalmeccanici». Ma a un certo punto l’appalto termina e si va di nuovo a gara, sempre col criterio del massimo ribasso. Nell’autunno del 2010 vince una nuova ditta, questa volta di Milano, che per mantenere bassi i costi applica il contratto del commercio, relativamente più svantaggioso rispetto al precedente, ma soprattutto decide di metterle tutte a tempo parziale. La riduzione di orario (e quindi anche di salario) è considerevole, perché le operatrici passano da 36 a 20 ore settimanali. Da considerare che la mole di lavoro nel corso degli anni è invece aumentata, perché al compito di controllare i varchi della Ztl si è aggiunto anche quello di verificare le corsie preferenziali dei bus, sulle quali, nel frattempo, il Comune ha posizionato le telecamere. Il lavoro consiste nel controllare che la lettura della targa effettuata dalla telecamera che rileva l’infrazione sia corretta, verificando ad esempio che il trasgressore individuato dall’occhio elettronico non appartenga a una delle categorie esenti, come i residenti o gli invalidi muniti di regolare permesso. In pratica sono addette a controllare l’operato della telecamera. Si tratta di diverse centinaia di verifiche al giorno, tante quante sono le infrazioni giornaliere alla Ztl e sulle preferenziali. Inoltre, le lavoratrici si occupano anche del lavoro di front-office, cioè rispondono al telefono alle

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Inchiesta Con gare troppo tirate e ribassi che possono raggiungere anche il 40 per cento, non si va troppo per il sottile: è così possibile che a somministrare i pasti nelle mense scolastiche si trovi una ditta di pulizie o, per meglio dire, di multi-servizi. Costa meno

domande del pubblico, e di back office, svolgendo tutto il lavoro preliminare necessario alla stesura e spedizione dei verbali. Nessuna formazione, l’addestramento avviene tutto sul campo: «Siamo sotto il coordinamento di un vigile che interviene quando sbagliamo» confermano le lavoratrici. La sede di lavoro, infatti, è il Comando della polizia municipale. «Non siamo in numero sufficiente a stare dietro a tutto – dicono –. All’inizio del nuovo appalto dalla ditta ci avevano promesso che con i picchi di lavoro avrebbero aperto agli straordinari, ma questo è accaduto soltanto per un brevissimo periodo vicino a Natale. Del resto, quando si arriva a guadagnare soltanto 6-700 euro al mese, va a finire che si prova a organizzarsi diversamente. Alcune di noi hanno trovato un secondo lavoro. E quando poi vengono a chiederci di fare ore in più non riusciamo a tener insieme tutti gli impegni. Cambiare lavoro? Tutte ci pensiamo e una di noi l’ha pure fatto, ma in questo periodo non è più così facile». A quanto risulta, le difficoltà dell’ufficio a smaltire la gran mole di lavoro è alla base dell’ondata di contravvenzioni che a gennaio sono state notificate appena pochi giorni prima della scadenza dei termini di legge. Un fatto che

aveva fatto imbestialire centinaia di cittadini molti dei quali si erano visti recapitare a casa pacchi di multe “seriali”, cioè riguardanti sempre la stessa infrazione. Se i verbali fossero stati consegnati con più largo anticipo, protestavano i trasgressori, i cittadini avrebbero potuto correggere la loro condotta e risparmiarsi molte multe. Va anche detto che nel frattempo una legge nazionale aveva ridotto da 150 a 90 i termini della notifica. LE SCODELLATRICI

Per restare al tema di qualità dei servizi, si può analizzare il caso delle scodellatrici delle mense scolastiche: 120 lavoratrici circa. La mansione è tutto sommato abbastanza semplice, ma bisogna prestare alcune fondamentali attenzioni, dal momento che molti bambini devono seguire diete particolari e bisogna sapere che cosa si deve e non si deve mettergli nel piatto. Nel settembre 2010 l’appalto, sempre assegnato col criterio del massimo ribasso, è stato vinto da una ditta di pulizie, anzi di multiservizi. E, a quanto raccontano le lavoratrici, l’organizzazione del lavoro lascia piuttosto a desiderare. Nessun prontuario o manuale delle procedure è stato loro con-

segnato, tutto il lavoro è affidato alla professionalità che le lavoratrici hanno acquisito nel corso degli anni precedenti, quando erano assunte dal Comune tramite di un’agenzia di lavoro somministrato. «Si vede che questi (la ditta che ha vinto l’appalto, ndr) non sono del mestiere – spiegano le lavoratrici – saranno bravi a fare le pulizie negli hotel, ma qui in mensa la gestione è totalmente improvvisata. Del resto sono entrati nell’appalto soltanto un mese prima dall’inizio delle scuole. No, non ci è stato consegnato nessun manuale e nessuna procedura, ma noi sappiamo fare il nostro lavoro. A dire il vero, la disponibilità al dialogo da parte loro non manca. Ti ascoltano pure, il problema è che poi però non cambia mai niente. Ad esempio, noi chiediamo disponibilità sulle sostituzioni; chiediamo di tenerci in considerazione se c’è da fare qualche ora in più, ma loro preferiscono sostituirci con dell’altro personale preso dalle agenzie». Le cose stanno proprio così: invece di offrire alle proprie dipendenti la possibilità di integrare il magro salario con qualche ora di lavoro aggiuntiva, la ditta appaltante preferisce assumere altri lavoratori somministratati dalla stessa agenzia in

La storia delle esternalizzazioni dei servizi comunali La storia delle esternalizzazioni dei servizi comunali a Verona è cominciata nei primissimi mesi del 2008, quando l’allora assessore comunale al Personale Sandro Sandri (Lega Nord) tirò fuori dal cassetto una lista di 460 persone, tutti dipendenti comunali a termine, il cui contratto arrivava a scadenza a fine marzo o, al più tardi, a giugno. Come si è venuto a sapere in seguito, si trattava del personale delle mense scolastiche, delle biblioteche, ma anche degli insegnanti delle scuole materne comunali e degli asili nido. Con la Finanziaria 2007 e 2008 il governo Prodi aveva infatti decretato il principio della stabilizzazione di tutti i precari che la pubblica amministrazione, nel corso del decennio precedente, aveva accumulato tra le proprie fila allo scopo di aggirare il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego. Si parlava allora di 250 mila persone in tutta Italia. In pratica era una sanatoria perché, com’è noto, nella pubblica amministrazione si entra soltanto con concorso pubblico. Ma quella che poteva rappresentare un’occasione di riscatto per tanti precari, a Verona come altrove, si trasformò quasi subito in una sorta di psicodramma. Il termine ultimo fissato dalla Finanziaria per la stabilizzazione era infatti il 31 marzo 2008. Oltre questo termine il Comune non avreb-

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be più potuto, per legge, rinnovare i contratti in scadenza. Ai sindacati rimanevano soltanto poche settimane per trovare un accordo e fare salvi i contratti in scadenza. Alla loro richiesta di predisporre, conformemente al testo della Finanziaria, un piano triennale di stabilizzazione (a fronte del quale si sarebbero potuti anche rinnovare i contratti in scadenza) il Comune sollevò numerose eccezioni di carattere legale, mostrando di essere orientato a chiudere la faccenda in tutt’altro modo, cioè con l’esternalizzazione dei servizi. Una successiva circolare ministeriale chiarì che dall’obbligo di stabilizzazione doveva ritenersi escluso il personale docente. La precisazione salvò dunque gli insegnanti comunali, ma ebbe anche l’effetto di indebolire il fronte della protesta dei precari comunali che riuscirono a fare cambiare idea al Comune il quale, dal gennaio 2009, riuscì a esternalizzare l’Ufficio Permessi e nell’estate 2010 anche le mense scolastiche. Anche dopo la caduta del governo Prodi l’Amministrazione comunale tenne la barra dritta, giustificando la sua linea a favore delle esternalizzazioni con le ristrettezze di bilancio e con il patto di stabilità che la spingeva a ridurre il costo del personale. Quello diretto almeno. (M.M)

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Inchiesta

Nel passaggio dall’agenzia di lavoro somministrato alla ditta appaltante, la paga oraria delle scodellatrici è passata da 9 a 7 euro all’ora in virtù del diverso contratto applicato: prima era quello della ristorazione, adesso quello dei servizi generici

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cui lavoravano prima le scodellatrici. Una bella beffa, considerato che il contratto prevede, di media, appena 2 o 3 ore giornaliere di lavoro e che molte scodellatrici faticano a raggiungere il monte ore necessario a richiedere l’indennità di disoccupazione. Nel periodo estivo, infatti, le scuole chiudono e il servizio mensa viene sospeso. In virtù dell’accordo sindacale siglato, le lavoratrici hanno il diritto d’opzione, ovvero debbono poter riprendere a lavorare a settembre. E nel frattempo, nei tre mesi estivi, potrebbero beneficiare dell’assegno di disoccupazione, se solo riuscissero a raggiungere il monte ore minimo per richiederlo. Come si spiega questo comportamento da parte della ditta appaltante? Secondo Giuseppe Rossini, funzionario Filcams Cgil, la spiegazione è semplice: «Siamo nell’ottica del lavoro usa-e-getta. Gli interinali costeranno un po’ di più ma non chiedono sostituzioni, non possono rivendicare nulla e quando si ammalano vengono semplicemente sostituiti con degli altri interinali». La vocazione all’annientamento del lavoro è forte nel settore degli hotel, da cui proviene per l’appunto la ditta appaltante e dove ormai, racconta Rossini, «tutto viene esternalizzato: dal portierato alla ristorazione, al servizio in camera comprensivo di pulizie e lavanderia. Tanto che – prosegue il sindacalista – quasi tutti gli hotel della nostra città contano praticamente un solo dipendente: il direttore. Un po’ quello che è accaduto anche nell’edilizia, dove le grandi imprese appaltano per in-

tero l’esecuzione del lavoro manuale alle piccole aziende e alle ditte individuali». A proposito di costi, nel passaggio dall’agenzia di lavoro somministrato alla ditta appaltante, la paga oraria delle scodellatrici è passata da 9 a 7 euro all’ora in virtù del diverso contratto applicato: prima era quello della ristorazione, adesso quello dei servizi generici. Le scodellatrici fanno parte della partita delle esternalizzazioni delle mense scolastiche. Le cuoche, che erano già dipendenti del Comune, sono finite ad Agec mantenendo tutti i benefici del contratto del pubblico impiego, mentre le scodellatrici, già precarie al tempo dell’esternalizzazione, sono state stabilizzate in quest’altro modo. «Ma l’appalto dura solo due anni, e dopo che ne sarà di noi?» si chiedono. Molte di queste donne, scodellatrici o addette al controllo varchi, hanno responsabilità famigliari. In alcune casi sono separate e devono sbarcare il lunario con dei figli a carico. Tutta questa organizzazione del lavoro non tiene in benché minimo conto che il reddito della donna è diventato un elemento portante del bilancio famigliare. L’imprenditoria, e anche la politica, sembrano ignorarlo completamente. LE BIGLIETTAIE E LE LAVORATRICI DEI BOOKSHOP

Hanno dunque ragione lavoratrici delle biglietterie e dei bookshop dei Musei civici quando dicono che queste ingiustizie accadono perché «è più facile prendersela con i più deboli». E metà di loro (in genere quelle meno giovani) sono state lasciate a casa dopo l’ultimo cambio d’appalto, avvenuto a metà del 2010. Nel capitolato d’appalto la “clausola sociale” semplicemente non era presente. La motivazione? L’Amministrazione comunale se n’era «dimenticata», come conferma un sindacalista che ha partecipato alle trattative. Del resto l’Amministrazione si era dimenticata anche di vincolare la ditta appaltante al rispetto di un contratto nazionale. Il riferimento è stato inserito soltanto al termine di una vertenza sindacale

che ha portato alla mobilitazione dell’intero Consiglio comunale. Tutte queste dimenticanze hanno permesso alla nuova impresa vincitrice dell’appalto di fare piazza pulita delle “indesiderabili”, cioè delle lavoratrici non più giovanissime che puntualmente sono state sostituite con nuove leve a cui è stato applicato il contratto di apprendistato. Molte delle ex addette alle biglietterie sono tuttora disoccupate. Alle nuove entranti è stato invece applicato il contratto dell’editoria. Si tratta di una ventina di lavoratrici delle biglietterie e di una decina di addette ai bookshop. Questi servizi sono in appalto in quasi tutti i monumenti cittadini: Castelvecchio, Casa di Giulietta, Tomba di Giulietta, Scavi Scaligeri, Museo di Storia naturale, Palazzo Forti con l’eccezione di Arena, Teatro Romano e Museo Maffeiano. «Abbiamo provato a rivolgerci all’Amministrazione comunale per vedere se era possibile trovare degli altri sbocchi professionali, ma loro hanno detto che nei nostri confronti non avevano più alcun obbligo» concludono le lavoratrici. Più o meno la stessa risposta che ricevono i sindacati quando propongono al Comune di mettere in piedi un sistema di tutela dei lavoratori impiegati nei servizi comunali dati in appalto: «Da due anni chiediamo un tavolo per il monitoraggio di tutti i servizi appaltati – dice Floriano Zanoni della Filcams Cgil – ma dagli assessori ci sentiamo sempre rispondere che non ne hanno la competenza. In questo modo rimangono tutti orticelli separati». Sui risvolti degli appalti al massimo ribasso ha pochi peli sulla lingua anche Gianni Curti, presidente della Cooperativa Verona 83, organizzazione di primo piano a livello nazionale che aveva partecipato, perdendola, proprio alla gara dei Musei civici di Verona. Ma che di recente si è rifatta aggiudicandosi la gestione dei servizi dei musei di Firenze: «Abbiamo deciso che a queste schifezze non partecipiamo più – sbotta Curti – perché non è possibile che si facciano offerte quando si sa benissimo già in partenza che ci si rimette. E dirò di più –

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Inchiesta Da anni è in buona parte appaltata anche la gestione della biblioteca civica e dei sei centri di lettura di quartiere. Si spartiscono il lavoro due cooperative che impiegano in tutto una quindicina di lavoratrici. Il copione è sempre lo stesso: retribuzione inferiore a quella media di un qualunque dipendente comunale e niente formazione. «Il lavoro ci piace e ci troviamo abbastanza bene. Il timore è che la ditta perda l’appalto perché in quel caso molto probabilmente perderemmo anche il nostro posto di lavoro»

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aggiunge – se non interveniva il sindaco Flavio Tosi nell’appalto dei musei non veniva nemmeno applicato il contratto nazionale di lavoro. Questo deve essere ben chiaro». Secondo Curti c’è il rischio concreto che il gioco al ribasso finisca per minare la stabilità finanziaria delle ditte appaltanti: «Da una parte ci sono le concentrazioni di tante imprese che si mettono insieme per sopportare il peso dei ribassi. Dall’altra ci sono tante micro cooperative, spesso provenienti dal Sud, decise a prendere l’appalto a qualunque costo». IN BIBLIOTECA CIVICA E NEI CENTRI DI LETTURA

Da anni è in buona parte appaltata anche la gestione della Biblioteca civica e dei sei Centri di lettura di quartiere. Si spartiscono il lavoro due cooperative che impiegano in tutto una quindicina di lavoratrici. Il copione è sempre lo stesso: retribuzione inferiore a quella media di un qualunque dipendente comunale e niente formazione, soltanto un servizio di “tutoraggio” svolto dal personale comunale. Raccontano queste lavoratrici: «Il lavoro ci piace e ci troviamo abbastanza bene. Il timore è che la ditta perda l’appalto perché in quel caso molto probabilmente perderemmo anche il nostro posto di lavoro. Per quanto riguarda l’orario bisogna pensarci e fare bene i propri conti prima di richiedere il part-time, perché se te lo concedono poi non è detto che si possa tornare indietro. Per alcune colleghe sarebbe più comodo fare soltanto mezza giornata. Altre invece hanno il problema opposto, cioè cominciano col part-time ma avrebbero bisogno di fare più ore». Per ovviare all’assenza di formazione, che viene fatta sul campo, le cooperative assumono preferibilmente persone che abbiano già alle spalle un’esperienza di lavoro in biblioteca, anche come stage o servizio civile volontario. Con il ricorso all’appalto si risolverà anche il problema dell’apertura dell’ala antica, pronta da mesi dopo essere stata rimessa a nuovo con i soldi della Fondazione Carivero-

Disoccupati in aumento e tesoretti in erosione di Massimo Castellani* Dall’inizio della crisi di numeri ne sono stati dati molti. E da qualunque parte li si prenda il quadro complessivo che ne deriva è allarmante e gli elementi di speranza per il futuro pochi. Come nel caso dei 250 lavoratori della Over Meccanica, storica fabbrica di Verona con prodotti di eccellenza, che in questi giorni sono stati collocati in Cig a zero ore. La provincia di Verona, che ha saputo dare una risposta alla crisi utilizzando un numero inferiore di ore di cassa integrazione rispetto alla media del Veneto, ha però alcuni indicatori assolutamente negativi, uno di questi è il tasso di disoccupazione giovanile (dai 15 ai 24 anni). La disoccupazione giovanile in Veneto è cresciuta negli ultimi anni a un ritmo doppio rispetto a quella complessiva. A Verona nell’ultimo anno è esplosa raddoppiando, passando cioè dall’8,8 per cento del 2008 al 17 per cento attuale (nel Veneto il tasso di disoccupazione giovanile è al 14,4 per cento). La percentuale d’incremento dei licenziamenti in provincia di Verona nei primi mesi di quest’anno rispetto ai primi mesi del 2010 è stata del 6,7 per cento. Migliore è la media veneta, dove per lo stesso periodo i licenziamenti sono diminuiti del 23,9 per cento. Le crisi d’impresa aperte a Verona sono state 128 nel 2009 e 140 nel 2010, con un incremento del 9,4 per cento e solo a gennaio 2011 sono state 10. Nel Veneto le cose, da questo punto di vista, non sono andate meglio, tant’è che l’incremento delle crisi d’azienda del 2010, rispetto il 2009, è stato del 19,8 per cento. Nel 2010 le aziende scaligere coinvolte nelle aperture di crisi sono state 140 (43 nella meccanica e 20 nel commercio) e di queste 72 avevano meno di 50 dipendenti. Tutte 140 hanno previsto la mobilità in gran parte per crisi di mercato, con oltre 2.200 lavoratori coinvolti. Per quanto riguarda le crisi concluse hanno avuto un incremento del 32,3 per cento nel 2010 rispetto al 2009, coinvolgendo 205 aziende (83 nella meccanica), di cui 122 sotto i 50 dipendenti, interessando il 35,1 per cento degli organici aziendali, con oltre 1.700 lavoratori in mobilità. Dal punto di vista finanziario l’indebitamento delle imprese venete è aumentato dal 2008 del 3,5 per cento, mentre a Verona è aumentato del 5,9 per cento. Le sofferenze sui debiti del sistema imprenditoriale sono passate in Veneto dal 2,9 per cento del novembre 2008 al 5,9 per cento del 2010, mentre a Verona dal 2,4 per cento al 4,6 per cento (quasi raddoppiato). Inoltre analizzando il trend dei depositi bancari delle famiglie veronesi si rileva un peggioramento: la variazione media dal mese di gennaio a novembre 2008 è stata dell’1,1 per cento, nel 2009 dello 0,1 per cento, nel 2010 del -1 per cento. Bisogna considerare che anche i risparmi delle famiglie risentono pesantemente della crisi. L’erosione dei tesoretti familiari continua. Non servono particolari esperti finanziari per capire che, se va avanti così, sarà una lenta ma progressiva deriva con un’inevitabile riduzione del livello di benessere per la maggior parte delle persone. Le ricette per uscirne ci sono, sono state dette migliaia di volte e viene la nausea ripeterle, speriamo solo che prima o poi qualcuno si decida ad applicarle. *Segretario Generale CISL Verona

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Inchiesta Casi di dumping sociale si rinvengono anche nelle aziende partecipate del Comune, che per loro natura hanno più familiarità con lo strumento dell’appalto e che non devono sottostare al patto di stabilità a cui invece sono vincolati i Comuni

na, ma ancora chiusa per mancanza di personale. I POSTINI DI ACQUE VERONESI

Casi di dumping sociale si rinvengono anche nelle aziende partecipate del Comune, che per loro natura hanno più familiarità con lo strumento dell’appalto. Conferire a una ditta specializzata il ripristino del manto stradale dopo gli interventi di sistemazione delle tubature del gas o dell’acqua, è normale routine per grandi aziende pubbliche, come Agsm o Acque Veronesi, tanto più che negli ultimi anni queste aziende si sono date un contegno e una veste di managerialità che le porta a disfarsi di tutte le funzioni

che non riguardano strettamente il core-business. Questo però non dovrebbe esimerle, dato il loro status di imprese pubbliche, dal controllare il modo in cui viene svolto l’appalto e le condizioni in cui vengono impiegati i lavoratori. Visto e considerato che le partecipate non devono rispettare il patto di stabilità. Ma non è stato così con il conferimento del servizio di recapito della corrispondenza di Acque Veronesi, al quale lavorano postini “privati” pagati poche centinaia di euro al mese per lo più liquidati in voucher, ovvero i “buoni” di lavoro convertibili in denaro negli uffici postali che contengono paga oraria e contributi previdenziali. Il voucher al-

La replica di Mail Express-Poste Private S.r.l. «Sui postini accuse senza fondamento» Con riferimento alle notizie di stampa apparse su varie testate e siti web, nonché ai recenti avvenimenti, ultimo dei quali la manifestazione sindacale di protesta dei portalettere davanti alla Agenzia di Verona, nel contestare in toto la rappresentazione negativa dei nostri comportamenti e dell’attività del nostro Gruppo, desideriamo far presente quanto segue: • Mail Express Poste Private S.r.l. è uno, se non il più accreditato e ramificato operatore privato italiano nel settore della raccolta e distribuzione di corrispondenza; • opera, da oltre un decennio, sulla base di regolare Licenza Generale e particolare rilasciata dal competente Ministero delle Comunicazioni e, come tale, sottoposta a continue verifiche e controlli da parte della Polizia Postale; • ha realizzato negli anni un network costituito ad oggi da oltre 250 agenzie in franchising, che operano su tutto il territorio nazionale, riuscendo a coprire circa il 50% della popolazione residente (60% circa nel Centro-Sud e 40% nell’Italia Settentrionale); • i lavoratori dell’Agenzia di Verona sono stati assunti sulla base di regolari contratti con modalità assolutamente legali (voucher lavorativi); • i carichi di lavoro adottati per i lavoratori della agenzia di Verona sono i medesimi utilizzati in tutte le altre agenzie e del tutto comparabili con quelli adottati dai nostri principali competitors e assolutamente

lontani da quelli utilizzati dai portalettere di Poste Italiane (oltre mille consegne giornaliere per singolo portalettere); • a richiesta, siamo comunque disponibili a fornire i dati di consegna effettiva dei lavoratori dell’agenzia di Verona, assolutamente insufficienti a giustificare stipendi di circa 900,00 euro mensili (con l’aggiunta dei relativi oneri previdenziali ed assicurativi), a fronte di consegne di n. 100 pezzi di corrispondenza giornalieri del valore di 0,17 euro cadauno; • stante la circostanza che i portalettere svolgono le mansioni affidate al di fuori della sede di lavoro, è assolutamente normale che la loro attività sia sottoposta a controlli e verifiche e soggetta a medie di consegna. Per tutto quanto sopra esposto, riteniamo del tutto infondata l’accusa di “sfruttamento dei portalettere”; riteniamo, invece, assolutamente doveroso mettere in atto ogni sforzo, nel rispetto delle leggi, per cercare di far quadrare i conti aziendali. Mail Express-Poste Private S.r.l. Mosciano Sant’Angelo, 22 marzo 2011

l’inizio era stato introdotto in agricoltura per arginare la piaga del lavoro nero. La storia comincia nel luglio 2010 quando Acque Veronesi decide di approfittare della liberalizzazione dei servizi postali, mettendo a bando il servizio di recapito di bollette e solleciti. Nel gennaio 2011 risultano in servizio una dozzina di postini che consegnano la posta dell’azienda pubblica e di altre imprese private. Le loro condizioni di lavoro sono a dir poco anomale: pur dovendo rispondere, come tutti i postini, della responsabilità penale in caso di smarrimento, danneggiamento od occultamento della posta, il rapporto di lavoro non è regolato da un contratto

Il racconto di chi c’è passato Scrivo in relazione alla risposta di Mail Express Poste «Accuse senza fondamento». Ho lavorato per loro e quello che dicono non è corretto, ma soprattutto non tiene conto di vari fattori a mio avviso molto gravi. 1) Quello che offrono non è un lavoro occasionale ma continuativo, dal lunedì al venerdì, ma con la richiesta di un orario fisso da rispettare. 2) Se lavoro come postino, per Poste italiane, ho diritto a malattia, tredicesima, vacanze, liquidazione, disoccupazione ecc. Con lo stesso lavoro presso di loro non avevo diritto a nulla di tutto ciò. 3) Il mezzo di trasporto era completamente a carico nostro, senza nessun contributo per l’assicurazione, per la manutenzione (davano un rimborso di un euro ogni 15 km circa) mentre come tutti sappiamo l’auto ha un costo molto elevato: per il rimborso in ambito lavorativo normalmente si dovrebbero applicare le tabelle Aci. Per cui rischiavi di danneggiare l’auto, di fare un incidente, di avere un guasto e la società non rimborsava assolutamente nulla. 4)Nessuna garanzia lavorativa, potevano licenziarti in qualsiasi momento, anche senza motivazione. Grazie a una clausala sul contratto la società si riserva il diritto di licenziare anche solo con una dichiarazione verbale. 5) Nessuna tutela in caso di incidente grave o leggero che fosse. Piccoli incidenti ci sono stati, ma la società se n’è lavata le mani, come per gli inevitabili guasti al mezzo. Figurarsi cosa sarebbe accaduto nel caso di un brutto incidente. Postini sfruttati? Giudicate voi. G.C.

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Inchiesta di settore ma viene applicato un contratto di lavoro “occasionale accessorio”. Il che permette, appunto, il pagamento in voucher. Lo stipendio è fissato a 900 euro netti al mese rapportati a 100 consegne al giorno con la clausola che, in caso di mancato raggiungimento dell’obbiettivo, “il compenso verrà rideterminato in proporzione del numero dei pezzi”, verso il basso, ma anche verso l’alto. Le condizioni di lavoro sono molto precarie: «Al mattino arriviamo alle nove in sede, ma usciamo molto tardi perché dobbiamo provvedere alla suddivisione della posta per zona di recapito e lì si perde un sacco di tempo» raccontano. «A disposizione abbiamo una stanza poco attrezzata: smistiamo la posta seduti per terra, ragion per cui alcuni di noi si sono portati sedie e tavoli da casa che l’azienda ha subito usato per appoggiarci sopra i suoi terminali elettronici. Così, quando si finisce di ordinare la posta, arrivano le 11. Tardi, perché di lì a poco uffici e negozi chiudono per la pausa pranzo. Quindi per terminare le consegne dobbiamo attendere l’orario di riapertura perché la mattina è già andata in fumo. Senza conta-

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re che le zone di consegna molto spesso sono in provincia, su un territorio che non conosciamo, con indirizzi a volte molto lontani l’uno dall’altro. Ci andiamo con la nostra automobile e i rimborsi della benzina sono ancora al di là da arrivare. Alla sera si finisce di lavorare alle 19». Sulla base di queste dichiarazioni abbiamo consultato dei postini esperti i quali ci hanno confermato che 100 consegne (“pezzi” in gergo) al giorno rappresentano una mole di lavoro significativa nel caso in cui si tratti di raccomandate, per le quali occorre la firma del cliente, che fa perdere molto tempo. A scanso di equivoci, comunque, a fine gennaio i postini sono stati “invitati” a sottoscrivere una rettifica al contratto originario che prevede di innalzare a 400 pezzi la media giornaliera di consegne richieste. Sulla base dei nuovi obiettivi sono stati ricalcolati anche i compensi di gennaio, che così sono scaduti a poche centinaia di euro, dai 200 ai 300. E per i mesi prossimi li attenderebbe un aumento di produttività del 400 per cento soltanto per riuscire a conseguire il compenso minimo dei 900 euro. Ma c’è un “ma”: i postini reca-

pitano cartoline intestate a un’azienda di Frattamaggiore (Napoli), la Mail Express-Poste Private, che si definisce leader nel settore postale privato, ma risultano assunti da un’altra azienda, la Lepido Edizioni, una società editrice di Teramo. A prima vista sembrerebbe dunque un caso di subappalto. Ma il fatto che le due ditte condividano lo stesso indirizzo di Teramo complica non poco la situazione, in quanto appaiono molto vicine l’una all’altra. Stanchi di tutto questo calvario i postini, appoggiati dal sindacato, si sono messi dunque in “sciopero”, promuovendo un presidio di protesta davanti alla sede veronese di Mail Express, a San Michele Extra. Il giorno stesso l’azienda ha consegnato loro le lettere di licenziamento e immediatamente ha abbandonato gli uffici, chiudendoli. Ora il sindacato sta valutando la possibilità di promuovere una vertenza legale di lavoro contro l’azienda che da parte sua rivendica la piena legittimità del suo operato (vedi box a pagina 27). Il dubbio legale verte sulla tipologia di contratto applicato inizialmente, in quanto il lavoro di postino, dalle 9 alle 19, non appare né “occasionale”, né “acces-

sorio”. Dopo che il caso è stato reso pubblico, Acque Veronesi ha assicurato di procedere con le necessarie verifiche. L’ipotesi è quella di disdire l’appalto e riassegnarlo ad altra impresa, con il vincolo di assumere i postini. La nostra ricostruzione finisce qui, almeno per il momento. Perché la tendenza ad appaltare servizi non è finita e la voce che circola è che l’Amministrazione comunale tornerà alla carica, forse con quegli stessi insegnanti delle materne e dei nidi comunali che in passato erano stati salvati da una circolare del governo. Ma questo ormai avverrà probabilmente solo dopo le elezioni amministrative del 2012. Pare infatti che il tempo che precede le scadenze elettorali sia l’unico momento in cui, per mera convenienza politica, i diritti di cittadinanza e quelli del lavoro tendono a coincidere.

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Aprile 2011


Cultura C’ERA UNA VOLTA

Mestieri dimenticati Chi impagliava sedie, chi preparava corone di rami d’ulivo per la Pasqua. Lavori non ancora scomparsi, come il ricamo a filet. Ma «i giovani hanno poca pazienza, non basta imparare, ci vuole esperienza e per quella serve tempo»

Sono i lavori di una volta, i cui segreti – tramandati di generazione in generazione – sembrano incuriosire poco i giovani. E pensare che uno sguardo al passato, in tempi di crisi, potrebbe anche dare validi spunti

Adelina Pernigo

in VERONA

di Marta Bicego «Il mio mestiere – dice con amara rassegnazione Pino Erbogasto – ormai non lo vuole fare più nessuno. Figuriamoci i giovani...». Per vent'anni, in un piccolo laboratorio di Grezzana, ha fatto l'impagliatore di sedie intrecciando, con un'invidiabile pazienza, canne sottilissime che acquistava in grandi mazzi. Si tratta di una specie di paglia che cresce ancora oggi lungo i corsi d'acqua della Bassa veronese: fatta essiccare, diventa bianca ed è il materiale ideale per ricoprire seggiole con motivi a intreccio che sembrano quasi ricami. «È un lavoro lungo e difficile per il quale passione e manualità sono indispensabili» ammette, con la sicurezza che è tipica dell'esperto. «Io l'ho imparato dai caregari che venivano da Badia Calavena: guardando muoversi le loro mani e osservando con attenzione manufatti già realizzati. Poi c'è voluta tanta, tantissima pratica». Le mode cambiano, soprattutto quando si tratta di arredamento. Tuttavia, a distanza di tempo, in certe case della Valpantena ci sono ancora le sedie impagliate da Erbogasto. Negli anni Ottanta, raggiunta l'età della pensione – dopo aver lavorato i campi come contadino per oltre cinque decenni – questo intraprendente signore ha deciso di dedicarsi a un'attività nuova: una scelta quanto mai azzeccata, considerando anche la mancanza di concorrenza nella vallata. In molti aspiranti apprendisti sono passati dal suo laboratorio: volevano imparare la tecnica per impagliare,

ma nessuno – confessa – è riuscito ad apprendere veramente il mestiere. Questione di manualità, che si acquisisce soltanto con la pratica e la costanza, ma «i giovani – si lascia sfuggire – sono poco pazienti». E poi serve la passione: «Se ho imparato io, lo possono fare anche gli altri. No?». Pensare di “rispolverare” dal passato certi mestieri è utile, innanzitutto, per il dovere della memoria. È questo che ha spinto due studiosi veronesi, Fernando Zanini (che è tra l'altro presidente della biblioteca comunale di Grezzana) e Bruno Avesani, a raccoglierne i segreti e le tecniche – illustrate grazie a un ricco apparato fotografico – in vista di una pubblicazione. Sarà il secondo volume di una collana iniziata con un libro, fresco di stampa, dedicato alle abitazioni della Lessinia e a tutte le attività necessarie per costruirle. Probabilmente, l'ispirazione a guardare alle antiche occupazioni è venuta a Zanini grazie anche alla complicità della moglie Adelina Pernigo. Proprio nei mesi che precedevano la Pasqua, negli anni Quaranta del secolo scorso, la signora Adelina aiutava la mamma e le zie a confezionare decine e decine di palme con corona. Si trattava di rami d'ulivo, scelti attentamente negli uliveti che crescono nelle colline della Valpantena, impreziositi da una corona di foglioline intrecciate. «Oltre a noi, molte altre donne della zona (soprattutto a Sezano e Santa Maria in Stelle) si dedicavano alla realizzazione di questi manufatti. A pacchi di venti, venivano consegnate al merca-

to ortofrutticolo e spedite in Germania, assieme alla frutta e alla verdura, dove sarebbero servite durante la processione del giorno delle Palme o per addobbare gli altari delle chiese». Una tradizione presente anche nel Veronese, che è però scomparsa. Se ne producevano a centinaia, prosegue, tanto che per alcune famiglie costituivano una vera e propria fonte di reddito. Non era, nemmeno questo, un lavoro facile: «Prima

Pino Erbogasto

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Cultura

A sinistra: Teresa Zanoni prepara il pane. A destra: Loretta Troiani mentre ricama

bisognava trovare i rami più adatti. Poi era necessario imparare a intrecciare le foglie, una a una, per creare la corona». Un manufatto che – forse più per aspetti estetici che per il significato religioso – desta la curiosità di molte persone. Ma, quando si tratta di imparare a confezionarli? Molti sono i tentativi, ma «in pochi ci riescono», risponde Adelina sorridendo. Del resto, ci vuole troppa pazienza... Più che un lavoro, per Loretta Troiani, quella per il ricamo a filet ha sempre rappresentato una grande passione. Lo testimonia la quantità di centrini, tovaglie, lenzuola e festoni che è riuscita a realizzare nel corso degli anni (con ago, filo di cotone e telaio di legno) stando seduta nella cucina della propria casa di Lugo. Una varietà che potrebbe fare invidia addirittura a un negozio specializzato, senza contare tutti i ricami realizzati per le persone nel corso degli anni che glieli hanno commissionati. «Tempo e pazienza ce ne vogliono tanti», dice per scansare ogni dubbio, ma la richiesta di questi prodotti d'artigianato continua: «Donne che se ne intendono di ricamo, per fortuna, ce ne sono ancora. E le richieste non mancano mai». Anche il ricamo a filet, inutile dirlo, è un'attività che richiede manualità e pazienza: con ago e filo di cotone, si costruisce una rete le cui dimensioni variano a seconda del manufatto che si intende rea-

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lizzare. Trasportato sul telaio, questo supporto diviene la “base” sulla quale la ricamatrice esegue i decori: frutta, girali vegetali, angioletti (il soggetto preferito dai nipotini). Alcuni disegni vengono copiati da modelli di carta che hanno quasi cento anni e provengono addirittura dalla Francia. A insegnare l'arte del ricamo alla signora Loretta è stata la suocera, nel 1973: «Il segreto è capire il procedimento. Ho tenuto anche dei corsi alle donne del paese che me l'hanno richiesto. Per il resto è necessaria la fantasia, per inventare motivi decorativi sempre nuovi». Per la famiglia di Teresa Zanoni la tradizione più antica, tramandata di generazione in generazione, è quella di preparare il pane in casa, facendolo cuocere in una ciotola adagiata sotto la cenere e le braci roventi nel camino. Così, con il doppio vantaggio del risparmio e della genuinità, si avevano ogni giorno pagnotte fresche da mangiare senza dover scendere dalle colline e andare fino giù in paese. «L'arrivo della stufa ha facilitato molto la cottura» spiega l'esperta fornaia, ma gli ingredienti rimangono sempre gli stessi: «Farina, acqua, latte, sale e lievito di farina». Procedimento apparentemente semplice, anche se però non tutti riescono a ottenere gli stessi risultati. E ovviamente ci vuole la passione, precisa l'ottantenne: «Quella di alzarsi presto la mattina e impastare...». Difficile, con i ritmi dei tempi moderni.

Anche se potrebbe essere un'alternativa (dal punto di vista economico e della genuinità) da riscoprire anche oggi. Come chi cuoceva i panini in casa, in Valpantena, fino a qualche decennio fa, c'era anche chi i vestiti preferiva farseli confezionare dal sarto. Arnaldo Morbioli il mestiere ha iniziato a impararlo quando aveva quattordici anni e i genitori l'hanno mandato a bottega in una sartoria del paese, dove è rimasto per dieci anni. «Allora si imparava guardando e lavorando tanto» esordisce il settantasettenne. Il primo passo, ricorda, «era quello di imparare a tenere in mano l'ago e il ditale, quindi ti insegnavano a cucire sottocolli e bottoni. Piano piano si arrivava alle tasche. A forza di guardare chi era più esperto, ho iniziato a tagliare le stoffe per confezionare abiti in-

teramente a mano». Un'abilità che gli ha dato la spinta per aprire una casa-bottega in centro a Grezzana (negli anni dal 1957 al 2000), dove proponeva alla propria clientela (maschile e femminile) giacche, cappotti, tailleurs con l'aiuto della moglie Adriana Salvagno e di alcune aiutanti. «Nei periodi di festa, si lavorava fino alle 4 di mattina», perché per realizzare un abito “come si deve” – dal disegno al momento cruciale della prova («è lì che si vede l'abilità di un vero sarto» precisa) – occorrevano fino a 40 ore di paziente lavoro. Il giro di clientela, quello non mancava mai: «Alcuni clienti mi chiamano ancora oggi che sono in pensione» confessa con una particolare soddisfazione. Così come non sono mancate le aspiranti sarte che sono passate dal laboratorio di Morbioli per apprendere i segreti del mestiere. In poche hanno proseguito: troppi sacrifici e difficoltà da affrontare. E, rispetto al passato, le abitudini sono cambiate: «Il cliente, oggi, probabilmente non avrebbe più il tempo di andare dal sarto a provare e riprovare un abito fino alla perfetta realizzazione». Con i prezzi in molti casi si è abbassata anche la qualità, che solamente l'occhio attento di un sarto alla “vecchia maniera” riesce ormai a riconoscere. Tornare al modo di lavorare del passato, per certe attività, non è più possibile. Cercare di tenerne in considerazione alcuni degli insegnamenti, meglio ancora se riadattandoli ai nuovi mercati del lavoro, quello sì che è indispensabile.

Il sarto Arnaldo Morbioli con la moglie Adriana Salvagno

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Focus RIMEDI CONTRO LA CRISI

Capire come i lavori si trasformano serve a far nascere nuove opportunità Oggi ci sono mestieri che assomigliano a quelli vecchi. Dovrebbero però essere chiamati con nomi nuovi perché con i loro antenati hanno poco da spartire. Si può fare il “nuovo sarto” utilizzando conoscenze storiche, artistiche, meccaniche, chimiche e inserendosi in nuovi sistemi produttivi che valorizzino il lavoro manuale e lo integrino con quello progettuale e finanziario di Bruno Avesani Quando la disoccupazione giovanile aumenta di giorno in giorno fino a toccare a gennaio di quest’anno, secondo le stime dell’Istat, il record del 29,4 per cento e quando la disoccupazione in generale, anch’essa in crescita, coinvolge l’8,6 per cento della popolazione, si va a cercare anche nella microscopica nicchia dei “mestieri dimenticati” una piccola speranza per migliorare il desolante quadro complessivo. Si tratta di attività che appartengono alla società contadina che ci siamo lasciati alle spalle. Facciamo l’esempio del sarto. Un tempo ricopriva il ruolo di artigiano intelligente, creativo, abile di mano e di testa, quasi l’intellettuale del paese, dopo il parroco e il farmacista. Cancellato dall’organizzazione industriale del lavoro, o è diventato il creatore d’alta moda proprietario della sua maison d’haute couture o è stato declassato a esecutore di monotoni processi manuali, per i quali non si richiede nessuna preparazione particolare. La tradizionale figura del sarto di paese o di quartiere, gratificato artigiano-artista autonomo e indipendente, può ancora esplicare la sua creatività e operatività nella moderna organizzazione del lavoro e del commercio? Per le figure di lavoratori di-

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pendenti richieste dalle industrie, il rapporto 2010 di Unioncamere dice che, a fronte di circa 550 mila possibili nuove assunzioni, le aziende non trovano oltre 147mila lavoratori, tra installatori di infissi, panettieri, pasticceri, sarti, falegnami e cuochi. In particolare, per quanto riguarda i sarti, il rapporto sostiene che manca il 21,9 per cento dei 1.960 sarti e tagliatori artigianali richiesti dalle aziende. Ma questi lavori di sarto e intagliatore, che nessuno vuole fare, che lavori sono? È il sarto di una volta o è diventato semplice controllore di una macchina che taglia e cuce? Questi mestieri, che assomigliano a quelli vecchi, e che molti si rifiutano di fare, dovrebbero essere chiamati con nomi nuovi perché con i loro antenati hanno poco da spartire. E prima di lanciarsi in crociate contro i giovani fannulloni, bamboccioni, incapaci di sporcarsi le mani si dovrebbe garantire a tali nuove occupazioni accetta-

bili livelli di gratificazione con contratti e salari che permettano di formulare progetti di vita. Inoltre va riformulata l’organizzazione della formazione scolastica e professionale per eliminare quella separazione netta che c’è tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro. I nuovi lavori vanno conosciuti, se non addirittura sperimentati, già nell’età scolare. Oggi gran parte della preparazione culturale acquisita dai giovani non viene utilizzata. È una risorsa che viene sprecata, mentre potrebbe aiutarli a trovare un lavoro nuovo e gratificante e a migliorare l’efficienza del sistema. Si può fare il “nuovo sarto” utilizzando conoscenze storiche, artistiche, meccaniche, chimiche e inserendosi in nuovi sistemi produttivi che valorizzino il lavoro manuale e lo integrino con quello progettuale e finanziario.

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di Fabiana Bussola “Noi vogliamo una Chiesa del Nord”. La frase che intitola un capitolo di Padroni a chiesa nostra – Vent’anni di politica religiosa della Lega Nord, scritto da Paolo Bertezzolo per la Emi e uscito a fine febbraio, riassume la questione di fondo che ha motivato la stesura del libro. La sparata è esplicita e non è un’esagerazione strumentale, bensì dice la verità: se all’inizio infatti il movimento di Bossi ha ignorato il cattolicesimo e la gerarchia vaticana, con il crollo della prima Repubblica le cose

hanno cominciato a cambiare. Lo sostiene l’autore, già professore di storia e preside del liceo Galilei, impegnato nel sociale e presidente delle Acli veronesi dal 1976 al 1981, che afferma di aver condotto la sua ricerca innanzitutto perché «in quanto credente cattolico sogno una Chiesa capace di annunciare il Vangelo con quella fiducia nel-


Cultura Paolo Bertezzolo nel suo libro spiega come è cambiato nel tempo il rapporto della Lega Nord nei confronti della Chiesa

l’uomo propria del Concilio vaticano II». Il lettore a cui Bertezzolo ha pensato è quindi la chiesa, dai suoi pastori ai fedeli, che sembrano non rendersi conto – o perlomeno, non lo hanno fatto per molto tempo – della cesura che i «principi non negoziabili» fondanti per la Lega stanno operando nel tessuto sociale cattolico. Siamo negli anni Ottanta: Umberto Bossi fonda con Roberto Maroni e Giuseppe Leoni la Lega autonomista lombarda, che poco più tardi, nel 1984, diventa la Lega lombarda. Solo tre anni dopo Bossi entra in Senato. Negli stessi anni la Chiesa vive la stagione del convegno ecclesiale di Palermo (1985), in cui le parole di Giovanni Paolo II (“la chiesa non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito”) sottolineano, almeno in linea di principio, il pluralismo politico dei cristiani. Sono gli anni della caduta della DC, del passaggio tra la prima e la seconda Repubblica e dell’apertura di un nuovo corso, quello segnato dal cardinale Camillo Ruini. Nel 1991, al primo congresso nazionale della Lega, le parole di Bossi non lasciano dubbi: mentre gli sbarchi di clandestini da est e da sud interessano la cronaca, è dal pulpito leghista che la denuncia verso i migranti si leva a sistema politico e in risposta alle voci forti di Caritas e Migrantes, che sostengono le ragioni di chi fugge

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da miseria e persecuzioni, Bossi afferma che la Chiesa, in crisi di vocazioni, appoggia l’ingresso indiscriminato dei migranti per rimpolpare i seminari ormai vuoti. «La sparata denuncia un dato di fatto – afferma Bertezzolo –: la Lega è radicata nel concetto dell’etnia. Un principio identitario mutuato da Bruno Salvadori, fondatore dell’Union Valdôtaine, secondo il quale l’etnia non è una questione di sangue, bensì un’adesione totale a pari credenze, tradizioni, lingua, senza mescolanze culturali. Le etnie, che oggi vivono senza uno Stato, dovranno costituirne uno indipendente e sovrano, in cui essere autonome e tutelate». Padrone a casa loro, insomma. GLI EQUILIBRI DI RUINI E IL PARTITO

“NON AFFIDABILE” Che ricaduta ha questa visione nel rapporto con la Chiesa? «La minaccia separatista è stata subito stigmatizzata proprio dal presidente della Cei Ruini – continua l’autore –, che ha condotto negli anni una guerra di posizione per contrastare le spinte separatiste, siglate nel primo articolo dello statuto della Lega. Inoltre, Ruini non ha mai smentito le parole della Caritas e di Migrantes in fatto di solidarietà e apertura ai migranti, toccando uno dei punti sostanziali della propaganda leghista. Non sono mancati gli

scontri, anche molto duri nei toni da parte dei leader del Carroccio, anche se ci sono stati contatti positivi specie con Roberto Maroni, nelle vesti di ministro del lavoro e delle politiche sociali. È innegabile che il presidente della Cei abbia prediletto il dialogo con lo schieramento di centrodestra, ritenuto il più affidabile in quanto al rispetto dei principi non negoziabili della dottrina cattolica. Ma questo non ha fatto della Lega un interlocutore credibile per la Cei». Il «baraccone burocratico», come Irene Pivetti definì la conferenza episcopale, scusandosi poi in seguito, è frequentato invece da Giuseppe Leoni, tra i fondatori della prima ora e presidente dell’Associazione cattolici padani, che sostiene di attenersi ai «dettami della dottrina sociale della Chiesa cattolica», cui si affianca Padania cristiana, presieduta da Mario Borghezio, entusiastico sostenitore del ri-

torno alla messa tridentina e dell’annullamento del Concilio Vaticano II. «Dai documenti ufficiali sembra che ci sia un ritardo nella comprensione della reale portata del fenomeno leghista – incalza Bertezzolo –. La minaccia consiste nella distruzione del fondamento dell’annuncio cristiano, basato sull’apertura all’altro, all’ultimo, allo straniero. Essere cattolici significa avere una visione mondiale dell’umanità e ciò è esattamente l’opposto di quello che la Lega si prefigge. Nello stesso tempo però la presenza sul territorio del partito è capillare, ma lo è pure nelle parrocchie. Ci si scontra con l’arcivescovo di Milano, prima il cardinale Martini, oggi con Tettamanzi e si ottiene lo svuotamento progressivamente delle chiese, o perché tanti cristiani riconoscono l’incongruenza dei valori della Lega rispetto al messaggio evangelico o perché, al contrario, l’elettorato

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Cultura «Tradizionalismo cattolico, estremismo di destra e Padania cristiana, quindi Borghezio, sono molto vicini a Verona»

leghista non si riconosce più nella chiesa che contesta il reato di immigrazione clandestina. Quello che resta del cattolicesimo, con l’insieme di tradizioni e riti popolari, viene fagocitato nel partito: non mi pare una prospettiva tanto diversa da un qualunque soggetto totalitario». IL PLURALISMO CHE MANCA Quindi l’apertura ai lefebvriani con il motu proprio sulla liturgia tradizionale, pronunciato da Benedetto XVI nel 2007, ha legittimato le posizioni di Padania cristiana sul territorio? «Fatti come quelli accaduti a Verona, prima con i legami tra i tradizionalisti e la figura di don Floriano Abrahamowicz, che aveva espresso dei dubbi circa l’esistenza delle camere a gas e dello sterminio degli ebrei, poi con la battaglia per la sottrazione della chiesa di San Pietro Martire ai luterani, sono lo specchio di un processo in atto. Mi è spiaciuto che la comunità luterana, impegnata a Verona in un percorso ecumeni-

co molto delicato, sia stata privata della chiesa prospiciente al duomo. Il segnale non mi è parso positivo, anche se non conosco bene le motivazioni. Mi ha colpito invece come questa minoranza di tradizionalisti si sia espressa in termini duri, come se i luterani non fossero nemmeno cristiani. Credo però che le responsabilità di questi fatti non siano da imputare solo a una minoranza combattiva. L’influenza politi-

ca ha avuto il suo peso: tradizionalismo cattolico, estremismo di destra e Padania cristiana, quindi Borghezio, sono molto vicini a Verona. Inoltre a monte c’è un problema ingombrante: la Chiesa deve accettare di annunciare il Vangelo in una società secolarizzata e in reale pluralismo religioso. Se ci fosse questa consapevolezza da parte della Chiesa, anche di quella locale, non penso che si sarebbe tolta la chiesa di San Pietro martire ai luterani. Non basta prendere atto del cambiamento in corso nella società: occorrono strumenti culturali e pastorali per rispondere alla realtà di oggi. Se accetto l’esistenza di una società secolarizzata, non posso cedere al desiderio di trasformare il mio doveroso richiamo al rispetto di valori per me non negoziabili in una pretesa, più o meno esplicita, di trasformare ciò in leggi dello Stato. Lo ha scritto anche don Bruno Fasani: il rischio è che si istituisca un doppio magistero, uno della Chiesa e uno della Lega».

ASSOGUIDE VERONA L’Associazione Guide Turistiche Autorizzate di Verona e Provincia ASSOGUIDE è composta da 23 guide turistiche tutte in possesso del patentino rilasciato dalla Provincia di Verona in base alla Legge Regionale del 4 novembre 2002, n. 33. L’Associazione unisce passione ed entusiasmo ad un costante lavoro di aggiornamento e approfondimento. Le lingue straniere nelle quali i soci ASSOGUIDE possono fornire il loro servizio sono: inglese, francese, tedesco, spa-

gnolo, giapponese, russo, olandese, greco, portoghese, rumeno. ASSOGUIDE si avvale di un sevizio multilingue per le prenotazioni e dispone di un numero telefonico di reperibilità per le emergenze. Oltre alle classiche visite della città e della Provincia di Verona, Assoguide è in grado di fornire itinerari personalizzati, adatti alle esigenze di associazioni culturali, piccoli gruppi, operatori congressuali, gruppi parrocchiali, gruppi di disabili, gruppi incentive, scuole di ogni ordine e grado.

ASSOGUIDE È MEMBRO DI: • Consorzio di Promozione Turistica Verona Tuttintorno • Consorzio di Promozione Turistica Lago di Garda è • Associazione Nazionale Guide Turistiche (Angt) • Associazione Regionale Guide Turistiche

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Focus UN POPOLO, UNA TERRA

Identità veneta e ricerca storica recente di Gian Maria Varanini* Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso la cultura accademica sentì il bisogno di reinterpretare la vicenda plurimillenaria delle terre poste tra l’Adige, la Livenza e il Po, e lo fece con la Storia della cultura veneta dell’editore vicentino Neri Pozza. Fu un’operazione scientifica e culturale importante, e nel suo genere perfettamente riuscita, compiuta nel momento definitivo del superamento della povertà e del boom economico del “modello veneto”. Ma appunto, fu un’operazione della cultura accademica, che affrontava con prudenza e sottili distinguo, il tema della riconoscibilità di un’identità regionale. Contemporaneamente, però, si veniva iniziando anche una riflessione di alcuni intellettuali e storici veneti di varia estrazione e orientamento, che in modo molto più incisivo lanciarono dei segnali molto importanti a proposito del malessere che le società del Nordest italiano vivevano allora. La loro estrazione culturale e politica non permette certo di incasellarli come “intellettuali organici” di un movimento autonomista (che non esisteva). Costoro cercarono però di mettere a fuoco alcuni tratti della «appartenenza ad una lingua, una storia, una cultura, un territorio», corredata da alcune «caratteristiche morali» e «declinabile alla prima persona plurale», come un “noi”: quella «identità» che in un contesto politico e culturale diversissimo, nel 2001, portò persino alla redazione di un manuale per le scuole, finanziato dall’assessorato regionale alla cultura e identità veneta (recentemente istituito), intitolato Noi Veneti. Viaggi nella storia e nella cultura veneta. I tre volumi, dedicati a storia, lingua, letteratura, furono curati da uno studioso di razza come il linguista Manlio Cortelazzo. Di chi si trattava (facciamo, ovviamente, solo alcuni esempi)? Erano intellettuali provenienti da ambienti di “sinistra”, e legati al mondo politico e sindacale cattolico. Nell’osservare e giudicare la realtà veneta, essi misero innanzi a tutto l’adesione profonda dei “veneti” a una dimensione popolare (la comunità, l’appartenenza religiosa), che prescindeva dallo Stato quando non lo considerava ostilmente. Possiamo collocare in questa prospettiva l’opera di un sociolo-

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Nel contesto veronese è soprattutto Federico Bozzini a criticare lo stereotipo di «bovina rassegnazione» che etichettava i veneti. Egli parla di «popolo veneto», di «nazione veneta», evidenziando il distacco profondo tra la «nostra terra» e lo stato unitario go e antropologo culturale come Ulderico Bernardi, che nel 1986 pubblicò il suo più grande successo, il suggestivo affresco Paese veneto. Dalla cultura contadina al capitalismo popolare. Nel contesto veronese è soprattutto Federico Bozzini che, criticando lo stereotipo di «bovina rassegnazione» che etichettava i veneti («sottomessi, laboriosi, rimbambiti di grappa alle 8 di mattina; chiamati per cognome e nome, invariabilmente rispondono “comandi!”»), arriva – lui legato alla sinistra Cisl e al dissenso cattolico – a parlare di «popolo veneto», di «nazione veneta», e a constatare il distacco profondo tra la «nostra terra» e lo stato unitario (L’arciprete e il cavaliere. Un paese veneto nel Risorgimento italiano, Roma 1985). In quei decenni, inoltre, in tutto il Veneto fiorivano le “storie di paese”: ricerche spesso pregevoli, che avevano invariabilmente al centro il tema del passato rurale, delle «nostre radici», la nostalgia della società rurale. Questo atteggiamento fu ulteriormente incarnato, a Verona, da Dino Coltro, non a caso anch’egli proveniente dal mondo sindacale cattolico, e per un versante della sua complessa riflessione (nei libri, segnati dal rimpianto, dedicati alla Lessinia, alla Valpantena, che fanno da sfondo alla “megalopoli padana”) anche da Eugenio Turri. Non si deve pensare che queste riflessioni, se non forse il generico riferimento sentimentale al ruralismo (col corollario della “naturalità”ecologica), siano penetrate davvero nella coscienza collettiva. Si tratta pur sempre di riflessioni di intellettuali, del pensiero di una élite. Ma il fatto stesso che personaggi come Bernardi, Cortelazzo, Bozzini siano arrivati a riconoscere e condividere il mito della laborio-

sità rurale, a considerare una dimensione vitale e positiva l’appartenenza religiosa e il solidarismo cristiano, arrivando a constatare e implicitamente legittimare un certo qual rifiuto dello Stato, un disagio profondo che serpeggiava, spiega almeno in parte perché la Lega in Veneto ha potuto occupare negli ultimi quindici anni tanto spazio sociale. I profondi elementi di verità presenti in quelle analisi non furono colti e sviluppati dal mondo politico e culturale dei partiti del centrosinistra, che li ignorò e li rimosse, perdendo l’occasione per entrare in “sintonia” con ampi settori della società veneta; e continuò a leggere il passato recente del Veneto se non attraverso categorie vetuste. Non ci fu bisogno infatti di un grande sforzo di rilettura o di reinterpretazione del passato veneto, e per intercettare quel disagio e creare consenso bastarono degli stereotipi abbastanza elementari. Furono sufficienti le riflessioni di quegli studiosi “venetisti” che si avventurano nella nebbiosa lontananza delle origini di quei Veneti pre-romani, che avrebbero conservato nel tempo le loro stigmate culturali, saltano a pié pari il momento della romanizzazione e l’intero medioevo, e arrivano poi a una lettura schematica e deludente della storia della repubblica veneta e della sua Terraferma, dal Quattrocento in poi. Non solo essa è vista in modo acriticamente positivo e segnata dalla granitica fedeltà delle popolazioni rurali a San Marco, con i momenti di difficoltà (la guerra della lega di Cambrai e la sconfitta di Agnadello, per esempio) spiegati in termini di mero tradimento e di mera invidia delle altre potenze. Ma manca soprattutto la presa di coscienza del policentrismo urbano (di derivazione comunale), che caratterizza la Terraferma dal Quattrocento al Settecento; Venezia e l’attuale Veneto appaiono, in modo totalmente astorico e quasi caricaturale, come un blocco monolitico. Occorre dunque incalzare anche su questo terreno i nostri amministratori: aiutarli a smitizzare l’identità veneta, a comprenderne la complessità e la ricchezza. E chissà, forse un giorno potremo sentire i nostri amministratori citare Piovene o Meneghello. * Professore ordinario di Storia medioevale Università di Verona

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Attività DISEGNO

Magie che nascono in punta di pennello Valentina Montemezzi è grafica e illustratrice: «Quello delle illustrazioni è un mondo che può sembrare dedicato esclusivamente ai bambini, ma in realtà è destinato a far sognare anche gli adulti, soprattutto quelli che hanno conservato un legame speciale con la propria infanzia»

di Marta Bicego

Valentina Montemezzi

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Nelle sue mani pastelli e gessetti variopinti danno vita a curiosi animali e ad affascinanti personaggi immersi nella natura che insieme diventano i protagonisti, soltanto nello spazio di una tavola, di avventure straordinarie. Narrare una storia attraverso pochissimi tratti di matita e colore: è questa la magia del disegno per Valentina Montemezzi, grafica di professione – che si è formata sui banchi della Scuola San Zeno – e illustratrice (come ci tiene a precisare) quasi «per caso». Complice un talento innato, la sua passione per il disegno si è risvegliata, infatti, sfogliando le pagine di un libro illustrato da un artista francese: «Mi ha colpito perché, con pochi tocchi e due colori, racconta una storia incredibile» spiega la ventiseienne. A conquistarla fin dal primo sguardo è stato il grande fascino di «un mondo che può sembrare dedicato esclusivamente ai bambini, ma in realtà è destinato a far sognare anche gli adulti, soprattutto quelli che hanno conservato un legame speciale con la propria infanzia». Poi, prosegue, «il mio percorso formativo ha preso una direzione diversa e soltanto negli ultimi anni, attraverso altre strade, mi sono ritrovata ad avvicinarmi all’illustrazione. Forse era destino che andasse così...».

Mettersi davanti a una tavola «è come scrivere una storia: immagini un luogo, un tempo, un colore, una sensazione e ci fai vivere dentro i protagonisti. Mentre disegni, fai prendere vita ai personaggi e mano a mano ti affezioni, li pensi, li immagini, vuoi farli più belli, brutti oppure simpatici, desideri fargli compiere tante avventure all’interno del disegno. E ne hai nostalgia quando la storia finisce», spiega. Potere della creatività, rivela la giovane illustratrice, che insegna «a guardare la vita da una nuova prospettiva. A non fermarsi mai alla semplice apparenza, ma a osservare più a fondo le cose, per svelare sempre qualche piccola sorpresa». Lasciarsi catturare dai dettagli oppure dalle sfumature di un disegno è, tanto per chi lo crea quanto per chi lo osserva (siano grandi o piccini), quasi come affrontare un viaggio tra sensazioni, impressioni e ricordi. La maggior parte delle illustrazioni di Valentina Montemezzi nascono proprio dal vivere quotidiano: «Nell’osservare e cogliere il mondo circostante pieno di movimento, colori e confusione mi viene voglia di “isolare” un particolare, il più delle volte nascosto. Da lì, di solito, comincia a svilupparsi attorno la vicenda. Altre volte si tratta “semplicemente” di interpretare le parole scritte da altri e usare l’immagi-

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Attività

«Fai prendere vita ai personaggi e ti affezioni. Li pensi, li immagini, vuoi farli più belli, più brutti, oppure simpatici. Desideri fargli compiere tante avventure all’interno del disegno. E ne hai nostalgia quando la storia finisce»

Lo scorso dicembre Valentina Montemezzi ha esposto una delle sue creazioni nella sezione allievi della mostra d’illustrazione per l’infanzia di Sarmede, Le immagini della fantasia: un appuntamento internazionale nella Marca trevigiana

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nazione per renderle vive». Per fare ciò, prosegue, servono la tecnica e ovviamente una buona dose di creatività: «Di solito utilizzo i colori acrilici, ma poi la fantasia e il lato giocoso del disegnare prendono il sopravvento e portano qualche novità nella realizzazione di ogni tavola: un collage, dei pastelli o dei gessetti che si mescolano tra di loro». Lo scorso dicembre Valentina Montemezzi ha esposto una delle sue creazioni nella sezione allievi della mostra d’illustrazione per l’infanzia di Sarmede, Le immagini

della fantasia: un appuntamento internazionale che si tiene ogni anno nella Marca trevigiana. Un buon banco di prova, ma soprattutto un’esperienza splendida, come si intuisce dall’entusiasmo con il quale la descrive: «Ho seguito un corso con il maestro Svjetlan Junakovic, artista e famoso illustratore croato – racconta –. Trascorrere intere giornate immersi completamente nelle illustrazioni, condividendo l’impegno, la gioia, le esperienze (e anche la casa) con altre persone che hanno la tua stessa passione non capita tutti giorni e

fa venire voglia di proseguire su questa strada…» confessa. Tra i progetti futuri della promettente creativa ci sono «la fiera del libro per ragazzi di Bologna e un nuovo corso a Sarmede. E poi tanti altri corsi di formazione per migliorare. Sarebbe bello riuscire a pubblicare presto un picture book tutto mio...». La storia, già c’è: è quella di una bambina che cammina nella neve e incontra un pettirosso... Come va a finire? Lo scopriremo presto. valentinamontemezzi@libero.it

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Attività di Cinzia Inguanta Direttamente dalla forza vitale e dall’energia di Eva Cacciatori e Sonia Peroni nasce l’associazione culturale JOY il cui slogan è da cosa nasce cosa. Il desiderio era quello di riuscire a creare uno spazio di relazione in cui poter valorizzare la creatività e perseguire la realizzazione personale. Un luogo dove incontrarsi, scambiare idee, realizzare progetti, un luogo aperto, multifunzionale, “in movimento”, con un occhio sempre attento al recupero dei materiali e all’ambiente. Un punto d’incontro per chi crede nell’artigianato realizzato con passione, nel riutilizzo creativo di materiali e oggetti, nel re-design, nel baratto. Varcando la soglia del civico 32 di via Carducci si entra in un mondo magico di scatole cinesi. Il primo spazio che si incontra è quello dove si trovano abiti, accessori, oggetti e complementi di arredo originali, ispirati all’arte del recupero: prodotti artigianal-

ASSOCIAZIONE JOY

Da cosa nasce cosa Uno spazio-contenitore della creatività nel quale incontrarsi, realizzare nuovi progetti, scambiarsi idee, barattare abiti oppure accessori usati. L’hanno creato Eva Cacciatori e Sonia Peroni al civico 32 di via Carducci mente e realizzati con materiali dimenticati o scartati che in questo modo si arricchiscono di nuovo significato e possono dare ancora gioia. Proseguendo si trova lo spazio del “baratto” perché le cose non si buttano, si cambiano! In questo modo, abiti e accessori che abbiamo amato avranno una nuova opportunità di vita. Per rinnovare il guardaroba divertendosi, Eva e Sonia organizzano periodicamente eventi a tema dedicati allo scambio: veri e propri swap parties dove scambiare abiti e accessori con gli amici all’ora del tè o fare nuove conoscenze sorseggiando un aperitivo. L’associazione, avvalendosi della collaborazione di Marina Bassi e Mauro Marchesi, propone una serie di workshop indirizzata a chi desidera approfondire la conoscenza dei più aggiornati software e le tecniche tradizionali utilizzate per la creazione di opere grafiche, letterarie e musicali.

Un’altra interessante offerta dell’associazione è quella della “didattica creativa” rivolta a operatori, insegnati e a tutte le persone che hanno a che fare con il mon-

do dell’infanzia e dei bambini. Alla base dei singoli percorsi di formazione c’è l’idea, comune e condivisa, di un fare creativo che possa essere strumento per arrivare a educare in maniera armoniosa e globale attraverso materiali di riciclo, dove la scoperta e la ricerca sono parte integrante del fare educazione. Le esperienze, vengono proposte in piccoli gruppi per dare una maggior valenza esperienziale al percorso. Sono moltissimi i servizi offerti da JOY che vanno dall’interior relooking (che altro non è se non il rinnovo del look della casa, dell’ufficio o anche di una singola stanza) alla realizzazione di pannelli decorativi, punti luce, complementi d’arredo e allestimenti creativi e personalizzati. In sintonia con la nuova filosofia del co-working, JOY offre, a chi avesse bisogno di uno spazio in cui svolgere la propria attività e il desiderio di ridurre i costi di gestione di un ufficio proprio, luoghi e strutture adeguate e soprattutto la possibilità di creare relazioni.

Per rinnovare il guardaroba divertendosi, Eva e Sonia organizzano periodicamente eventi a tema dedicati allo scambio

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Attività SLOW FOOD

Perbacco, la cucina dai sapori intelligenti Cibi sapientemente cucinati, selezionti per qualità e luogo di produzione «Seguire la stagionalità e valorizzare ricette classiche, rivisitandole in chiave contemporanea, è l’indirizzo che abbiamo sempre voluto seguire». Una carta vincente, visto che la trattoria è menzionata in alcune prestigiose guide internazionali

Massimo Rossi

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Una piccola lanterna accesa al civico 48/A di via Carducci, segnala la presenza dell’Osteria PerBacco. Lasciatevi incuriosire ed entrate: sarete contenti di averlo fatto. Varcato l’ingresso vi sentirete subito accolti e avvolti in una situazione “soft” assai piacevole. Non c’è niente di urlato. La luce è discreta. L’arredamento semplice, ma curato, riflette il calore del legno che è l’elemento dominante. I rumori sono ovattati, il giusto sottofondo per mangiare riuscendo a gustare quanto si ha nel piatto e conversare, senza dover alzare la voce con il vostro commensale. L’accoglienza riservata agli ospiti è cordiale, premurosa senza essere invadente. In primavera e in estate si può mangiare in un delizioso cortile interno con palme e pergolato di glicine. Come racconta Massimo Rossi, titolare dell’impresa, il PerBacco nasce nel 1988 come circolo pri-

vato, con zero soldi, zero esperienza e grande sprezzo del ridicolo da parte dei suoi fondatori. Per Massimo è naturale l’adesione alla filosofia dell’allora neonato movimento slow food. Cosa significa? Significa dare la giusta importanza al piacere legato al cibo, imparando a godere della diversità delle ricette e dei sapori, a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio. Col passare del tempo l’indispensabile gavetta comincia a dare i suoi frutti fino ad arrivare all’attuale e definitiva dimensione di trattoria, che cerca di coniugare piatti buoni e originali a prezzi più che accettabili. Massimo spiega che «seguire la stagionalità e valorizzare ricette classiche, rivisitandole in chiave contemporanea, è l’indirizzo che abbiamo sempre voluto seguire». Una carta vincente, visto che la trattoria è

menzionata in alcune prestigiose guide internazionali. Il menù proposto è vario: spazia dalla carne al pesce, segue ovviamente la stagionalità dei prodotti ortofrutticoli, ma la cosa più bella è che ci sono sempre delle proposte fuori dalla lista dai sapori imperdibili per cui si finisce sempre col chiedere cosa c’è oltre il menù. È come quando si va a fare la spesa e si cambia il programma del pranzo o della cena perché si trova qualcosa di speciale: delle melanzane lucide e panciute, che implorano di essere cucinate, del pesce freschissimo, annegato in un delizioso sughetto che condisce la nostra pasta. Irrinunciabili le orecchiette con la zucca e la crema di zucchine, profumata con il basilico, o quella al radicchio rosso. Altra gradevole sorpresa è il caffè fatto con la moka. A tutto questo dovete aggiungere il fatto che, per un pasto completo, è difficile superare i 20 euro. Quasi incredibile, ma è tutto nel rispetto di un’autentica filosofia slow food in cui il piacere alimentare, non è più riservato soltanto a pochi, ma diventa godimento alla portata di tutti. Cinzia Inguanta

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VIAGGIO NELLE OASI VERONESI DEL WWF Territorio

La palude del Busatello È una delle poche zone umide d’acqua dolce rimaste dopo la bonifica delle Valli Grandi Veronesi La Palude del Busatello è una delle poche zone umide d’acqua dolce rimaste dopo la bonifica delle Valli Grandi Veronesi. È sopravvissuta, pur tra mille difficoltà, alle grandi trasformazioni che hanno interessato le aree umide italiane a partire dal 1800, proprio grazie allo “sfruttamento” operato dall’uomo. Da sempre, infatti, le popolazioni locali “coltivano” la palude per tagliare il carice e la canna, impedendo in questo modo il progressivo degrado ambientale della palude stessa. Il Busatello non corre più il rischio di scomparire: nel 1996 il comune di Gazzo Veronese ha acquistato la parte veneta della palude e l’ha concessa in gestione al WWF Italia. L’oasi, si estende su un territorio di circa 90 ettari tra le province di Verona e Mantova. Fino dal 1981, la parte lombarda della palude era

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stata dichiarata “Oasi naturale della flora e della fauna” e poi inserita nell’elenco delle “Zone umide di importanza internazionale” secondo la convenzione di Ramsar, adottata da 130 Paesi, che prevede la salvaguardia delle zone umide considerate più importanti al mondo e delle specie animali che vi trovano habitat ideali (per l’area veneta l’inserimento in tale elenco è in fase di attuazione). A convincere gli esperti internazionali e i funzionari statali sulla necessità di proteggere il Busatello è stato il ruolo che la palude ricopre per numerosissimi volatili migratori. Nell’area, infatti, gli uccelli trovano le condizioni ideali per svernare, alimentarsi, riprodursi e mutare il piumaggio. Un’altra caratteristica importante dell’oasi è quella di conservare ancora numerose specie di piante

e fiori quasi scomparse dalla pianura veneta. La funzione delle oasi naturali è legata all’esigenza di tutelare la biodiversità, l’ambiente, il paesaggio, le attività agricole, silvicole e pastorali promuovendo al contempo il recupero delle colture tradizionali strettamente collegate al territorio rurale. Mantenere viva realtà così complesse richiede non solo una vasta gamma di conoscenze tecnico-ambientali, ma anche un grande dispendio di risorse umane e un continuo monitoraggio. Per le “zone umide” come il Busatello, l’acqua – cioè l’elemento che le caratterizza e che conferisce loro suggestioni paesaggistiche e fascino singolari – diventa anche il fattore limitante. Il suo livello può subire, nel corso dell’anno, oscillazioni anche di notevole rilievo. Questi

ecosistemi sono quindi particolarmente delicati e infatti le zone umide e le comunità vegetali di piante acquatiche hanno subito nel corso di questo secolo una sensibile riduzione nel numero, nell’estensione in qualità e complessità. Le cause di questo declino sono gli interrimenti naturali, le bonifiche (da ricordare che la stessa Costituzione Italiana all’art. 44 considera l’intervento di bonifica di queste aree quale azione preliminare per il “razionale sfruttamento del suolo”), i drenaggi, ma anche l’inquinamento in crescita esponenziale. Anche in questo caso il fattore umano risulta essere determinante, tanto nella possibilità di preservare, quanto in quella di danneggiare. Cinzia Inguanta

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Territorio

L’amore tragico di Veja e Cerèo di Aldo Ridolfi Nelle ultime estati, una manifestazione di successo come Voci e luci in Lessinia ha individuato nel Ponte di Veja un palcoscenico naturale e suggestivo atto a contenere spettacoli ove musica, gesti, virtuosismi vocali e strumentali bene si sono innestati con la misteriosa compostezza dell’imponente ponte naturale: meraviglia antica di cui vi diamo alcune parziali, ma preziose, orme.

Storia di due giovani innamorati che nelle acque della Marciora trovarono il drammatico sigillo al loro amore

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Incominciamo dal Poemetto Il Ponte di Veja, scritto dall’abate Giuseppe Luigi, conte Pellegrini e dato alle stampe a Bassano nel 1785, la cui lettura contiene numerosi elementi di particolare interesse. Quasi cinquant’anni dopo, è Girolamo Asquini a prendere la strada per il “marmoreo ponte”, in buona compagnia e con la preoccupazione costante di ricercare gli agganci tra quel sito e la genesi della Divina Commedia. Nei box a pagina 42 presentiamo alcuni passaggi in grado di illustrare lo stile, i contenuti e lo spirito sia dell’abate Pellegrini, sia del conte Girolamo Asquini. Ma forse il fascino del luogo deve qualcosa anche alla leggenda di Veja e Cerèo, i due giovani innamorati che nelle acque della Marciora trovarono il drammatico sigillo al loro amore. Storia oggi poco raccontata che noi, liberamente traendola dalla tradizione, vi proponiamo. VEJA E CERÈO

La primavera aveva a lungo indugiato nella valle scacciando le nebbie, gonfiando le gemme e liberando antichi entusiasmi. Ma ora, eccola, salire svelta il pendio, raggiungere i pianori, incunearsi nelle gole, scacciare brevi, e stanchi, testimoni dell’inverno e correre verso le cime ancora innevate. Cerèo, giovanissimo, conosceva i movimenti antichi delle stagioni, ne prevedeva lo svolgersi, ne assaporava i privilegi, accettandone pure le dimensioni faticose e imprevedibili. E sentiva, sulla sua pelle, nei gangli vitali del suo agile corpo, nelle fantasie del suo pen-

siero, gli impatti minimi delle cose. Cercava, con il suo gregge, il tepore felice dei versanti solatii e con la testa per aria, come le pecore, annusava profumi lontani e nuovi, smarrendo l’afrore dell’ovile cui si era abituato nella lunga condivisione invernale. Sapeva di Veja, Cerèo, dall’autunno di prima, quando le foglie cadevano leggere posandosi a terra, accarezzandola e preparandole gratuita coltre protettiva per il lungo inverno. L’aveva vista col gregge a cogliere, ultimi giorni utili, nei luoghi nascosti, nei siti dispersi, negli angoli lontani del bosco, lacerti di prato sfuggiti all’arsura estiva o ad altre greggi fameliche. E l’aveva sentita cantare la malinconica canzone dell’inverno imminente, sull’alto di una rupe, quando già scendeva sul suo volto la prima pioggia autunnale, leggera come il pensiero, struggente come l’amore. E l’aveva a lungo ascoltata senza palesare la sua presenza, né quella del gregge, credendo così di conservare segreti, di non esporre castissimi profili e dolcissime note, sacralmente custodite in Veja, a volgari commenti. Pretendendo di racchiudere, lì, in ristrettissimo spazio, tutte le valli, tutte le montagne, tutti i vaj, perfino l’infinito cielo. Parendogli inutile il mondo e il bosco e l’erba e la greggia stessa. Prima di loro si avvicinarono le due greggi, come per moto spontaneo. Si confondevano, si mescolavano in un indifferenziato unico armento, tornando poi a distinguersi per una sorta di segni illeggibili che solo loro, greggi e pastorelli, conoscevano, grazie a chiare e semplici regole. E poi vennero gli sguardi lontani e le finte, e l’impulsi frenati, e le rapide fughe e il pensiero ritornante nella notte. E l’attesa, venne, del nuovo mattino, apparendo infinite le notti. Fu quando l’agnellino finì sul ciglio della rupe, incapace di ritornare sui suoi passi, attraendo su di sé l’attenzione, con cristallino ma spaurito belare. Fu allora che Cerèo corse, si aggrappò, cadde, ansimò, ma alla fine strinse nelle giovani mani robuste le incerte, scalpitanti zampette. E lo portò a Veja che lo strinse ma non ardì guarda-

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Territorio «Acque maligne di una piena improvvisa travolsero lei e dispersero carni e vestiti e capelli e futuri sognati e carezze di occhi e di mani»

re Cerèo, lì, a un passo. Accarezzò piuttosto l’agnello e poi scappò stringendolo al petto, ma non prima di aver accarezzato il giovane con uno sguardo eloquente di mille parole. Improvvisa, e indubitabile, fu la coscienza che da quel momento nulla sarebbe stato più come prima. Intanto, nel bosco, le turgide gemme si erano schiuse e le foglie avevano vestito innumerevoli piante, e la terra dava erba con generosa abbondanza e dalle sorgenti sgorgava acqua zampillante di incantate nevi, lassù in alto oramai scomparse. Così lo sguardo dei due giovani amanti, ovunque si posasse, trasferiva la nuda terra in cielo e la vita esplodeva ai loro occhi e invadeva sensi incantati. Ma il fato sovrano, a loro sconosciuto, non dispose secondo desideri legittimi, non accolse preghiere formulate senza parole e preparò un sudario tragico simile a barbaro gioco, a tradimento perverso, a vergognosa e colpevole egemonia. Acque maligne di una piena improvvisa travolsero lei e dispersero carni e vestiti e capelli e futuri sognati e carezze di occhi e di mani. Impietrito dal dolore, fisso lo sguardo, svuotato il cuore, annullati i pensieri, egli, Cerèo, cosciente ma sfinito, seguì Veja e disperse, di se stesso, tutto, tranne il ricordo. Parvero indifferenti le limpide foglie, i freschi fili d’erba, le disperse greggi, i silenzi montani, gli uomini che vennero dopo: ma noi sappiamo che apparenti e silenziose indifferenze testimoniano spesso partecipazioni così intime da essere più vere del vero.

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Dai Poemetti dell’abate Pellegrini Il ponte di Veja”, raccolto nei Poemetti, racconta di un’escursione compiuta dal Pellegrini al Ponte di Veja con alcuni amici, tra questi la contessa Stella, moglie del conte Gaspar de’ Medici, nata da Persico, che insiste presso l’abate affinché abbia a raccontare in versi il fascino agreste di quella loro escursione. Ecco alcuni stralci. Era dolce il veder a lei soggetti tre adulti figli, e de gli adulti figli le caste mogli, e i picciolin nipoti tutti intenti a giovar, spiranti tutti giovenile allegrezza, e tutti pieni di candor puro, omai sol de le selve romito abitator. Quivi l’amore de i dolci parti; la concordia quivi de i ben guardati talami, e la fede, e il pudore, e il timor santo de i Numi. A mirar attoniti l’incanto, che offriva al passo la cedente scena di vitiferi colli aprichi gli uni, e di biade dorati; e gli altri opachi

e folti d’olmi, e di fronzuti cerri. Qui nido a’ lepri ermi burroni, e cespi d’umil ginepro: la schiette pendici, e verdeggianti ulivi ai tordi asilo poi da le rocce giù cadenti rivi, che si perdon tra i sassi… Egli al mattin, quando da l’erto giogo, ove avea la capanna, il flutto mira torbido rivoltar sparse fra gioghi le vesti, e l’altre a i dì più gai serbate spoglie de l’idol suo! Meno viene lo spirito; si dilegua spento il color de le guancie; su le labbra tace il respiro; il corpo torpe; e resta penzolone le braccia; e con la bocca in atto aperta a mandar fuor la voce che l’aspra doglia soffoca in petto. Pur un lungo sospir larga dappoi apre al pianto la via; né de la greggia, né di se stesso più curante, torce il viso urlando…

Racconti di viaggio del conte Asquini Altri obiettivi e altro linguaggio per il conte Girolamo Asquini che nel 1829 a Verona dà alle stampe presso Bisesti editrice la Lettera II al chiar. sig. abate D. Lodovico della Torre nella quale si descrive un ponte mirabile formato dalla natura, e due grotte curiosissime, il tutto nel territorio della provincia di Verona con alcune osservazioni relative intorno alla Divina Commedia di Dante Alighieri: un titolo che è già un programma. Anche l’Asquini, come il Pellegrini compie un viaggio al Ponte di Veja; ci va in settembre, con amici e in particolare accompagna il signor Valere, direttore e conservatore delle reali biblioteche di Francia, nonché studioso di Dante: Ciascheduno nella propria vettura siamo arrivati di buon ora sino a Lugo; che più oltre non si può andare se non a piedi o a cavallo. Ma il conte Gerolamo ha portato anche la coraggiosa consorte: A godere di una tal meraviglia ha desiderato venire anche mia Moglie. Lasciato Lugo, proseguono a piedi e giunti al ponte si accorgono che è luogo ben frequentato: Ivi abbian trovato un drappello di no-

bili, e colti giovani venuti ancor essi per veder questa meraviglia della natura, tutti con vari istromenti musicali per passare più lieta la giornata e far eccheggiare que’ monti d’armonie colle loro melodie. Poco dopo sono arrivati altri forestieri del vicin Tirolo, accompagnati da leggiadre Donzellette venuti anch’essi per ammirare un sì grandioso, e magnifico spettacolo. Insomma, anche senza agenzie turisti-

che, quel 16 settembre, al Ponte di Veja si sono trovate, in un’allegra compagnia, una trentina di persone, perfetta occasione per rimettersi in forze con un bicchiere di vino del migliore Val Policella, che ci diede l’anima infondendoci spirito e coraggio: parole del conte Girolamo Asquini, udinese trapiantato in seconde nozze a Verona, proprietario terriero e, forse, falsario.

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Storia VENETI E UNITÀ D’ITALIA

Rilucenti camicie rosse L’epopea garibaldina rappresentò l’eroico sacrificio dei Mille per la nostra libertà. Anche una trentina di giovani veronesi, dal latifondista al ciabattino, seguirono Giuseppe Garibaldi arruolandosi come volontari

di Stefano Vicentini

Garibaldi arriva in Veneto nel febbraio 1867: a Rovigo il 25, il 26-27 a Chioggia e Venezia, il 28 a Lendinara, quindi a Padova, Treviso e Vicenza; il 7 marzo è a Lonigo, il 9 a Villafranca e Mantova, il 10 lungo la Padana inferiore nel basso veronese, l’11 ancora a Verona per salire su un convoglio ferroviario alla stazione di Porta Nuova e recarsi in Lombardia

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«Camicie rosse alla ventura in una nuvola di bandiere. Camicie rosse così nessuna delle ferite si può vedere». Con queste parole il cantautore veronese Massimo Bubola componeva nel 1994 il brano Camicie rosse, in omaggio all’impresa garibaldina, e concludeva poeticamente: «Signora Fortuna che brilli di notte. Che ci prendi per mano e ci mostri le rotte. Proteggi questa flotta di studenti e di sognatori. Aggiungi al firmamento i nostri mille cuori». La scommessa dell’unificazione d’Italia dovette dunque riscuotere un irresistibile fascino in molti giovani, grazie al carisma del generale Giuseppe Garibaldi, passato alla storia come “Eroe dei due mondi”. Addirittura, com’è scritto nelle cronache, molti ventenni e trentenni fuggirono letteralmente di casa per arruolarsi volontari prima nell’esercito dei cacciatori delle Alpi, poi nei Mille, quando si decise che la penisola dovesse essere unita sotto l’unico stemma sabaudo. Il fascino del mito si rincorre, del resto, in documenti, proclami, attestazioni di merito e discorsi ufficiali, tutti altamente retorici e celebrativi. Le alte delegazioni che Garibaldi incontra al suo passaggio, principalmente nel Nord Italia, esaltano la sua figura di liberatore dal giogo straniero e artefice di una libertà nazionale mai sperimentata in tanti secoli di storia. A bordo di vari mezzi – treno, carrozza e piroscafo – arriva in Veneto nel febbraio 1867: a Rovigo il 25, il 26-27 a Chioggia

Per la causa nazionale si erano mossi giovani di ogni ceto sociale. Luigi Adolfo Biffi di Caprino morì a Calatafimi nel 1860 impallinato dalle milizie borboniche; l’adolescente scappò di casa e si nascose sul treno a Milano per raggiungere i garibaldini in partenza a Quarto, con un bagaglio di grandi ideali, ma morì in terra di Sicilia e Venezia, il 28 a Lendinara, quindi a Padova, Treviso e Vicenza; il 7 marzo è a Lonigo, il 9 a Villafranca e Mantova, il 10 lungo la Padana inferiore nel Basso Veronese, l’11 ancora a Verona per salire su un convoglio ferroviario alla stazione di Porta Nuova e recarsi in Lombardia. L’accoglienza, a un anno dall’aggregazione del Veneto (1866) al resto d’Italia, è comunque delle più festose con ricchezza di apparato. Ecco l’estratto ufficiale di un saluto nel Basso Veronese, domenica 10 marzo 1867, una giornata piovosa che invita a stare in casa, ma l’arrivo di Garibaldi assiepa la gente ai balconi con un tripudio di tricolori e urla: «Voi Generale entrate in una nobile terra che tanti diede prodi alle vostre battaglie. Anche qui ravvisate i volti dei vostri com-

pagni d’arme. A Roma, a Varese, a Marsala, a Monte Suello, a Bezzecca volarono i Vostri Prodi. Noi abbiamo diritto al vostro amore e siamo orgogliosi di avervi un istante fra noi [...]. Voi Generale siete il sacerdote della libertà, custodite il fuoco sacro eternamente, e noi eternamente saremo con voi». Dalle altisonanti parole pronunciate in un borgo di un migliaio di abitanti, ma che rimbalzano in realtà in ogni paese o cittadina raggiunti dall’Eroe, risulta indiscutibile il suo carisma che già aveva legato a sé, tra i Mille, combattenti venuti da ogni parte d’Italia, in particolare lombardoveneti. Per la causa nazionale si erano

Foto con dedica e autografo di Garibaldi alla famiglia Caravà

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Storia COSA LEGGERE SULLA LETTERATURA DELL’OTTOCENTO

Edmondo De Amicis, Cuore; Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano; Federico De Roberto, I viceré; Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo; Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico; Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina; Giuseppe Rovani, Cento anni; Silvio Pellico, Le mie prigioni; Massimo D’Azeglio, I miei ricordi; Luigi Settembrini, Le ricordanze della mia vita; Carlo Bini, Manoscritto di un prigioniero; Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille; Alexandre Dumas, Le memorie di Garibaldi; Jessie White Mario, Vita di Giuseppe Garibaldi; Giuseppe Bandi, I Mille da Genova a Capua; le novelle di Giovanni Verga; le poesie e i canti di Alessandro Poerio, Luigi Mercantini e Goffredo Mameli.

L’elenco di tutti i componenti della spedizione uscì sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia il 12 novembre 1878. Qui si trovano i nomi di circa trenta soldati veronesi provenienti sia dalla città che dalla montagna e dalla pianura, quasi tutti d’età compresa tra i 20 e i 30 anni

mossi giovani di ogni ceto sociale, dall’ufficiale in aspettativa al soldato tuttofare, dal latifondista al bracciante agricolo, dall’avvocato e dottore al droghiere e ciabattino. L’elenco in ordine alfabetico di tutti i componenti della spedizione uscì sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia il 12 novembre 1878. Da questi dati, oggi ricavabili anche nella fonte informatica, si trovano più di trenta soldati veronesi provenienti sia dalla città che dalla montagna e dalla pianura, quasi tutti d’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Viene, però, menzionato un caso esemplare che merita un ricordo. Si tratta di Luigi Adolfo Biffi di Caprino (nato nel 1846) che morì a Calatafimi nel 1860 impallinato all’addome dalle milizie borboniche; l’adolescente scappò di casa e si nascose sul treno a Milano per raggiungere i garibaldini in partenza a Quarto, con un bagaglio di grandi ideali, ma in terra di Sicilia trovò presto la morte. Il record della minore età rimane però di Giuseppe Marchetti, volontario veneziano undicenne che raggiunse l’isola spinto dal padre Luigi, probabilmente per necessità o gloria familiare. Lo spirito d’avventura si scontrò ben presto con la cruda realtà degli scontri militari, come testimoniano le cronache in Meridione. Anche i civili dovettero abbracciare le armi, con varie motivazioni: per difendere il regime borbonico, per salvare la

L’insofferenza per il dispotismo straniero poté ben più che il sacrificio di vite umane in battaglia, così da definire eroi tutti i morti per la causa italiana terra, per vendicare un conterraneo o un familiare ucciso. Ricorda il garibaldino Giuseppe Cesare Abba nel memoriale Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille del 1860: «Mentre scendevo a portare un ordine al capitano, cantando un’arietta da cacciatori, incontrai un picciotto armato, che mi fermò gridando: Qui si canta e lassù si muore! E mi narrò che nel combattimento di poche ore prima era morto Rosolino Pilo lassù; e mi additava i colli sopra Monreale. Morto d’una palla nel capo, mentre scriveva due righe per Garibaldi. Quel povero picciotto piangeva, narrandomi il fatto; e come capì dalla parlata che io non sono siciliano, mi chiese mille perdoni per avermi fermato. Mi pregò di alcune cartucce, ma io, delle 11 che mi rimangono, non ne volli donare, e lo lasciai là incerto e mortificato». Tutt’altro che un affresco epico si deve insomma immaginare la risalita militare garibaldina della penisola. Ma, pur nel forte spargimento di sangue, vinse l’idea dell’Unità d’Italia perorata dagli autorevoli Vittorio Emanuele II, Cavour e

Sanguinetto, fine ’800. Evento commemorativo di Garibaldi a Palazzo Betti

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Mazzini; per secoli divisa in stati e staterelli, a differenza delle grandi monarchie nazionali europee, nella seconda metà dell’Ottocento si completò un disegno di libertà e indipendenza, ottenuti concretamente sul campo da patrioti, soldati e martiri. L’insofferenza per il dispotismo straniero poté ben più che il sacrificio di vite umane in battaglia, così da definire eroi tutti i morti per la causa italiana. Pertanto molte biografie sono estremamente misere, rimaste nell’ombra, ignote persino nei paesi d’origine di questi giovani presto “emigrati”. Qualcuno di loro riuscì in seguito a intraprendere una carriera che ne rivelò il nome. Ad esempio, per citare due veronesi, i sanguinettani Giorgio Caravà e Giovanni Meritani riuscirono rispettivamente a diventare generale di prim’ordine nell’esercito regolare di Vittorio Emanuele II (un’incredibile scalata, partita da soldato semplice) e onorevole al Parlamento Italiano nonché filantropo in opere di beneficenza sociale. Addirittura il pluridecorato Caravà, non fiaccato dalla partecipazione all’impresa dei Mille, si distinse nella lotta contro il brigantaggio e nell’aiuto concreto durante l’inondazione del fiume Adige nel 1882. Quanti nomi sarebbero da citare, ricordare, celebrare e onorare. Mentre scriviamo, intanto, giunge la notizia che in un camposanto del sud le lapidi di molti soldati di quell’epoca giacciono nell’incuria e nel degrado, del tutto dimenticate. Questo fa molto male ed è inaccettabile perché aliena dalla storia, da una sensibilità che mai dovrebbe mancare. Ancora vive rimangono, invece, le parole illuminanti nell’ultimo Sanremo di Roberto Benigni che, ricordando l’anniversario dell’Unità e l’inno di Mameli, morto ventenne, ha rimarcato il concetto che, dall’età risorgimentale fino a 150 anni fa, molti patrioti sono morti perché noi vivessimo, cioè ci donarono col loro sacrificio la libertà e l’idea di un progresso che ancora oggi viviamo e continuiamo a perfezionare.

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Cultura Ogni secondo venerdì del mese, Al Calmiere in vicolo Broglio 2 in Piazza San Zeno si riunisce il Simposio Permanente dei Poeti Veronesi. Il Simposio nasce da una felice intuizione di Alverio Merlo, poeta scaligero, considerato l’erede naturale di Berto Barbarani, che insieme ai compagni di avventura – i poeti Giorgio Maria Bellini e Roberto Nizzetto – e grazie all’appoggio e al sostegno di Renzo Rossi, presidente della Società Al Calmiere, nel 2006 danno vita a questa rivoluzionaria iniziativa. Rivoluzionaria perché alle serate del Simposio tutti possono partecipare attivamente, declamando i loro versi. Non un circolo chiuso e ripiegato su se stesso, ma un luogo aperto, in cui si fa divulgazione e che diventa una vera e propria palestra per poeti e aspiranti tali che possono “allenarsi” davanti a un pubblico di amanti della poesia. Nel silenzio, tutti diventano protagonisti: alcuni con un filo di voce, altri con voce stentorea o perfino roboante, altri ancora che quasi non respirano da tanto corrono, per terminare in fretta e tornare a confondersi tra le persone del pubblico. Portare la poesia tra la gente, è l’obiettivo che da sempre vede impegnati i poeti Bellini, Merlo e Nizzetto. Alcuni di voi probabilmente ricorderanno una via Sottoriva dai cui portici, sospese a un filo, volteggiavano pagine di poesia o le serate in cui entrando in un’osteria della medesima via si potevano ascoltare versi poetici tra un bicchiere di vino e l’altro. Sì perché la poesia, l’arte e la cultura più in generale, non sono il patrimonio di un’élite, ma appartengono a tutti. È da questa ferma convinzione che prende vita il Simposio. In questi anni di attività, gli organizzatori hanno registrato una media di 85 persone a serata, complessivamente fino a oggi sono stati presentati ben 186 poeti: non solo veronesi, ma anche veneziani, trevigiani, bassanesi, bergamaschi, ecuadoregni, ghanesi, cinesi, moldavi e guineani. Ben 83 sono i poeti che hanno avuto il loro esordio nelle serate del venerdì. I promotori del Simposio vivono con orgoglio il fatto che la

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pensiero, un’emozione, uno stato d’animo si dimenticano, si dissolvono, ma se li scrivi... ti resteranno per sempre». Quindi ricordatevi che se siete degli amanti della poesia e avete voglia di passare una serata con persone che condividono lo stesso amore, l’appuntamento è per ogni secondo venerdì del mese Al Calmiere insieme ai Poeti del Simposio. Se poi avete una poesia nel cassetto e vi va di mettervi in gioco, potrete leggerla semplicemente comunicandolo agli organizzatori prima dell’inizio della serata. Cinzia Inguanta

Simposio Permanente dei poeti veronesi loro iniziativa riesca a far avvicinare al mondo della poesia molti giovani (e anche meno giovani), che altrimenti non avrebbero la possibilità di presentare le loro opere a un pubblico attento e competente, ricevendo in questo modo nuovi stimoli per continuare il loro cammino. Alla do-

manda su quale siano i progetti del Simposio per il futuro Bellini, e gli altri con lui, hanno risposto che «il futuro del Simposio coincide con il suo presente e cioè continuare a divulgare la poesia». A questo si aggiunge un’esortazione che spesso Alverio Merlo ripete nelle serate del venerdì: «Un

L’inverno dello straniero di Gionatan Squillace. Pendragon Edizioni (2010), euro 12,00 Persone, sentimenti e sofferenza. Vita e poi gelo. Questi sono i protagonisti de L’inverno dello straniero, primo romanzo breve del giovane scrittore Gionatan Squillace. Un noir insolito, psicologico, dal ritmo incalzante; un ritmo che accompagna il lettore senza mai esasperarlo, che lo trascina lentamente nel vortice senza che se ne accorga. Una storia nera fatta di descrizioni volutamente “esagerate” grazie all’utilizzo di un linguaggio spregiudicato, estremo, denso. Un romanzo coinvolgente perché sviluppato attorno a un tema condiviso: quei fantasmi del passato che a volte tornano, più potenti che mai, a sconvolgere il presente. Questo è ciò che accade al Risorto, protagonista del racconto: killer professionista che trascorre la sua esistenza solitaria tra le montagne della Valle d’Aosta, il contorno ideale per un uomo freddo e silenzioso ma con un cuore che ancora batte. Quel cuore che lo ha portato a ribellarsi al padre-bestia e a due fratelli senza personalità. L’inverno dello straniero è un romanzo fatto di pensieri e riflessioni profonde, costellato da omicidi e sangue che però non divengono mai protagonisti assoluti della scena.

DIRITTO DI RETTIFICA L’art. 8 della legge sulla stampa 47/1948 stabilisce che “Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell'agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale”.

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Giornale di attualità e cultura Direttore Giorgio Montolli

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Lungadige Re Teodorico, 10 37129 - Verona. Tel. 045.592695 Stampa NE&A Print - Verona Registrazione al Tribunale di Verona n°1557 del 29 settembre 2003 Iscrizione ROC 18748 N° 28/aprile 2010 Copia venduta in abbonamento al prezzo di 15 euro l’anno www.verona-in.it Questo giornale è stampato su carta realizzata secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici Chiuso in redazione il 30/03/2011

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INSIEME FUORI DALLA CRISI

per difendere il lavoro e liberare i diritti a fianco dei lavoratori e dei pensionati contro il precariato giovanile e per salari pi첫 equi

CGIL CISL UIL VERONA in VERONA

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by Valentina Montemezzi


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